Venerdì sera
Lasciai Ossyan in quel momento. Con un pretesto qualsiasi – un appuntamento che non ero riuscito ad annullare… Sentivo che dovevo eclissarmi. Lasciarlo solo con quell’immagine risalita alla superficie dei suoi occhi. Lasciargli prolungare quell’istante, rivedere ancora e poi ancora il viso della donna amata. Il seguito sarebbe venuto davvero abbastanza presto.
Mi aprì la porta con gratitudine e fece persino qualche passo con me, per accompagnarmi all’ascensore sullo stretto tappeto di colore giallo sporco del corridoio.
Al mio ritorno, nel tardo pomeriggio, la sua gioia non si era ancora spenta. E se mi domandò: “Dove ero arrivato, stamane?” non era perché aveva perso il filo, ma soltanto, credo, per sentirmi replicare:
“Lei le aveva appena detto “sì! ”
Allora avevo tolto il cappuccio alla penna, e aperto un nuovo taccuino, come avevo fatto all’inizio delle tre sedute precedenti. Avevo scritto “Venerdì sera” sulla prima pagina, prima di voltarla. Tuttavia l’uomo sembrava ancora cercasse le parole.
“Potrei chiederle di non ricominciare subito a scrivere?
Richiusi la stilografica. Attesi. Attesi. La sua voce mi arrivò allora, come lontana.
“Clara ed io ci siamo abbracciati.”
Sarei pronto a scommettere che era arrossito facendomi quella confidenza. Anche io avevo abbassato lo sguardo.
Confidarsi in quel modo gli costava. D’altronde, dopo lo sforzo, si era rimesso a camminare avanti e indietro per la stanza, senza dire più niente. Poi, come avesse terminato un piacevolissimo itinerario attraverso se stesso, e riscoprisse improvvisamente la mia presenza, mi disse, mostrando il palmo della mano:
“Ecco!”
Pensai di capire che aveva terminato quel capitolo intimo. Lisciai dunque le pagine del calepino, con un gesto che mi è abituale, preparandomi a riprendere a scrivere sotto dettatura. Ma un’esitazione mi tratteneva la mano. Un luccichio dei suoi occhi mi dava da pensare che non fosse ancora del tutto rientrato dal suo pellegrinaggio mentale. Chiusi di nuovo la stilografica e la rimisi ostentatamente nella tasca interna della giacca.
Richiusi anche la copertina del calepino e incrociai le braccia. Il mio interlocutore sorrise. Si sbottonò il colletto della camicia. I miei occhi erano fissi sul suo pomo d’Adamo.
L’evocazione di quella pagina della sua vita l’aveva, mi sembra, ringiovanito, esaltato, e un po’ rallegrato.
Cosa potrei riportare delle sue confidenze senza tradirlo? Oh, non c’era niente che si allontanasse dal pudore levantino più rigoroso. Eppure mi spiacerebbe mettere nella sua bocca frasi che in sua presenza avevo omesso di annotare. Ne sarei meno dispiaciuto se non stessi abbozzando il quadro se non a grandi pennellate.
Era andato a riaccompagnare Clara all’Hotel Palmira, dove aveva preso una stanza, come durante la visita precedente. Erano passati per quel posto dove lei aveva posato un bacio sulle sue labbra stupefatte. Anche questa volta, non c’era nessuno all’orizzonte. Allora Ossyan le aveva restituito quel bacio. Lo stesso, un becchettio di uccello. Poi si erano tenuti per le dita per salire gli scalini. I loro sguardi non si lasciavano più.
La camera, al terzo piano, aveva una grande finestra che dava, a sinistra, sui fabbricati del porto, a destra sulla costa e sulla distesa del mare. Lei l’aveva aperta. Con i rumori della città si era infilato un vento tiepido. Le loro mani umide si rassicuravano reciprocamente, e i loro occhi erano pieni di gioia e di timidezza.
Mentre parlava, non avendo niente da scrivere, l’osservavo. Avevo già notato che era snello e alto di statura, ma quella volta mi sembrò come artificialmente allungato, sì, allungato in ogni parte del corpo, le gambe, le braccia, tutto il busto, e il collo, soprattutto, che, di colpo, trovavo ridicolmente lungo rispetto alla sua piccola testa di ragazzo canuto; era forse per questo che aveva la tendenza a protenderlo costantemente in avanti. Anche in quel momento, davanti a me, come allora sulla fotografia, sul mio libro di storia…
Lui, insensibile al mio sguardo, andava avanti per la sua strada, con la sua amante al braccio.
La sera, siamo usciti per passeggiare sul lungomare, verso la baia di San Giorgio, e abbiamo parlato di matrimonio.
Sì, quella stessa sera, perché avremmo dovuto aspettare? La felicità passava come una corda ruvida sul palmo delle nostre mani, dovevamo chiudere le mani e stringere forte per trattenerla. Non era più il caso di lasciare che fosse il destino ad organizzare i nostri prossimi incontri.
Avevamo sia l’uno che l’altra il desiderio e la volontà di vivere insieme ogni momento futuro. E per sempre. Se c’erano degli ostacoli, li avremmo appianati. Oh, niente di insormontabile, ci sembrava. Qualche decisione da prendere, qualche scelta da fare. E intanto: che tipo di matrimonio? A Beirut, non c’era matrimonio civile. Ma noi non volevamo un matrimonio religioso. Non avevamo nessuna voglia di dover passare attraverso una menzogna per sancire la nostra unione. Né lei né io avevamo una altissima considerazione delle religioni correnti, perché avremmo dovuto fare finta?
D’altra parte, quale religione avremmo scelto per la cerimonia? La sua? La mia? Ogni soluzione apriva molti problemi più di quanti ne risolveva! No, avevo un’idea molto migliore: Jacques-carte-false.
“Vorresti dei falsi documenti di matrimonio?” mi aveva chiesto Clara, inorridita: l’avevo rassicurata. Jacques era, prima della guerra, sindaco di una cittadina della regione parigina. Me lo aveva rivelato soltanto dopo la fine del conflitto. Già si preparava a indossare di nuovo la sciarpa. Chi meglio di lui poteva sposarci, lui che per primo, senza volerlo, ci aveva fatti incontrare? Non era forse proprio lui che aspettavamo entrambi, quella notte a Lione? La nostra decisione fu rapida: saremmo andati in Francia da soli, per celebrare il più semplice dei matrimoni, poi saremmo tornati a festeggiare l’evento con i nostri cari.
Mio padre, quando l’ho messo al corrente dei nostri progetti, non ha esitato un istante. “Intelligente, bella, affettuosa… e rivoluzionaria! Cosa si può volere di più?” Ne era rapito. Dal primo momento, l’aveva adottata, e anche lei aveva già per lui un vero e proprio culto, come se avesse ritrovato un padre, strano, stentoreo, fragile.
Restava lo zio Stefano. Clara non era sicura della sua reazione. Voleva chiedere il suo assenso, per semplice riguardo, ma era decisa a non tenerne conto se avesse detto di no. Avevamo dunque convenuto di separarci per qualche settimana, perché ciascuno potesse dedicarsi agli inevitabili preparativi, informare gli amici, mettere insieme le carte necessarie, e poi di ritrovarsi a Parigi, il giorno tale, alla tal ora, nel tal posto…
Per la precisione il 20 giugno, a mezzogiorno, sul Lungosenna dell’Orologio.
Perché il Lungosenna dell’Orologio? Perché al tempo in cui ero nel “laboratorio” di Lione, un compagno mi aveva raccontato una storia di prima della guerra nella quale due amanti si erano incontrati sul Lungosenna dell’Orologio, “tra le due torrette”, e aveva aperto una carta topografica per indicarmi il posto, sul bordo della Senna. Il suo gesto mi era rimasto nella memoria, forse ci avevo visto un presagio, e quando avevo voluto scegliere un posto per il nostro appuntamento, era stato quel nome a venirmi in mente.
A Parigi tutto è andato come previsto, e persino un po’ meglio. Siamo arrivati, Clara ed io, vicino alla torretta nello stesso istante, lei da una parte dell’argine e io dall’altra.
Jacques-carte-false, non posso evitare di chiamarlo così – per quanto fosse stato reintegrato sulle sue onorevoli funzioni e nella sua condizione civile -, aveva personalmente preso contatto con i testimoni prescelti. Per me, Bertrand, per Clara, Danièle, l’ospite del nostro primo incontro a Lione.
Nel municipio c’era così poca luce e così poca gente che ci si sarebbe potuti credere ritornati nella clandestinità. Cosa che non poteva certo dispiacere ai miei amici. Sentivamo tutti una stretta al cuore ripensando a quel periodo ancora vicino, quando ogni gesto aveva un senso: camminare per strada, per esempio, senza farsi riconoscere, era un esercizio ripetuto continuamente, adesso camminare per strada senza essere riconosciuti era l’affanno quotidiano. Come provare piacere con cibi insipidi quando per quattro anni ci si è imbottiti di spezie?
Io, all’epoca, non avevo le stesse debolezze. Non ero una grande figura della Resistenza, tutt’al più una minuscola figurina. Dunque non avevo conosciuto quel brusco capitombolo dal sogno alla realtà. Appena uscito dalla clandestinità, ero tornato al mio paese dove nessuno è anonimo.
E poi soprattutto, c’era Clara. Se c’era voluta la guerra per metterci insieme, era nella pace che avevo voglia di vivere con lei. Alla nostalgia pagavo soltanto un tributo di cortesia, quello che idolatravo era l’avvenire. L’avvenire dei nostri anni in comune, ma anche l’avvenire immediato. Quei primi passi in compagnia di colei che ormai portava il mio cognome. Tutte le cose che avremmo fatto insieme per la prima volta. Dicendoci che sarebbe stato ogni volta la prima volta. Promesse da innamorati, ma promesse mantenute: non ho mai baciato Clara, e neppure preso la sua mano nella mia, con un senso di già visto, di già fatto, di già passato. Di già amato. L’amore può rimanere intatto, e anche l’emozione. Un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro. La vita non è così lunga, che uno possa stancarsene.
Al nostro ritorno dalla Francia mio padre ha dato la più bella festa che mai si sia vista in casa Ketabdar. Prima di partire, l’avevo supplicato di non fare follie. Lui mi aveva detto soltanto: “Lasciami il piacere!..” Glielo avevo lasciato. Aveva fatto tutte le pazzie che temevo. Due orchestre che si davano il turno, una orientale e una occidentale, molte centinaia di invitati, una torta nuziale così gigantesca che era stato necessario farla scorrere al suolo perché entrasse dalla porta della sala da pranzo, che pure era alta. Avrei degli scrupoli a descrivere le illuminazioni, l’orgia dei cibi,… Per una volta mio padre, che per tutta la vita ha inveito contro i nuovi ricchi, si è comportato proprio come un nuovo ricco. Ma finalmente era felice, Clara era felice. Cosa chiedere di più?
E io ero felice? Senza voler sembrare smorfioso, le mondanità mi lasciano indifferente. Detto questo, ero comunque felice. Felice già dell’evento che veniva festeggiato in quel modo, felice di stringere ogni tanto la mano di Clara, di scambiare uno sguardo con lei, di sentirla ridere dietro di me, e di dirmi che alla fine della serata, sfinita, sarebbe venuta a posare la testa nell’incavo della mia spalla. Ero anche contento di rivedere persone che non avevo più visto da molto tempo, a cominciare da mia sorella, venuta dall’Egitto per la festa, con suo marito che non avevo ancora mai incontrato.
C’era anche, ben inteso, lo zio Stefano. Mio padre gli aveva scritto, poi gli aveva mandato un’automobile per farlo venire. Da Haifa a Beirut non ci sono più di 150 chilometri, e a quell’epoca bisognava calcolare quattro ore di strada, con le soste. Era arrivato abbastanza presto, verso mezzogiorno. Avevamo avuto il tempo di fare conoscenza prima che la folla invadesse la casa.
Ero stato in apprensione per quell’incontro? Non veramente. Era soprattutto Clara ad essere nervosa. Nei confronti di quello zio aveva mantenuto la diffidenza che le avevano trasmesso i suoi genitori. Cosa gli si rimproverava? Di essere uno scapolone ricco, maniaco e fannullone? Ero sicuro che con mio padre si sarebbe inteso bene. Entrambi erano uomini del XIX secolo entrati male in questo. Non potevano fare altro che scoprire nostalgie comuni.
Ho avuto, in realtà, un attimo di sgomento, quando mia sorella, che per buona parte della giornata si era assentata, ha fatto il suo ingresso nel salone al braccio di suo marito. Bisogna immaginare la scena. Da una parte Mahmud, figlio di una grande famiglia musulmana di Haifa, che aveva dovuto lasciare la città a causa della tensione che regnava tra arabi ed ebrei, e che già presentiva di non poter tornare mai più. Dall’altra Stefano, ebreo dell’Europa centrale, venuto proprio ad abitare in quella stessa città. Entrambi parenti stretti degli sposi…
Avevo deciso di limitarmi alle presentazioni più sommarie: “Mahmud Cannali, mio cognato, Stefano Temerles, lo zio di Clara.” Si sono stretti la mano.
Allora mio padre ha detto a voce alta, in francese: “Avete qualcosa in comune. Mahmud è di Haifa. E lo zio di nostra nuora abita appunto ad Haifa.”
Clara ed io ci siamo scambiati uno sguardo. Ci tenevamo per mano come per affrontare meglio la burrasca.
“Sedetevi vicini, ha proseguito mio padre, avete certamente delle cose da dirvi.”
Insisteva, vede? Ma, soprattutto, non pensi che fosse per inavvertenza o per mancanza di tatto. Piuttosto era per sfida, in un certo senso, per provocazione. C’era in lui un disprezzo profondo per l’abitudine, diffusissima nel Levante, di pretendere di “accomodare” le suscettibilità e le appartenenze razziali o religiose, quell’abitudine che si esprime, per esempio, sussurrando agli invitati: “Attenzione, il tale è ebreo! ”, “Il tale è cristiano! ”, “Il tale è musulmano!” Così gli uni e gli altri si sforzano di censurare le espressioni abituali, quelle che si dicono quando si è “tra noi”, e si limitano a tirare fuori mielosità banali che vogliono riflettere il rispetto che uno ha per l’altro e che in realtà non riflettono che il disprezzo e il distacco. Come se si appartenesse a differenti specie.
E se quei due uomini che aveva sistemato uno vicino all’altro si fossero sbudellati? Tanto peggio, vuol dire che meritavano di accoltellarsi, punto e basta. Per lui, era suo dovere trattarli come fossero umani, in fin dei conti partecipi della stessa vasta avventura. Se non se ne mostravano degni, peggio per loro. E se la festa ne fosse stata turbata? Ancora tanto peggio: vuol dire che non meritavano una festa come quella!
Per Clara e per me, la prima reazione era stata di temere uno scandalo. Non era molto coraggioso da parte nostra, ma bisognerebbe mettersi nei nostri panni. Non volevamo che tra le nostre famiglie si sviluppassero dei rancori. Con i tempi che correvano, già la nostra stessa unione non era una cosa semplice. Avevamo soprattutto bisogno di evitare che nascessero degli astii nel nostro ambiente… Ma non fu che una prima reazione, istintiva. Nello sguardo che ci eravamo scambiato, lei ed io, c’era divertimento nella stessa misura che preoccupazione. Poi ci eravamo ritirati, senza dire una parola, rinculando, o quasi…
Eravamo tornati un’ora dopo. Per sorprendere quei due uomini, ancora soli e nello stesso posto, esplodere insieme in una risata che non finiva più. Non ne sapevamo il motivo, ovviamente, ma Clara ed io ci siamo associati ad essa, da lontano, sollevati e vergognosi delle nostre paure eccessive.
Notando dopo un momento la nostra presenza e le nostre facce incuriosite, Mahmud e lo zio Stefano avevano all’unisono fatto un piccolo gesto verso di noi levando il bicchiere. Si sarebbe detto che fossero i migliori amici del mondo. Avrei tanto voluto che fosse così… ma ahimè, no. Forse era già tardi.
Non avrebbero certamente litigato, noti bene. Nemmeno per sogno. Fino alla fine si sarebbero dimostrati più che cortesi reciprocamente. A vederli, tranquilli nelle loro poltrone gemelle, si raccontavano apparentemente le storie più inverosimili, in inglese, come due gentlemen nel loro club… Era soprattutto mio cognato che infilava gli aneddoti uno dietro l’altro, illustrandoli con gesti ampi, mimica e diverse intonazioni di voce, incoraggiato dalle reazioni allegre del suo interlocutore.
Ma a un certo momento, senza ragione apparente, le cose si erano guastate. Erano arrivati altri invitati, c’erano stati presentazioni e inchini ossequiosi. Mahmud allora si era ritirato, brontolando una scusa.
Poco dopo, siccome c’era un’arietta un po’ fresca, ero salito al piano superiore per prendere un golf. Mio cognato era là, seduto su un sofà, al buio. Aveva l’aria abbattuta. Credo persino che piangesse. Sono stato sul punto di domandargli cosa avesse, ma mi sono trattenuto per paura di metterlo in imbarazzo. Avevo fatto finta di non averlo visto. Non si sarebbe più fatto vedere per tutta la serata.
Cosa aveva potuto metterlo in quello stato? Una volta sceso, ero andato a parlarne con mia sorella. Lei si era mostrata preoccupata, anche se per nulla sorpresa; in quegli ultimi tempi suo marito si comportava spesso così. Ogni volta che si parlava di Haifa con lui, cominciava entusiasmandosi, si metteva a raccontare mille storie del passato, di un passato lontano e anche della sua infanzia. I suoi occhi brillavano. Era un piacere starlo a sentire e guardarlo. Però, non appena sopravveniva un breve silenzio, aggrottava le sopracciglia improvvisamente e sprofondava nella malinconia.
Non parlava mai dei suoi stati d’animo; ma un giorno, siccome mia sorella gli suggeriva di fare un libro con tutti quei ricordi che evocava meravigliosamente, lui aveva respinto l’idea con decisione: “I miei ricordi? Sollevo zolle di terra verso la luce, come la pala di un beccamorto.”
Quanto allo zio Stefano, la conversazione con Mahmud aveva prodotto su di lui un effetto completamente diverso. L’effetto contrario, direi. Lui, che di solito era taciturno, e piuttosto musone, per tutto il resto della serata si sarebbe mostrato davvero scatenato, scherzando con i giovani, stuzzicando le signore, e cercando sempre con gli occhi il suo interlocutore che si era eclissato.
Alla fine della serata, vedendo Clara, era corso verso di lei, l’aveva presa da parte per domandarle con il tono di una grave confidenza:
“Non credi che si dovrebbe trovare un modo per riconciliarsi, con… loro?”
“Guardati attorno, zio Stefano, siamo già riconciliati!” “Non parlo di questo, mi hai capito perfettamente! ” Quella sera, chiacchierando con mia sorella per la prima volta dopo anni, ne avevo approfittato per domandarle se suo marito fosse proprio quella persona devota che mio padre mi aveva descritto, sempre inginocchiato sul suo tappeto da preghiera. Lei aveva riso. Mahmud si era mostrato un po’ risentito, mi ha spiegato, un giorno in cui nostro padre se la prendeva con la religione. Ecco tutto. Qui sta un po’ la differenza tra mio padre e me. Capitava che pensassimo la stessa cosa, ma io evitavo di dire ciò che avrebbe potuto urtare le persone presenti. Lui invece ci dava dentro, dritto davanti a sé, sicuro di essere dalla parte della ragione…
Quale comportamento è meglio? Oggi rimpiango di non essere stato come lui. Ma senza dubbio è perché ho vissuto all’ombra di una voce possente che non sono riuscito a diventare il ribelle che lui sperava.
Dopo quella prima festa ce n’era stata un’altra, ad Haifa. Molto meno spettacolare, ma commovente. All’inizio ci sembrava una cosa superflua, sia a Clara che a me, dal momento che lo zio Stefano aveva potuto venire a Beirut. Ma i membri del comitato PAJUW avevano insistito. Per loro sembrava importante, e non avevamo voluto contrariarli.
Ce n’era una ventina, tra ebrei e arabi, forse un po’ più di ebrei che di arabi. Uno degli animatori, Naim, ha pronunciato un’allocuzione per dire che vedeva nella nostra unione un evento esemplare, sul nostro amore una smentita dell’odio.
Strano personaggio, Naim, in mezzo al gruppo con la sua pipa che non smetteva di riaccendere, che profumava di visciola di Aleppo. Con una corona di capelli grigi. Non era un operaio e neppure un vero intellettuale, era un industriale rovinato; a rigor di logica, gli altri avrebbero dovuto diffidare di lui, a dare retta a quanto dicevano i loro libri sulle origini di classe. Invece no, nessuno metteva in dubbio le sue motivazioni profonde e neppure la sua dedizione alla causa. Anzi, durante le riunioni, tutti gli riconoscevano una certa priorità. Si affermava che, una volta, la sua famiglia avesse posseduto mezza città, un modo levantino di dire molto banalmente che erano stati ricchi. La crisi degli anni Trenta li aveva rovinati, come tanti altri. Il padre di Naim, sua madre e gli zii erano tutti morti, uno dopo l’altro, di rabbia e di dispiacere. Era toccato a lui l’ingrato compito di liquidare la fortuna avita per pagare i creditori. Aveva venduto tutto, perso tutto, salvo una dimora sulle rive del mare: una vecchia costruzione del tempo degli Ottomani, vasta e in altri tempi sontuosa. Lui però non aveva più i mezzi per curarne la manutenzione e quindi, quando io l’ho vista, si trovava in un avanzato stato di deperimento. Muri sgretolati, qualcuno persino crollato, il giardino invaso dalla boscaglia, stanze arredate di stuoie e materassi, il tetto malandato. Continuava nondimeno ad essere una casa nobile e serena, e piena di fascino. Fu là che si svolse la festa in nostro onore.
Durante la serata abbiamo sentito per due volte il rumore di esplosioni lontane. Soltanto io ne sono stato impressionato. Gli altri c’erano abituati e, senza dare importanza alla cosa, disputavano sulla probabile origine di quei rumori. Le danze si erano interrotte per pochi secondi soltanto, poi avevano ripreso al suono di un fonografo noleggiato.
Quante feste, non è vero?, quell’estate! Presi nel vortice, Clara ed io evitavamo di porci seriamente il problema che invece era presente in ogni istante nei nostri pensieri: dove saremmo andati a vivere? L’unica nostra certezza era che dovevamo stare insieme. Sicuro, ma dove?
Se dovessi prendere oggi quella decisione, so perfettamente cosa avrei fatto. Saremmo partiti alla fine dell’estate per Montpellier, dove io avrei ripreso gli studi di Medicina e lei quelli di Storia. Oggi sono sicuro che quella era l’unica cosa da fare. Se nella testa del giovanotto che ero allora ci fosse stata la voce del vecchio saggio che sono diventato, quella voce avrebbe detto: “Scappa! Prendi tua moglie per mano, tienila stretta, e corri, correte, salvatevi! ” Ma quel giovanotto e quella giovane signora che allora eravamo non avevano altri consiglieri che le loro illusioni del momento. Un tornado stava per abbattersi sul Levante e noi volevamo arrestarlo con le nostre mani nude! Esattamente così. Il mondo intero era rassegnato a vedere arabi e ebrei ammazzarsi tra loro per decenni, magari per secoli. Tutti se ne erano fatta una ragione, gli inglesi e i sovietici, gli americani e i turchi…Tutti, tranne noi due, e qualcun altro sognatore come noi. Volevamo impedire quel conflitto, volevamo che il nostro amore fosse il segnale di una strada diversa.
Ero coraggioso, secondo lei? No, ero privo di senso! Si può formulare una speranza di pace, di conciliazione. E lodevole, è bello e rispettabile… soltanto, non dovevamo mettere in gioco su di ciò la nostra esistenza, giocarci il nostro amore, la nostra unione, senza pensare per un istante che avremmo potuto perdere la posta! Oggi dico, è stato “assurdo”, “aberrante”, “insensato”, “stupido”, “suicida”! Allora dicevo tutt’altro.
Non mi era venuta l’idea che potessimo passare tre o quattro anni in Francia. Eravamo nel Quarantasei, avremmo potuto lasciare passare il ciclone… Di grazia, mi fermi lei, perché potrei continuare a lungo questa litania, l’ho talmente rimuginata!
Dunque avevamo scelto di restare nel Levante. Tra Haifa e Beirut. Quando la frontiera era ancora aperta, la distanza non era lunga per la strada costiera. Avevamo due porti di attracco, due “scali”, come si diceva una volta, e un rosario di case; ma nessuna soltanto per noi due. Ad Haifa dormivamo qualche volta dallo zio Stefano, qualche volta da Naim. E a Beirut non era il caso di abitare altrove che nella casa di famiglia. Era così spaziosa, e mio padre ci viveva da solo. Ci eravamo sistemati là, con tutta naturalezza. Clara era a casa sua, era la padrona di casa. Io ne ero innamorato pazzo, e mio padre le voleva un gran bene.
Preferivamo forse la nostra casa libanese? Può darsi… non so più dirlo… Perché anche ad Haifa, all’inizio, andavamo molto regolarmente. Clara aveva promesso di andare a trovare lo zio ogni due mesi. E ci teneva anche a non abbandonare le riunioni del comitato… E poi, ci sentivamo sempre più affezionati a Naim: era diventato, mi sembra, il nostro migliore amico comune. E la sua casa era così simpatica. Il suo giardino di cespugli spinosi si prolungava fino alla spiaggia. Ne eravamo stupiti ogni volta che ci andavamo. Ma essenzialmente, era soprattutto a Beirut che vivevamo. Ed era là che avevamo ripreso gli studi.
Per quanto mi riguarda, dovrei piuttosto dire: cercato di riprendere. Mi ero iscritto alla facoltà di Medicina dell’Università francese, gestita dai padri gesuiti. L’insegnamento non era di qualità inferiore che a Montpellier. Avrei senza dubbio potuto fare là tutti i miei studi, fin dall’inizio. Ma a diciott’anni volevo soprattutto uscire dall’ombra di mio padre. Volevo studiare per partire, più che non dovessi partire per studiare.
Ormai la mia disposizione d’animo non era più la stessa, non volevo più allontanarmi da mio padre, che era solo. I miei rapporti con lui erano cambiati completamente da quando ero diventato un preteso eroe della Resistenza; e ancora di più dopo il matrimonio. Lui era diventato vecchio, e la signora della casa era la mia.
Anche Clara si era iscritta all’università, dove si mostrava, come sempre, attivissima. Militante e studiosa. Aveva anche cominciato a imparare l’arabo.
Ma per tornare a me, ho precisato bene che avevo “cercato” di studiare. Sì, soltanto “cercato”.
Avevo incontrato, tornando sui banchi, una grande difficoltà a concentrarmi su ciò che leggevo. Impossibile soprattutto ricordare. All’inizio, mi dicevo che era normale, dopo cinque o sei anni di interruzione nel corso dei quali avevo avuto preoccupazioni talmente differenti. Ma i problemi di concentrazione rimanevano e mi davano più fastidio di quanto fossi disposto ad ammettere.
E’ vero, avrei dovuto cercare come porvi rimedio. Ma rifiutavo di ammettere di trovarmi di fronte a una anomalia che bisognava curare. Preferivo dirmi che le cose si sarebbero sistemate con il tempo. E che bisognava trovare qualche diversivo.
Quali diversivi? Intanto, le mie conferenze: ne ho latta ancora qualcuna, sempre con i miei ricordi della Resistenza come tema. E poi anche la felicità… anche se è indecente parlare della felicità come diversivo. Ma serviva anche per questo. Ero così felice in compagnia di Clara che cercavo di non lasciarmi turbare da quanto poteva accadere al di fuori della mia vita affettiva. Ogni volta che ci tenevamo per mano, i nostri cuori battevano e io non sentivo più i miei timori e neppure il baccano del mondo. Cercavo di persuadermi che tutto andava bene.
E in un certo senso tutto andava bene…
No, non è vero, più niente andava bene intorno a noi… Ma, rispetto a quanto avremmo dovuto affrontare non molto tempo dopo, eravamo ancora nell’Eden.
Era, lei dovrebbe ricordare, l’epoca in cui si parlava molto di dividere la Palestina in due stati. Uno per gli ebrei e l’altro per gli arabi. 1947. I rancori erano ormai così forti che non si potevano nemmeno esprimere a voce alta opinioni concilianti. Dovunque attentati, manifestazioni, scontri, grida di guerra. Per andare ad Haifa e tornare, le strade diventavano ogni volta un po’ più pericolose.
Clara ed io eravamo già vittime in sospeso. Poi, con qualche unghiata, l’orrore del mondo ci ha scovati.
La svolta fu, forse, il giorno in cui mio fratello uscì di prigione, grazie a un’ultima amnistia.
Eravamo nel primo pomeriggio, ancora a tavola, a chiacchierare tutti e tre. Noi due e mio padre. Avevamo ricevuto quella mattina la più bella notizia di tutte: Clara era incinta. Era da poco tornata dal medico, che aveva consultato dopo aver avuto delle nausee. Eravamo tutti così allegri, soprattutto mio padre che si vedeva già con il nipotino in braccio. Ne parlava come se ci apprestassimo a fargli, proprio a lui, il più bel regalo. E improvvisamente il rumore di un’automobile. Che si ferma. Che riparte. Una porta che sbatte; dei passi rapidi sulle scale… Mio fratello Salem era tornato.
Se ero andato a fargli visita in prigione? No. Nemmeno una volta, no. Non dimentichi, insomma, come si era comportato quel mascalzone! E mio padre? Se era andato a trovarlo, non me ne ha mai parlato. Per dirgliela chiara, avevamo tutti voglia di girare quella pagina. Credo addirittura che fossimo riusciti a dimenticarlo…
Ma era tornato. Nel momento peggiore, quando meno ce lo aspettavamo. Quando meno desideravamo la sua presenza, era tornato. Dritto dritto dalla prigione a casa. Alla sua stanza, che aveva subito chiuso a chiave. Perché a nessuno di noi venisse in mente di salire a parlargli.
Immediatamente si era diffuso nell’atmosfera qualcosa di glaciale. La casa non era più la stessa, non era più la nostra. Mio padre si era trasformato nello spazio di pochi istanti. La sua allegria spazzata via, la faccia stanca. Non diceva niente, né per lamentarsi delle maniere di Salem, né per maledirlo, né per scacciarlo, né per perdonargli. Nemmeno più una parola. Si era chiuso in se stesso.
Quanto a noi due, Clara ed io siamo partiti per Haifa prima della fine della settimana.
No, non c’era stato nessun incidente con mio fratello, non ci eravamo affrontati. Ci eravamo appena rivolti la parola. Tuttavia siamo partiti? Capisco la sua sorpresa. Forse a questo punto dovrei confessarle una cosa. Mi costa parlarne, e ci ho messo anch’io del tempo per ammetterlo, ma, se cercassi di tenerlo nascosto, molte cose diventerebbero incomprensibili: ho sempre avuto paura di mio fratello. No, paura no, la parola è eccessiva. Diciamo piuttosto che mi sentivo a disagio non appena mi trovavo in sua presenza. Evitavo che il mio sguardo incontrasse il suo.
Per quale ragione? Non oso lanciarmi in spiegazioni complicate. Non eravamo cresciuti allo stesso modo. A lui sono spuntati le unghie e i canini, a me no. Io che sono sempre stato coccolato, non ho mai avuto bisogno di lottare. Tutto mi è stato dato così facilmente, così naturalmente. Tutto. Persino l’eroismo, persino la passione. Bertrand, poi Clara. Tutto mi arrivava come in un sogno, avevo soltanto da dire sì. Sono dunque stato, anche nella Resistenza, un ragazzo adulato. Non ho mai dovuto affrontare battaglie per conquistare il mio posto. Ogni volta che sul mio percorso si ergeva un ostacolo, si presentava subito un’altra strada, come per miracolo. E quella era più larga, meglio segnalata di quella che si era chiusa. Dunque non ho avuto modo di predispormi alla guerra. E ciò si riflette nelle mie idee. Sono sempre per la riconciliazione, se talvolta mi rivolto è contro l’odio.
Per mio fratello era il contrario. Mi viene quasi da dire che ha ucciso per nascere. Poi ha dovuto sempre battersi, contro mio padre, contro di me o piuttosto contro la mia ombra, tutto per lui era una lotta ringhiosa, persino il cibo di cui si ingozzava.
Mi è capitato di dire talvolta che mio fratello era un lupo. Non è esatto. Il lupo si batte soltanto per la sopravvivenza, o per salvare la sua libertà. Se non è minacciato, se ne va per la sua strada, fiero e patetico. Mio fratello lo dovrei paragonare piuttosto a quei cani ritornati selvaggi. La casa dove sono cresciuti, la rimpiangono e la odiano nello stesso tempo. Il loro percorso di vita si spiega sempre con una ferita: un abbandono, un tradimento, un’infedeltà. Quella ferita è la loro seconda nascita, la sola che conta. Tra me e mio fratello, la lotta sarebbe stata impari. Ho scelto la fuga. Sì, la fuga, non c’è parola diversa.
Dunque, Clara ed io siamo partiti per Haifa. Era già il nostro progetto da un po’ di tempo, ma avevamo rimandato a più riprese, perché le strade della Galilea non erano sicure. Vista l’atmosfera che ormai regnava in casa, ci eravamo decisi ad andare, anche se si doveva affrontare qualche rischio. Non era la cosa più prudente da fare, soprattutto dal momento che mia moglie era incinta. Ma non siamo mai stati le persone più prudenti, se lo fossimo stati, non ci saremmo impegnati entrambi nella Resistenza, e non ci saremmo nemmeno incontrati, non è vero? C’era in noi una specie di tradizione di imprudenza e di temerarietà.
Quel giorno, le strade erano particolarmente deserte, cosa che non era stata sufficiente per scoraggiarci. Avevamo viaggiato, senza mai fermarci, a buona andatura. Ogni tanto credevamo di percepire dei martellamenti inquietanti. Potevano sembrare deflagrazioni, ma lontane, e facevamo come se non avessimo sentito niente.
Nell’ultima parte del percorso, in Galilea, i rumori si erano avvicinati e precisati. Si sentivano colpi di arma da fuoco, esplosioni, e odore di bruciato. Ma era troppo tardi per tornare indietro.
Quando eravamo già all’ingresso di Haifa, tra la via Faysal e la Kingsway, non lontano dalla ferrovia… Se lei non conosce Haifa, tutto questo non le dirà niente… In breve, dunque, all’ingresso Nord della città, due pallottole vaganti colpiscono la nostra auto. Poi un’esplosione ci fa sobbalzare sulle quattro ruote. Entrambi urliamo quelle cose piuttosto stupide che vengono in mente in quei momenti: “Attenzione! ” e poi: “È venuto di laggiù! ” Come se servisse ancora a qualcosa fare attenzione, o capire la provenienza degli spari.
Aggrappato al volante, acceleravo, dritto davanti a me. Incapace di svoltare a destra o a sinistra. Acceleravo, ripetendo con la mandibola tremante: “Non avere paura! Non avere paura! Non avere paura!” Urtavo continuamente delle pietre, dei pneumatici, delle carcasse di vetture. Forse anche dei corpi, non so, non vedevo più niente. Correvo. Quando, Dio sa come, finalmente siamo arrivati davanti alla casa di Naim, al capo opposto della città, verso Stella Maris, mi ci è voluto qualche minuto per staccare le dita dal volante…
Quel giorno non avevamo avuto niente di peggio di quello spavento. Voglio dire che non eravamo feriti. Ma lo spavento non è cosa da niente. Cosa c’è di più insopportabile che il sentimento di impotenza che si prova, su una automobile da turismo, per una strada ingombra di detriti e di fumo, quando i colpi e le esplosioni sembrano provenire contemporaneamente da tutte le parti. Non eravamo le persone più pavide, ma quella volta era troppo. C’erano in gioco le nostre due vite, anzi le nostre tre vite, il nostro avvenire, il nostro amore, la nostra felicità. Non era un crimine prendere tutto ciò alla leggera? Clara ed io eravamo usciti distrutti da quell’incidente. Avevamo subito bisogno di calma, quasi di immobilità. Per settimane non volevamo più uscire di casa, neppure per fare due passi, timidi, nel giardino, verso la spiaggia.
Passavamo le giornate stretti l’uno all’altra. A tubare. Parlavamo senza sosta del nostro bambino che stava per nascere. E del mondo dove avrebbe vissuto. Ci compiacevamo di immaginare un mondo diverso… Le nostre speranze erano proporzionali alla nostra disperazione. Più il domani sembrava scuro, e più il dopodomani sembrava pieno di sole.
Forse le ho dato l’impressione che tra Clara e me, malgrado tutte le tensioni e i rancori che ci circondavano, non ci fossero mai dispute, mai discussioni animate. Sì, certamente ce n’erano, ma non quelle che uno potrebbe supporre. Direi anzi che tutto, tutto senza eccezione, avveniva al contrario di come di solito accade. Quando Clara mi contraddiceva, era per spingersi oltre in favore degli arabi, per dirmi che dovevo meglio comprenderli, e io, quando la riprendevo, era per dirle che si mostrava troppo severa con i suoi correligionari. La discussione non era mai diversa da così. E non era per un qualsiasi accomodamento, per qualche convenzione di buon vicinato: era spontaneo, sincero. Spontaneamente, ciascuno si metteva al posto dell’altro.
Qualche giorno fa, a Parigi, ho avuto occasione di ascoltare per radio un dibattito tra un ebreo e un arabo, e le giuro che ne sono rimasto scandalizzato. L’idea di mettere di fronte persone che parlano ciascuna a nome della propria tribù, che rivalizzano in malafede e in abilità gratuita, sì, tutto questo mi scandalizza e mi disgusta. Trovo simili duelli volgari, barbari, di cattivo gusto, e, aggiungerei, perché è qui che sta la vera differenza, ineleganti. L’eleganza morale, mi perdoni se per una volta approfitto dell’occasione per incensarmi, era quella di Clara e mia. Clara si sforzava di capire gli arabi fin nelle peggiori avversità, e di mostrarsi senza compiacenza verso gli ebrei; io invece ero senza compiacenze verso gli arabi, e pensavo sempre alle persecuzioni vicine e lontane, per perdonare gli eccessi degli ebrei.
Lo so. Eravamo degli ingenui incurabili! Ma più lucidi di quanto possa sembrare. Sapevamo ormai che quell’avvenire che sognavamo, non era più per noi. Tutt’al più, per i nostri figli. Forse era perché c’era quel bambino in viaggio che avevamo ancora la forza di guardare oltre l’orizzonte.
Ogni mattina posavo la mano sul ventre rotondo di Clara e chiudevo gli occhi. E quando sentivo alla radio che la strada costiera era ancora impraticabile, non me la prendevo più. Non volevo più muovermi da quella vetusta costruzione ottomana che era stata tirata su lontano dalle strade insanguinate.
Dimenticato il mondo esterno, dimenticati gli studi, dimenticata la guerra: era in quella situazione che nasceva mio figlio.
E poi sono partito.