Sabato sera

“Da domani non ci potremo più vedere,” mi avvertì Ossyan quando tornai al suo albergo sabato, dopo l’ora della siesta.

“E se il suo racconto non fosse ancora terminato?”

“Le racconterò questa sera tutto quello che avrò il tempo di raccontare, staremo svegli fino a quando sarà possibile. E se ci saranno ancora cose da dire, ebbene, resteranno in sospeso…”

“Per un’altra volta, magari?”

“Non perdiamo più tempo,” disse, “cercherò di fare in fretta…”

Un giorno mio fratello è venuto a prendermi in clinica. A fine mattina. Era la mia prima uscita dopo quattro anni. No, non avevo mai messo i piedi fuori, dopo il ricovero. E non ricevevo nemmeno molte visite. Salem veniva una volta all’anno per domandarmi se tutto andava bene. Dicevo “sì”, e ripartiva subito.

Vedevo mia sorella un po’ più spesso. Aveva l’abitudine di passare l’estate sul Monte Libano per sfuggire alla canicola dell’Egitto. Allora veniva a trovarmi, due o tre volte. Mi sembra che, in quelle occasioni, mi raddoppiassero le dosi degli abbrutenti. Perché, infatti, restavo là, a contemplare inebetito; lei aveva un bel parlare, ricordarmi episodi, interrogarmi, io rispondevo per monosillabi. Allora se ne andava, asciugandosi gli occhi.

Quella prima uscita avrebbe dovuto essere per me un avvenimento. Ma io non ero né allegro né triste, tutt’al più incuriosito, e ancora, appena! Il direttore mi aveva avvertito all’ultimo momento, io non avevo cambiato niente delle mie abitudini. Stavo giocando a carte quando mi hanno chiamato. Ho lasciato il posto a un altro, e sono partito.

Un autista mi aveva aperto la porta di una grossa automobile nera e bianca. Salem era dentro. Più gentile del solito, mi aveva annunciato che in casa dava un pranzo importante e ci teneva che ci fossi anch’io. Non diceva il vero, una volta di più. Se pure c’era un pranzo importante, non era certo lui che in un accesso di magnanimità si era detto: “Dovrei tirare fuori mio fratello dal manicomio…”

La verità era un’altra. Salem era diventato uno degli uomini d’affari più in vista del paese. Non lo dico senza amarezza, ma era così… Il piccolo trafficante di ieri era ormai quasi dimenticato. Aveva cambiato mestiere? cambiato scala? In ogni caso, muoveva milioni, era sempre tra due aeroplani, si era fatto un nome, una rispettabilità.

D’altronde la nostra casa ne portava le tracce. Una nuova ricchezza era venuta a ricoprire la vecchia. Il giardino, una volta selvaggio e spinoso si era coperto di prato all’inglese, erano stati abbattuti i fichi d’India che erano l’anima di quel paesaggio e sembravano nati insieme con le pietre; a mala pena sopravviveva ancora qualche pino stanco.

All’interno, i vecchi mobili portati da Adana erano scomparsi. Sostituiti da poltrone con dorature e sagoma da rospo. Evacuati anche i tappeti consunti da centocinquanta anni di passi. Solo la mia camera era rimasta tale e quale. Nessuno ci entrava, nemmeno per togliere la polvere. Cosa che non mi aveva impedito di distendermi sul mio letto e addormentarmi. Quei pochi minuti di viaggio mi avevano sfinito.

Erano venuti a svegliarmi all’arrivo dei primi convitati. Non sapevo chi sarebbero stati. Non avevo fatto nessuna domanda, e mio fratello non mi aveva detto niente, se non che preferiva farmi la sorpresa. Non erano numerosi, ma eminenti. Al punto che Salem aveva prenotato i servizi di un maitre d’hotel.

La prima auto che arrivò fu quella dell’ambasciatore di Francia. Lo accompagnava un membro del governo francese. Sì, era Bertrand! Cioè, quello che nella Resistenza era Bertrand.

Aveva spesso chiesto mie notizie, sembra. Aveva scritto a Clara, che gli aveva detto quel poco che sapeva. Poi all’ambasciatore. Questi aveva fatto la sua indagine; avendo così appreso dove ero stato interrato e cos’ero diventato, aveva sconsigliato al ministro di cercare di incontrarmi.

Ma Bertrand sapeva insistere. Non volendolo contrariare, il diplomatico aveva allora concepito l’idea di quel pranzo. Aveva giustamente supposto che mio fratello, alla ricerca di onori e di riconoscimenti, non poteva che essere lusingato dalla prospettiva di ricevere alla sua tavola un ministro francese. Ma soltanto la mia presenza poteva giustificare quella del ministro. Sarebbe stato impensabile che un alto responsabile politico, in visita ufficiale in un paese straniero, andasse a pranzo da un privato, soprattutto da un uomo d’affari dal dubbio passato. Per contro, il vecchio capo di una rete di resistenti poteva perfettamente sedersi alla tavola di un compagno d’armi. Per la durata di un pranzo, casa Ketabdar era tornata mia.

Una mascherata. Un baratto odioso. E soprattutto una giornata umiliante. Ma alla fine mi sarebbe stata utile.

Quando erano venuti a tirarmi fuori, quel giorno, aveva già al mio attivo, se così posso dire, quattro anni di acquietamento forzato. Anche quella mattina mi avevano fatto bere l’insostituibile beverone. Avevo passato le ultime ore con gli altri pensionanti, a battere la carta con i nostri gesti torpidi. Vivevamo tutti allo stesso modo, parlavamo, ci muovevamo allo stesso ritmo. Per un osservatore esterno doveva sembrare una scena al rallentatore. Patetica, o comica. Per noi era l’esistenza normale.

Ma, a mezzogiorno, mi ero ritrovato a tavola con una decina di persone che vivevano, quelle, al ritmo del mondo reale. C’era gente dell’ambasciata, due direttori di giornali, un banchiere… Parlavano tutti molto in fretta, davvero troppo in fretta per me, pronunciavano nomi che non mi dicevano niente: Pan Mun Jom, McCarthy, RFA, Mossadeq; commentavano avvenimenti di cui non avevo mai sentito parlare; ridevano di cose che non mi dicevano niente. Bertrand, per tutto il tempo, mi guardava. All’inizio con gioia. Poi con stupore. Poi con tristezza. Io non facevo altro che mangiare, con gli occhi nel piatto.

Si era rivolto a me duo o tre volte; il tempo di accorgermene, il tempo di capire cosa aveva voluto dire, il tempo di posare la forchetta, il tempo di preparare nella mia testa una risposta: prima ancora che avessi cominciato ad articolare, gli altri, imbarazzati dal silenzio, avevano cambiato discorso. Dio, che umiliazione! Avrei voluto cascare morto stecchito!

E poi, verso la fine del pasto, avevo cercato di riprendermi. Mettendo insieme tutto il mio cervello, avevo formulato una frase. Mi ero ripromesso di pronunciarla il più in fretta possibile. Aspettavo una spiaggia di silenzio. Non si è mai presentata. O magari non ho saputo approfittarne in tempo. Ormai l’ambasciatore, guardando l’orologio, ricordava a Bertrand il prossimo appuntamento.

Tutti si erano alzati. Io mi muovevo al mio ritmo. Avevano tutti lasciato la sala da pranzo e si dirigevano verso la porta. Io stavo appena alzandomi, appoggiato pesantemente alla tavola. E dire che non avevo ancora trentatré anni!

Improvvisamente, Bertrand fa dietrofront, come preso dal rimorso. Torna verso di me, mi circonda con le braccia, e mi stringe a sé. Per un lungo momento. Come per darmi il tempo di parlare. Era per me l’occasione di dirgli tutto quello che non avevo saputo esprimere a tavola, tutto quello che ribolliva dentro di me, nel mio petto, nella mia gola, là, sulla punta delle labbra, tutto quello che desideravo che finalmente capisse…

Non ho detto niente. Nemmeno una parola. Un po’ l’emozione e un po’ la sorpresa di vederlo tornare così verso di me; e poi tutti gli altri che vedevo dietro le sue spalle, che aspettavano. Ebbene, anche quella volta, ero stato incapace di aprir bocca. Capivo benissimo che era importante, capivo bene che era forse l’unica occasione per riallacciare con il mondo dei vivi. Ma, forse proprio perché la posta era così vitale, ne ero paralizzato.

Incapace di parlare, dunque, ma all’ultimo momento riesco comunque a sciogliermi un po’ dalle mie corde invisibili, appena un po’, appena appena quanto serviva ad abbozzare un gesto umano. Tenendo la mano di Bertrand nella mia per impedirgli di andare via, cerco nella tasca una fotografia. Quella di mia figlia, che Clara mi aveva spedito. Sì, quella foto di un neonato, che assomiglia a tutti i neonati del mondo, gliela mostro, poi la giro perché possa leggere il nome: Nadia. Lui annuisce, mi batte sulla spalla, borbotta qualcosa, poi se ne va. Nei suoi occhi la tristezza, la pietà e la fretta di andarsene.

Aveva capito che si trattava di un’invocazione di aiuto? No, non aveva capito niente. Se avessi voluto dirgli qualcosa ne avrei avuto il tempo. Avrei potuto farlo discretamente, molto più discretamente che con quel gesto di tirare fuori dalla tasca una vecchia foto per fargliela vedere. Quello che avevo visto nei suoi occhi, quando si era allontanato, era tutto quello che c’era da vedere. Tristezza e pietà. Adesso so che, ritornato in Francia, ciò che aveva scritto a Clara era quasi un biglietto di circostanza. Le annunciava che il povero Baku era così malridotto da essere irriconoscibile, che il giovanotto che lei aveva conosciuto, che lui aveva conosciuto, il Gavroche della rete Liberté! non esisteva più. Doveva dimenticarlo, rifarsi una vita.

Non aveva nemmeno ritenuto utile menzionare il mio gesto finale. A che pro, si era detto, molto meglio che conservi il ricordo di quel giovane vivo e innamorato piuttosto che l’immagine di un essere penoso, precocemente invecchiato.

Io, facendomi riaccompagnare in clinica dall’autista di mio fratello, ero distrutto. Avevo lasciato passare tutte le occasioni. Salem, quanto a lui, doveva esultare. Potevano forse sospettare che mi avesse sequestrato? Aveva dato prova della sua buona fede. Mi aveva lasciato venire liberamente, assistere al pranzo, parlare, se si può dire così, con i convitati, anche da solo a solo. Ciascuno aveva potuto constatare che il mio stato mentale era deplorevole, e che la mia presenza in un’istituzione specialistica non era ingiustificata, e neppure la tutela legale che lui esercitava sulla mia parte di eredità…

Mio fratello era persino riuscito, con quel pranzo, a ripulirsi di un’altra porcheria che gli era rimasta appiccicata, molto meno ipotetica: la vecchia condanna per contrabbando che lo aveva portato in prigione. Aveva già riacquistato, con la fortuna di famiglia, una buona dose di rispettabilità – la rispettabilità è una donna venale, lei non ne dubita, spero… Quella volta, la riabilitazione era totale. Se i francesi stessi, che l’avevano condannato dieci anni prima, adesso ammettevano che il loro ambasciatore con un loro ministro andasse a pranzo a casa sua, voleva dire che dovevano essere persuasi della sua innocenza, chi avrebbe potuto pretendere il contrario?

Quel pasto, che poteva precludere alla mia liberazione, non era stato dunque che una nuova tappa nell’ascesa di mio fratello. Suppongo che a questo punto molte persone dovevano domandarsi come, dalla stessa casa, dallo stesso ventre erano potuti venire fuori sia quell’uomo notevole, che quell’altro, io, un fantasma… Quelli che conoscevano la mia sorte dovevano evitare di farne menzione, per riguardo verso quell’alto personaggio la cui reputazione avrebbe potuto soffrire per una simile tara nella sua famiglia, ma la maggior parte della gente aveva persino dimenticato la mia esistenza. Mi avevano già seppellito, senza preghiere.

E non soltanto gli estranei! Anche quelli di famiglia! Una sola persona avrebbe potuto fare qualcosa per me, mia sorella. Nessun altro. Mio nonno Nubar e la mia nonna materna erano morti poco dopo il loro arrivo in America; il loro figlio, Aram, partito in una situazione umiliante, non aveva più voluto mantenere rapporti con la famiglia, o con ciò che ne restava.

Chi altro? I miei compagni della Resistenza? Quelli che mi avevano conosciuto dovevano avere appreso da Bertrand cosa ero diventato. Se ne erano rattristati, suppongo, poi avevano dimenticato. Come rimproverarli? Dopo tutto, non ero il primo dei loro compagni a crollare così, senza ragione apparente, all’indomani della vittoria… la guerra talvolta ha queste conseguenze tardive!

Chi altro? Clara? Nei primi tempi mi aveva scritto, mi dicono, alcune lettere, che non ho mai ricevuto. Aveva anche fatto pervenire un messaggio a mia sorella che le aveva risposto sconsigliandole di cercare di incontrarmi. Perché? Iffett non voleva che mia moglie mi vedesse nello stato in cui lei stessa mi aveva visto nelle sue visite estive. Spostarsi da Haifa a Beirut era ormai praticamente impossibile. Bisognava ottenere documenti falsi, organizzarsi della complicità, e si diventava sospetti sia agli occhi degli arabi e sia a quelli di Israele… Mia sorella si diceva che Clara avrebbe sfidato tutti gli ostacoli, lasciando sua figlia dietro di sé, o, peggio, trascinandola con sé in quell’avventura. E alla fine del viaggio si sarebbe trovata davanti a quel vegetale che respirava, brancolante, incapace di parlare, incapace di reagire e si sarebbe scoraggiata definitivamente.

Non era meglio attendere un momento migliore, che io ricominciassi almeno a dare qualche segno di risveglio? Allora, forse, lo choc costituito dall’incontro con Clara e Nadia avrebbe potuto rivelarsi salutare.

All’epoca, mia sorella sperava ancora che il mio stato potesse migliorare. Ma ad ogni visita ci credeva un po’ meno. E un giorno ha cessato di crederci. Nel momento peggiore, quando proprio avevo cominciato ad aspettarla. Ma non posso prendermela con lei, e nemmeno con Clara. Come avrebbero potuto indovinare che ero prigioniero di me stesso, sotterrato vivo? Non avevo invocato aiuto.

La sera stessa di quel penoso pranzo, desideroso di recuperare l’errore e non avendo più alcuna fiducia nella mia capacità di parlare, avevo fatto lo sforzo di scrivere su un pezzo di carta questa semplice frase: “Voglio uscire di qui e riprendere una vita normale.” Una richiesta di aiuto che in quel momento rimpiangevo di non avere saputo comunicare a Bertrand, e che aspettavo di consegnare nelle mani di Iffett quando fosse tornata a trovarmi, l’estate seguente. Conservavo sempre quel foglio in tasca con la foto di Nadia.

Se mi ero imposto di scrivere, non era soltanto per paura che le parole non mi tornassero più alle labbra quando ne avessi avuto bisogno. Era anche perché rischiavo di non essere più nelle stesse condizioni di spirito. Avevo bisogno di raccogliere quel po’ di rabbia che si era condensato dentro di me, come certe persone sperdute nel deserto e minacciate dalla sete raccolgono talvolta goccia a goccia la rugiada che si forma sulle foglie e sui petali, per berla. La rabbia, l’indignazione, i rari sussulti di rivolta erano diventati per me come un carburante prezioso per la sopravvivenza della mia dignità intorpidita.

Quell’estate, mia sorella non venne a passare le vacanze nella Montagna. Neppure l’anno dopo. Non l’ho mai più rivista.

Salem mi disse un giorno che nostro cognato Mahmud aveva avuto delle noie con le autorità egiziane, che era stato arrestato per otto mesi, insieme con altri dirigenti di banca, e che, mortificato e deluso, aveva deciso di esiliarsi più lontano possibile dal Vicino Oriente. A Melbourne, in Australia.

Ma io sospetto anche qualche altra cosa. Se no, mia sorella sarebbe almeno venuta a salutarci. Mi sembra che mio fratello, con qualche malversazione, abbia sottratto a Iffett la sua parte di eredità. Non ne ho le prove, se non quelle del cuore. E qualche vago indizio, annusato qua e là. Ma evitiamo, nevvero, di parlare di cose sordide.

Forse mia sorella avrebbe ugualmente fatto il viaggio per venirmi a vedere, se mi fossi mostrato capace di apprezzare le sue visite. Ma se era per ascoltare i miei monosillabi e andarsene piangendo, a che pro imbarcarsi su una nave o su un aereo dall’Australia!

Resta sempre il fatto che non è tornata mai più. All’avvicinarsi dell’estate, io l’attendevo comunque. Ma credendoci un po’ meno ogni anno. La mia ultima speranza si dileguava…

Se sono tuttavia sopravvissuto, è perché ci vuole una certa volontà per non sopravvivere. E non avevo nemmeno più quella volontà. Nemmeno più la volontà e la forza di tendere la mano alla morte. Sottrarre qualche flacone di medicina, correre fino alle scale e salire sul tetto, saltare nel vuoto… C’erano soltanto due piani, ma con un po’ di fortuna avrei potuto fracassarmi…

Non dovrei dire questo. La mia fortuna è stata, al contrario, di non avere avuto la forza di farla finita quando avevo creduto fosse spazzata via l’ultima speranza. Anche quando non si vede la luce in fondo al tunnel, bisogna continuare a credere che la luce ci sia, e che apparirà.

C’è chi pazienta perché conserva fede nell’avvenire. Altri perché manca loro il coraggio di farla finita. La vigliaccheria è senza dubbio disprezzabile, ma nondimeno appartiene al regno della vita. E’ uno strumento di sopravvivenza, come la rassegnazione.

Ma ho torto a parlare in questo modo, della vigliaccheria e della rassegnazione come se solo loro mi avessero tenuto in vita. C’è stato Lobo. Era uno dei pensionanti della Residence. Chiacchieravano spesso insieme: era diventato l’amico indispensabile, l’unico. Riparlerò di lui tra poco. Ha contato per me più di qualsiasi altra persona, per degli anni. Ma vorrei prima raccontare come mi ha dissuaso dal cercare la morte.

Non era mica facile per me evocare le mie velleità suicide. Alla Residence regnava una tale atmosfera di delazione infantile! Avevo l’impressione che se avessero sospettato che volevo sopprimermi, mi avrebbero legato al letto tutte le notti… Ma Lobo, forse perché dubitava qualche cosa e voleva incitarmi a parlargliene, mi aveva confidato un giorno di avere più di una volta sognato di “farla finita”. Quando l’avevo informato che era la stessa cosa per me, mi aveva fatto la predica, dall’alto dei venti anni d’età – e vent'anni di manicomio – che ci separavano: “Devi considerare la morte come l’ultima uscita di sicurezza. Sappi che nessuno ti può impedire di farci ricorso, ma appunto perché ti è accessibile, tienila di riserva, a tempo indeterminato. Supponiamo che tu faccia un brutto sogno, una notte. Se tu sai che si tratta proprio di un brutto sogno, e che ti basterebbe scuotere un po’ la testa per venirne fuori, tutto diventa più semplice, più sopportabile, e finisci persino di trovare piacere in quello che più ti sembrava spaventoso. Se la vita ti fa paura, se ti fa male, se le persone più vicine si coprono di maschere odiose… di’ a te stesso che così è la vita, di’ che è un gioco al quale non sarai invitato a partecipare una seconda volta. Un gioco di piacere e di sofferenza, un gioco di credenze e di inganni, un gioco di maschere, giocato fino alla fine, come attore o come spettatore, come spettatore di preferenza, sarà sempre il momento di venirne fuori. Quanto a me, ‘l’uscita di sicurezza’ mi aiuta a vivere. Siccome è a mia disposizione, so che non ne farò uso. Ma se non avessi la mano sulla maniglia dell’aldilà, mi sentirei in trappola, e avrei voglia di scapparmene al più presto! ”

Lobo non era più malato della media degli uomini. Aveva soltanto, come si dice, “inclinazioni particolari”, e la sua famiglia, sia per desiderio di “guarirlo”, sia semplicemente per preservarsi dagli scandali, aveva scelto di farlo internare. Aveva trascorso la parte essenziale della sua vita adulta in diverse istituzioni. Era alla quarta o alla quinta, credo. E aveva dovuto superare ogni sorta di prova. Un giorno un medico aveva persino deciso di lobotomizzarlo, “per togliergli le sue cattive inclinazioni”. Per sua grande fortuna, in un soprassalto di buon senso o di istinto, era intervenuta sua madre, a impedirlo. Di quell’odiosa avventura gli era rimasto quel soprannome, Lobo, che si era affibbiato da solo, credo, per autoderisione… Guardava tutto ciò che lo circondava, e la sua vita, e il suo passato, con distacco infinito.

Alla Residence aveva un trattamento a parte. Gli avevano piazzato un pianoforte in camera; passava talvolta l’intera giornata in pantofole, con una sciarpa verde annodata al collo, a suonare a memoria, o a chiacchierare con me, senza staccarsi dallo sgabello. E, al contrario di noi altri, poteva ricevere telefonate e posta… Vero è che nessuno ha mai pensato che fosse matto.

È stato lui che un giorno è venuto ad annunciarmi che, per un rimpasto di governo, mio fratello era stato nominato ministro. Perfetto! Ministro! Lobo sapeva che ne sarei stato disgustato – avevo già avuto occasione di raccontargli che razza di individuo fosse Salem. Perciò si era assicurato che avessi ben ingoiato tutto il mio “caffè” quel mattino, prima di sbattermi in faccia la notizia.

Ero rimasto inebetito, intendo più del solito, perché l’ebetismo era allora la mia condizione naturale. Così Lobo mi aveva anche consolato a modo suo: “Quello che accade non dovrebbe stupirti, Ossyan. Devi dirti che tuo fratello avrà sempre su di te un vantaggio irrecuperabile.”

“Quale?” avevo chiesto.

“Lui è fratello di un ex resistente, mentre tu non sei che il fratello di un ex contrabbandiere.”

Avevo riso. E l’amarezza era passata.

Così, mentre mio fratello prosperava, mentre guadagnava ricchezza e notorietà, io sprofondavo, conservando sulle labbra il sorriso dei beati… Gli anni passavano e, ormai da molto tempo, non speravo più. Ma, improvvisamente, le cose hanno cominciato a muoversi. Il Preposto alla Provvidenza aveva tirato fuori da un cassetto polveroso la pratica della mia vita per gettarci un nuovo colpo d’occhio, più benevolo…

Lo strumento della Provvidenza, come si dice, non fu altri che mia figlia, Nadia. Sbarcata fresca fresca a Parigi per iscriversi all’università.

Sì, Nadia. Anche io ero rimasto alla sua immagine di neonata, ma aveva quasi vent’anni, ormai. E ribolliva di mille rivolte. Il nostro Levante, dove le guerre si succedevano alle guerre, l’aveva già stancata. Aveva fretta di allontanarsene.

Non essendo riuscita a trattenerla vicino a sé, poco rassicurata di vederla partire da sola, Clara le aveva fatto promettere di mettersi in contatto con qualche vecchio amico dell’epoca eroica.

Fu così che era andata a trovare Bertrand. Non era più ministro, credo, ma rimaneva un uomo influente e soprattutto, naturalmente, una grande figura della Resistenza.

Intimidita dal personaggio, che la riceveva in un ricco salotto, con poltrone nelle quali si sprofondava, e che la squadrava con un leggero sorriso, mia figlia aveva creduto di dovere giustificare la sua presenza. In verità, Bertrand cercava di ritrovare sul suo viso i tratti mescolati dei suoi genitori.

“Mia madre mi ha incitato a venire a trovarla. Credo che lei l’abbia conosciuta durante la guerra…”

“E così tu sei Nadia. Nadia Ketabdar. Ho conosciuto tua madre, sicuro, e anche tuo padre. Sono stati entrambi ammirevoli sotto l’Occupazione. Due meravigliosi compagni. Due amici indimenticabili.”

Bertrand aveva sentito un turbamento nel momento in cui diceva “tuo padre”. Come un lampo, presto allontanato. Allora aveva trovato il tempo di parlare di me. Del nostro incontro a Montpellier, delle nostre discussioni, le nostre lotte, i nostri timori, le imprese di Baku, Baku l’inafferrabile. Nadia pendeva dalle sue labbra. Conosceva certe cose, attraverso sua madre, ma ce n’erano molte altre che non conosceva. E allora immaginava meglio quel giovanotto che sarebbe diventato suo padre.

Poi Bertrand aveva evocato più rapidamente la mia malattia e il mio internamento. Solo allora era tornata a galla, nella sua memoria, quella bottiglia che avevo gettato in mare: aveva raccontato a mia figlia, nei particolari, l’episodio della foto che avevo tirato fuori dalla tasca, alla fine di quell’infame pranzo. E quell’episodio, che fino ad allora gli era parso penoso e derisorio, al punto che si era dispensato di parlarne a Clara, al punto che l’aveva evacuato dalla memoria, per non conservare un’immagine così triste del suo amico… quell’episodio, dunque, rivestiva improvvisamente per lui un significato completamente diverso, adesso che quella ragazza era là, davanti a lui, e si preparava a fare i primi passi nella vita adulta, già orfana di quel padre non morto.

Nadia era in lacrime. Fino ad allora io avevo fatto parte soltanto della sua genealogia; ormai facevo parte della sua carne.

Quel messaggio che le era destinato, e che le era stato recapitato così tardi, le sembrava l’ultimo gesto di un annegato. Si domandava cosa fossi diventato dopo, e se si potesse intraprendere qualche cosa per tirarmi fuori dall’acqua.

Quando si era congedata da Bertrand, lui l’aveva guardata allontanarsi con apprensione. Non aveva più l’andatura di un’adolescente.

lo, quel pomeriggio, dovevo stare giocando la mia diciottesima partita a carte della giornata, con un trio di pensionanti bari.

Quell’uomo malato portava sul cuore come un talismano la sua fotografia: come avrebbe fatto Nadia a smettere di pensarci? Quell’alienato – sì, sì, perché dovrei avere paura delle parole? -, quell’alienato che mostrava la sua foto al suo migliore amico, come fosse l’immagine di una santa! Una faccina di neonata, la pesante allegria del mondo!

Per mia figlia, alla sua età, tutto ciò che poteva avere in sé di ideale, di slancio, di sogno, tutto ormai convergeva verso quel giovane vecchio internato.

“Ma è mio padre, ripeteva alla sua compagna di camera alla Città universitaria. Non è un estraneo, è mio padre, la metà delle mie cellule viene da lui, la metà del mio sangue, il colore dei miei occhi, la forma del mento. Mio padre.” Le piaceva il sapore di quella parola.

E se quel padre, invece di essere una grande fiera protettrice era un animale timido, braccato, ferito e abbandonato? E se sua figlia, invece di essere la sua protetta, doveva diventare la sua protettrice materna?

Nadia pensava a me con gli intenerimenti della sua età. Ma i suoi sogni non si fermavano là. Cercava un mezzo per arrivare fino a me, per farmi un segnale. In risposta, quindici o sedici anni dopo, al segnale che le avevo indirizzato.

Ritrovare quel padre, liberarlo, era diventato una sua idea fissa.

Anche se era abbattuto dall’internamento, dai medicinali, al punto di essere diventato irrecuperabile?

Era una domanda che non si poneva. Ed era un accecamento salutare.

Ne aveva parlato con sua madre? Nemmeno una parola. I loro rapporti non erano eccellenti, in quel momento della loro vita. Clara ha una personalità che si impone, con il suo passato; Nadia aveva bisogno di vivere la sua avventura, di affrontare una propria resistenza. Proprio dove sua madre si era arresa…

Nemmeno con Bertrand ne aveva parlato. Non subito. Ci teneva ad agire da sola. Era la sua avventura, la sua battaglia. Si trattava di suo padre.

Aveva ragione, d’altronde, a non fare sapere il suo progetto. Era così rocambolesco che né Clara né Bertrand l’avrebbero lasciata proseguire.

Si era confidata, come ho saputo più tardi, soltanto con l’amica con la quale divideva la camera. Si chiamava Christine e il suo cognome era quello di un grande gioielliere parigino.

Nadia le aveva proposto di fare uno scambio, una sostituzione di persona. Le due ragazze si somigliavano: abbastanza perché potessero essere confuse sulle foto tessera. Con una trovata degna di Jacques-carte-false, Christine era andata a farsi fare un nuovo passaporto con le foto di Nadia. Il funzionario della prefettura non aveva notato nulla. Mia figlia disponeva oramai di un passaporto intestato a Christine, ma con la sua fotografia. Poteva attraversare la frontiera senza che nessuno potesse sospettare il suo vero nome, la sua nazionalità e la sua città natale. Quanto alla sua amica, in rottura totale con la famiglia, era divertita di liberarsi per un po’ di tempo di un patrimonio soffocante, per assumere l’identità di una ragazza un po’ musulmana e un po’ ebrea.

Sì, perfettamente, musulmana ed ebrea. Io, suo padre, sono musulmano, almeno sui documenti; sua madre è ebrea, almeno in teoria. Da noi, la religione si trasmette per via di padre; tra gli ebrei, per via materna. Nadia dunque era musulmana agli occhi dei musulmani, e ebrea agli occhi degli ebrei… Per quanto la riguardava, avrebbe potuto scegliere di essere ebrea o musulmana; o nessuna delle due. Aveva voluto essere entrambe contemporaneamente. Sì, entrambe contemporaneamente, e molte altre cose ancora. Era fiera di tutti i lignaggi che confluivano in lei, percorsi di conquista, o di fuga, che provenivano dall’Asia centrale, dall’Anatolia, dall’Ucraina, dall’Arabia, dalla Bessarabia, dall’America, dalla Baviera… non aveva nessuna intenzione di fare l’inventario delle sue gocce di sangue, delle sue particelle di anima!

Si era in pieno Sessantotto. Una primavera esaltante per gli studenti, in Francia, a quanto mi dicono. Ma Nadia pensava soltanto alla partenza. Verso quel Levante che pure detestava. Si era procurata i visti, il biglietto aereo, la prenotazione alberghiera. Tutto quanto a nome della sua amica.

Già l’indomani del suo arrivo a Beirut, si era recata in taxi alla Rèsidence du Chemin neuf. Non aveva avuto modo di sapere se io ci fossi ancora, ma aveva supposto che non mi fossi mosso.

Ricevuta nell’ufficio del direttore, ha dichiarato il suo falso nome. Inevitabilmente, Dawwab le domanda se appartiene alla illustre famiglia di gioiellieri. Lei dice “sì” con il distacco giusto, né troppo, né troppo poco. Come faceva Christine quando le facevano la stessa domanda.

“Per l’appunto,” aggiunge mia figlia, “è un po’ della famiglia che si tratta. E una questione un po’ delicata, ma preferisco essere molto diretta. Una delle mie zie ha vissuto in Libano, qualche anno fa, e ha inteso molti elogi nei confronti del suo istituto. E’ stata mia zia a raccomandarmi di venire a parlare con lei. Di mio padre. Da diversi anni ha dei… problemi mentali abbastanza gravi. E’ seguito da specialisti…”

“Chi, per esempio?”

Nadia aveva preparato bene l’incontro e pronuncia alcuni nomi prestigiosi. Il direttore annuisce e l’invita a proseguire.

“Pensiamo che un soggiorno all’estero farebbe bene a mio padre… e anche a tutta la famiglia. Siamo gente conosciuta, lei lo sa, e la reputazione della Casa ne soffre. Lui stesso ne è consapevole. Non gli ho ancora parlato dell’idea di farlo curare qui, ma penso che non ci vedrebbe nessuna obiezione, se la casa fosse di suo gradimento. Ho l’impressione che qui ci sia tutto quello che può desiderare: il sole, un ambiente tranquillo, la qualità del trattamento. Vengo qui un po’ in esplorazione, per vedere in quale ambiente si ritroverebbe. Prima di prendere la decisione definitiva, bisognerà forse che venga lei stesso a vederlo, a Parigi. A nostre spese, ovviamente…”

Il pesce aveva abboccato! Tutto zucchero, il dottor Dawwab propone alla ricca ereditiera di fare un giro della sua clinica modello.

Comincia dal giardino, una passeggiatina per farsi un’idea. La vista sulla montagna e sul mare vicino. Le attrezzature mediche, nuovissime… dato che servono raramente. Poi le camere. Quella di Lobo, che era al pianoforte. Poi la grande sala decorata di piante verdi, dove i pensionanti, poco abituati a quel genere di visite, abbandonavano i loro inevitabili giochi di carte per avvicinarsi alla visitatrice.

“Non abbia paura,” le dice Dawwab, “non le faranno alcun male.”

Nadia lo rassicura. Si sforza di conservare quell’aria un po’ sulle sue, da ispettrice minuziosa. Guarda a sinistra e a destra, in alto e in basso, come per verificare se mai non ci fosse, in quel salone troppo pulito, un po’ di polvere negli angoli. In realtà, si può ben immaginare quali sentimenti l’agitassero, mentre con gli occhi cerca, in quel raggruppamento di alienati, il padre che non ha ancora mai incontrato.

Quel giorno non giocavo a carte, né a dama o a tric trac, e neppure a qualcos’altro. Avevo un po’ chiacchierato con Lobo, di cose poco importanti. Poi, lui era tornato a suonare il pianoforte, e io avevo preso un libro. Mi ci ero immerso e, quando la visitatrice è arrivata, e c’era stato un certo trambusto, non mi ero avvicinato con gli altri. Avevo soltanto sollevato la testa, per un momento, restando al mio posto. Per vedere la sconosciuta.

I nostri sguardi si erano incontrati. Chi poteva mai essere quella ragazza? Non ne avevo la minima idea. Lei, tuttavia, mi aveva riconosciuto. Ero come nelle vecchie fotografie. I suoi occhi si erano fissati. Anche i miei, ma solo per curiosità. Ero anche un po’ turbato da quella straniera che veniva ad osservarci come pesci d’acquario.

Dovevo far mostra di una smorfia esplicita, tanto da far dire a Dawwab, con una risatina, come per scusarsi:

“Dobbiamo averlo disturbato nella lettura!”

Nello stesso tempo, mi fucilava con lo sguardo. Poi aveva aggiunto:

“Quel signore non fa che leggere, dal mattino alla sera. E la sua passione.”

Non era esattamente la verità, aveva un po’ ingigantito le cose, per risollevare il prestigio culturale della casa.

“Se è così”, dice allora Nadia, “vado a dargli questo libro. L’ho appena terminato.”

Aprendo la sua borsetta, si dirige verso di me.

“Non è il caso,” dice il dottore.

Ma lei mi è già vicino. Vedo che fa scivolare qualcosa nel libro, prima di porgermelo.

Poi torna verso Dawwab, che inventa un sorriso. Io, ancora tutto stupito, apro macchinalmente il libro. Non ho nemmeno il tempo di leggere il titolo. In alto a destra, sopra al nome dell’autore, c’è scritto a matita il nome della proprietaria: Nadia K.

Subito, mi alzo. La guardo con un’aria strana; improvvisamente, scopro nel suo viso i lineamenti che mi ricordano Clara. In quel momento so, senza ombra di dubbio, che quella persona è mia figlia. E sento che Dawwab ignora la sua identità. Dunque vado verso di lei, ripromettendomi di non tradirla. Ma lei, che mi vede venire avanti come un automa, si spaventa. Capisce che l’ho riconosciuta, e teme che io faccia crollare tutto il suo castello.

La raggiungo e dico: “Grazie!” indicando il libro.

Le tendo la mano, che lei afferra, e che io scuoto ripetendo: “Grazie!”, “Grazie!”, “Grazie!”, senza riuscire a interrompermi.

“Il suo regalo l’ha commosso,” traduce il direttore con una risata nervosa.

Mi avvicino ancora a Nadia, per abbracciarla.

“Adesso basta, lei va oltre i limiti!” urla l’uomo.

Ma Nadia, che lotta per conservare il suo sangue freddo, rilancia:

“Lasciate, non c’è niente di male!”

Allora la stringo contro di me. Per un breve istante. Sento il suo odore. Ma già Dawwab ci separa.

E lei, determinata a non compromettere la sua missione per uno sfogo di sentimentalismo, si allontana da me dicendo:

“Questo signore è commovente.”

Poi aggiunge, con una bella faccia tosta, rivolgendosi al medico:

“Anche mio padre è appassionato di lettura. Gli racconterò cos’è successo. Sono sicura che si intenderà bene con quel paziente!”

In effetti, temeva soprattutto che quell’individuo volesse punirmi per il mio comportamento, e che, per esempio, cercasse di sequestrarmi il libro… perciò non ha esitato a insistere, pretendendo – come ho saputo più tardi – che quella scena commovente avesse spazzato via le sue ultime esitazioni, e che ormai fosse sicura che nessuna casa di cura sarebbe andata meglio per suo padre. Per suo padre il gioielliere, s’intende…

Dawwab ne era rapito. E io ero salvo, come il mio libro… e la lettera che lei ci aveva infilato.

D’altronde, mi ero sbrigato a nasconderla sotto gli abiti. Ero poi andato in bagno e avevo anche strappato la prima pagina del libro. Prudenza, prudenza… Sulla busta c’era il mio nome. Nadia non pensava di certo di avere l’occasione per darmela direttamente in mano, nel migliore dei casi pensava di affidarla a qualche paziente dall’aria rassicurante, con la speranza che me la consegnasse.

Cosa diceva la lettera? Le poche parole di cui avevo bisogno per ritrovare il gusto della vita.

 

“Padre,

sono quella figlia nata nella tua assenza, quella creatura di cui conservavi la fotografia sul cuore, ma che finalmente è cresciuta, lontano da te. Lontano? Ci separavano soltanto pochi chilometri di una bellissima strada costiera; ma una maledetta frontiera è stata eretta, dall’odio e dall’incomprensione. Ma anche dalla mancanza di immaginazione.

Prima della mia nascita tu e mia madre avete dovuto affrontare la guerra e l’odio. L’odio sembrava onnipotente, ma delle persone come lei e come te si sono ribellate e hanno finito per vincere. La vita trova sempre una strada; come un fiume deviato dal suo alveo, ne scava sempre un altro.

Vi siete ribellati, tu e mia madre, e tutti gli altri, avete preso dei nomi di battaglia, per ingannare il destino. Io non affronto una guerra altrettanto spettacolare, ma è la mia guerra, e la porterò avanti bene. Anch’io ho preso un nome di battaglia, per superare le barriere. Per venire a cercarti e dirti semplicemente: ‘Sappi che fuori c’è tua figlia, una figlia per la quale tu conti più di ogni cosa al mondo, e che aspetta con impazienza il momento di ritrovarti. “‘

 

Queste semplici parole mi hanno trasformato nello stesso istante in cui le leggevo. Mi hanno restituito la mia dignità di uomo e di padre, e la voglia di continuare a vivere. Non mi sarei più accontentato di trascinare le ore che mi separavano da un domani senza sorprese. Avevo un amore che mi aspettava. Se la mia persona non aveva più alcuna utilità per me, l’avrei conservata per Nadia, l’avrei migliorata. Provavo per mia figlia un amore da adolescente. Per lei volevo ormai riportare in vita, e alla libertà, quel Baku che un tempo era stato amato e ammirato, volevo tornare ad essere, per lei, un padre al braccio del quale avrebbe potuto essere fiera di passeggiare.

Detto questo, non bastava che volessi riconciliarmi con la vita perché quella riconciliazione avvenisse. Non era come se un uomo avesse pensato di uccidersi e sua figlia fosse venuta a prenderlo per mano dicendogli: “Padre, codesta vita che rifiuti, conservala, non fosse che per me! ” E allora lui si fosse ripromesso di rinunciare ai suoi progetti suicidi. La cosa era più complicata. E’ chiaro che avevo compreso cosa mi stava capitando e ne ero felice. Solo che vedevo tutto ciò attraverso la nebbia della mia mente offuscata. Offuscata e incrostata da vent’anni di internamento, vent’anni di alienazione, certamente forzata, ma nondimeno accettata con rassegnazione.

Vent’anni di sostanze debilitanti, ingoiate in gran quantità ogni mattino. Vent’anni di volontà mortificata! Vent’anni di pensieri e di parole rallentati, intorpiditi.

Ancora una volta non si trattava soltanto di rinunciare a morire; trovarsi sul bordo del precipizio, poi fare un passo indietro, al momento di saltare, e tenere tremando la mano che si è tesa. Non era così semplice. Per riprendere la stessa immagine direi che ero sul bordo di un precipizio, ma non con i piedi per terra; ero sull’orlo di uno stretto cornicione di pietra dopo avere bevuto una bottiglia di whisky. Non bastava decidere di tornare indietro, perché, nel mio stato, potevo benissimo cadere nel precipizio credendo di andare verso la salvezza. Prima dovevo tornare sobrio, ritrovare una visione chiara, pensieri limpidi, in modo da sapere dove appoggiare un passo dopo l’altro…

Questo, per quanto riguardava me. Ma non c’ero soltanto io. C’erano anche quelli che mi avevano fatto ricoverare. Mio fratello, che non aveva certo voglia che io potessi recuperare la casa dei Ketabdar e la mia parte di eredità, e anche Dawwab, per il quale ero ad un tempo una fonte di guadagno e uno strumento di influenza… Si trattava di non risvegliare in loro il sospetto, fino a quando ero in loro potere. Dovevo dar prova di una prudenza estrema.

Un esempio, veda: le medicine nel caffè del mattino, era importante riuscire ad evitarle per riprendere la lucidità. Bisognava giocare d’astuzia: la sorveglianza non era strettissima tutti i giorni; con un briciolo di volontà, e consequenzialità nelle idee, potevo riuscirci. Soltanto che, se avessi smesso bruscamente di prenderle, sarei andato incontro alla catastrofe. In quarantotto ore avrei dato tali segni di estremo nervosismo che mi sarei tradito; il medico avrebbe deciso di somministrarmi gli stessi abbrutenti per iniezione; poi mi avrebbero sorvegliato più da vicino.

Il comportamento ragionevole consisteva nel diminuire molto progressivamente le dosi. Avevo notato che, nel “caffè” del mattino, il gusto di medicinale era più forte negli ultimi sorsi. Ho dunque acquisito una certa tecnica per trattenere in bocca il fondo della tazza, che sputavo poco tempo dopo nel lavabo, quando mi lavavo. Dopo poche settimane già stavo meglio. Pur restando tranquillo, la mente era più chiara. Lo avvertivo leggendo e quando osservavo il comportamento degli altri. Avevo una strana impressione. Quella di aver barattato i miei sensi logorati con quelli di un essere nuovo. O di beneficiare di una sensibilità supplementare.

Recuperando i miei sensi, mi ero reso conto di una cosa: il personale sanitario, in presenza di pazienti, aveva l’abitudine di scambiare commenti, talvolta puramente clinici, altre volte sarcastici, almeno nelle intenzioni, sempre pronunciati in fretta, e con ellissi e abbreviazioni. Ebbene, finché ero sotto l’effetto del diabolico beverone, tutto ciò mi passava sotto il naso senza che ne percepissi una parola traditrice. Adesso, con un piccolo sforzo, ci riuscivo. Sentivo ogni tanto gli strampalati nomignoli affibbiati ai pazienti, oppure rivelazioni inquietanti sullo stato di salute dell’uno o dell’altro, e persino delle scommesse divertite su quanto gli restava da vivere, ma mi guardavo bene dal reagire.

No, non avevo in mente un piano, non esattamente! Nessun progetto di evasione, no, niente del genere. Cercavo solamente di recuperare le mie facoltà mentali, di ritornare un po’ me stesso, per poter rispondere quando mia figlia mi avrebbe chiamato.

Ah, ancora una cosa. Facevo esercizi di memoria. Un giorno, stavo leggendo, come mi capitava sempre più spesso. Era un vecchio romanzo di avventure tradotto dal polacco; la storia era ben articolata e avevo voglia di conoscere presto il seguito. Mi ero messo a voltare le pagine sempre più in fretta. Improvvisamente, alzando la testa avevo sorpreso lo sguardo attento di una sorvegliante. Mi ero staccato dalla lentezza abituale, i miei gesti erano diventati vivaci, nervosi, energici, e quella donna l’aveva notato. Aveva continuato a fissarmi, come per assicurarsene prima di parlarne al medico. Allora mi ero imposto di rallentare il ritmo, e, per ottenere questo risultato, di leggere due volte certi paragrafi. E stato allora che avevo avuto l’idea di imparare a memoria delle frasi intere. Non so se fosse utile per la mia “rieducazione mentale”, ma mi aiutava a riprendere fiducia nelle mie capacità.

Sì, sì, lei ha capito bene, quella persona mi avrebbe denunciato a Dawwab semplicemente perché leggevo a un ritmo normale!

L’idea che prevaleva alla Residence era che i pazienti fossero tutti potenzialmente agitati e che covassero crisi violente. Finché erano “rallentati”, non c’erano rischi. Qualsiasi gesto brusco, qualsiasi segno di agitazione poteva preludere a una crisi.

Dovevo perciò stare in guardia, aspettando Nadia, o un suo segnale.

Suppongo che, da parte sua, mia figlia non avesse un obiettivo più caro di quello di liberarmi. Ma in quale maniera poteva riuscirci? Una cosa era intrufolarsi nella mia prigione per vedermi, un’altra era farmi evadere.

Era così fiera di aver condotto bene la sua missione, di aver ingannato per tutto il tempo il direttore della clinica. Di aver potuto, per miracolo, affidarmi personalmente la sua lettera. Di avermi parlato, toccato, abbracciato. Mi aveva abbracciato come si abbraccia un estraneo, e anche peggio, come si concede un abbraccio a un importuno. Ma per noi due, era il nostro primo bacio. Ecco che ne parlo come della mia innamorata! Il primo bacio a mia figlia, il solo bacio in vent’anni! Ne ero ancora scosso settimane più tardi! E ancora adesso, se ripenso a quei momenti…

Mi scusi! Dove eravamo rimasti?

Ah, sì, parlavo dei progetti di mia figlia… Dicevo dunque che la sua visita era andata anche troppo bene. Al punto da farle credere che qualsiasi audacia le sarebbe riuscita. Avrebbe trascorso le settimane seguenti a costruire piani. I piani più temerari… piani di rapimento! Arrivava alla conclusione che l’astuzia non sarebbe bastata, e che bisognava risolversi ad utilizzare altri mezzi. Si, il rapimento! Povera bambina, il suo cuore la portava fuori strada!

Si reca di nuovo da Bertrand, con la speranza di ottenere il suo aiuto. Da quando era rientrata, non lo aveva ancora visto. Comincia a metterlo al corrente della sua missione alla Residence e del suo incontro con me. All’inizio Bertrand la sta a sentire con simpatia e persino con meraviglia. Rivede nei gesti di mia figlia, nell’intonazione della sua voce, la sua stessa giovinezza, e quella di Clara, e la mia. Ma quando, incoraggiata dalla sua reazione, gli rivela i suoi nuovi progetti, il suo volto si adombra.

“Quanto hai fatto fin qui ti fa onore,” le dice. “Puoi esserne fiera, e anch’io, come vecchio amico dei tuoi, non posso impedirmi di provare un certo orgoglio. Ma attenzione! Quello che mi dici di tuo padre mi ricorda in modo deprimente il nostro ultimo incontro. Non sarei un amico se ti nascondessi le mie reali impressioni in una situazione di questa gravità: tuo padre è menomato; manifesta le sue emozioni con gesti affettuosi, con le lacrime, ma non è capace di andare oltre. Ti ha detto forse qualche cosa?”

“Soltanto: Grazie! Ma non poteva dire nient’altro, il direttore lo sorvegliava. Soprattutto non bisognava tradirsi! ”

“E’ ciò che ti dici nella tua testa di ragazza devota e generosa. La verità, ahimè, è differente. Io ho visto tuo padre, ho passato accanto a lui tre ore. Sapeva che poteva parlare, non rischiava niente. M’avesse detto: ‘Portami via con te’, sarebbe venuto via immediatamente, scortato da me e dall’ambasciatore; quel mascalzone di suo fratello non avrebbe avuto altra scelta che quella di starsene tranquillo. Ebbene no, Ossyan non ha detto niente, nemmeno una parola. E quando, in un tentativo disperato, al momento di partire, sono tornato verso di lui, avrebbe avuto tempo di dirmi tutto quello che voleva, eravamo soli. Neanche allora, ha detto niente. Ha soltanto tirato fuori la tua fotografia da una tasca. Un gesto affettuoso, commovente, ma il gesto di un uomo menomato.

Quando ti ho raccontato questa scena, vedendoti così davanti a me, una ragazza di vent’anni che non aveva mai visto suo padre, avevo le lacrime agli occhi e tu, beninteso, eri cento volte ancora più emozionata di me. Sei stata ammirevole. Sei andata a vederlo per abbracciarlo, per dirgli che non l’hai dimenticato. Perfetto. Applaudo. Sei la degna figlia di due compagni meravigliosi. Ma è venuto il momento di guardare la verità in faccia. Quell’uomo è menomato, ti ripeto. E’ triste, è profondamente ingiusto, ma è la realtà. Quando l’ho visto l’ultima volta, non era più lui. Era appena capace di manifestare emozioni piangendo, o abbracciandoti, niente di più. I sedici anni che poi ha passato in quella clinica non avranno di certo sistemato le cose.

“Non voglio nemmeno pensare ai pericoli che correresti mettendo in atto un simile piano. Il pericolo non ti spaventa, e nemmeno me, ti prego di crederlo. Ma anche supponendo che il rapimento si svolga secondo le tue previsioni, supponendo che tu riesca a strappare tuo padre da quella clinica senza che sia riacciuffato e rinchiuso di nuovo a doppia mandata!, voglio persino arrivare a immaginare che entro un mese lui possa trovarsi qui, tra noi, in questo appartamento, seduto su quella poltrona… cosa succederebbe? Ti renderesti conto del suo stato e saresti a tua volta obbligata a ricoverarlo in un istituto. Ci sono problemi clinici, problemi mentali e fisiologici, che la devozione di una figlia e di un amico non riescono a risolvere. Tu l’avrai portato via da un’istituzione, dove deve avere le sue abitudini, i suoi amici, per chiuderlo in un’altra, dove magari saranno meno gentili con lui, sotto un cielo più grigio…”

Mia figlia è uscita dalla casa di Bertrand imprecando. E giurando a se stessa che avrebbe agito da sola, ancora una volta. Ma la sua determinazione era intaccata. Le parole che aveva udito si sarebbero scavate un passaggio nella sua testa.

Nel momento in cui io risalivo la china, aggrappandomi alla sua promessa di non abbandonarmi, lei – senza ancora ammetterlo chiaramente, suppongo – aveva già rinunciato. Là dove mi trovavo, non potevo saperlo. Ero persuaso che un giorno sarebbe riapparsa, e volevo essere pronto.

Ho vissuto nell’attesa di Nadia. Per anni mi sono domandato, ogni notte, addormentandomi, se l’avrei vista arrivare il giorno dopo, e come travestita, e con quali complicità.

Ma l’avvenire che aspettavo era già passato.

No, mia figlia non è mai tornata a cercarmi. Non le serbo risentimenti, perché avrebbe dovuto tornare? Per salvarmi? Mi aveva già salvato. Aveva pronunciato le parole che guariscono. Stavo già risalendo la china. Lentamente scalavo le pareti della mia voragine interiore. Lottavo! Per dissipare la nebbia, per ritrovare la lucidità, ricostruire la memoria, lasciare rinascere i desideri, fino a soffrire per le loro esigenze non soddisfatte… Era ormai una lotta mia, e soltanto mia.

Dovevo portarla avanti con raddoppiata attenzione. Continuando ad osservare i miei compagni di sventura per imitarne le maniere, le manie. Perché, me ne rendevo conto ogni giorno di più, tra lo stato di intorpidimento e lo stato di lucidità, non c’era nessuna somiglianza, ma davvero nessuna. Così, quando mi esprimevo, non era soltanto il ritmo delle parole che cambiava, non soltanto l’intonazione, non soltanto gli “ehm” che sparivano, quegli innumerevoli “ehm” che allungavano le frasi, le parole, le sillabe, era anche il vocabolario che si modificava: certe parole si dimenticano quando i desideri che evocano sono intorpiditi. Tutto, le parole, lo sguardo, le diverse maniere di atteggiare la faccia inghiottendo il cibo, mille infimi dettagli distinguono la persona che al mattino ha docilmente ingoiato la sua pozione abbrutente, dalla persona che simula.

A dispetto di ciò, non pensavo sempre alla fuga, non ancora. Ciò che avevo riconquistato era troppo prezioso per permettermi di comprometterlo per un atto di impazienza. Come? Nascondermi nel cofano di un furgone di fornitori? Saltare il muro e correre più in fretta dei guardiani? No, non era così che potevo afferrare la mia occasione.

Andarmene, ci pensavo ogni giorno. Allontanarmi dal manicomio, ritrovarmi altrove, sì, era ciò che volevo. Ma il gesto fisico di scavalcare la barriera, quello no. Aspettavo mia figlia…

E quando non è venuta, dice lei? La sua domanda ha dentro si sé la risposta. Non ci sono momenti per non venire. Quando uno aspetta con fervore, più il tempo passa, e più uno è persuaso che il giorno atteso si avvicini. E’ passato un anno? Tanto meglio, uno si dice, le ci voleva un anno di preparativi… Sono passati due anni? Il suo arrivo deve essere imminente…

E poi il tempo alla Rèsidence non scorreva allo stesso modo che fuori. Nessuno segnava i giorni sul muro, come in prigione. Eravamo tutti carcerati a vita. Una vita di giorni tutti uguali. A cosa serviva contarli?