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A poco a poco la pioggia era diminuita fino a smettere del tutto. La lampada a gas proiettava una luce gialla sul terreno e sull'acqua piovana che scorreva in rivoli lungo i passaggi intorno alla tomba. Erano uno di fronte all'altro, immobili, con la bara in mezzo, e si guardavano negli occhi.
"Deve essere rimasto molto sorpreso, nel vederla" disse Erlendur alla fine. Sapeva che la polizia stava arrivando al cimitero e voleva sfruttare il tempo a sua disposizione prima che si scatenasse il putiferio. Sapeva anche che Einar poteva essere armato. Non vedeva il fucile, ma non poteva escludere che l'avesse con sé. Einar teneva una mano nella tasca dell'impermeabile.
"Avrebbe dovuto vedere la sua faccia" replicò Einar. "Era come se avesse visto un fantasma dal passato, il fantasma di se stesso." Holberg era in piedi sulla porta di casa e guardava l'uomo che aveva suonato il campanello. Non l'aveva mai visto prima, ma riconobbe immediatamente il viso.
"Ciao, papà" disse Einar sarcastico. Non riusciva a frenare la propria rabbia.
"Chi è lei?" chiese Holberg evidentemente sorpreso.
"Be, tuo figlio, no?" rispose Einar.
"Che diavolo... è lei quello che mi ha telefonato? Mi lasci in pace. Io non la conosco. Lei dev'essere pazzo." Erano alti più o meno uguale, ma quello che più stupì Einar fu l'aspetto anziano e malato di Holberg. Quando parlava si sentiva un gorgoglio provenire dal profondo della gola, segno di una lunga consuetudine al fumo. Il viso era teso, i lineamenti duri, con cerchi scuri sotto gli occhi, i capelli grigi e sporchi erano appiccicati alla testa. La pelle avvizzita. I polpastrelli gialli. Le spalle lievemente curve, lo sguardo incolore e spento.
Holberg voleva chiudere la porta, ma Einar era più forte e lo spinse all'indietro, entrò in casa e chiuse. Sentì immediatamente l'odore. Come di cavalli, ma peggiore.
"Cosa tieni in casa?" chiese Einar.
"Esca di qui, subito. "La voce di Holberg era stridula, mentre gridava contro Einar indietreggiando all'interno del soggiorno.
"Ho tutti i diritti di stare qui" disse Einar guardandosi in giro, osservando gli scaffali dei libri e il computer nell'angolo. "Io sono tuo figlio. Il figliol prodigo. Posso chiederti una cosa, papà? Hai violentato altre donne oltre alla mamma?" "Adesso chiamo la polizia!" Il gorgoglio si faceva più intenso più l'uomo si agitava.
"Sarebbe anche ora di chiamarla" replicò Einar, e Holberg rimase esitante.
"Che cosa vuole da me?" disse.
"Tu non hai idea di quello che è successo e non te ne importa niente. La cosa non ti riguarda. E così, vero?" "Quel viso..." disse Holberg senza finire la frase. Osservò Einar con quel suo sguardo incolore e lo studiò per un po, finché non cominciò a capire davvero quello che Einar gli stava dicendo, che era suo figlio. Einar lo vide titubante. Vide come rimuginava su quanto gli aveva detto.
"Non ho mai stuprato nessuno in vita mia" disse infine Holberg. "È tutta una maledetta bugia. Dissero che avevo una figlia a Keflavik e sua madre mi accusò di averla violentata, ma non fu mai provato. Non venni mai condannato." "Sai cos'è successo a tua figlia?" "Credo sia morta da piccola. Non sono mai stato in contatto con lei o con la madre. Devi capirlo. Mi aveva accusato di stupro!" "Ci sono stati altri casi di morte infantile nella tua famiglia?" chiese Einar.
"Di cosa stai parlando?" "Non sono morti dei bambini nella tua famiglia?" tornò a chiedere Einar.
"Ma cosa succede?" "So di vari casi negli ultimi cento anni. Una è stata tua sorella." Holberg fissò Einar. "Cosa sai tu della mia famiglia? Come...?" "Tuo fratello. Maggiore di vent'anni. Morto quindici anni fa. Perse sua figlia nel 1941. Tu avevi undici anni. Eravate solo voi due fratelli, nati a molti anni di distanza l'uno dall'altro." Holberg non disse niente ed Einar continuò.
"La malattia avrebbe dovuto finire con te. Tu avresti dovuto essere l'ultimo portatore sano. Tu eri l'ultimo della lista. Senza figli. Niente famiglia. Ma eri uno stupratore. Uno stronzo, patetico, merdoso stupratore!" Einar tacque e guardò Holberg con occhi pieni d'odio.
"E così adesso sono io, l'ultimo portatore." "Ma cosa stai dicendo?" "Audur aveva ereditato la malattia da te. Mia figlia l'ha ereditata da te. E molto semplice. Ho controllato nella banca dati. Non ci sono stati altri casi della malattia in famiglia da quando Audur è morta, a parte mia figlia. Noi siamo gli ultimi." Einar fece un passo avanti, prese un pesante portacenere di vetro e lo soppesò fra le mani.
"E adesso è finita." "Non ero entrato per ucciderlo" disse Einar. "Ma deve aver pensato che era in grave pericolo. Non so perché ho preso quel portacenere, Forse volevo tirarglielo addosso. Forse volevo aggredirlo. E stato lui a iniziare. Mi è saltato addosso e mi ha preso per la gola, ma io l'ho colpito alla testa ed è caduto sul pavimento. L'ho fatto assolutamente senza pensare. Ero furibondo e avrei anche potuto aggredirlo. Mi ero chiesto spesso come sarebbe finito il nostro incontro, ma non avevo certo previsto un finale del genere. Davvero.
Ha urtato con la testa contro il tavolino, poi ha sbattuto per terra e ha cominciato a sanguinare. Ero sicuro che fosse morto quando mi sono chinato su di lui. Mi sono guardato intorno, ho visto un foglio e una matita e ho scritto 'Io sono lui. Era l'unica cosa cui riuscivo a pensare, da quando l'avevo visto sulla porta. Che io ero lui. Che ero quell'uomo. E che quell'uomo era mio padre." Einar abbassò lo sguardo sulla tomba aperta. "È piena d'acqua" disse.
"La sistemeremo" lo rassicurò Erlendur. "Se ha un'arma con sé, me la consegni. "Erlendur gli si avvicinò lentamente, ma Einar sembrava essersi estraniato dalla realtà.
"I bambini sono saggi" disse. "Quando era in ospedale, una volta mia figlia mi chiese perché abbiamo gli occhi, e io le risposi che ce li abbiamo per poter vedere." Einar tacque per un attimo. "Lei mi corresse" disse come rivolto a se stesso.
Guardò Erlendur. "Mi disse che ce li abbiamo per poter piangere." Poi sembrò che avesse preso una decisione. "Chi siamo, noi, se non siamo noi stessi?" domandò.
"Calma" disse Erlendur.
"Chi siamo, allora?" "Si sistemerà tutto." "Non avrei mai voluto che finisse così, ma ora è troppo tardi." Erlendur non capì cosa volesse dire.
"È finita." Erlendur lo guardò nella luce fioca della lampada a gas.
"Finisce qui" disse Einar.
Erlendur lo vide mentre estraeva l'arma dall'impermeabile e gliela puntava contro, mentre cercava di avvicinarsi lentamente. L'agente si fermò. Con un gesto repentino Einar girò la canna e se la puntò al cuore. Fu un attimo. Erlendur scattò in avanti urlandogli di non farlo. Il boato di uno sparo ruppe il silenzio notturno nel cimitero. Erlendur perse l'udito per un istante. Si gettò su Einar ed entrambi caddero a terra.