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Sigurdur Oli vide i fari della macchina avvicinarsi nella pioggia, sapeva che era Erlendur. L'escavatore rombò mentre si posizionava di fianco alla tomba, pronto a sollevare la benna non appena fosse stato dato il segnale. Era un mini escavatore che si era fatto largo fra le tombe con sussulti e sobbalzi. I cingoli scivolavano nella melma. Sputava una nuvola di fumo nero e saturava l'aria di un denso tanfo di gasolio.

Sigurdur Oli ed Elinborg erano in piedi vicino alla tomba, insieme al medico legale mandato dal procuratore, un avvocato dello stesso ufficio, il pastore e il sagrestano, alcuni agenti della polizia di Keflavik e due operai comunali. Erano tutti lì sotto la pioggia e invidiavano Elinborg che era l'unica ad avere l'ombrello e permetteva a Sigurdur Oli di ripararsi per metà. Notarono che Erlendur era solo quando scese dalla macchina e si avviò verso di loro a passi lenti. Avevano i permessi delle autorità preposte che autorizzavano la riesumazione, ma non potevano cominciare finché Erlendur non dava loro il permesso.

Erlendur si guardò intorno maledicendo in silenzio la distruzione, i danni, la profanazione. La lapide era stata rimossa e posta sul vialetto che conduceva alla tomba. La stessa sorte era toccata al vaso verde e un po allungato infilato nel terreno. Nel vaso c'era un piccolo mazzo di rose appassite, ed Erlendur pensò che forse ce l'aveva messo Elin. Si fermò, lesse l'epigrafe e scosse la testa. Lo steccato di legno bianco alto appena venti centimetri che delimitava la tomba era stato divelto e appoggiato di fianco alla lapide. Erlendur aveva già visto recinzioni simili a quella intorno alle tombe dei bambini e sospirò. Alzò gli occhi verso il cielo nero. La pioggia gli gocciolava sulle spalle dall'orlo del cappello e lui cercò di mettere a fuoco le gocce con lo sguardo. Osservò il gruppo di persone in piedi vicino alla tomba, infine guardò Sigurdur Oli e annuì. L'agente fece un cenno all'uomo sull'escavatore. La benna si alzò in aria e sprofondò nel terreno poroso.

Erlendur osservò il mezzo meccanico riaprire una ferita vecchia di trent'anni. A ogni colpo sentiva una fitta di dolore. Il mucchio di terra cresceva in modo costante e più la fossa diventava profonda, più il buio si infittiva. Erlendur si tenne a una certa distanza osservando la macchina scavare sempre più giù in quella ferita. All'improvviso provò la sensazione di aver già vissuto quel momento, come se avesse visto tutto in sogno, e in un attimo la scena davanti a lui assunse un'atmosfera onirica; i suoi colleghi della polizia che osservavano la tomba, gli operai comunali nelle loro tute arancione chini sui badili, il pastore vestito con un pesante soprabito nero, la pioggia che si rovesciava nella buca e tornava su con i badili come se la fossa sanguinasse.

Aveva sognato tutto proprio così?

Poi la sensazione scomparve e, come sempre quando gli succedevano cose del genere, non riuscì a capire da dove si fosse originata. Perché gli sembrava di rivivere eventi che non erano mai accaduti prima? Erlendur non credeva alle premonizioni, né alle visioni, né ai sogni, né alla reincarnazione, né al karma, non credeva nemmeno in Dio, nonostante avesse letto la Bibbia più volte, non credeva nella vita eterna o che il suo comportamento in questo mondo avrebbe determinato il suo andare in paradiso o all'inferno. Trovava che la vita stessa offrisse già di per sé una combinazione delle due cose.

Eppure a volte provava questi déjà vu incomprensibili e straordinari, riviveva luoghi e momenti come se li avesse già visti, come se fosse al di fuori di sé: si trasformava improvvisamente in un osservatore della propria vita. Non riusciva in nessun modo a capire di cosa si trattasse e del perché accadesse, per quale motivo la sua mente gli giocasse tiri del genere.

Erlendur tornò in sé quando il badile urtò il coperchio della cassa e si sentì un rumore vuoto provenire dalla tomba. Fece un passo avanti. L'acqua piovana scorreva nella fossa, ma riuscì a distinguere la forma della bara.

"Attenzione!" gridò Erlendur all'operaio alzando le braccia.

Con la coda dell'occhio vide i fari di una macchina che arrivava dalla strada. Tutti si voltarono a guardare in direzione delle luci e videro l'automobile avanzare nella pioggia e poi fermarsi accanto al cancello del cimitero. Notarono l'insegna luminosa del taxi sul tettuccio. Un'anziana donna con un cappotto verde scese dalla vettura. Era Elin. Il taxi se ne andò e lei corse verso la tomba. Quando fu abbastanza vicina a Erlendur perché la sentisse, cominciò a gridargli contro mostrando il pugno chiuso.

"Profanatore!" sentì che gli urlava. "Profanatore! Sacrilego!" "Tenetela indietro" ordinò Erlendur con calma agli agenti che stavano andando incontro a Elin: la fermarono quando le mancavano pochi metri a raggiungere la tomba. La donna cercò di tenerli lontano nella sua rabbia furiosa, ma quelli la presero per le braccia e la tennero ferma.

I due operai comunali si avvicinarono all'orlo della fossa con i badili, scavarono intorno alla bara e sistemarono delle corde alle estremità. Era quasi intatta. La pioggia rimbombava sul coperchio con un rumore sordo, ripulendolo dalla terra. Erlendur si immaginava che fosse bianca. Una piccola bara bianca con le maniglie di ottone sui fianchi e una piccola croce sul coperchio. Gli uomini assicurarono le corde al braccio dell'escavatore, che sollevò la cassa con estrema cautela fino al livello del suolo. Era ancora integra, ma sembrava molto fragile. Erlendur vide che Elin aveva smesso di agitarsi e di urlare. La donna cominciò a piangere quando la bara emerse del tutto e penzolò per un attimo sopra la fossa. Un furgoncino percorse lentamente in retromarcia il vialetto d'accesso e si fermò. La bara fu deposta per terra e liberata dalle corde. Il pastore si avvicinò, la benedisse con il segno della croce e mosse le labbra in preghiera. Gli operai infilarono la bara nel furgone e lo richiusero. Elinborg prese posto sul sedile anteriore vicino al conducente, che partì allontanandosi dal cimitero, oltre il cancello e sulla strada, finché le luci di posizione rosse sparirono nella pioggia e nell'oscurità.

Il pastore si avvicinò a Elin e disse ai poliziotti di lasciarla andare. Lo fecero immediatamente. Il pastore le chiese se c'era nulla che potesse fare per lei. Si conoscevano piuttosto bene e parlavano a mezza voce. Elin sembrava più calma. Erlendur e Sigurdur Oli si guardarono l'un l'altro e poi abbassarono gli occhi. L'acqua piovana aveva già cominciato a raccogliersi sul fondo della fossa.

"Volevo cercare di fermare questo sacrilegio blasfemo, questa profanazione" Erlendur le sentì dire al pastore. Provò un senso di sollievo quando si accorse che Elin si era calmata. Si incamminò verso di lei e Sigurdur Oli lo seguì a pochi passi di distanza.

"Questa non gliela perdonerò mai" disse Elin a Erlendur. Il pastore le stava al fianco. "Mai!" ribadì. "Tanto perché lei lo sappia." "La capisco" disse Erlendur," ma l'indagine ha la priorità." "L'indagine! Che vada a quel paese la sua indagine" sbottò Elin. "Dove sta portando il corpo?" "A Reykjavik." "E quando lo riporterà indietro?"

"Fra due giorni." "Guardi cos'ha fatto alla sua tomba" sospirò Elin in un tono rassegnato e incredulo, come se non avesse ancora capito bene quel che era successo. Si allontanò da Erlendur per avvicinarsi alla lapide e allo steccato, al vaso con i fiori e alla fossa aperta.

Erlendur decise di dirle del messaggio che era stato trovato nell'appartamento di Holberg.

"Qualcuno ha lasciato un messaggio a casa di Holberg, l'abbiamo scoperto quando è stato rinvenuto il corpo" disse Erlendur seguendo Elin. "Ci abbiamo capito ben poco, finché non è stata chiamata in causa Audur e non abbiamo parlato con il suo vecchio medico. Gli assassini islandesi di solito non lasciano niente dietro di sé se non il caos, ma chi ha ucciso Holberg voleva lasciarci qualcosa su cui riflettere. Quando il medico ci ha detto che avrebbe anche potuto trattarsi di una malattia genetica, il messaggio ha assunto improvvisamente un significato ben preciso. Holberg non ha parenti ancora in vita. Aveva una sorella che è morta a nove anni. Sigurdur Oli" continuò Erlendur indicando il suo collega" ha cercato la sua documentazione medica, che ha confermato quanto ci ha detto Ellidi. Morì come Audur di un tumore al cervello. Molto probabilmente stiamo parlando della stessa malattia." "Cosa sta dicendo? Che messaggio era?" chiese Elin.

Erlendur esitò. Guardò Sigurdur Oli, che a sua volta guardò Elin e poi di nuovo Erlendur. Si fissarono negli occhi per un istante.

"Io sono lui" disse Erlendur.

"Cosa vuol dire?" "Il messaggio diceva così: Io sono lui. L'ultima parola era scritta in maiuscolo, lui." "Io sono lui" ripetè Elin. "Cosa significa?" "È impossibile dirlo con certezza, ma mi chiedo se per caso non voglia indicare una sorta di parentela" rispose Erlendur. "Chi ha scritto 'io sono lui forse ritiene di avere qualcosa in comune con Holberg. Potrebbe trattarsi anche delle parole deliranti di un folle che non lo conosceva affatto. Una frase senza senso. Ma non credo. Sono convinto che la malattia possa essere la chiave giusta. Dobbiamo scoprire esattamente di cosa si tratta."

"Che tipo di parentela?" "Holberg non aveva figli, secondo le fonti ufficiali. Audur non venne riconosciuta. Fu registrata solo come Kolbrùnardottir. Ma se è vero quanto sostiene Ellidi, che Holberg stuprò altre donne oltre a Kolbrun e loro non lo rivelarono mai, potrebbe anche esserci la possibilità che abbia avuto altri figli. Che Kolbrun non fosse l'unica vittima ad aver messo al mondo un figlio suo. Abbiamo delimitato la ricerca di una possibile vittima di Husavik a tutte le donne che hanno partorito in un determinato periodo e speriamo di ricavarne qualcosa al più presto." "Husavik?" "Sembra che l'altra vittima di Holberg fosse di là." "E la malattia ereditaria?" domandò Elin. "Che malattia è? È la malattia che ha ucciso Audur?" "Dobbiamo ancora effettuare delle analisi su Holberg, accertare che fosse il padre di Audur e mettere insieme le cose. Ma se la teoria è giusta, è possibile che si tratti di una malattia rara che si trasmette geneticamente." "E Audur ce l'aveva?" "Può anche darsi che sia passato troppo tempo dalla sua morte perché sia possibile ottenere risultati soddisfacenti, ma dobbiamo provarci." Si erano avviati verso la chiesa, Elin al fianco di Erlendur e Sigurdur Oli che li seguiva. Era stata Elin a portarli lì. La chiesa era aperta, entrarono per ripararsi dalla pioggia e si fermarono nel vestibolo a osservare il buio di quel pomeriggio autunnale.

"Sono convinto che Holberg fosse il padre di Audur" disse Erlendur. "In realtà non ho alcun motivo di dubitare delle sue parole e di quello che le disse sua sorella. Ma dobbiamo averne conferma. È necessario per le indagini della polizia. Se si tratta di una malattia genetica che la bambina aveva ereditato da Holberg, la cosa ci potrebbe portare oltre. È possibile che la malattia sia collegata all'omicidio di quell'uomo." Non notarono l'automobile che si era allontanata dal cimitero sulla vecchia strada sterrata, a fari spenti, quasi invisibile nell'oscurità. All'altezza di Sandgerdi accelerò, i fari si accesero e in breve tempo raggiunse il furgone che trasportava la bara. Sulla statale per Keflavik il conducente della vettura fece sempre attenzione ad avere due o tre auto fra sé e il furgone. In questo modo seguì la bara fino a Reykjavik.

Quando il mezzo della polizia parcheggiò davanti all'obitorio sulla Baronsstigur, l'altra vettura si fermò a una certa distanza e il conducente rimase a guardare la bara che veniva portata dentro, finché le porte non si richiusero. Guardò ripartire il furgone e vide la donna che aveva accompagnato la cassa uscire dall'obitorio e salire su un taxi.

Quando tutto fu di nuovo tranquillo, l'automobile si allontanò in silenzio.