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Non c'era molto traffico sulla strada per Keflavik quella sera, ed Erlendur guidò alla massima velocità che la sua piccola auto giapponese vecchia di dieci anni gli consentiva. La pioggia rimbalzava sul parabrezza e i tergicristalli non riuscivano a liberare il vetro dall'acqua; Erlendur ripensò alla prima volta che era andato a trovare Elin, qualche giorno prima. Era come se non volesse più smettere di piovere.

Aveva ordinato a Sigurdur Oli di allertare la polizia di Keflavik e accertarsi che chiedessero aiuto a una squadra di Reykjavik. Avrebbe anche dovuto mettersi in contatto con la madre di Einar e avvertirla degli ultimi sviluppi. Voleva andare direttamente al cimitero, nella speranza che Einar fosse là con il corpo di Audur. Riusciva a pensare soltanto che Einar volesse restituire sua sorella alla terra.

Quando parcheggiò davanti al cancello del cimitero, vide la macchina di Einar: la portiera del conducente e una di quelle posteriori erano aperte. Erlendur spense il motore, scese sotto la pioggia e osservò l'automobile di Einar. Rimase ad ascoltare, ma sentì solo il rumore della pioggia che si rovesciava a terra. Non c'era vento. Alzò gli occhi al cielo nero. A una certa distanza vide una luce sopra la porta della chiesa e quando passò lo sguardo sul cimitero, distinse un lumicino nel punto in cui doveva esserci la fossa di Audur.

Gli sembrò di intravedere qualcuno che si muoveva vicino alla tomba.

E la piccola bara bianca.

Si incamminò con cautela, avvicinandosi senza fare rumore a quello che ritenne essere Einar. La luce proveniva da una potente lampada a gas che l'uomo aveva portato con sé e che aveva deposto per terra accanto alla tomba. Erlendur fece un passo avanti entrando nel cerchio di luce e l'uomo si accorse di lui. Distolse lo sguardo da quanto stava facendo e guardò Erlendur negli occhi.

Erlendur aveva visto le foto di Holberg da giovane e la somiglianza tra i due era innegabile. La fronte era bassa e appena arrotondata, le sopracciglia spesse, gli occhi ravvicinati, gli zigomi marcati nel viso magro e i denti un po sporgenti. Il naso era sottile e così le labbra, mentre il mento era pronunciato e il collo lungo.

Si guardarono negli occhi un istante.

"Lei chi è?" chiese Einar.

"Sono Erlendur. Il caso di Holberg è affidato a me." "La sorprende, quanto gli assomigli?" domandò Einar.

"C'è una certa somiglianza" rispose Erlendur.

"Sa che stuprò mia madre?" disse Einar.

"Ma non è colpa sua" ribadì Erlendur.

"Era mio padre." "Nemmeno questo è colpa sua." "Non avrebbe dovuto farlo" disse Einar indicando la bara.

"Ho ritenuto giusto farlo" spiegò Erlendur. "Abbiamo verificato che è morta della stessa malattia di sua figlia." "Voglio rimetterla al suo posto" disse Einar.

"Va bene" acconsentì Erlendur avvicinandosi in maniera impercettibile alla bara. "Sicuramente vorrà metterci anche questo, nella tomba. "Erlendur gli porse la valigetta di pelle nera che aveva tenuto in macchina da quando aveva lasciato la casa del collezionista.

"Che cos'è?" chiese Einar.

"La malattia" rispose Erlendur.

"Non capisco..." "È un campione biologico di Audur. Credo dovremmo metterlo insieme alla bambina." Einar guardò a turno la borsa ed Erlendur, incerto sul da farsi. Erlendur si fece ancora più vicino fino a trovarsi accanto alla bara, l'unica cosa che rimaneva a separarli, vi depose sopra la valigetta e indietreggiò di nuovo lentamente fino al punto in cui si trovava prima.

"Voglio essere cremato" disse Einar a un tratto.

"Ha tutta la vita per deciderlo" replicò Erlendur.

"Oh, sì, tutta la vita" disse Einar alzando la voce. "E cos'è? Cos'è la vita quando si muore a sette anni? Me lo sa dire? Che vita è, quella?" "Non ho una risposta" replicò Erlendur. "Ha con sé l'arma?" "Ho parlato con Elin" continuò Einar ignorando la domanda. "Probabilmente lo sa già. Abbiamo parlato di Audur. Di mia sorella. Sapevo di lei, ma ho scoperto che era mia sorella solo in seguito. Ho visto che l'avete riesumata. Capivo bene come doveva sentirsi Elin quando voleva scagliarsi contro di lei." "Come ha saputo di Audur?"

"Dalla banca dati. Ho trovato tutte le persone che sono morte di questa variante particolare della malattia. Allora non sapevo di essere figlio di Holberg e che Audur fosse mia sorella. L'ho scoperto dopo. Come pure ciò che riguarda la mia nascita. Quando l'ho chiesto a mia madre." Guardò Erlendur. "Dopo aver scoperto di essere un portatore sano." "Come ha collegato Holberg e Audur?" "Attraverso la patologia. Attraverso questa nostra variante. E il tumore al cervello che è raro." Einar tacque per un momento, e poi cominciò il suo racconto, in maniera metodica e senza digressioni né sentimentalismi, come se fosse preparato a dover dare un resoconto particolareggiato delle sue azioni. Non alzò mai la voce e parlò sempre con lo stesso tono basso, che talvolta si trasformava in un sussurro. La pioggia cadeva sulla bara e il rumore sordo che produceva risuonava nella quiete notturna.

Raccontò di come sua figlia si era ammalata in maniera improvvisa quando aveva quattro anni. Era stato difficile diagnosticare la malattia ed erano passati mesi prima che i medici giungessero alla conclusione che si trattava di una rara patologia alle cellule nervose. Pensavano che la malattia fosse ereditaria e che fosse limitata ad alcune famiglie, ma la cosa strana era che non compariva né nel ramo materno né in quello paterno della sua famiglia. Si trattava di una specie di deviazione o di variante che i medici avevano difficoltà a spiegare, a meno che non si ipotizzasse una qualche mutazione.

Stabilirono che la malattia era localizzata nel cervello e che avrebbe potuto portare la bambina alla morte in pochi anni. Cominciò un periodo che Einar definì impossibile da descrivere.

"Ha figli?" gli chiese invece.

"Due" rispose Erlendur. "Un maschio e una femmina." "Noi avevamo solo lei" disse. "E ci siamo separati quando se ne andò. In un certo senso non c'era più niente a tenerci uniti, se non il dolore e i ricordi e le lotte in ospedale. Quando fu tutto finito, era come se la nostra vita si fosse conclusa, come se non ci fosse rimasto altro."

Einar fece una pausa e chiuse gli occhi, come se volesse dormire. La pioggia gli rigava il viso.

"Fui uno dei primi dipendenti del nuovo Centro" continuò poi. "Quando questo ottenne il consenso per la banca dati e cominciammo a lavorarci su, fu come tornare a vivere. Non riuscivo ad accettare le risposte dei medici. Avevo bisogno di trovare altre spiegazioni. Tornai a interessarmi a come la malattia si fosse trasmessa a mia figlia, a com'era stato possibile. La banca dati clinica è collegata a un enorme database a carattere genealogico, ed è possibile farli interagire; se uno sa cosa sta cercando e ha il codice d'accesso, è possibile vedere dove sta la malattia e farla risalire lungo l'albero genealogico. Possono essere identificate anche le deviazioni. Le deviazioni come me. E Audur."

"Ho parlato con Karitas al Centro" disse Erlendur, chiedendosi come avrebbe dovuto agire. "Mi ha spiegato come ha fatto a ingannarli. E tutto così nuovo per me. Non sono in grado di capire esattamente cosa sia possibile fare con tutte le informazioni che sono state raccolte. Quello che contengono e quello di cui si può venire a conoscenza tramite il sistema." "Avevo cominciato a sospettare qualcosa. I medici di mia figlia sostenevano la teoria della malattia ereditaria. All'inizio ho semplicemente pensato di essere stato adottato, e certo sarebbe stato meglio così. Se mi avessero adottato. Poi ho cominciato a sospettare di mia madre. Con una scusa riuscii a farmi dare un suo campione di sangue. E anche uno di mio padre. Non c'era niente. In nessuno di loro. Ma c'era in me." "Lei però non ha nessun sintomo?" "Quasi nessuno" rispose Einar. "Ho perso quasi del tutto l'udito da un orecchio. E un tumore ai nervi uditivi. Benigno. E ho delle macchie sulla pelle." "Caffellatte?" "Vedo che ha studiato. Avrei potuto contrarre la malattia tramite un cambiamento genetico. Una mutazione. Ma ho pensato che l'altra spiegazione fosse quella più probabile. Alla fine mi rimasero i nomi di alcuni uomini con cui la mamma poteva aver avuto una relazione. C'era anche Holberg. La mamma mi raccontò subito tutta la storia, quando le rivelai i miei sospetti. Che aveva taciuto dello stupro, e che non avrei mai dovuto soffrire per come ero stato concepito. Al contrario. Rimanevo comunque il loro figlio più piccolo. L'ultimo nato." "Lo so" disse Erlendur.

"Ma che bella notizia!" urlò Einar nella quiete notturna. "Non ero figlio di mio padre; il mio vero padre era lo stupratore di mia madre; ero figlio di uno stupratore; aveva instillato in me dei geni corrotti che non mi hanno quasi toccato, ma hanno causato la morte di mia figlia; avevo una sorellastra che è morta della stessa malattia. Non sono ancora riuscito a capire la cosa, devo ancora capacitarmene. Quando mia madre mi ha raccontato di Holberg, mi è salita una rabbia dentro e ho perso il controllo di me stesso. Era un uomo repellente." "Ha cominciato con le telefonate." "Volevo sentire la sua voce. Tutti i bastardi vogliono conoscere il proprio padre, no?" disse Einar con un sorriso che gli increspava le labbra. "Anche se per una sola volta."