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Strumenti musicali Righi

 

 

 

 

 

 

 

La polvere si ammonticchiava sui vinili impilati l’uno sull’altro nel retrobottega del negozio Strumenti musicali Righi. Ciascuno di essi raccontava una storia, un’epoca, custodiva voci e musica, ora sopite in scatole di cartone. Facevano tutti parte della raccolta privata di Franco Righi, che aveva iniziato a collezionare quando era ancora molto giovane. Non capiva niente di musica nella sua accezione tecnica, ma amava ascoltarla. Aveva un impiego alle poste e una vita piuttosto ordinaria, che gli stava sempre più stretta. Trovava rifugio, però, tra le note lunghe dei sassofoni e le rullate potenti e ritmiche delle batterie. Amava il jazz e si detestava per non avere alcun talento o inclinazione. Eppure non riusciva a ignorare il richiamo di quegli strumenti.

Una sera, mentre ascoltava Strange Fruit di Billie Holiday, si era reso conto che quelle note lo colpivano allo stomaco come un pugno poderoso. Così, ammaliato dalla musica, si era sentito in dovere di condividerne la bellezza: doveva a tutti i costi permettere anche ad altri di ascoltarla, toccarla. Era stato a quel punto che aveva lasciato il posto sicuro da impiegato e aveva chiesto un prestito per aprire un negozio. Non uno qualsiasi. Un negozio di strumenti musicali. La parte più difficile era stata trovare un locale che potesse ospitare il suo sogno. Aveva fatto il giro di tutti i locali disponibili, nessuno andava bene. Troppo grandi, troppi angusti, troppo umidi e poco illuminati. La ricerca si era protratta per mesi, fino a quando non aveva trovato un locale sui Navigli; gli era sembrato da subito perfetto, perché aveva una grande vetrina che lasciava entrare molta luce all’interno e il pavimento profumava di legno. Appena Franco vi aveva messo piede, aveva capito che quello sarebbe stato il posto ideale per il suo negozio. C’era anche un retrobottega nel quale avrebbe creato un deposito. Dopo pochi giorni dalla visita, aveva firmato il contratto e aveva iniziato a muoversi per le autorizzazioni, le registrazioni e gli ordini della merce. Aveva investito un capitale, ma non se ne era curato, poiché era certo che avrebbe recuperato tutto. All’apertura, il 7 maggio del 1950, in vetrina erano stati esposti pregiati strumenti e edizioni speciali di vinili importati dagli Stati Uniti e ancora inediti in Italia. L’amore per quel mestiere, la dedizione e la passione lo avevano portato a essere un punto di riferimento per gli amanti della musica di tutta Milano e non solo. Aveva guadagnato la loro stima e con il tempo la loro amicizia. Conosceva quasi tutti i musicisti e i direttori di orchestra che avevano suonato a La Scala.

Anno dopo anno, Strumenti musicali Righi aveva preso un posto nel cuore dei milanesi, passando di padre in figlio.

E ora toccava ad Andrea, suo nipote, che aveva imparato ad amare la musica dal suo primo respiro. Era fiero di ciò che Franco aveva costruito, eppure sentiva che era giunto il momento di aggiornare l’attività del negozio, perché il tempo dei vinili era finito, se non per qualche collezionista nostalgico. Ormai in pochi li acquistavano, tanto che lui e suo padre avevano preferito raccoglierli tutti e farne una piccola collezione privata che mostravano solo ai veri intenditori. Riuscivano a guadagnare dalla vendita degli strumenti, merce per cui non si era mai registrato un calo, nonostante altri negozi ne avessero risentito.

Il suo lavoro gli piaceva, lo faceva sentire appagato.

Andrea lanciò un ultimo sguardo alla stanza illuminata da una luce calda, e poi la spense, tornando dietro al bancone, dove suo padre era alle prese con i conti dell’ultimo mese. Riccardo era a testa china sull’agenda su cui annotavano entrate e uscite, teneva gli occhiali sulla punta del naso, con una mano armeggiava su una calcolatrice, con l’altra scriveva, sollevando di tanto in tanto la stanghetta della montatura.

«Posso esserti utile, papà?», domandò Andrea, andandogli vicino.

L’uomo scosse la testa, arricciando il labbro. Si passò una mano sulla barba e borbottò qualcosa.

«Sicuro?», lo incalzò il ragazzo.

Riccardo sospirò. «Ma sì, certo».

«Sembri pensieroso».

«Sono solo un po’ stanco. A volte mi spaventa l’idea di lasciarti da solo a gestire tutto».

Andrea rimase in silenzio, era la prima volta che il padre toccava quell’argomento.

«Be’, credo tu sia ancora molto giovane. E poi, non è stato così anche per te, quando il nonno ti ha lasciato il negozio?».

«Sì, ma è davvero ciò che vuoi? Io non ho avuto scelta, ma tu cosa desideri?».

Il ragazzo sembrò colpito dalla sua domanda. Non glielo aveva mai chiesto; in quel negozio c’era praticamente nato e non aveva mai pensato di fare altro. Amava la musica e soprattutto il pianoforte, tanto da essersi iscritto al conservatorio ed essersi diplomato un paio di anni prima.

Rifletté qualche istante e poi rispose deciso: «Sì, è quello che voglio».

«Bene, allora», sospirò Riccardo, tornando con gli occhi sul registro.

In quel momento uno scampanellio attirò l’attenzione di Andrea.

La porta si aprì rivelando la figura di una donna anziana, col viso segnato dagli anni. Eppure aveva ancora bellissime mani. Andrea le aveva notate la prima volta che l’aveva vista in negozio, molti anni prima. Era una cliente abituale, comprava spartiti per i suoi allievi, insegnava canto e viveva all’ultimo piano del palazzo in cui si trovava il negozio. Aveva scoperto questa e altre cose su di lei negli anni, tra un buongiorno e un arrivederci. Si chiamava Margareth aveva un vago accento americano. Il ragazzo era sempre stato incuriosito da quella figura dall’aspetto così nostalgico, ma non le aveva mai chiesto nulla di più di quello che lei gli diceva spontaneamente. Molte volte la donna faceva visita al negozio solo per passare in rassegna con lo sguardo i vari strumenti; non comprava nulla, entrava e dava un’occhiata, per poi salutare con un sorriso.

Riccardo diceva che era mezza matta, ma finché acquistava era pur sempre una buona cliente. Andrea era persuaso che un tempo quella donna fosse stata speciale, e spesso si domandava come fosse ora la sua vita in quell’appartamento sui Navigli.

«Buongiorno», esordì Margareth, avanzando di qualche passo.

«Buongiorno a lei», risposero padre e figlio.

«Posso esserle utile?», chiese Andrea, con fare gentile.

La donna agitò appena la mano esile e si inoltrò nel corridoio andando verso il reparto dei pianoforti.

Riccardo scosse la testa. «Non ho mai capito cosa venga a vedere qui con tale frequenza».

Il figlio scrollò le spalle. «Magari le piace solo guardare gli strumenti».

«Mah, sarà».

Andrea fece il giro del bancone, seguendola con lo sguardo. Lei si fermò in fondo al corridoio, dove era esposto un Bösendorfer: un pezzo d’epoca lasciato in negozio da un rigattiere qualche giorno prima.

Il ragazzo si avvicinò a Margareth, incuriosito. «Le piace?», le domandò.

«Molto. Conosco bene questo modello», rispose lei.

«Lo ha suonato?».

Lei sospirò, e per un attimo s’impadronì dei suoi occhi un’espressione che Andrea non seppe interpretare.

«No, non io», mormorò lei.

«Vuole sentirlo?»

«Come?»

«Vuole sentirne il suono?».

Margareth rimase in silenzio e deglutì. «Sa che non lo so?».

«Come sarebbe a dire?», lui si accigliò, sedendosi sullo sgabello.

«Niente, lasci stare», ribatté, voltandosi per cambiare reparto.

Quando Andrea avvertì i passi della donna, posò una mano sulla tastiera ingiallita, accarezzandola dolcemente come fosse un gatto. E iniziò a suonare. Chiaro di luna di Dedussy si liberò dalla tastiera come uno spettro pronto a raccontare la sua malinconia.

Lei si fermò e si voltò.

Andrea adorava quella melodia, e amava intrattenere i clienti, quando percepiva dai loro occhi che qualcosa non andava per il verso giusto. E stavolta era il caso di Margareth.

Le dita sfioravano i tasti come fanno le labbra nei primi baci, soffermandosi poi con più forza. Non smetteva di suonare, non lo fece nemmeno quando la mano della donna si posò sulla sua spalla.

La musica si ridusse a un sussurro, a un sospiro di innamorati, poi cessò.

«È proprio questo», disse la donna.

«Che cosa?», chiese Andrea.

«Il suono che ricordavo».

«Be’, i Bösendorfer hanno un suono diverso da quello limpido di altri pianoforti: più corposo, ricco, a tratti cupo. È perfetto per i notturni».

«Suona bene, sa?».

Andrea scrollò le spalle. «Nulla di eccezionale».

«Mi ha ricordato qualcuno».

«Chi? Se posso chiedere».

Margareth chiuse gli occhi e a palpebre tese sembrò rovistare nella memoria. «Nessuno».

«Ma ha appena detto che le ricordo qualcuno».

«Già, ma nessuno che sia ancora in vita».

«Mi dispiace».

«Solo la musica è immortale, mio caro ragazzo. E ogni altra arte».

Andrea pensò che quella donna avesse ragione, che l’arte fosse l’unica cosa a sopravvivere agli inganni del tempo e alla fugace esistenza umana.

«La penso come lei», fece. «Ma la prego, mi dia del tu».

Lei annuì. «Ti va di suonare ancora per me, ragazzo?», continuò.

Lui sorrise e tornò con le dita sulla tastiera.