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Un motivo per tornare
Era stato difficile per Andrea spiegare a suo padre la ragione della partenza improvvisa di Ervea. Aveva dovuto farlo, perché non voleva che lui cambiasse la sua opinione sulla ragazza. Infatti, quando Riccardo aveva saputo la verità, aveva provato comprensione per lei.
Un pomeriggio erano da soli in negozio, non c’era nemmeno un cliente. Passavano le ore ad attendere che la porta si aprisse e a guardarsi in faccia, fino a quando, a un certo punto, Riccardo andò vicino al figlio.
«Siamo sciocchi a volte, noi uomini», esordì.
Il figlio aggrottò la fronte, non capendo a cosa si riferisse. «Perché?»
«Mah, ci lasciamo condizionare da tante cose: dalla paura, dal risentimento, dalla rabbia».
«D’accordo, ma non comprendo dove tu voglia arrivare. Ti riferisci a Ervea?»
«Sì, certo. Si vedeva lontano un miglio che eravate pazzi l’uno dell’altra».
«Scusa, te ne eri accorto?»
«Da come l’hai guardata il primo giorno che è entrata qui, poi ne ho avuto conferma osservandovi. Nei gesti, nei sorrisi, negli sguardi affamati».
«Non era evidente per me, non so come tu lo abbia percepito».
«Perché tu sei stato annebbiato e ti sarai trovato coinvolto senza capire come».
«Esatto, il punto è questo. All’inizio sono stato gentile perché mi sembrava di…».
«Di riavere qui Flavia?».
L’altro annuì.
«Per via del violino, vero? Ti ha ricordato lei per quello?».
«Sì, anche per quello».
«Be’, fatti dire che ciò che provi per Ervea è molto diverso».
«E allora perché non mi sono posto questi interrogativi prima, con altre ragazze? Perché ho tanti dubbi solo con lei? Proprio con lei che non vorrei mai far soffrire?»
«Hai risposto da te alla tua domanda. Il punto è questo: hai paura di farla soffrire. Stai mettendo in piedi scuse, cercando di trovare giustificazioni al tuo comportamento, ma la verità è che hai una paura folle di lasciarti andare del tutto».
Andrea tacque per qualche istante. «Sì, credo sia questo. Ha già sofferto abbastanza, come posso essere io un ulteriore motivo di dolore se le cose dovessero andare male?»
«Chi dice che debbano per forza andar male?».
«Sono mai andate bene fino a ora?»
«Sciocchezze, vuol dire che non erano le persone giuste. Chi ti dice che Ervea non lo sia?»
«Non lo so, vorrei capirlo con il tempo».
«Nella musica, nello sport e nell’amore, i tempi sono fondamentali».
«Già».
«Perché l’hai lasciata andare così?»
«Io non ho lasciato niente, è lei che è andata via senza dire una parola».
«Va’ a trovarla».
«Che cosa? A Lecce?».
Andrea fece spallucce. «E perché no? Torna al paese di tua madre, magari potresti portarla con te, così rivedrà i parenti che non vede da un pezzo. Ne sarebbe felice».
«Non posso».
«E perché?»
«Quando, e se farò un simile passo, sarà perché saprò con convinzione cosa sento per lei».
«Non ne sarai certo più convinto se le stai lontano. Ma dico, guardati, ciondoli per il negozio come uno zombie tutto il giorno. Non sorridi più, sei persino scostante con i clienti».
Andrea non se ne era accorto e si dispiacque.
«Chiamala e dille che parti», lo incalzò, mettendogli un braccio intorno al collo.
In quell’istante, i campanelli della porta suonarono ed entrò Margareth.
«Oh, la mia cliente preferita», fece il ragazzo.
Lei sorrise con gli occhi. «Suoneresti qualcosa per me, mio caro?».
Riccardo diede una pacca sulla spalla del figlio e lo lasciò prendersi cura della vecchia amica.
«Abbiamo solo pianoforti nuovi in negozio, Margareth, vanno bene lo stesso?»
«Certo che sì, ho voglia di sentirti suonare».
Andrea la prese sottobraccio, conducendola verso i pianoforti in fondo al negozio, gliene fece scegliere uno e la fece sedere accanto a sé sul seggiolino. La guardò con tenerezza e posò le mani sulla tastiera. Prima che le dita toccassero la prima nota, nell’ambiente si sentì il suono dissonante di più tasti premuti insieme con violenza. Andrea risollevò subito il corpo di Margareth privo di sensi, con un’ombra di paura nel cuore.
«Che succede?». Riccardo piombò davanti a loro.
Quando vide la donna tra le braccia del figlio, si sentì in preda al panico.
«Chiamo un’ambulanza», fece, saettando verso il bancone dove era il suo telefono.
Con il piccolo corpo della sua vecchia amica tra le braccia, Andrea si ritrovò con il viso in lacrime e il cuore stretto in un pugno vestito di spine. I minuti passavano, mentre lei rimaneva lì, inanimata come una bambola di pezza.
Provò un lieve conforto solo quando sentì le sirene dell’ambulanza guizzare fuori dalla vetrina. Pochi istanti e Margareth fu portata via, lasciandolo con le braccia vuote e gli occhi pieni di paura.
Ervea fissava il vuoto, seduta sul divano di casa. Erano trascorse due settimane dalla sua partenza e non aveva ricevuto altri messaggi o chiamate da Andrea. Immaginò che fosse un chiaro segnale di quanto lei contasse per lui. Eppure se solo le avesse telefonato, lei avrebbe risposto, perché aveva un disperato bisogno di sentire la sua voce. Le mancava, così come le mancavano Milano, la sua amica Margareth ed Eleonora. La cugina era sempre presente con telefonate e messaggi, le chiedeva in continuazione come stava e se poteva fare qualcosa per lei. Ma nessuno poteva fare niente. Sua nonna Nice le diceva sempre che le cose accadono se davvero le si vuole. Tuttavia, Ervea aveva compreso che non è sempre vero che volere è potere. Volere è desiderare. Desiderare senza raggiungere l’oggetto del desiderio è un po’ sfiorire. E lei stava sfiorendo per lui, aveva perso l’appetito e dormiva sempre meno. Di notte, però, lui andava a trovarla nel quartiere dei sogni, dove lei lo amava fino al risveglio.
Trascorsero altri giorni, senza che lei trovasse la voglia di reagire.
Una mattina, Marta, al ritorno dalle lezioni a scuola, la trovò ancora in pigiama, spalmata sul divano a guardare il soffitto.
«Oh, be’, che vitalità, figlia mia», esordì, lasciando la borsa sulla consolle.
Ervea prese un cuscino e se lo premette in faccia, mugugnando qualcosa.
«D’accordo, ora soffri, ma pensa ai momenti belli che hai attraversato per arrivare a questo, pensa che sei tornata a suonare».
«Ah, di certo ora non voglio saperne più», sbottò.
La donna sbuffò e, arresa, si allontanò. Non avrebbe potuto fare altro per Ervea, sapeva che ne sarebbe venuta fuori, ma era giusto che lei vivesse appieno quel momento e che lo lasciasse andare una volta satura.