17

La mansarda

 

 

 

 

 

 

 

Ervea non aveva mai raccontato a nessuno quello che era accaduto la notte del 16 agosto del 1989. Credeva che parlarne avrebbe solo rinnovato il suo dolore, riportandola a quella scena, con il viso premuto contro l’asfalto e i fari delle auto in lontananza. Invece, era come se tutto il groviglio che aveva dentro si stesse sciogliendo.

Andrea si sentiva smarrito, non sapeva in che modo esserle di conforto, se non abbracciandola. Non osò immaginare il suo dolore, ma in quell’istante capì molto di più di quella ragazza dallo sguardo perso e il sorriso sempre dipinto sulle labbra.

Ancora stretta nel suo abbraccio, Ervea singhiozzava. A un tratto si fermò e si scostò.

«Forse non sarei dovuta venire a Milano, non avrei dovuto accettare di lavorare qui», mormorò.

Lui trasalì. «Suvvia, fanciulla».

«Non mi prendi mai sul serio, tu».

Lo sguardo di Andrea si fece scuro. «Invece lo faccio, è che cerco di alleggerire, di portare un po’ di luce lì dove regna l’ombra. Mio nonno Franco mi diceva spesso che ero il sole dopo la pioggia. Fa stare bene fare qualcosa per gli altri».

Ervea riconobbe in lui una persona altruista, che non ha paura di donarsi. Lei, invece, a volte si era sentita egoista, sempre troppo presa dai suoi dispiaceri.

«E comunque, io credo invece che tu dovessi venire qui, proprio qui», continuò lui.

«Per soffrire?»

«Sì».

Poi le prese una mano. «Dovevi affrontare tutto questo, prima o poi».

«Per quale ragione?»

«Per essere libera».

«Da cosa?»

«Libera da te stessa, dal tuo passato. Libera di continuare la tua vita».

«Ma se questa libertà passa attraverso il dolore, allora…».

«Tutto passa prima dal dolore, Ervea. È il più grande maestro che abbiamo. È una via necessaria per essere ciò che siamo».

«Allora dimmi, hai mai perso qualcuno?»

Andrea deglutì e abbassò lo sguardo. E scelse di mentire. «No, e so che mi dirai che non posso capirti».

«Infatti è così».

«Ma posso provare ad aiutarti».

«Perché?»

«Te lo immagini se tu non ci fossi? Dovrei stare tutto il tempo da solo a sopportare mio padre!», disse, ironico.

«Ah, quindi vuoi aiutarmi solo perché la mia presenza qui è indispensabile?»

«Esattamente», ribatté, sfoggiando un sorriso.

Lei lo imitò e si alzò, lasciandogli la mano. Rimase in silenzio per un po’, appoggiando le spalle a una teca di vinili.

«Lo Steinway & Sons su cui hai suonato è lo stesso modello che era stato regalato a mio fratello».

L’aria in quella stanza divenne gelida, Andrea non seppe cosa dire. Immaginò cosa avesse provato Ervea nel vederlo e nel sentirlo suonare.

«Se lo avessi saputo non lo avrei toccato», rispose, con la voce che tremava appena.

Lei sollevò le spalle. «Credo fosse inevitabile, e poi hai detto tu che si passa sempre dal dolore».

«Sì, certo, ma…».

«Per un attimo, sentendo quel pezzo che avete suonato, ho sentito mio fratello, l’ho visto. È stato come tornare indietro».

«Non suoni più per questo?»

«E come potrei farlo ancora? La sola idea mi distrugge».

Sospirò. «Amavo suonare più di qualsiasi altra cosa al mondo. Il mio violino era il mio mondo. Come lo era Dario. Suonavamo insieme e ci sembrava di essere invincibili, e lo eravamo, perché eravamo felici».

«Proprio per questo non avresti dovuto smettere».

«Non ho avuto scelta, ogni volta che guardavo il violino mi sentivo esplodere di rabbia. Per questo sono andata a vivere da mia nonna. A casa dei miei c’erano ancora le sue cose, il suo pianoforte, tutta la vita che lui e io avevamo vissuto. E tutta quell’esistenza non era più la stessa, non c’era più. Niente era più come prima, la morte di Dario ci ha segnati. Ci ha fatto allontanare». Si interruppe e riprese poco dopo. «I miei genitori si sono separati appena un anno dopo».

«A volte il dolore, invece di unire, separa».

«Già. Penso che mio padre non abbia mai perdonato a mia madre di averci iniziato alla musica. Una volta gli sentii dire che era tutta colpa sua se Dario non c’era più».

«Non lo era, Ervea. Certe cose accadono e basta».

«Sarà…».

Andrea cercava le parole adatte per confortarla, ma si rendeva conto che era difficile comprendere davvero il suo dolore e cercare di acquietarlo. Sapeva solo che avrebbe trovato il modo di risvegliare in lei l’amore per la musica.

«Quindi non hai portato con te il violino?», domandò, poco dopo.

«A Milano? Certo che no. L’ultima volta in cui ho pensato di suonarlo, è stato per mia nonna. Ma è morta prima che potessi farlo. Per me quello strumento non esiste più. Venendo qui, mi sono illusa di mettere una croce su tutto il mio passato e ricominciare una vita nuova. Non pensavo che venisse a rincorrermi. Invece, è bastato sentire quelle note».

«Be’, i suoni e i profumi ci riportano indietro come nient’altro può fare».

«Poi però è molto difficile tornare alla realtà».

«Questo sta a te, Ervea. Non si vive intrappolati nel passato o di rimpianti e nostalgie. Tutto quello che abbiamo vissuto e che siamo stati va lasciato in una stanza della memoria. Sì, ogni tanto si torna ad aprire la finestra, per far filtrare un po’ di luce e aria, ma poi si deve passare alle altre stanze, o magari fare un giro in un bel giardino».

Ervea scosse la testa, in segno di resa. «Mi piacciono i giardini».

«Oh, bene. Vedi?»

«Mia nonna materna ne aveva uno. Era un giardino coperto, sul retro della sua villetta. Quanti pomeriggi ho trascorso lì dentro, seduta sul dondolo vicino al gelsomino. Ricordo che adoravo camminare scalza sul prato. Chissà perché ho smesso di farlo».

«Be’, magari potresti rifarlo qui».

«A Milano?», domandò, incredula.

«Non conosci niente di questa città, vedo».

«Uhm, in effetti no».

«Ti stupirò con effetti speciali».

Sorrisero, e in quel momento la porta si aprì. Era Riccardo, che li invitava a tornare in negozio.

Andrea alzò gli occhi al cielo e assecondò la richiesta del padre, facendo strada a Ervea.

«Ci sono dei clienti da servire, Andrea», lo incalzò il padre, che intanto aveva raggiunto il bancone.

Andrea si apprestò a raggiungere dei ragazzi che attendevano davanti a una batteria: una Tamburo in acero rivestita di madreperla.

Ervea lanciò uno sguardo ai due pianoforti che ora tacevano in un angolo.

Si ricordò che aveva la vetrina da allestire, così riprese a fare ciò che le era stato richiesto, scambiando ogni tanto uno sguardo con Andrea, intento a parlare con i clienti. Quando l’affluenza si calmò, lui la aiutò a sostituire lo Steinway con l’altro modello, quello tanto caro a Margareth.

Ervea accarezzò la tastiera del pianoforte, prima di abbassare il coperchio.

«Mi dispiace avervi interrotto, suonavate così bene», disse lei.

«Era la prima volta che la sentivo suonare. Per anni l’ho vista in questo negozio, tanto che mi sono abituato alla sua presenza, ma non l’avevo mai vista alla tastiera».

«Devi esserle molto affezionato».

«Sì. È come una nonna per me. E poi c’è qualcosa nel suo sguardo che mi fa pensare che abbia bisogno di conforto. Viene qui per un motivo, perché forse nella musica trova una consolazione».

«Sei una bella persona, Andrea».

«Non farmi arrossire, non faccio nulla di concreto per lei, ma ti confesso che vorrei».

«E cosa vorresti fare?»

«Vorrei che non si sentisse sola». Restò in silenzio per un po’, rimanendo flesso sulle ginocchia. Poi si rialzò e guardò Ervea.

«Puoi fare una cosa per me?», domandò.

«Che cosa?».

Andrea si guardò alle spalle, accertandosi che la situazione in negozio fosse tranquilla.

«Puoi andare a trovare Margareth?».

Lei si accigliò. «Quando?»

«Quando vuoi, anche ora».

«Posso chiederti perché questa improvvisa apprensione?»

«È stata lei a suggerirmi di raggiungerti, quando sei fuggita in lacrime dopo il nostro duetto. Immagino che le faccia piacere sapere che stai meglio».

«Hai ragione. Ma cosa dirà tuo padre se lascio il negozio?»

«Tranquilla, ci penso io».

«Grazie, ci vado adesso. Hai detto che vive in questo palazzo, giusto?».

Lui indicò con un dito il soffitto. «Sì, all’ultimo piano, da quel che so».

«Da quel che sai? Mi mandi in avanscoperta senza coordinate precise?», scherzò.

«Conto sul suo senso dell’orientamento, fanciulla», rispose.

«D’accordo, Andrea, coprimi le spalle».

Lui rise, facendo un cenno.

Ervea prese la borsa e lasciò il negozio. Giunta davanti al portone, si mise a fissare il citofono. C’erano dodici nomi, non sapeva a quale campanello suonare, Andrea non le aveva detto il cognome di Margareth. Stava per tornare per chiederglielo, quando una signora con un cappottino in tweed aprì il portone ed entrò.

«Mi scusi», la fermò lei.

La donna si voltò. «Mi dica».

«Abita qui la signora Margareth?».

«La vecchia della soffitta?».

«Come, scusi?».

«Ti riferisci all’ex insegnante di canto, giusto?»

«Sì, lei».

«La trovi in cima alle scale», disse, entrando nell’atrio umido in cui ogni suo passo riecheggiava. La donna aprì l’ascensore ed entrarono insieme. Premette il pulsante del terzo piano e poi indicò a Ervea il sesto.

«All’appartamento di Margareth ci arrivi con una rampa di scale al sesto piano», fece, mentre l’ascensore si arrestava.

«Grazie», rispose Ervea, con un sorriso.

«Di nulla, buona fortuna».

«In che senso?»

«Per come la conosco io è una vecchia bisbetica che non lascia avvicinare nessuno».

Ervea si chiese come mai quella donna avesse un’opinione di Margareth così diversa da quella che si era fatta lei, vedendola in negozio.

«Non mi è sembrata affatto così», ribatté.

L’altra scrollò le spalle e uscì, salutandola, mentre Ervea continuava a salire fino al sesto piano.

Si trovò su un pianerottolo con due porte e delle scale che la condussero a una porticina. Il soffitto era basso e coperto di umidità. Pensò che fosse una mansarda o uno spazio comune per i condomini. Magari aveva capito male le indicazioni della donna, così fece un passo indietro, verso il pianerottolo, ma sentì un rumore provenire dall’altra parte della porta. La raggiunse e accostò una mano per bussare. Un tocco, un secondo. Nessuno rispose. Eppure aveva sentito distintamente il rumore di una sedia che raschiava sul pavimento, provenire dall’interno.

«C’è qualcuno?», domandò, accostando un orecchio.

«Chi vuole saperlo?», rispose una voce.

Ervea riconobbe che era di Margareth, eppure sembrava inasprita, quasi non fosse la stessa persona.

«Sono Ervea, la ragazza che lavora nel negozio Righi», rispose, pensando che l’altra si sentisse rassicurata da quella informazione.

Seguì un momento di silenzio, animato poi dai passi incerti della donna e dallo scatto della serratura.

La porta si scostò appena, mostrando il viso esangue di Margareth.

«Perché sei qui?», le domandò, spostando gli occhi oltre le spalle della ragazza.

«Volevo ringraziarla».

«Per cosa?»

«Per aver suonato quel brano e… per essersi preoccupata per me».

«Oh, tranquilla, mia cara».

In quel momento la sua voce tornò quella che Ervea aveva sempre sentito.

«Ha bisogno di qualcosa?», domandò la ragazza.

La donna abbassò lo sguardo e serrò le labbra secche. «Di molte, in realtà».

«Be’, cominci con una».

«Non ora, mia cara», disse, allontanando il viso e socchiudendo la porta su cui la ragazza posò una mano.

«Margareth, sono qui per lei…».

L’anziana sospirò e aprì, mostrando una stanza piccola con il tetto inclinato.

«Entra pure», le suggerì, facendo un passo indietro e dirigendosi verso la poltroncina in fondo.

Ervea la seguì e chiuse la porta alle sue spalle, guardandosi intorno. Si rese conto delle condizioni in cui viveva Margareth e si sentì impotente.

«Non lascio entrare mai nessuno qui», riprese, guardando verso la finestra.

«Perché?»

«Perché non ho nessun posto su cui far accomodare gli ospiti», rispose, sedendosi sulla poltroncina vicina a un pianoforte che aveva visto giorni migliori.

«Solo per questo?». Fece qualche passo e le si avvicinò.

«No, non è solo per questo».

«E per cosa?»

«Non mi piacciono le persone», ammise.

Ervea comprese il motivo per cui la donna al piano di sotto aveva avuto quell’impressione su di lei.

«Be’, non si direbbe. Con noi è gentile, soprattutto con Andrea».

Margareth sorrise. «Mi ricorda qualcuno».

«Chi?»

«Qualcuno che non posso dimenticare, che continua a vivere qui», si indicò una tempia. «E lì». Indicò il pianoforte.

«Uhm, io credo che lei abbia una storia da raccontare».

«Può darsi», arricciò il labbro.

«Vuole?».

«E tu, vuoi sentirla?».

Ervea spostò lo sgabello del pianoforte e si sedette.

«Sì».