21
Il nuovo inizio di Margareth
Il giorno seguente, Ervea era decisa a fare di nuovo visita a Margareth. Sarebbe andata a trovarla dopo la chiusura delle 13:00. Ma prima avrebbe dovuto affrontare una mattinata in negozio. Non che le pesasse, anzi, cominciava ad amare quel lavoro.
Quando arrivò, trovò Riccardo chino sul registro. Si salutarono e lei prese posto al bancone, chiedendosi se Andrea fosse nel retrobottega.
«Andrea è di là?», chiese lei, infatti, facendo un cenno verso la porticina sul retro.
Riccardo annuì.
«Ah, cara, ti ho preparato una lista di vinili da ripulire e sistemare in altre scatole», le disse.
«Perché in altre? Non intendi mica venderli?»
«Uh no, non lo farei mai. Un amico collezionista mi ha proposto di esporre i miei pezzi più vecchi a una mostra del vinile. Si terrà all’aperto sui Navigli. Bello, no?»
«Altroché! Saranno solo in mostra o li si potrà anche ascoltare?».
Lui la osservò. «Non avevo pensato all’ascolto, potrebbe essere un’idea carina».
«Immagina l’atmosfera sui Navigli, la gente che passa e si ferma ad ascoltare».
«Hai ragione, devo chiedere al mio amico se sarà possibile. Sai, ci saranno altri collezionisti, non posso agire di testa mia».
«Giusto. Io comunque potrei aiutarti nell’allestimento, se vorrai».
«Ma certo, dalla selezione all’allestimento. Quindi, comincia», fece, sventolandole un foglio con i titoli dei vinili elencati.
Con la lista in mano, Ervea entrò nel retrobottega, trovando Andrea seduto sul divanetto con la testa all’indietro.
«Buongiorno, bell’addormentato», esordì lei.
Lui sollevò il capo e la guardò. «Buongiorno, fanciulla. Non dormivo affatto, pensavo».
«A cosa?»
«A un sacco di cose».
«Dimmene una».
«Mi chiedevo, per esempio, quando e se suonerai il violino bianco».
«In realtà ieri sera ci ho provato, ma mi sono fermata».
«Perché?»
«C’è un tempo per tutte le cose, e non è ancora il momento per quel violino».
Lui sembrò rammaricato dalla sua risposta.
«Ma prometto che lo suonerò».
Gli occhi di Andrea si riempirono di gioia. «Davvero?»
«Sì, certo».
«Lo suonerai per me?»
«Se ci tieni…».
«Sì, molto».
Ervea non poté fare a meno di pensare che lui avesse molto a cuore che lei tornasse a suonare. Forse Eleonora aveva ragione, in fondo.
«Tuo padre mi ha dato una lista di vinili da preparare per la mostra», cambiò argomento.
«Sì, lo so», rispose, prendendo una scatola di cartone e poggiandola sul divanetto. «Mettiamo qui quelli della lista».
«Mi aiuterai tu?»
«Sì, finché non mi chiamano in negozio. Fa’ vedere», disse, fissando gli occhi sul foglio e avvicinandosi a lei tanto da farle sentire il respiro sul collo.
«I primi cinque li trovi lì», le indicò uno scaffale alle sue spalle.
Iniziarono a sfogliare le copertine, guardandole per controllare titolo e autore. Nella lista c’erano un centinaio di dischi, cercarli li avrebbe tenuti impegnati per almeno due o tre giorni.
Ervea scorreva gli album, ritrovandone qualcuno che aveva già visto nel soggiorno di casa sua. Tutta la storia del jazz passava ora sotto le sue dita e si sentiva impaziente di riascoltare anche uno solo di quei pezzi.
Riuscì a trovare dodici dei vinili della lista, che ripose con cura nella scatola.
Quando chiusero la saracinesca, Ervea corse alla baguetteria di fronte al loro negozio e comprò due baguette. Con il pane caldo sotto il braccio, suonò a uno dei campanelli del palazzo, perché le aprissero.
Qualcuno per fortuna lo fece. Prese l’ascensore e, quando arrivò all’ultimo piano, proseguì sulla scaletta per la mansarda.
«Sono di nuovo io, Ervea», esordì la ragazza.
Dall’altra parte si udirono dei passi e poi lo scatto della serratura.
«Buongiorno cara, immagino tu sia qui per ascoltare il seguito della storia».
Ervea annuì e le mostrò le baguette.
«Per la storia e per queste. Pranziamo insieme, ti va?».
La donna rimase a guardarla per qualche istante, come se non avesse sentito bene.
«Pensavo che ti facesse piacere mangiare in compagnia. Io detesto farlo da sola», continuò.
«Anche io, mia cara. Vieni, entra».
«Non disturbo, vero?».
Margareth le fece segno di accomodarsi sulla poltroncina, ma Ervea preferì il seggiolino del pianoforte. Si sedettero una di fronte all’altra, mentre la ragazza scartava le baguette e ne porgeva una alla nuova amica.
La donna rise. «Non sono più capace di mangiare una cosa come questa. Una volta avevo denti forti per mordere tutto, persino la vita».
«Non ci avevo pensato».
«Non preoccuparti, ci impiegherò solo un po’ di più».
«Tanto sono libera fino alla riapertura».
Margareth stava per dare un morso, quando si fermò. «Perché mi dedichi il tuo tempo?»
«Sono curiosa di conoscere la tua storia e… anche tu mi ricordi qualcuno».
«Chi?»
«Mia nonna. L’ho persa qualche mese fa».
«Mi dispiace».
Abbassò lo sguardo. «Non è la sola persona che ho perduto».
«Chi altri hai perso?»
«Prima la tua storia». Diede un morso alla baguette, impaziente di ascoltarla.
La donna annuì, portandone piccoli bocconi alle labbra. Riprese a raccontare dalla perdita di sua zia Prudence e delle difficoltà di un’adolescenza fatta di privazioni e solitudine. Aveva scoperto presto il mondo degli adulti, dovendo cavarsela da sé. Suo padre se ne era andato e sua madre cercava di mantenere entrambe come poteva, facendo la domestica e occupandosi delle pulizie in due teatri della città. Era stato in uno di quelli che Margareth aveva scoperto la magia del palco. Un pomeriggio, era andata ad accompagnare la madre e si era seduta su uno sgabello dietro le quinte, mentre la donna puliva il pavimento dai lustrini lasciati dallo spettacolo. In quel momento si tenevano le prove dello show della sera e sul palco si alternavano ballerine e cantanti dagli abiti scintillanti, le voci di usignolo e i vitini da vespa sottolineati dai corsetti. Si era chiesta come facessero a cantare strette in quelle stecche. Ce ne era una in particolare, che aveva la pelle nera e i capelli più scuri della notte. Quando aveva iniziato a cantare, il mondo della ragazzina aveva iniziato a mutare. Nota dopo nota, Margareth veniva rapita dal sortilegio di quella voce. In quel momento aveva capito che anche lei avrebbe voluto esibirsi come quella piccola dea, che quasi brillava sotto la luce ferma dell’occhio di bue.
Quando era tornata a casa, aveva provato a cantare quel pezzo, sbagliando e inventando le parole. Ma la melodia la ricordava benissimo, le si era stampata nella mente, come una forma di gesso in un calco. Voleva essere ascoltata, voleva essere compresa; eppure sua madre non riusciva mai a darle le attenzioni che meritava, troppo presa dai conti da pagare e dalle preoccupazioni.
Dopo circa un anno, lei e sua madre si erano trasferite a San Francisco. Margareth aveva tante speranze, iniziava a farsi strada nella sua mente l’idea di cantare davvero, per professione. Aveva deciso di accettare un lavoro in una piccola fabbrica in cui si realizzavano bambole, così da pagarsi delle lezioni di canto.
Ogni mattina si svegliava alle cinque e, con il suo vestito liso e rattoppato, andava in fabbrica a lavorare fino a che le dita non riuscivano più a muoversi. Si sentiva come l’ingranaggio di una macchina. Una sera si era addormentata con la testa sul nastro su cui passavano i pezzi delle bambole. Una compagna l’aveva svegliata, facendola trasalire. In quel momento aveva avvertito l’inutilità della vita che conduceva lì. Negli occhi vitrei di una bambola che stava assemblando, si era vista riflessa e si era resa conto di aver smesso di essere la ragazza piena di entusiasmo che era. Eppure, quando cantava avvertiva la vita che le esplodeva dentro e in quei momenti tornava forte e si sentiva bellissima e invincibile.
Dopo due anni, aveva lasciato la fabbrica e aveva preso a esibirsi in piccoli teatri; contemporaneamente studiava da un’insegnante di canto che con il tempo era diventata una cara amica.
Nonostante si fosse avvicinata al mondo dello spettacolo, Margareth se ne sentiva sempre esclusa. Nessuno le aveva mai affidato una parte da solista, nessuno voleva ascoltarla davvero. Quando si presentava ai provini, la prima cosa che le chiedevano era di esibire le gambe, perché servivano soubrette di contorno, di soliste ce ne erano già tante e di grande talento.
Tutto iniziava a starle stretto, persino San Francisco, che un tempo aveva visto come un’opportunità. Così aveva deciso di partire di nuovo e si era trasferita a Chicago. Era certa che lì avrebbe trovato un modo per emergere.
E accadde davvero. Lì era cominciata la sua nuova vita.