La contessa Czarnova - l'avvenente contessa

Franklin Rudge - il giovane americano

Elizabeth Martin - l'americana innamorata

Mirabelle - la diva parigina

Pierre Vaucher - un croupier



Il signor Satterthwaite si stava godendo il sole su una terrazza a Monte Carlo.

Regolarmente, ogni anno, la seconda domenica di gennaio, Satterthwaite lasciava la Gran Bretagna per la Riviera. Era più puntuale di una rondine. Nel mese di aprile tornava in Gran Bretagna. Trascorreva a Londra maggio e giugno, e lo si era sempre visto ad Ascot. Lasciava la città dopo la gara fra Eton e Harrow, si recava in visita in qualche casa di campagna prima di ritirarsi a Deauville o a Le Touquet. Partite di caccia occupavano buona parte del settembre e dell'ottobre, e generalmente passava un paio di mesi in città per concludere l'anno. Conosceva tutti, e si poteva dire senza timore di sbagliare che tutti lo conoscevano.

Quel mattino era accigliato. L'azzurro del mare era stupendo, i giardini, come sempre, erano deliziosi ma la gente lo deludeva, era una folla sciatta e malvestita. Alcune di quelle persone, naturalmente, erano giocatori d'azzardo, anime perdute che non riuscivano a tenersi lontano di lì. Quelle, Satterthwaite le tollerava. Facevano parte dell'atmosfera necessaria. Ma gli mancava il lievito usuale dell'élite, la sua gente.

«È il cambio» disse Satterthwaite con aria cupa. «Adesso qui ci viene ogni genere di persone che prima non avrebbero potuto permetterselo. E poi, naturalmente, io sto invecchiando. Tutti i giovani, quelli che vengono sul continente... vanno in Svizzera.»

Ma ce n'erano altri di cui sentiva la mancanza, gli eleganti baroni e i conti della diplomazia straniera, i granduchi e i principi delle case reali. L'unico principe che avesse visto fino a quel momento era addetto al funzionamento dell'ascensore in uno degli alberghi meno noti. Gli mancavano anche le belle e dispendiose dame. Ce n'era ancora qualcuna, ma non più tante come una volta.

Satterthwaite era un profondo studioso del dramma chiamato Vita, e gli piaceva se il materiale di studio era vivacemente colorato. Si sentì cogliere dallo scoraggiamento. I valori stavano cambiando, e lui, era troppo vecchio per cambiare.

Fu in quel momento che vide la contessa Czarnova avviarsi verso di lui.

Ormai Satterthwaite vedeva da molte stagioni la contessa a Monte Carlo. La prima volta che l'aveva vista lei si trovava in compagnia di un granduca. Poi era stata la volta di un barone austriaco. Negli anni seguenti i suoi amici erano stati uomini segaligni che portavano gioielli alquanto vistosi. Negli ultimi due anni la si era vista in compagnia di uomini giovanissimi, quasi ragazzi.

Adesso stava passeggiando con un uomo molto giovane. Satterthwaite lo conosceva, e gliene dispiacque. Franklin Rudge era un giovane americano, tipico prodotto di uno degli stati del Middle West, ansioso di cogliere impressioni, rozzo ma simpatico, un curioso miscuglio di astuzia e idealismo. Si trovava a Monte Carlo con un gruppo di altri giovani americani dei due sessi, tutti più o meno dello stesso tipo. Era la loro prima occhiata al Vecchio Mondo ed erano molto aperti nella critica e nell'apprezzamento.

Nel complesso, trovavano antipatici gli inglesi che alloggiavano nello stesso albergo, e questi li ricambiavano. A Satterthwaite, che si vantava di essere un cosmopolita, riuscivano simpatici. Lo attraevano il loro modo di agire schietto, il loro vigore, per quanto qualche occasionale sconvenienza lo facesse rabbrividire.

Pensò che la contessa Czarnova era un'amica estremamente poco adatta per il giovane Franklin Rudge. Si tolse cortesemente il cappello quando arrivarono alla sua altezza e la contessa gli rivolse un inchino e un sorriso affascinanti.

Era una donna molto alta, con una figura superba. Aveva i capelli e occhi neri, e le sue ciglia e sopracciglia erano del nero più superbo che la Natura avesse mai potuto inventare.

Satterthwaite, che conosceva molto più dei segreti femminili di quel che sia bene conoscere, rese immediato omaggio all'arte con la quale era truccata. La sua carnagione era impeccabile, di un bianco morbido e uniforme. Le lievissime ombre bistrate sotto gli occhi davano un effetto straordinario. La sua bocca non era né cremisi né scarlatta ma di uno smorzato color vino. Indossava un modello molto audace in nero e bianco, e portava un parasole rosa acceso che è di grandissimo aiuto alla carnagione.

Franklin Rudge aveva un'espressione felice e piena d'importanza.

Ecco un giovane sciocco, disse tra sé Satterthwaite. D'altra parte non sono affari miei; e, comunque, non mi darebbe ascolto. Bene, bene, anch'io ai miei tempi mi sono fatto le mie esperienze.

Tuttavia continuò a essere piuttosto preoccupato perché nel gruppo c'era una piccola americana graziosissima, ed era sicuro che a lei l'amicizia di Franklin Rudge con la contessa non sarebbe piaciuta affatto.

Stava per avviarsi nella direzione opposta, quando scorse la ragazza in questione che veniva verso di lui lungo uno dei sentieri. Indossava un abito di buon taglio, comode scarpe da passeggio, e aveva in mano una guida. Ci sono certe americane che passano da Parigi e ne emergono vestite come la Regina di Saba, ma Elizabeth Martin non era di queste. Lei si "faceva l'Europa" con spirito severo e coscienzioso. Aveva un grande concetto della cultura e dell'arte ed era ansiosa di ricavare il più possibile dalla sua modesta scorta di denaro.

C'è da dubitare che Satterthwaite la considerasse una persona fornita di cultura o di gusti artistici. A lui sembrava semplicemente molto giovane.

«Buongiorno, signor Satterthwaite» disse Elizabeth «Ha visto Franklin... il signor Rudge... da qualche parte?»

«L'ho visto proprio pochi minuti fa.»

«Con la contessa sua amica, immagino» disse la ragazza in tono tagliente.

«Ehm... sì, con la contessa» ammise Satterthwaite.

«Quella sua contessa non mi fa nessuna impressione» disse la ragazza con voce alta. «Franklin è addirittura pazzo di lei. Perché poi, non riesco a capirlo!»

«Ha dei modi molto affascinanti, credo» disse Satterthwaite con cautela.

«La conosce?»

«Un po'.»

«Sono preoccupata per Franklin» disse lei. «Di solito, quel ragazzo ha buon senso. E nessuno penserebbe che si lascerebbe incantare da tutto quel modo di fare da sirena. Invece non vuol dar retta; si arrabbia come un matto se qualcuno tenta soltanto di dirgli una parola Ad ogni modo mi racconti... è una contessa vera?»

«Preferirei non parlarne» disse Satterthwaite. «Può darsi che lo sia.»

«Questo è proprio il solito modo di fare di voialtri inglesi tutti smorfie e sussiego» disse Elizabeth. «Tutto quello che posso dire è che a Sargon Springs - che è la città dove abitiamo - quella contessa passerebbe per un tipo strano.»

Satterthwaite pensò che era possibile. Gli parve inutile far notare che non erano a Sargon Springs ma nel principato di Monaco, dove sembrava che la contessa fosse in maggior sincronismo con l'ambiente che la circondava di quanto non riuscisse a esserlo la signorina Martin.

Non rispose ed Elizabeth proseguì in direzione del Casinò. Satterthwaite andò a sedersi al sole e fu raggiunto poco dopo da Franklin Rudge. Rudge era pieno di entusiasmo.

«Mi sto divertendo» disse con ingenuo entusiasmo. «Sissignore! Questo è quello che io chiamo vedere la vita, un genere di vita differente da quello che abbiamo negli Stati Uniti.»

L'uomo anziano si voltò a guardarlo con viso pensoso. «La vita si vive più o meno allo stesso modo ovunque» disse con tono alquanto stanco. «Indossa semplicemente abiti differenti, ecco tutto.»

Franklin Rudge lo fissò. «Non la capisco.»

«No» disse il signor Satterthwaite. «E questo perché lei ha ancora una lunga strada da percorrere. Ma le chiedo scusa. Nessun uomo anziano dovrebbe fare prediche.»

«Oh, si figuri» Rudge rise, mettendo in mostra i magnifici denti di tutti i suoi compatrioti. «Non verrò a dirle, badi bene, che il Casinò non mi ha deluso. Pensavo che il gioco d'azzardo fosse diverso... qualcosa di molto più febbrile. Invece mi sembra piuttosto noioso e sordido.»

«Il gioco d'azzardo è la vita e la morte per il giocatore, ma non ha un gran valore spettacolare» disse Satterthwaite. «È decisamente molto più eccitante leggerne che vederlo.»

Il giovanotto annuì.

«Lei è un uomo noto nella buona società, vero?» chiese con una diffidenza e un candore che rendevano impossibile offendersi. «Voglio dire che lei conosce tutte le duchesse e i conti e le contesse e così via.»

«Ne conosco un buon numero» disse Satterthwaite. «E conosco anche israeliti e portoghesi e greci e argentini.»

«Come?» disse Rudge.

«Stavo semplicemente spiegando» disse Satterthwaite, «che io vado e vengo nella buona società inglese.»

Franklin Rudge restò meditabondo per qualche minuto.

«Conosce la contessa Czarnova, vero?» chiese infine.

«Un po'» disse Satterthwaite, dando anche a lui la stessa risposta che aveva dato a Elizabeth.

«Ecco, quella è una donna che è stato molto interessante conoscere. Generalmente si pensa che l'aristocrazia europea sia esaurita e consunta, che abbia fatto il suo tempo. Potrà esser vero degli uomini, ma le donne sono differenti. Non è un piacere conoscere una creatura squisita come la contessa? Spiritosa, affascinante, intelligente, con generazioni di civiltà dietro le spalle, un'aristocratica fino alla punta delle dita!»

«È così?» chiese Satterthwaite.

«Be', non lo è forse? Conosce la sua famiglia?»

«No» disse Satterthwaite. «Temo di sapere molto poco di lei.»

«Era una Radzynski» spiegò Franklin Rudge. «Una delle più antiche famiglie ungheresi. Ha avuto una vita assolutamente straordinaria. Ha visto quel lungo filo di perle che porta?»

Satterthwaite annuì.

«Le è stato regalato dal re della Bosnia. Lei ha portato fuori dal regno, di nascosto, alcuni documenti segreti.»

«Avevo sentito» disse Satterthwaite «che quelle perle le erano state date dal re della Bosnia.»

Quella notizia era stata l'argomento di pettegolezzi abbastanza diffusi; infatti, correva voce che la gentildonna fosse stata una chère amie di Sua Maestà in tempi passati.

«Adesso le racconterò qualcos'altro.»

Satterthwaite ascoltò, e quanto più ascoltava tanto più era costretto ad ammirare la fertile immaginazione della contessa Czarnova. Niente "modi da sirena" (come li aveva definiti Elizabeth Martin) per lei. Il giovanotto, sotto questo punto di vista, era abbastanza sveglio. Onesto e idealista. No, la contessa si muoveva audacemente in un labirinto di intrighi diplomatici. Aveva nemici, e detrattori... naturalmente. Si trattava di un rapido sguardo (questa era la sensazione che doveva provare il giovane americano) alla vita del vecchio régime e la contessa ne era la figura centrale, riservata, aristocratica, amica di consiglieri e principi, una figura che doveva ispirare una devozione romantica.

«E ha avuto guai di tutti i generi contro i quali lottare» concluse, accalorandosi, il giovanotto. «È straordinario, ma non ha mai trovato una donna che le fosse sinceramente amica. Le donne le sono state ostili per tutta la vita.»

«Capisco» disse Satterthwaite.

«E non la trova una cosa scandalosa, questa?» disse Rudge in tono concitato.

«No» disse Satterthwaite pensieroso. «Non direi. Le donne hanno certe norme caratteristiche del loro sesso. Ed è inutile che noi ci interessiamo dei loro affari. In certe cose devono sentirsi libere anche loro.»

«Non sono d'accordo con lei» disse Rudge molto serio. «È una delle cose peggiori che ci siano al mondo, oggi, la mancanza di gentilezza di una donna per un'altra donna. Conosce Elizabeth Martin? Ecco, lei è d'accordo con me, in teoria. Ne abbiamo discusso spesso insieme. È soltanto una ragazzina, ma le sue idee sono ottime. Però, quando si arriva al dunque, ecco che diventa insopportabile come tutte le altre. Ce l'ha a morte con la contessa senza sapere un accidenti di niente di lei, e non vuole ascoltarmi quando cerco di raccontarle le cose come stanno. È tutto sbagliato, signor Satterthwaite. Io credo nella democrazia, e che cos'è se non la fratellanza fra gli uomini e le donne?»

Tacque dopo aver parlato con tanto ardore. Satterthwaite cercò di pensare a un'eventuale circostanza in cui potesse nascere un sentimento fraterno fra la contessa ed Elizabeth Martin, ma non ci riuscì.

«E, d'altro canto, la contessa» continuò Rudge «ammira enormemente Elizabeth e la trova incantevole. E questo cosa dimostra?»

«Dimostra» disse Satterthwaite asciutto «che la contessa ha vissuto un tempo considerevolmente più lungo di quello che non abbia vissuto la signorina Martin.»

Franklin Rudge partì inaspettatamente per la tangente. «Lei sa quanti anni ha la contessa? A me l'ha detto. Direi che, in questo, è un tipo di spirito. Io le avrei dato più o meno ventinove anni, lei invece mi ha detto spontaneamente di averne trentacinque. Non li dimostra, vero?»

Satterthwaite, che in privato aveva calcolato che l'età della signora in questione si aggirasse fra i quarantacinque e i quarantanove anni, si limitò ad alzare le sopracciglia.

«Dovrei avvertirla di non credere a tutto quanto le viene raccontato a Monte Carlo» mormorò.

Aveva sufficiente esperienza per capire l'inutilità di una discussione con quel ragazzo. Franklin Rudge viveva un momento di cavalleria talmente entusiastico da non essere disposto a credere a dichiarazioni che non fossero sostenute da prove autorevoli.

«Ecco la contessa» disse il ragazzo, alzandosi.

Questa li raggiunse con la languida grazia che la contraddistingueva. Poco dopo si trovarono tutt'e tre seduti insieme. Lei si mostrò gentilissima con Satterthwaite, ma in modo un po' distaccato. Gli lasciava la parola con grazia, chiedeva la sua opinione e lo trattava come un'autorità per quello che riguardava la Riviera.

La sua si rivelò una manovra molto abile. Non erano passati pochi minuti che Franklin Rudge si trovò a essere garbatamente congedato, e la contessa e il signor Satterthwaite vennero lasciati a un tête-à-tête.

Lei chiuse il parasole e cominciò a disegnare con il puntale nella polvere.

«Quel simpatico ragazzo americano la interessa, vero signor Satterthwaite?»

La voce di lei era sommessa e carezzevole.

«È un simpatico giovanotto» disse Satterthwaite senza impegnarsi.

«Io lo trovo simpatico, sì» disse la contessa in tono meditabondo. «Gli ho raccontato buona parte della mia vita.»

«Davvero!» disse il signor Satterthwaite.

«Certi particolari che ho raccontato solo a pochi altri» continuò lei in tono assorto. «Io ho avuto una vita incredibile, signor Satterthwaite. Sono poche le persone disposte a dar credito alle cose stupefacenti che mi sono accadute.»

Satterthwaite era abbastanza acuto da interpretare chiaramente il significato delie sue parole. In fondo, le storie che aveva raccontato a Franklin Rudge potevano essere la verità. Era estremamente inverosimile, e improbabile al massimo grado, ma era possibile. Nessuno avrebbe potuto dire: «Non è così».

Non rispose, e la contessa continuò a guardare con aria sognante al di là della baia. Così, all'improvviso, Satterthwaite ebbe di lei un'impressione strana e nuova. La vide non più come un'arpia, ma come una creatura disperata messa con le spalle al muro, che lottava con le unghie e con i denti. Le diede un'occhiata di sottecchi. Il parasole era abbassato; riusciva a distinguere le sottili rughe di ansietà agli angoli degli occhi. Una vena le pulsava a una tempia.

E allora si sentì invadere, a ondate successive, da una certezza crescente. Era una creatura disperata e inseguita. Si sarebbe comportata spietatamente verso di lui o verso chiunque altro si fosse interposto fra lei e Franklin Rudge. Eppure continuava ad avere l'impressione che gli sfuggisse il nocciolo della questione. Era evidente che la contessa possedeva denaro in abbondanza. Era sempre vestita in modo stupendo, e i suoi gioielli erano magnifici. Quindi non doveva avere problemi di quel genere. L'amore, forse? Capitava che donne della sua età si innamorassero di un ragazzo. Poteva trattarsi di quello. C'era, adesso lo sentiva con certezza, qualcosa di fuor del comune in quella situazione. Il tête-à-tête con lui, lo riconobbe, era come una sfida aperta. Lo aveva scelto come il suo principale nemico. Intuì, e presto ne ebbe la certezza, che la contessa sperava di indurlo a parlare male di lei con Franklin Rudge. Satterthwaite sorrise tra sé. Era troppo una vecchia volpe per cadere in quella trappola, sapeva bene quand'era saggio tenere la lingua a freno, lui!

La osservò quella sera nel Cercle Privé, mentre tentava la fortuna alla roulette. Puntò ripetutamente, solo per vedersi spazzar via le puntate. Sopportava bene le perdite con il sang-froid stoico del vecchio habitué. Un paio di volte puntò un en plein, mise il massimo della puntata sul rosso, vinse qualcosina e poi perdette di nuovo. Infine insistette sei volte sul dispari e perdette ogni volta. Poi, con un'aggraziata stretta di spalle, se ne andò.

Faceva singolarmente colpo vestita di un abito di tessuto d'oro sotto il quale s'intravvedeva qualcosa di verde. Portava le famose perle di Bosnia e lunghi orecchini di perle.

Satterthwaite la sentì lodare da due uomini che gli erano vicino.

«La Czarnova» disse uno. «Resiste bene, vero? I gioielli della corona di Bosnia le stanno magnificamente.»

L'altro, un ometto, la seguì incuriosito con lo sguardo, «Dunque quelle sono le perle di Bosnia, eh?» disse. «En vérité. È strano.»

E ridacchiò sommessamente.

Satterthwaite perdette il resto della conversazione perché in quel momento girò la testa e si sentì colmare di gioia nel riconoscere un vecchio amico.

«Mio caro signor Quin!» Gli strinse calorosamente la mano. «L'ultimo posto al mondo nel quale mi sarei aspettato di vederla.»

Quin sorrise e quel sorriso illuminò la sua faccia bruna e attraente.

«Non dovrebbe meravigliarla» disse. «Siamo prossimi a carnevale. E vengo spesso qui per il carnevale.»

«Davvero? Be', questo è un grandissimo piacere. Desidera proprio restare qui al chiuso? Io trovo che questi locali sono piuttosto caldi.»

«Fuori sarà più piacevole» ammise l'altro. «Faremo quattro passi nei giardini.»

L'aria era frizzante ma non fredda. I due uomini respirarono profondamente.

«Ah, ora sì va meglio» disse Satterthwaite.

«Molto meglio» convenne Quin. «E possiamo parlare liberamente. Sono certo che avrà molte cose da raccontarmi.»

«Effettivamente è così.»

Parlando con calore, Satterthwaite gli spiegò le sue perplessità. Come al solito, era orgoglioso della sua capacità di creare un'atmosfera. La contessa, il giovane Franklin, quella Elizabeth incapace di compromessi, li tratteggiò tutti con abili tocchi.

«Lei è cambiato da quando ci siamo conosciuti» disse Quin sorridendo, quando il racconto fu concluso.

«In che modo?»

«Allora, le bastava assistere ai drammi che la vita offriva. Adesso... vuole prendere parte... agire.»

«È vero» disse Satterthwaite. «Ma in questo caso non so cosa fare. Tutto mi lascia in una grandissima perplessità. Forse...» esitò. «Forse mi potrà aiutare lei.»

«Con piacere» disse Quin. «Vedremo quel che possiamo fare.»

Satterthwaite provò una curiosa sensazione di conforto e di fiducia.

Il giorno successivo presentò Franklin Rudge e Elizabeth Martin ad Harley Quin. E fu soddisfatto di vedere che si trovavano bene insieme. La contessa non venne menzionata ma a pranzo udì una notizia che risvegliò la sua attenzione.

«Mirabelle arriva a Monte Carlo questa sera» confidò pieno di eccitazione al signor Quin.

«La diva parigina?»

«Sì. Oserei dire, sa è voce comune, che è l'ultima fiamma del re di Bosnia. L'ha ricoperta di gioielli, credo. Dicono che sia la donna più capricciosa e piena di pretese di Parigi.»

«Dovrebbe essere interessante vedere l'incontro fra lei e la contessa Czarnova, stasera.»

«Proprio quello che pensavo!»

Mirabelle era una creatura alta e sottile, con una magnifica testa di capelli biondi tinti. Aveva una carnagione mauve pallido e le labbra arancione. Era di un'eleganza stupefacente. Indossava un abito che la faceva apparire come uno stupendo uccello del paradiso, e collane di pietre preziose le pendevano sulla schiena nuda. Alla caviglia sinistra portava un braccialetto massiccio incastonato di enormi diamanti.

Quando apparve al Casinò, creò sensazione.

«La contessa sua amica avrà qualche difficoltà nel superarla in questo» mormorò Quin all'orecchio di Satterthwaite.

Quest'ultimo annuì. Era curioso di vedere come la contessa si sarebbe comportata.

Questa arrivò tardi: un mormorio sommesso corse tutt'intorno alla sala quando si avviò con aria tranquilla e disinvolta verso uno dei grandi tavoli centrali della roulette.

Era vestita di bianco: un indumento semplice, dritto e liscio come una sottoveste, in marocain, simile a quello che avrebbe potuto indossare una ragazzina debuttante in società; le braccia e il collo, di un candore abbagliante, erano privi di qualsiasi ornamento. Non portava un solo gioiello.

«È stata intelligente» disse Satterthwaite con approvazione. «Disprezza la rivalità e si è messa in posizione di vantaggio rispetto alla sua avversaria.»

Si avvicinò anche lui al tavolo. Di tanto in tanto si divertiva a puntare qualcosa. Talvolta vinceva, più spesso perdeva.

I numeri dell'ultima dozzina avevano continuato a uscire con una serie di colpi fortunati. Continuavano a uscire il trentuno e il trentaquattro. E le puntate si accumulavano verso l'estremità del tavolo.

Con un sorriso, Satterthwaite fece la sua ultima giocata per quella sera e depose la puntata massima sul numero cinque.

La contessa, a sua volta, si sporse in avanti e depose la sua sui numero sei.

«Faites vos jeux» gridò il croupier con voce rauca. «Rien ne va plus. Plus rien.»

La pallina roteò vorticosamente, con un allegro fruscio. Satterthwaite pensò tra sé: Questo ha un significato differente per ognuno di noi. Agonie di speranza e di disperazione, tedio, vano divertimento, vita e morte.

Click!

Il croupier si sporse in avanti.

«Numero cinque, rouge, impair et manque.»

Satterthwaite aveva vinto!

Il croupier, dopo aver raccolto le altre puntate con il rastrello, spinse le vincite verso il signor Satterthwaite. Questi allungò una mano per prenderle. La contessa fece lo stesso. Il croupier guardò prima l'uno e poi l'altra.

«A madame» disse brusco.

La contessa ritirò il denaro. Satterthwaite si tirò indietro. Rimase un gentiluomo. La contessa lo guardò dritto in faccia ed egli ricambiò lo sguardo. Una o due delle persone che si trovavano intorno a loro fecero capire al croupier che aveva commesso uno sbaglio, ma l'uomo scosse la testa spazientito. Così aveva deciso e non c'era niente da fare. Poi riprese il suo rauco grido.

«Faites vos jeux, Messieurs et Mesdames.»

Satterthwaite raggiunse il signor Quin. Sotto il comportamento impeccabile, si sentiva profondamente indignato. Quin lo ascoltò con comprensione.

«Che brutta cosa» disse «ma sono cose che succedono. Più tardi dobbiamo trovarci con il suo amico Franklin Rudge. Do una piccola cena.»

I tre uomini s'incontrarono a mezzanotte e Quin spiegò la sua idea.

«È una festicciola che si potrebbe chiamare "Incontro alla Cieca"» disse. «Scegliamo un punto di ritrovo, poi ognuno di noi esce ed è impegnato sul suo onore a invitare la prima persona che incontra.»

Franklin Rudge trovò l'idea divertente. «Senta un po', e cosa succede se costoro non accettano?»

«Deve usare tutti i suoi poteri di persuasione.»

«Bene. E dove sarebbe il luogo di ritrovo?»

«Un caffè un po' bohemien, dove si possono condurre ospiti un po' fuori dall'ordinario. Si chiama Le Caveau.»

Spiegò dove si trovava e i tre si separarono. Satterthwaite fu tanto fortunato da imbattersi immediatamente in Elizabeth Martin, che invitò con insistenza a seguirlo. Raggiunsero Le Caveau e scesero in una specie di cantina, dove trovarono un tavolo apparecchiato per la cena, illuminato da antiquate candele.

«Siamo i primi» disse Satterthwaite. «Ah! Ecco Franklin che arriva...»

Si interruppe bruscamente. Con Franklin c'era la contessa. Fu un momento imbarazzante. Elizabeth mostrò meno cortesia di quello che avrebbe potuto fare. La contessa, donna di mondo qual era, ne uscì con tutti gli onori.

Per ultimo, arrivò il signor Quin. Con lui si trovava un ometto bruno, dignitosamente vestito, il cui volto sembrò familiare a Satterthwaite. Un attimo dopo lo riconobbe. Era il croupier che, quella stessa sera, aveva commesso un errore così riprovevole.

«Permettetemi di presentarvi il signor Pierre Vaucher» disse Quin.

L'ometto sembrava confuso. Quin fece le presentazioni necessarie con disinvoltura. La cena venne servita: una cena eccellente. Arrivò il vino: un vino squisito. Un po' del gelo che pervadeva l'atmosfera si dissolse. La contessa era molto silenziosa. Così pure Elizabeth. Franklin Rudge diventò ciarliero. Cominciò a raccontare vari aneddoti... non storielle umoristiche, ma cose serie. E Quin, silenziosamente e assiduamente, versava il vino.

«Vi racconterò la storia, la storia vera, di un uomo che ha fatto carriera» disse Franklin Rudge, con l'intento di fare impressione. Non si era fatto pregare a mostrare quanto apprezzasse lo champagne.

Raccontò la sua storia, dilungandosi inutilmente. Come molte storie vere era notevolmente inferiore al racconto. Mentre pronunciava l'ultima parola, Pierre Vaucher, che si trovava di fronte a lui, parve svegliarsi. Anche lui aveva reso giustizia allo champagne. Si sporse attraverso la tavola.

«Anch'io vi racconterò una storia» disse con voce impastata. «Ma la mia è la storia di un uomo che non ha fatto carriera. È la storia di un uomo che non è salito nella scala sociale, ma che l'ha discesa. E, come la sua, anche questa è una storia vera.»

«La prego, ce la racconti» disse Satterthwaite in tono cortese.

Pierre Vaucher si appoggiò allo schienale della seggiola e alzò gli occhi al soffitto. «È a Parigi che questa storia comincia. In quella città c'era un uomo che lavorava come gioielliere. Era giovane e spensierato, ma industrioso. Dicevano che avesse un futuro. Era già stato combinato per lui un buon matrimonio, la sposa non era troppo brutta, la dote più che soddisfacente. E a questo punto, che cosa succede? Un mattino vede una ragazza. Un cosino da niente, un miserando pezzettino di ragazza. Bella? Sì, forse, se non fosse stata mezza morta di fame. Comunque, per questo giovanotto la ragazza aveva un tale fascino che non seppe resistervi. Lei aveva lottato a lungo per trovar lavoro, era virtuosa, per lo meno è questo che gli raccontò. Non so se fosse vero.»

Si sentì improvvisamente la voce della contessa nella semioscurità. «Perché non dovrebbe essere stato vero? Ce ne sono molte così.»

«Be', come dicevo, il giovanotto le credette. E la sposò - che atto di follia! La sua famiglia non volle più saperne di lui. Aveva ferito i loro sentimenti. Lui sposò... la chiamerò Jeanne: fece una buona azione. Fu questo che le disse, Sentiva che la ragazza avrebbe dovuto essergli molto grata. Aveva sacrificato molto per amor suo.»

«Un inizio magnifico per la povera ragazza» disse la contessa sarcastica.

«Lui l'amava, ma fin dal principio lei cominciò a farlo impazzire. Cambiava spessissimo di umore... faceva le bizze... un giorno era gelida, il giorno dopo appassionata. E infine il giovanotto capì la verità. Non lo aveva mai amato. L'aveva sposato soltanto perché non sapeva più come campare. La verità lo ferì in modo orribile, tuttavia tentò con tutte le sue forze di non lasciare trasparire nulla. Però continuava ancora a pensare di meritare gratitudine e obbedienza ai propri desideri. Litigarono. Lei lo rimproverò... c'era ancora qualcosa di cui non lo rimproverasse?

«Potete intuire quale fu l'azione successiva, non è vero? Era prevedibile. Lei lo lasciò. Per due anni lui rimase solo, lavorando nella sua botteguccia senza notizie da parte di lei. Aveva un unico amico, l'assenzio. Gli affari non andavano molto bene.

«Poi un giorno lui entrò in negozio e la trovò lì seduta. Era vestita in modo stupendo. Le dita erano cariche di anelli. Rimase un momento fermo a contemplarla. Il suo cuore batteva... ah, come batteva! Non sapeva che fare. Avrebbe voluto picchiarla, stringerla fra le braccia, scaraventarla sul pavimento e calpestarla, gettarsi ai suoi piedi. Non fece nessuna di tutte queste cose. Prese in mano una pinza e cominciò a lavorare. "Desidera, Madame?" le chiese in tono cerimonioso.

«Questo la disorientò. Non se l'aspettava, capite. "Pierre" disse "sono tornata." Lui depose le pinze e la guardò. "Vuoi essere perdonata?" disse. "Vuoi che io ti riprenda? Sei sinceramente pentita?" "Mi vuoi ancora?" mormorò lei. Oh! Come lo disse sommessamente.

«Lui sapeva che gli stava preparando una trappola. Anelava a prenderla fra le braccia, ma era troppo furbo per farlo. Finse indifferenza.

«"Sono un cristiano" disse. "Cercherò di fare quello che insegna la Chiesa." Ah!, pensò, la umilierò, la metterò in ginocchio!

«Ma Jeanne buttò indietro la testa e rise. Era una risata cattiva. "Io mi faccio beffe di te, piccolo Pierre" disse. "Guarda questi bei vestiti, guarda gli anelli e i braccialetti. Sono venuta per farmi vedere da te. Pensavo che mi avresti abbracciata e allora ti avrei sputato in faccia e ti avrei detto quanto ti odio!"

«Dopo aver detto questo, uscì dalla bottega. Potete credere, Messieurs, che una donna riuscisse ad essere tanto malvagia... da tornare indietro soltanto per tormentarvi?»

«No» disse la contessa. «Non ci crederei, e qualsiasi uomo che non sia uno sciocco non ci crederebbe neppure lui. Ma gli uomini sono tutti sciocchi e ciechi.»

Pierre Vaucher non le badò. «E così il giovanotto di cui vi parlo cominciò a cadere in basso, sempre più in basso. Diventò l'ultimo degli ultimi, finì nei bassifondi. Poi venne la guerra. Ah! Fu un bene, la guerra. Tolse quell'uomo dai bassifondi e gli insegnò a non essere più una bestia bruta. Lo addestrò... e lo rese sobrio. Lui sopportò il freddo, il dolore e il timore della morte... ma non morì, e quando la guerra finì, tornò ad essere un uomo.

«Fu a questo punto, Messieurs, che venne al sud. I suoi polmoni erano stati colpiti; dicevano che avrebbe dovuto trovare un lavoro nel sud. Non vi tedierò raccontandovi tutte le cose che fece. Basterà dirvi che finì per diventare un croupier, e lì, nel Casinò, una sera, la rivide, lei, la donna che aveva rovinato la sua vita. Lei non lo riconobbe, ma lui sì. Lei sembrava ricca, sembrava che non le mancasse nulla... ma, Messieurs, gli occhi di un croupier sono acuti. Arrivò la sera in cui lei depose l'ultima puntata, gli ultimi soldi che aveva sul tavolo verde. Non chiedetemi come faccio a saperlo, io so; queste cose, uno le sente. Ci sono altri che potrebbero non crederle. Lei aveva ancora vestiti lussuosi... perché non impegnarli, si sarebbe potuto chiederle... ma fallo e tutto il tuo credito scompare in un baleno. I gioielli? Eh, no! Non ero stato forse gioielliere ai miei tempi? I gioielli autentici erano spariti già da molto tempo. Le perle di un re vendute una a una, e sostituite con altre false. Intanto bisognava pur mangiare e pagare il conto dell'albergo. Sì, e gli uomini ricchi... l'hanno già vista in giro da molti anni. Bah! Dicono... che ha passato la cinquantina! Per i loro soldi vogliono una pollastrella giovane.»

Si sentì un lungo sospiro proveniente dall'angolo in cui sedeva la contessa.

«Sì. Fu un gran momento, quello. L'osservai per due sere. Perdeva, perdeva, perdeva ancora. E poi la fine. Ha puntato tutto quello che aveva su un numero. Accanto a lei un signore ha puntato anche lui... su un numero vicino. La pallina gira... il momento è venuto; lei ha perduto.

«I suoi occhi hanno incontrato i miei. Cosa posso fare? Rischio il mio posto al Casinò... Derubo il signore inglese. "À Madame" dico, e pago la vincita.»

«Ah!» Si sentì uno schianto mentre la contessa balzava in piedi e si sporgeva attraverso il tavolo, scaraventando il suo bicchiere a terra. «Perché?» gridò. «È questo che voglio sapere. Perché l'hai fatto?»

Ci fu una lunga pausa, una pausa che sembrò interminabile: quelle due persone, l'una di fronte all'altra ai due lati del tavolo, continuavano a fissarsi. Era come un duello.

Un sorrisetto malevolo si disegnò lentamente sulla faccia di Pierre Vaucher.

Alzò le mani. «Madame» disse. «Esiste una cosa che si chiama pietà.»

«Ah!» Lei si lasciò cadere di nuovo al suo posto. «Capisco.»

Era calma, sorridente, era tornata a essere se stessa.

«Una storia interessante, Monsieur Vaucher. Mi permetta di accenderle la sigaretta.»

Arrotolò abilmente un pezzo di carta, lo accese a una delle candele e lo protese verso di lui. Vaucher si sporse in avanti fino a quando la fiamma sfiorò l'estremità della sigaretta che stringeva fra le labbra.

Poi lei si alzò in piedi improvvisamente. «E adesso devo lasciarvi. Vi prego, non c'è bisogno che mi accompagniate.»

Prima che qualcuno potesse dire qualcosa, era già andata via. Satterthwaite avrebbe voluto precipitarsi fuori per raggiungerla, ma fu trattenuto da un'imprecazione stupita del francese.

«Per mille tuoni!»

Stava fissando il pezzo di carta arrotolato e semibruciato che la contessa aveva lasciato cadere sulla tavola. Lo svolse.

«Mon Dieu» mormorò. «Una banconota da cinquantamila franchi. Capite? Le sue vincite di stasera. Tutto quello che ha al mondo. E se ne è servita per accendermi la sigaretta! Perché era troppo orgogliosa per accettare... la pietà. Ah! Orgogliosa, è sempre stata orgogliosa come il demonio. È unica... magnifica!»

Si alzò in piedi di scatto e si precipitò fuori. Anche Satterthwaite e Quin si erano alzati. Il cameriere si avvicinò a Franklin Rudge.

«La note, Monsieur» disse in tono indifferente.

Quin si affrettò a prenderlo.

«Sento un po' di malinconia, Elizabeth» disse Franklin Rudge. «Questi stranieri... sono insuperabili! Non li capisco. Che cosa voleva dire tutto questo?»

Contemplò la ragazza seduta di fronte a lui. «Accipicchia, è bello poter guardare qualcuno che è americano al cento per cento, come te.» La sua voce assunse l'intonazione lamentosa di un bambino piccolo. «Questi stranieri sono così strani.»

Ringraziarono il signor Quin e uscirono insieme nella notte. Quin raccolse il resto e sorrise, rivolgendosi a Satterthwaite dall'altro lato del tavolo, che si stava pavoneggiando come un uccello che si liscia le piume.

«Bene» disse quest'ultimo. «È andato tutto splendidamente. Adesso le nostre due coppie di colombi saranno finalmente insieme.»

«Quali?» chiese Quin.

«Oh» disse Satterthwaite un po' smarrito «Oh! Sì, be', suppongo che lei abbia ragione, tenendo conto del punto di vista latino e di tutto il resto...»

Ma sembrava dubbioso.

Quin sorrise, e la luce che filtrava da un paravento a vetri colorati, dietro di lui, lo investì per un momento con una fascia di luce di mille colori che sembrò ricoprirlo come un indumento screziato e variopinto.


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