Vivien Barnaby - la vittima
George Barnaby - il marito della vittima
Martin Wilde - l'accusato
Henry Thompson - il segretario di Barnaby
Silvia Dale - la giovane innamorata
Luisa Bullard - la cameriera con le visioni
Il giudice stava terminando la sua allocuzione alla giuria.
«Signori, ho quasi concluso quanto ho da dirvi. Dovete prendere in esame le prove in modo da stabilire se sono determinanti per poter dichiarare quest'uomo colpevole dell'assassinio di Vivien Barnaby. Avete sentito le testimonianze dei domestici sull'ora in cui venne sparato il colpo. Sono state tutte concordi. Avete un altro elemento di prova nella lettera scritta all'imputato da Vivien Barnaby la mattina di quello stesso giorno, venerdì 23 settembre, una lettera che la difesa non ha neppure tentato di negare. Avete la prova che l'imputato, in un primo tempo, ha negato di essere stato a Deering Hill e, successivamente, l'ha ammesso, dopo le prove fornite dalla polizia. Potrete trarre le vostre conclusioni da questo diniego. Questa non è una causa istruita su prove dirette. Dovrete essere voi a decidere sul motivo, i mezzi, l'opportunità. La difesa sostiene che una persona non identificata è entrata nella sala di musica dopo che l'imputato ne era uscito, e ha sparato a Vivien Barnaby con il fucile che quest'ultimo, per una curiosa dimenticanza, vi aveva lasciato. Avete udito le spiegazioni dell'accusato sulla ragione per cui ha impiegato mezz'ora per arrivare a casa. Se non siete persuasi della versione fornita dall'imputato e se siete pienamente convinti, al di là di ogni ragionevole dubbio, che venerdì 13 settembre è stato lui a scaricare il fucile a distanza ravvicinata contro Vivien Barnaby mirando alla testa con l'intenzione di ucciderla, allora, signori, il vostro deve essere un verdetto di colpevolezza. Se, d'altra parte, avete qualche ragionevole dubbio sull'accaduto, è vostro dovere assolvere il prigioniero. Ora vi chiederò di ritirarvi nella stanza della giuria, di fare le vostre considerazioni e di farmi sapere a quali conclusioni siete arrivati.»
La giuria rimase assente poco meno di mezz'ora. Quando tornò, il verdetto fu quello che tutti avevano previsto: «Colpevole».
Il signor Satterthwaite lasciò il tribunale con aria pensosa e le sopracciglia aggrottate.
Un processo per omicidio non lo attraeva per se stesso. Aveva un temperamento troppo esigente per poter ricavare un interesse dai sordidi particolari del solito delitto comune. Ma il caso Wylde era differente. Il giovane Martin Wylde era quello che si definiva un gentiluomo e la vittima, la giovane moglie di sir George Barnaby, era una sua conoscenza personale.
Stava pensando a tutto questo mentre risaliva per Holborn per infilarsi in quel labirinto di viuzze che portano in direzione di Soho. In una di esse c'era un ristorantino che soltanto poche persone conoscevano, fra cui il nostro signor Satterthwaite. Non era a buon mercato, anzi, era straordinariamente caro, perché lavorava esclusivamente per palati raffinati. Era avvolto dal silenzio - nessuna musica poteva disturbarne l'atmosfera ovattata - e dalla penombra; i camerieri emergevano da quelle luci smorzate a passi felpati, reggendo piatti d'argento con l'aria di chi partecipa a un rito sacro. Il ristorante si chiamava Arlecchino.
Sempre immerso nei suoi pensieri, Satterthwaite entrò e si diresse al suo tavolo preferito, in una nicchia nell'angolo più lontano. A causa della penombra, fu soltanto quando ci arrivò che si accorse che era già occupato da un uomo alto, bruno, con il viso in ombra e con un abito sobrio sui quale la luce, che filtrava da una finestra a vetri colorati, creava un bizzarro gioco di tinte sgargianti.
Satterthwaite sarebbe tornato indietro se, in quel momento, lo sconosciuto non si fosse mosso leggermente: allora lo riconobbe.
«Che Dio mi benedica!» disse Satterthwaite, che era portato a queste espressioni antiquate. «Ma guarda, è il signor Quin!»
Si era già incontrato tre volte con il signor Quin, e ogni volta il risultato di quell'incontro era stato un po' fuori dell'ordinario. Una strana persona, questo Quin, con una curiosa capacità di mostrarti le cose che hai sempre visto sotto una luce completamente diversa.
Immediatamente Satterthwaite si sentì eccitato, piacevolmente eccitato. Il suo ruolo era quello dello spettatore, e lo sapeva, ma qualche volta, quand'era con Quin, aveva provato l'illusione di essere un attore - non solo, addirittura un protagonista.
«È un gran piacere!» disse mentre un sorriso illuminava la sua faccia rugosa. «Un grandissimo piacere, davvero. Spero che non avrà obiezioni se mi siedo al suo tavolo.»
«Piacere mio!» disse Quin. «Come vede, non ho ancora cominciato a mangiare.»
Un capocameriere dall'aria piena di deferenza sbucò maestoso dall'ombra. Satterthwaite, come si conveniva a un uomo dal palato così difficile, dedicò tutta la sua attenzione alla scelta delle vivande. Pochi minuti dopo il capocameriere, con un sorriso di approvazione sulle labbra, si ritirò e un giovane cameriere si accinse a servire. Satterthwaite si rivolse a Quin.
«Torno adesso dal tribunale» disse. «Una triste faccenda, secondo me.»
«È stato giudicato colpevole?» disse Quin.
«Sì, la giuria è rimasta in camera di consiglio soltanto mezz'ora.»
«Un risultato inevitabile» disse Quin chinando la testa «...con quelle prove.»
«Eppure...» cominciò Satterthwaite... e si fermò.
Quin concluse la frase per lui. «Eppure le sue simpatie vanno all'accusato. È questo che stava per dire?»
«Suppongo di sì. Martin Wylde è un simpatico ragazzo... stento a credere che sia stato lui. D'altra parte ultimamente parecchi di questi simpatici ragazzi sono risultati assassini, di un genere particolarmente repellente e spietato.»
«Troppi» disse in tono sommesso Quin.
«Come ha detto?» chiese Satterthwaite un po' stupito.
«Troppi, per Martin Wylde. Fin dall'inizio c'è stata una certa tendenza a considerare questo caso come parte di una stessa serie di delitti dello stesso tipo: l'uomo che cerca di liberarsi di una donna per sposarne un'altra.»
«Be'» disse Satterthwaite in tono dubbioso «con quelle testimonianze...»
«Mah» disse Quin. «Temo di non averle seguite tutte.»
Satterthwaite si sentì posseduto, all'improvviso, da una grande fiducia in se stesso. Provò, di colpo, una sensazione di potenza. E la tentazione di essere, consapevolmente, drammatico.
«Mi permetta di parlargliene. Ho conosciuto i Barnaby, capisce. Conosco le circostanze peculiari. Mi accompagnerà dietro le quinte... e vedrà le cose dal di dentro.»
Quin si sporse verso di lui con un sorriso di incoraggiamento. «Se c'è qualcuno capace di fare una cosa del genere, non può essere che lei, caro signor Satterthwaite.»
Questi si aggrappò con le mani al bordo del tavolo. Si sentì esaltare, trasportare fuori di se stesso. Per il momento diventò un puro e semplice artista - un artista che aveva, come mezzo d'espressione, le parole.
Rapidamente, con pochi rapidi tocchi, tratteggiò un quadro della vita a Deering Hill. Sir George Barnaby: anziano, obeso, avaro. Un uomo eternamente occupato dalle minuzie della vita. Un uomo che caricava tutti gli orologi di casa ogni venerdì pomeriggio, sistemava la piccola contabilità familiare ogni martedì mattina e si occupava personalmente di chiudere a chiave la porta di casa ogni sera. Un uomo cauto.
Da sir George, Satterthwaite passò a lady Barnaby. Qui il suo tocco fu più delicato, ma non per questo meno sicuro. L'aveva vista soltanto una volta ma l'impressione che ne aveva avuta era stata netta. Una creatura vivace, ardita e provocante... ma giovane da far pietà. Una bambina in trappola, così la descrisse.
«Lo odiava, capisce? L'aveva sposato senza rendersi conto di quello che faceva. E adesso...»
Era disperata, ecco cosa disse di lei. Smaniava, cercando una via d'uscita. Non aveva un soldo, e dipendeva in tutto e per tutto dall'anziano marito. Era, insomma, una creatura con le spalle al muro, insicura del proprio potere, e di una bellezza che era ancora più una promessa che una realtà. Non solo, era anche avida. Satterthwaite l'affermò con sicurezza. Insieme a quell'atteggiamento di sfida e di provocazione, c'era qualcosa di avido nella sua natura, un'ansia di afferrare la vita, di non lasciarsela sfuggire.
«Non ho mai conosciuto Martin Wylde» continuò Satterthwaite. «Però ho sentito parlare di lui. Viveva a un chilometro di distanza o poco più. Si occupava della sua fattoria. E lei cominciò a interessarsi di agricoltura, fece finta di interessarsene. Secondo me, era tutta una finzione. Vivien ha creduto di trovare in lui l'unico mezzo per sfuggire alla propria vita, e gli si è attaccata possessivamente, come un bambino. Be', le cose potevano finire soltanto in un certo modo. E noi sappiamo quale fu, perché le sue missive furono lette in aula durante il processo. Lui aveva conservato quelle di Vivien. Lady Barnaby, invece, no, ma dalle lettere di lei si capisce che Martin si stava raffreddando. Lo ammette, anche. E poi c'è l'altra ragazza. Abitava anche lei nello stesso villaggio di Deering Vale. Suo padre è il medico locale. L'ha vista al processo, forse? No? Già, mi ha detto di non esserci mai venuto. Allora gliela descriverò. Una ragazza bionda, biondissima. Gentile. Forse... sì, forse un tantino scioccherella. Ma molto riposante, sa. E leale. Soprattutto leale.»
Guardò Quin per riceverne incoraggiamento, e questi gli rivolse un pacato sorriso di apprezzamento. Satterthwaite continuò.
«Avrà sentito leggere quell'ultima lettera, cioè deve averla letta sui giornali, voglio dire. Quella scritta la mattina di venerdì 13 settembre. Piena di rimproveri disperati e di vaghe minacce, terminava supplicando Martin Wylde di andare a Deering Hill quella stessa sera, alle sei. Lascio aperta la porticina laterale per te, così nessuno saprà che sei venuto. Mi troverai nella sala da musica. La lettera venne consegnata a mano.»
Satterthwaite si zittì per un poco.
«Ricorderà che Martin Wylde, subito dopo l'arresto, negò addirittura di essere stato a casa dei Barnaby quella sera. Dichiarò di aver preso il fucile e di essere andato nel bosco a sparare. Ma quando la polizia gli mostrò le testimonianze raccolte, quella dichiarazione crollò. Avevano trovato le sue impronte digitali sia sul legno della porticina laterale della villa, sia su uno dei due bicchieri da cocktail rimasti sul tavolo nella sala da musica. A questo punto lui ammise di essere andato a trovare lady Barnaby, di aver avuto un litigio con lei ma di essere poi riuscito a calmare la donna. Giurò di aver lasciato il fucile fuori, appoggiato al muro accanto alla porticina, e dichiarò sotto giuramento che lady Barnaby era viva e vegeta quando lui se ne era andato pochi minuti dopo le sei e un quarto. Dice di essere tornato direttamente a casa, ma invece risultò che non vi arrivò fino alle sette meno un quarto e, come ho appena accennato, questa si trova solo a poco più di un chilometro di distanza. Non ci voleva mezz'ora per arrivarci. Non solo, ma dichiarò di essersi completamente dimenticato del fucile. Una deposizione molto poco convincente... eppure...»
«Eppure?» disse Quin.
«Be'» disse Satterthwaite soppesando ogni parola, «non è una deposizione plausibile, secondo lei? L'accusa l'ha messa in ridicolo, naturalmente, eppure io penso che abbia sbagliato. Vede, ho conosciuto molti di questi giovanotti, e le scenate sentimentali li sconvolgono profondamente... specialmente i tipi bruni, magri e nervosi come Martin Wylde. Le donne, dopo una scenata del genere, si sentono molto meglio, restano lucide, in possesso di tutta la loro calma. Ha la funzione di una valvola di sicurezza per loro, rimette a posto i nervi. Ma io riesco benissimo a immaginare Martin Wylde che se ne va con il cervello in tumulto, sconvolto e infelice, senza ricordare neanche lontanamente il fucile che ha lasciato appoggiato contro quel muro.»
Un altro silenzio di qualche minuto, poi continuò: «Non che questo abbia importanza. Perché quanto segue è fin troppo chiaro, sfortunatamente. Erano le sei e venti precise quando si è sentito lo sparo. Tutti i domestici l'hanno udito: la cuoca, la cameriera, la sguattera, il maggiordomo e la cameriera personale di lady Barnaby. Si sono precipitati tutti nella sala da musica. Lei era accasciata contro il bracciolo della poltrona in cui era seduta. Il fucile aveva sparato a poca distanza della sua testa, senza possibilità di mancarla. Almeno due pallottole le erano penetrate nel cervello».
Tacque di nuovo e Quin chiese, con finta indifferenza: «I domestici hanno deposto, vero?».
Satterthwaite annuì. «Sì. Il maggiordomo arrivò un attimo o due prima degli altri ma le loro testimonianze sono, praticamente, l'una la ripetizione dell'altra.»
«Quindi hanno deposto tutti» borbottò Quin, come se parlasse tra sé.
«Ecco, adesso che ci penso» disse Satterthwaite «la cameriera si presentò soltanto all'inchiesta. In seguito, è partita per il Canada, mi sembra.»
«Capisco» disse Quin.
Silenzio. Chissà perché sembrò che l'atmosfera del piccolo ristorante fosse colma di una strana inquietudine. Satterthwaite provò la curiosa sensazione di doversi mettere sulla difensiva.
«Perché non avrebbe dovuto andarci?» disse brusco.
«Perché avrebbe dovuto andarci?» disse Quin stringendosi leggermente nelle spalle.
Per qualche motivo, la domanda diede fastidio a Satterthwaite. Avrebbe voluto accantonarla, tornare su un terreno più familiare.
«Non potevano esserci molti dubbi sulla persona che aveva sparato quel colpo. A dire la verità, sembrò che i domestici avessero un po' perduto la testa. In casa non c'era nessuno che potesse prendere in mano la situazione. Passarono vari minuti prima che a qualcuno venisse in mente di telefonare alla polizia e quando vollero farlo, scoprirono che il telefono non funzionava.»
«Oh» disse Quin «il telefono era guasto.»
«Già, guasto» disse Satterthwaite, e fu colto dall'impressione di aver appena detto qualcosa di terribilmente importante. «Potrebbe essere stato manomesso di proposito» aggiunse, soppesando ogni parola. «Ma per quale motivo? La morte fu praticamente istantanea.»
Quin non disse niente e Satterthwaite intuì che la sua spiegazione non era soddisfacente.
«Non c'era nessun altro da sospettare all'infuori del giovane Wylde» proseguì. «Non solo, ma secondo la sua stessa dichiarazione era uscito da quella casa appena due o tre minuti prima che il colpo fosse sparato. E chi altri avrebbe potuto sparare? Sir George era a giocare a bridge in casa di amici, a poca distanza di lì. Si congedò dai padroni di casa alle sei e mezza e, sul cancello del giardino, trovò un domestico che gli stava portando la notizia. L'ultima mano di bridge era finita alle sei e mezza precise, su questo non c'è il minimo dubbio. Poi c'era il segretario di sir George, Henry Thompson. Quel giorno si trovava a Londra, a una riunione di affari tenutasi nel preciso momento in cui venivano sparate le fucilate. E infine, c'era Sylvia Dale che, tutto sommato, aveva un motivo più che valido per commettere il delitto, anche se può sembrare impossibile che c'entri in qualche modo. Era alla stazione di Deering Vale a salutare un'amica che partiva con il treno delle 18,28. Questo la esclude automaticamente. Poi, i domestici. Quali motivi potevano avere? Non solo, ma sono arrivati praticamente tutti insieme sul posto della tragedia. No, deve essere stato Martin Wylde.»
Tuttavia lo disse in tono poco convinto.
Continuarono il pranzo. Il signor Quin non era di umore discorsivo e Satterthwaite aveva detto tutto quello che aveva da dire. Ma il silenzio non fu infruttuoso. Anzi, venne colmato dalla crescente insoddisfazione di Satterthwaite, accresciuta e alimentata dalla tranquillità del suo compagno.
D'un tratto il signor Satterthwaite depose coltello e forchetta con un gesto brusco. «E se quel giovanotto fosse innocente sul serio?» disse. «Lo impiccheranno!»
Aveva un'aria sconvolta. Il signor Quin continuò a tacere.
«Perché, in fondo, non è come se...» cominciò, ma tacque subito. «Perché quella donna non avrebbe dovuto andare in Canada?» concluse, con apparente incoerenza.
Quin scosse la testa.
«Non so neanche in quale parte del Canada è andata» continuò Satterthwaite impermalito.
«Non potrebbe cercare di saperlo?» suggerì l'altro.
«Immagino di sì. Il maggiordomo, per esempio. Lui dovrebbe saperlo. Oppure c'è un'altra possibilità: Thompson, il segretario.»
Un'altra pausa. Quando riprese a parlare, la sua voce aveva un tono quasi supplichevole. «Perché, in fondo, non è come se io dovessi entrarci in qualche modo, in questa storia, vero?»
«Lei non c'entra, se quel giovanotto sarà impiccato fra tre settimane.»
«Be', sì... se la mette su questo tono. Già, capisco quello che vuole dire. Vita o morte. E quella povera ragazza! Non che io abbia un cuore di pietra... ma, in fondo... a cosa può servire? Non è un po' assurda tutta questa faccenda? Se anche riuscissi a sapere come si chiama quel posto del Canada dov'è finita la cameriera... be', vuol dire che dovrei andarci di persona.»
Satterthwaite sembrava veramente sconvolto. «E pensare che volevo partire per la riviera la settimana prossima!» disse con aria patetica.
La sua occhiata al signor Quin diceva chiaramente: «Mi lasci tranquillo, vuole?»
«Mai stato in Canada?»
«No, mai.»
«Un paese molto interessante.»
Satterthwaite lo guardò incerto. «Pensa che dovrei andarci?»
Quin si appoggiò allo schienale della seggiola e accese una sigaretta. Tra una boccata di fumo e l'altra, parlò in tono molto schietto.
«Credo che lei sia un uomo ricco, signor Satterthwaite. Non sarà un milionario, ma è un uomo che può indulgere a un hobby senza badare a spese. Lei ha assistito da spettatore ai drammi di altre persone. Non ha mai pensato di salire sul palcoscenico e di recitare una parte? Non si è mai visto nelle vesti dell'arbitro dei destini altrui, al centro del palcoscenico, con la vita e la morte nelle sue mani?»
Satterthwaite si sporse attraverso il tavolo. L'antica ansia di fare lo aveva colto di nuovo. «Lei vuole dire che... se andassi in Canada...»
Quin sorrise. «Oh, l'idea di andare in Canada è sua, non mia...» disse tranquillamente.
«Non può liquidarmi così, adesso» disse Satterthwaite con aria grave. «Ogni volta che ci siamo incontrati...» e si fermò.
«Ebbene?»
«C'è qualcosa in lei che non ho mai capito. Forse non lo capirò mai. L'ultima volta che ci siamo visti...»
«La vigilia di S. Giovanni.»
Satterthwaite sussultò, come se in quelle parole ci fosse la chiave di qualcosa che non capiva.
«È stato il 23 giugno?» disse con aria confusa.
«Sì. Ma non soffermiamoci su questo particolare. Non ha importanza, vero?»
«Se lo dice lei» disse Satterthwaite cortesemente. Si accorse che quel vago indizio gli stava sfuggendo fra le dita. «Quando tornerò dal Canada» disse, e fece una pausa imbarazzata «io... sarei molto lieto di rivederla.»
«Temo di non avere un indirizzo fisso al momento» rispose Quin con rammarico. «Però vengo qui spesso. Se anche lei lo frequenta abitualmente, sono certo che ci incontreremo di nuovo.»
Si congedarono amichevolmente.
Satterthwaite si sentiva eccitatissimo. Si precipitò all'agenzia Cook e s'informò sulle partenze delle navi. Poi telefonò a Deering Hill. Gli rispose la voce di un maggiordomo, melliflua e deferente.
«Mi chiamo Satterthwaite. Parlo a nome... ehm, a nome di uno studio legale. Vorrei qualche informazione su una donna che ha lavorato recentemente presso di voi come cameriera.»
«Potrebbe trattarsi di Louisa, signore? Louisa Bullard?»
«Precisamente» disse Satterthwaite, soddisfattissimo di venirlo a sapere.
«Sono spiacente, signore, ma non si trova più nel nostro Paese. È partita per il Canada sei mesi fa.»
«Può darmi il suo indirizzo attuale?»
Il maggiordomo dichiarò di nuovo di essere molto spiacente ma di ignorarlo. Si trattava di una località di montagna con un nome scozzese... ah! Banff, ecco, si chiamava così. Qualcuna delle altre domestiche della casa aveva aspettato sue notizie, ma finora non aveva scritto né aveva lasciato loro il suo indirizzo.
Satterthwaite lo ringraziò e riattaccò. Impavido, non si lasciò abbattere dalle difficoltà. Lo spirito d'avventura lo pervadeva. Sarebbe andato a Banff. Se Louisa Bullard era davvero laggiù, l'avrebbe rintracciata in un modo o nell'altro.
Con sua grande sorpresa il viaggio fu piacevolissimo. Erano molti anni che non faceva una crociera. Di solito frequentava la Riviera, Le Touquet, Deauville e la Scozia. E poi, la sensazione di essersi lanciato in una missione impossibile dava un sapore eccitante al suo viaggio.
A Banff scoprì di aver raggiunto il suo scopo senza difficoltà. Louisa Bullard era stata assunta nel grande albergo di quella località. Dodici ore dopo il suo arrivo, si trovava faccia a faccia con lei.
Era una donna sui trentacinque anni, con l'aria anemica ma di corporatura robusta. Aveva capelli castano- chiaro ondulati, e occhi castani pieni di onestà. Satterthwaite pensò che doveva essere una persona di cui ci si poteva fidare, anche se non sembrava particolarmente sveglia.
Lei credette senza difficoltà a quanto le disse, e cioè che era stato incaricato di farsi dare da lei ulteriori informazioni sulla tragedia di Deering Hill.
«Ho visto dai giornali che il signor Martin Wylde è stato dichiarato colpevole, signore. È una cosa molto triste.»
Tuttavia non sembrava che avesse dubbi sulla sua colpevolezza.
«Un giovanotto simpatico su una brutta strada. Ma, anche se non si deve parlare male dei morti, era la signora che non lo lasciava stare. Era lei che andava a cercarlo. Be', adesso sono stati puniti tutt'e due. C'è un versetto che tenevo appeso al muro quando ero piccola: "Non si inganna il Signore". Ed è verissimo. Sapevo che quella sera sarebbe successo qualcosa... e così è stato.»
«Può spiegarsi meglio?» disse Satterthwaite.
«Ero nella mia camera, signore, e mi stavo cambiando, quando ho guardato fuori dalla finestra. C'era un treno che stava partendo e il suo vapore bianco aveva creato una grossa nuvola. Mi crederà se le dico che ha preso la forma di una mano gigantesca? Una enorme mano bianca contro il rosso del cielo. Le dita erano ripiegate, adunche, come se si allungassero a prendere qualche cosa. Mi sono sentita i brividi. "Mai visto una cosa simile" mi sono detta. Quello era un segno che stava per succedere qualche guaio e, mi creda, non avevo ancora finito di pensarlo che si è sentito quello sparo. "Ecco che è arrivato" mi sono detta, e mi sono precipitata giù dalle scale e ho raggiunto Carrie e gli altri che si trovavano già nell'atrio e siamo entrati tutti insieme nella sala da musica e lei era lì, colpita alla testa... e c'era il sangue e tutto il resto. Orribile! Allora ho raccontato a sir George che avevo visto quel segno nel cielo, ma non mi è sembrato che lui ci desse molta importanza. Una giornata sfortunata, quella; me lo ero sentito nelle ossa fin dalla mattina. Un venerdì, e per di più tredici... cosa ci si poteva aspettare?»
Poi continuò divagando. Satterthwaite era paziente e più di una volta la riportò all'argomento, interrogandola con insistenza. Alla fine, fu costretto a dichiararsi sconfitto. Louisa Bullard gli aveva detto tutto quello che sapeva, e la sua era una storia quanto mai semplice e chiara.
Comunque, riuscì a scoprire un fatto importante. Il posto che aveva adesso le era stato proposto da Thompson, il segretario di sir George. Lo stipendio era talmente alto che si era lasciata tentare e aveva accettato, anche se bisognava lasciare l'Inghilterra in quattro e quattr'otto. Un certo signor Denman si era occupato di organizzarle tutto, lì in Canada, e l'aveva avvertita di non scrivere alle sue amiche in Inghilterra perché "questo avrebbe potuto metterla nei guai con l'Ufficio Immigrazione". E Louisa aveva accettato quella spiegazione.
Lo stipendio, al quale la donna accennò per caso, era talmente alto che Satterthwaite ne rimase sbalordito. Tanto che, dopo aver esitato parecchio, decise di mettersi in contatto con Denman.
Non ebbe molte difficoltà a farsi raccontare tutto quello che sapeva. Costui aveva incontrato casualmente Thompson a Londra, e questi gli aveva fatto un grosso favore. Poi, in settembre, gli aveva scritto dicendogli che, per motivi personali, sir George era ansioso di allontanare quella ragazza dall'Inghilterra. Poteva trovarle un lavoro? Gli era anche stata mandata una somma di denaro con cui aumentarle notevolmente lo stipendio.
«I soliti guai, immagino» disse Denman appoggiandosi allo schienale della seggiola. «Però mi sembra una brava ragazza, fra l'altro. Un tipo quieto.»
Satterthwaite espresse il parere che, secondo lui, non si trattava dei soliti guai. Aveva la certezza che Louisa Bullard non fosse una ragazza per la quale sir George Barnaby aveva preso una sbandata. Per qualche motivo era diventato necessario farla partire dall'Inghilterra. Ma perché? E chi c'era in fondo a questa faccenda? Sir George in persona, per il tramite di Thompson? Oppure aveva combinato tutto quest'ultimo e si era servito abusivamente del nome del principale?
Continuando a meditare su questi interrogativi, Satterthwaite fece il viaggio di ritorno. Era avvilito e depresso. La spedizione in Canada non era servita a niente.
Il giorno successivo a quello del suo ritorno, con la sensazione di aver fallito nell'impresa, si avviò all'Arlecchino. Non si aspettava certo di aver fortuna alla prima occasione, invece ebbe la soddisfazione di vedere, seduta al tavolo un po' appartato, la figura familiare di Harley Quin che gli sorrideva.
«Bene» disse Satterthwaite, mentre si spalmava sul pane un po' di burro. «Lei mi ha mandato a compiere un'impresa inutile.»
Quin alzò le sopracciglia. «Io, l'ho mandata?» disse. «L'idea è stata interamente sua.»
«Di chiunque fosse l'idea, comunque, ho fatto un buco nell'acqua. Louisa Bullard non aveva niente da raccontare.»
Quindi Satterthwaite si lanciò in un resoconto particolareggiato della sua conversazione con la cameriera e del successivo colloquio con Denman. Quin lo ascoltò in silenzio.
«In un certo senso, questo conferma i miei dubbi» disse Satterthwaite. «La ragazza è stata allontanata deliberatamente. Ma perché? Non capisco.»
«No?» disse Quin, e la sua voce, come sempre, era provocatoria.
Satterthwaite arrossì. «Forse lei pensa che avrei dovuto interrogarla in modo più abile. Eppure le assicuro che le ho fatto ripetere la storia più di una volta. Non è stata colpa mia se non sono riuscito a ottenere quello che vogliamo.»
«È sicuro» disse Quin «di non essere riuscito a ottenere quel che voleva?»
Satterthwaite guardò sorpreso quegli occhi tristi, lievemente beffardi, che conosceva così bene. L'ometto scosse la testa, un po' perplesso.
Ci fu un silenzio e infine il signor Quin disse, cambiando totalmente modo di fare: «Giorni fa lei mi ha fatto un quadro meraviglioso delle persone coinvolte in questa faccenda. Con poche parole le ha tratteggiate con chiarezza, come se fossero state incise a bulino. Vorrei che facesse qualche cosa di simile anche per la casa: quella, l'ha lasciata in ombra».
Satterthwaite si sentì lusingato.
«La casa? Deering Hill? Be', è una di quelle ville che oggigiorno sono molto comuni. Mattoni rossi, sa?, e bovindo. Orribile a vedersi, ma comoda per viverci. Non molto grande, e con quasi due acri di terreno. Si assomigliano quasi tutte, queste case intorno ai campi di golf. Costruite perché ci abitino i ricchi. L'interno ricorda vagamente quello degli alberghi: le camere da letto sembrano piccoli appartamenti. Ognuna col suo bagno con acqua calda e fredda e una quantità di interruttori e maniglie dorate. Non una vera casa di campagna, ma di una grande comodità. Si capisce subito che Deering Vale si trova soltanto a trenta chilometri da Londra.»
Il signor Quin ascoltava con attenzione. «Il servizio ferroviario è cattivo, ho sentito dire» osservò.
«Oh, non saprei» disse Satterthwaite, con rinnovato entusiasmo. «Ci sono stato l'estate scorsa per poco tempo. L'ho trovato piuttosto comodo per la città. C'è un treno ogni ora. Partono dalla stazione di Waterloo ai quarantotto minuti di ogni ora.»
«E quanto ci vuole per raggiungere Deering Vale?»
«Sempre tre quarti d'ora. Sono a Deering Vale a ogni ora e ventotto minuti.»
«Ma certo» esclamò Quin con un piccolo gesto di stizza. «Avrei dovuto ricordarmene. La signorina Dale non andò a accompagnare alla stazione qualcuno che partiva con il treno delle 18,28 quella sera?»
Satterthwaite non rispose per un minuto o due. Era tornato di colpo ai suoi problemi insoluti. Infine rispose: «Vorrei che mi spiegasse cosa voleva dire poco fa quando mi ha chiesto se ero sicuro di non essere riuscito a ottenere quello che volevo».
Sembrava un po' complicato detto in quel modo, ma il signor Quin non fece finta di non averlo capito.
«Mi stavo domandando se lei, forse, non pretende un po' troppo. Dopo tutto, ha scoperto che Louisa Bullard era stata deliberatamente allontanata dall'Inghilterra. Visto che su questo fatto non ci sono dubbi, ci sarà pur una ragione! E la ragione deve trovarsi in quello che le ha detto.»
«Va bene» disse Satterthwaite in tono polemico. «E che cosa mi ha detto? Se avesse dovuto presentarsi al processo a deporre come teste, cosa avrebbe detto?»
«Avrebbe potuto raccontare quel che aveva visto» disse Quin.
«Ma cosa aveva visto?»
«Un segno nel cielo.»
Satterthwaite lo fissò con gli occhi sbarrati.
«Sta pensando a quell'assurdità? A quell'idea superstiziosa che dovesse trattarsi della mano di Dio?»
«Forse» disse Quin. «Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere stata davvero la mano di Dio, non le pare?»
Il suo compagno rimase visibilmente scosso per la gravità con cui aveva parlato. «Stupidaggini» disse infine. «Ma se ha detto lei stessa che si trattava del vapore della locomotiva!»
«Chissà se era un treno che andava a Londra o ne veniva?» mormorò Quin.
«Un po' difficile che fosse un treno che andava in città. Partono a ogni ora e dieci minuti. Dev'essere stato un treno che veniva da Londra - il diciotto e ventotto - no, non è esatto. Louisa Bullard mi ha detto che lo sparo è risuonato subito dopo, e noi sappiamo benissimo che il colpo è stato sparato alle sei e venti minuti. Impossibile che il treno fosse in anticipo di dieci minuti!»
«Un po' difficile su una linea come quella» ammise il signor Quin, d'accordo con lui.
Satterthwaite aveva gli occhi smarriti nel vuoto.
«Forse era un treno merci» mormorò. «Ma certo, in tal caso...»
«Non ci sarebbe stato bisogno di mandarla via dall'Inghilterra, sono d'accordo con lei» disse Quin.
Satterthwaite lo fissava, ammaliato.
«Il diciotto e ventotto» disse lentamente. «Ma, se il colpo è stato sparato a quell'ora, perché tutti hanno detto di averlo udito prima?»
«Ovvio» disse Quin. «Gli orologi dovevano essere sbagliati.»
«Tutti, proprio tutti?» disse Satterthwaite, dubbioso. «Una coincidenza un po' strana.»
«Non stavo pensando a una coincidenza.» disse l'altro. «Stavo pensando che era un venerdì.»
«Venerdì?» disse Satterthwaite.
«Non è stato lei a dirmi che sir George caricava sempre gli orologi al venerdì pomeriggio?» disse Quin in tono di scusa.
«Li ha messi indietro di dieci minuti» disse Satterthwaite quasi in un sussurro, tanto si sentiva sbigottito per la scoperta. «Poi è andato a giocare a bridge. Secondo me, ha letto il biglietto mandato dalla moglie a Martin Wylde quella mattina... sì, dev'essere così, l'ha aperto e l'ha letto. Ha lasciato gli amici del bridge alle diciotto e trenta, ha trovato il fucile di Martin vicino alla porticina laterale, è entrato e le ha sparato alla testa. Poi è uscito, ha buttato il fucile fra i cespugli dove è stato trovato in seguito, e ha fatto in modo di dare l'impressione di uscire dal cancello dei vicini quando qualcuno è corso a chiamarlo. Ma il telefono... come si spiega il telefono? Ah, sì, capisco. L'ha interrotto in modo che non si potesse chiamare la polizia... al commissariato avrebbero preso nota dell'ora in cui arrivava la telefonata. Adesso sì che la storia di Wylde funziona! È uscito da casa Barnaby esattamente alle sei e venticinque. Camminando lentamente può essere arrivato alla sua fattoria alle sette meno un quarto. Sì, adesso vedo tutto chiaro. Louisa era l'unico pericolo con quella sua eterna mania di raccontare le sue fantasie superstiziose. Qualcuno avrebbe potuto cogliere il significato di quel treno e allora... buonanotte a un alibi eccellente!»
«Magnifico» fu il commento del signor Quin.
Satterthwaite si voltò verso di lui, avvampando di gioia per il successo. «L'unica cosa, adesso, è... come si deve procedere?»
«Io suggerirei Sylvia Dale» disse Quin.
Satterthwaite sembrò dubbioso. «Gliel'ho già detto» rispose. «A me è sembrata... ehm... un po' sciocchina...»
«Ha un padre, i fratelli, che faranno i passi necessari.»
«Questo è vero» disse Satterthwaite sollevato.
Poco dopo era seduto in compagnia della ragazza e le stava raccontando tutta la storia. Lei lo ascoltò con attenzione. Non gli fece domande ma, quando ebbe finito, si alzò.
«Devo chiamare un tassì, subito.»
«Mia cara bambina, cos'ha intenzione di fare?»
«Vado da sir George Barnaby.»
«Impossibile! È il modo sbagliato. Mi permetta di...»
Continuò a parlare trotterellando al suo fianco. Ma non la impressionò minimamente. Sylvia Dale era assorta nei propri piani. Gli concesse di salire con lei sul tassì ma fu sorda a tutte le sue rimostranze. E lo lasciò seduto lì mentre entrava nell'ufficio londinese di sir George.
Ne uscì mezz'ora dopo. Aveva l'aria esausta e la sua bellezza bionda appariva spenta e sciupata come un fiore senz'acqua. Satterthwaite la accolse con preoccupazione.
«Ho vinto» mormorò la ragazza abbandonandosi contro lo schienale con gli occhi semichiusi.
«Come?» balbettò lui sbalordito. «Cosa ha fatto? Cosa ha saputo?»
Lei si mise a sedere.
«Gli ho detto che Louisa Bullard aveva raccontato la sua storia alla polizia. E che la polizia aveva fatto qualche indagine, che lui era stato visto mentre entrava nel giardino e ne usciva di nuovo pochi minuti dopo le diciotto e trenta. Gli ho detto che il gioco era fallito. È... è crollato. Gli ho detto che aveva ancora un po' di tempo, che la polizia non sarebbe arrivata ad arrestarlo almeno per un'altra ora. Gli ho detto che, se avesse firmato una confessione che era stato lui a uccidere Vivien, io non avrei fatto niente, ma, se si rifiutava, mi sarei messa a urlare e avrei rivelato la verità a tutto il palazzo. Era in preda a un tale panico che non sapeva neanche quello che faceva. Ha firmato quel documento quasi senza accorgersene.»
Glielo mise in mano. «Lo prenda, lo prenda. Lei sa cosa farne perché Martin venga messo in libertà.»
«L'ha proprio firmato!» esclamò Satterthwaite sbalordito.
«È un po' sciocco, sa?» disse Sylvia Dale. «Lo sono anch'io» aggiunse, dopo averci pensato un momento. «Ecco perché so come si comportano le persone stupide. A noi si svuota il cervello, sa, e allora facciamo la cosa sbagliata e poi ce ne pentiamo.»
Rabbrividì e Satterthwaite le diede un colpetto affettuoso sulla mano.
«Lei ha bisogno di tirarsi un po' su» disse. «Venga, siamo vicino a uno dei miei locali preferiti, l'Arlecchino. C'è mai stata?»
Lei disse di no con la testa.
Satterthwaite fece fermare il tassì e accompagnò la ragazza nel piccolo ristorante. Le fece strada fino a un tavolo un po' appartato con il cuore che gli batteva pieno di speranza. Ma il tavolo era vuoto.
Sylvia Dale lesse il disappunto sulla sua faccia. «Cosa c'è?»
«Niente» rispose Satterthwaite. «Ecco, vede, quasi mi aspettavo di trovare qui un mio amico. Ma non ha importanza. Penso che, un giorno o l'altro, io rivedrò.»