18
Barlassina, 2007
Nelle settimane successive alla morte di Elio nevicò.
Fitto fitto, nevicò. E fece freddo. Un freddo denso, spesso, e poi una neve tutta bianca; e freddo e neve cancellarono molte cose belle.
E tutto questo, per di più, solo nel cielo di Teresa.
Al di fuori, invece, come se lei avesse attirato ogni possibile rigore, ci fu un sole sfacciato, eccessivo, arrogante. Un anticipo di estate.
E Teresa ne era certa: quel caldo era tutta colpa sua. E sua di Elio, per di più.
’Sto scemo, pensò. Neanche è arrivato che la prima cosa che ha fatto è stato fare meglio il tempo.
Ed era una battuta, sicuro.
Ma una battuta triste. Fatta di lacrime.
Perché il tempo migliore, per lei, era stato quello passato con lui, con Elio. Il tempo in cui erano stati in due.
Un’epoca finita, e finita chissà dove, per di più.
Teresa, per quei giorni, avrebbe desiderato un clima più comprensivo. Più cupo, e invece fuori sembrava già arrivata la bella stagione. Qualcuno attraversava la strada in pantaloncini corti e ciabatte, e i bimbi andavano a giocare in giardino. Lamentavano le fughe del pallone oltre il muro del vicino, in strada, sotto le siepi verdi.
Il fastidio che le gioie altrui infliggevano a Teresa era parte di quella neve che le cadeva dentro.
Ma che cos’è la felicità se non una stagione variabile che arriva quando può, irrispettosa delle stagioni altrui? Che cosa stupida è la felicità, pensava Teresa. Non si accorge che ci sono anche io qui? Non può andare via, tornare più tardi? Non può aver rispetto del mio dolore?
E fu allora che Teresa si arrabbiò con la felicità, e si imbufalì con il tempo. Perché Elio aveva aggiustato quello di tutti e rotto per sempre il suo.
Nel presente.
Nel futuro.
E persino nel passato.
Come era strano, di colpo, capire di essere sola. E che tutta quella felicità, là fuori, non sarebbe stata più per lei, e che anche quando fosse tornata, la felicità, e le avesse bussato alla porta, e lei l’avesse accolta e fatta accomodare sul divano bello, lei, la felicità, l’avrebbe trovata da sola.
“Ed Elio?” le avrebbe chiesto quella felicità futura.
“È morto” avrebbe comunicato Teresa a ogni felicità a venire.
E fu allora che Teresa cominciò a odiare il futuro.
E le felicità passate? Quelle che erano arrivate nel corso lungo degli anni, nei sessant’anni di vita insieme, in due, non si sarebbero sgonfiate di colpo nei ricordi?
Non si sarebbero dimezzate, così come loro, anche le felicità passate?
E fu allora che Teresa cominciò a odiare il passato.
E un istante dopo, quindi, cominciò a odiare il presente.
Elio l’aveva fregata, non solo perché l’aveva lasciata sola. Ma perché per lei, quel costruttore di mondi, era stato il suo mondo. Era stato tutto. E quando dalla vita ti sparisce una persona così, ecco che di colpo ti scompare anche il mondo, e non puoi farci niente.
Ecco perché Elio costruiva mondi: per non averne uno solo, per tenersi una possibilità di vita oltre a lei.
E fu allora che Teresa si arrabbiò col mondo. E sognò di cambiarlo. Come una ruota di bicicletta rotta.
Ma avrebbe mai potuto tornare indietro e cambiare tutto?
E com’era cominciato tutto? Da dove poteva partire per modificare ogni cosa?
C’era una foto appesa nel loro salotto.
Incorniciata, in bianco e nero. La foto di un vecchio ciclista, abbracciato a Elio, da una parte, e a lei dall’altra.
Teresa si avvicinò, la guardò bene. Scattata a Barlassina chissà da chi, durante un Giro d’Italia che passava di lì.
Fausto Coppi.
E di qui lei, Teresa, e di là lui, Elio.
E al centro, a unirli, o a dividerli, chissà: lui, Fausto Coppi.
L’unica vera ragione per cui lei aveva incontrato Elio. E come solo le menti che soffrono sanno fare, nella mente di Teresa si accese la luce di un progetto.
Tutto a forma di vendetta.