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Secondo mio padre, io m’inventavo sempre un sacco di cose, pure la ragione per cui sono mezzo orfano l’avrei inventata io.

«È il motivo per cui sei l’unico ad andare così d’accordo con quel muto» diceva. «Quello è orfano completo, e tu sei già a metà.»

«Ma con un padre che beve così» si attaccava al discorso Vinicio, che era come i campanacci delle sue vacche, non stava mai zitto, «sei sulla strada per diventarlo presto tutto intero.»

E si litigavano la bottiglia, l’ultimo sorso di Groppello, e anche l’ultima battuta.

Quella in cui divenni mezzo orfano, comunque, era la stagione in cui mio padre beveva molto più di adesso. Qualche tempo prima mia madre, molto più giovane di lui, era finita a Santa Giustina a dare una mano per la raccolta delle mele, ma aveva sbagliato mese: era arrivata a luglio, ad agosto aveva incontrato mio padre, e a maggio, guarda un po’, ero nato io.

E con me, lei, aveva tentato di restare.

«Mamma…» mi diceva guardandomi negli occhi quando ero piccolissimo. «Mam-ma» sillabava mostrandomi le labbra e il loro movimento come se dovessi rigurgitarle quella parola da un momento all’altro.

E chissà come andò che un giorno, invece, tornato dall’orto, tutto sporco di campi e vacche, mi prese in braccio mio padre, e per la prima volta dissi una parola che fu: «Groppello…».

Forse per l’odore del suo fiato, forse perché da dire, quassù, è già una parola con più senso di mamma, forse perché quella parola la sentivo pronunciare più di ogni altra, in quei mesi, in casa mia, da lui che ne aveva sempre sete, da lei che si lamentava di quella sua sete.

Il Groppello è il vino di mio padre: è come lui. Amaro e forte, oppure dolce. A seconda delle annate. E a volte anche solo del numero dei bicchieri.

Fatto sta che mio padre, con quel viso disegnato dal freddo e dal vino, rise, e mi alzò ancora come fossi il re degli stambecchi.

Mia madre non la prese bene. Capì quanto fossi figlio di quell’uomo e quanto lui fosse perduto. E si trasferì giù in paese dalla mamma. La sua.

E ci lasciò soli, quassù nella malga grande.

Poi un pomeriggio mio padre mi portò a Dermulo, ogni tanto capitava. E fu allora, forse per paura, che m’inventai quel gioco.

Venne a riprendermi da lei, da mia madre, poco prima di sera, e per riportarmi su alla malga allungò la strada per mostrarmi la diga. La diga di Santa Giustina. Quella che lui aveva visto costruire, quella finita nel 1951. Ventiquattro anni prima che io nascessi.

«Ti piace?» mi chiese, sputandoci contro.

«Non saprei…» gli dissi io che non capivo la domanda, ma ne coglievo il tono duro.

E lui mi domandò che cos’è che non sapessi.

«Non saprei dire se mi piace. Vedo cemento, vedo la diga, è molto alta. Brutta non mi pare…»

«E basta?» insisté invece lui stupito. «Tu qui ci vedi solo una diga?»

Ma che ci vedeva lui di più? Era cemento, calcestruzzo, era la diga. Di più che c’era? Nei miei occhi non c’entrava nient’altro.

Allora provai a concentrarmi.

«Cemento, la diga, e il ponte di ferro lassù.»

«E poi? Non riesci proprio a vedere altro

E non è che io fossi scarso, o miope, è che non c’era proprio nient’altro da vedere lì, c’era quello: un enorme muro verticale alto più di centocinquanta metri.

Eppure per gioco, senza troppa convinzione, presi a fargli una piccola lista delle cose che non vedevo, ma che sicuramente c’erano.

«Qualche betulla ai lati, gli abeti sugli argini, i castagni, le querce, il giglio rosso, la genzianella, e se alzo la testa al massimo e guardo altissimo: la cima nevosa dei monti. Non sembrano denti di un gigante steso che spalanca la bocca e aspetta una poiana per fare uno spuntino?»

«No» disse mio padre spazientito con il suo tono da pugno. «Non sembrano denti di un gigante: lo sono. Lo sono davvero.»

E quindi disse quella cosa tutta strana che gli mosse la ruga fonda del viso, a metà guancia, come un terremoto.

«Vuoi farmi un piacere? Butta via tutto. Butta via tutto quello che hai visto, lavatelo via dagli occhi, piangi se ti serve farlo. Ma il gigante no, il gigante tienilo. E sai perché?»

«Perché così le mele alte ora che non c’è più mamma ce le raccoglie lui?»

«No» sorrise, e non capitava quasi mai,«perché è invisibile. Tu hai visto l’invisibile. Io non lo so più fare, nessuno di noi sa farlo. Ma tu non smettere mai. Non mollare un attimo di vedere l’invisibile.»

E così avevo iniziato a vedere l’invisibile. E a scrivermelo tutto, sull’Atlante, per non perderlo mai.

Quell’estate, al mattino, dalla nostra malga di legno, dalla mia finestra, si vedevano le valli. I monti, i dirupi, i colori inafferrabili delle montagne; e le loro forme mi sembravano righe tirate dritte con il righello nel solo intento di unirsi in vetta: in cima.

Ecco perché puntiamo alle cime, pensavo guardando salire scalatori e camminatori, per ascoltare in un punto solo le storie di tutti i versanti, per sentirli parlare tutti insieme, nel coro di quel panorama che sono.

Perché chi si accontenta di guardare le montagne dal basso non sa cosa significa vedere le nuvole dall’alto. Non sa cosa si perde. Non sa quanta magia si trova in quel tappeto bianco fatto di nulla visto da sopra. Da sopra le cime.

Pensavo fosse quello il modo di allenare l’invisibile a non sparire. Ed è lì che lo scrivevo: nell’Atlante, era lì che conservavo tutto l’invisibile che pescavo in giro quando la mattina, dalla finestra della malga, guardavo la valle più in basso, e aspettavo le sei e un quarto per respirare a pieni polmoni e soffiare fortissimo verso tutti i lampioni accesi di Santa Giustina.

E li vedevo spegnere. Di colpo. Tutti insieme. Come candeline su una torta.

E poi allora toccavo le baite sui versanti dei monti tra il verde lassù dei boschi. Ne toccavo una, due, tre… toccavo là, là e poi lassù, e le vedevo accendersi di luce, dentro, appena ne sfioravo i tetti.

E scrivevo tutto quanto nell’Atlante.

Ecco che cos’era quel mio gioco: era come scoprire per la prima volta il respiro del mondo.

E come potevo non dividere un gioco così con Sofia e Ismaele?