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Ismaele era più veloce.

Perché aveva gambe più lunghe.

Perché sapeva che stavo rincorrendo lui, che l’avrei ucciso se l’avessi preso. Perché sapeva che lo stavo odiando, ecco perché filava come il vento. L’aria mi veniva addosso in banchi molli, ed era così umida che mentre l’attraversavo mi bagnava come fosse pioggia.

La sera, dal lago che cresceva, si alzava sempre un freddo denso che entrava negli occhi facendo il male di un cazzotto.

Correvo.

Ma più di me Ismaele.

Che cos’era questa storia? Perché aveva baciato Sofia? E davvero le aveva parlato? Ed era per quello che voleva sapere da me cosa fosse l’amore? Per dirlo a Sofia? E dirlo come, poi? Con l’Atlante dell’Invisibile? Con le mie parole, lui che non parlava voleva le mie da dire a lei?

Era difficile capire Ismaele, e forse io non lo capii davvero mai del tutto, perché quella notte fece la sua cosa più incredibile: sparì.

Sparì per sempre.

Tagliò via il paese, piegò in discesa verso i campi, e poi, ancora via come una furia, andò verso il nostro prato. Prese il sentiero che scende all’eremo di Santa Giustina, quello fatto di polvere e sassi, quello che l’umidità stava già trasformando in fango.

Poi tirò dritto. Superò il castagno.

Entrò nel bosco. Io gliel’avevo già vista fare quella cosa.

Una volta l’avevo visto correre fino all’albero ai piedi del quale aveva portato un tonno… quella volta che poi di colpo mi era svanito davanti e Gattabuia era precipitata dall’alto. Dal ramo di un albero.

Ismaele arrivò sulle radici di quell’albero da cui avevo visto cadere Gattabuia. Alzò il piede destro come dovesse fare un gradino e lo poggiò nel nulla. E poi alzò il piede sinistro, fece forza sul destro che pigiava sull’aria e sollevò la gamba. E fu come vedergli fare un gradino.

Nell’aria. Nel vento. Nel nulla.

Nel buio della notte del bosco.

Ne fece altri tre, forse quattro, di gradini, e poi sparì tra i rami.

Lentamente mi avvicinai al punto in cui Ismaele era sparito. Era come se fosse entrato in una tasca invisibile del bosco, in cima a un albero.

Allungai una mano, lentamente, verso il punto in cui Ismaele aveva cominciato a volare.

E trovai un gradino. Un gradino c’era davvero.

E poi una scala.

Una scala di legno, di quelle da fienile, da stalla, di legno spesso e pioli, completamente ricoperta di specchi.

Schegge, frammenti, specchietti retrovisori, lo specchio in frantumi del bagno della scuola.

Specchi.

Ismaele aveva ricoperto la scala di specchi. Ecco perché da lontano sembrava invisibile! La scala rifletteva alberi! Ombre! Bosco! Cielo! Sentiero! Terra! Notte!

Non vedevi la scala, vedevi il bosco che vi si rifletteva quando la guardavi, come se quegli alberi riflessi fossero altri alberi alle sue spalle. Ecco perché Ismaele sembrava volare!

Cominciai a fare il primo gradino.

Il secondo.

Sul ramo, su un ramo alto, Ismaele aveva costruito una casa di legno. E, come per la scala, l’aveva completamente tappezzata di specchi.

Era la sua casa invisibile.

La casa invisibile di un bambino muto!

Salii con calma.

Ogni tanto sentivo scricchiolare il ramo, tintinnare gli specchi, o forse erano le nostre ossa. Forse era la paura.

Se qualcuno fosse stato nel bosco, ai confini del prato di Santa Giustina, vicino al nostro castagno, forse avrebbe visto anche me finire dentro l’invisibile.

Quando entrai nella casa e vidi Ismaele lì dentro, dentro quel mondo tutto suo, rannicchiato in un angolo, stava piangendo.

Teneva le ginocchia appoggiate al petto, la fronte sulle ginocchia, e piangeva, tirando su col naso.

E fu vederlo piangere che mi tolse la rabbia dal corpo.

E non riuscii a dire altro che non fosse: «Ismaele».

E poi a ripetere: «Ismaele…».

A dirlo ancora una volta, «Ismaele», mentre gli toccavo una spalla per scrollarlo un poco. E fu quando lo toccai che cominciò a urlare.

«Giulio» disse. «Mi chiamo Giulio!»

E lo disse con la sua voce. Con una voce che io non avevo mai udito.

«Ismaele me l’ha dato mia zia: ma io mi chiamo Giulio!»

Ismaele si chiama Giulio.

Ismaele si chiama Giulio e parla.

Ismaele si chiama Giulio, parla e ha costruito una casa invisibile nel bosco rubando gli specchi a sua zia suora.

E mentre io cominciavo a non capirci più nulla, ebbi d’incanto l’impressione che Sofia invece già sapesse tutto.

«Mi chiamo Giulio e parlo» disse ancora, «chi cazzo pensi le abbia insegnate le parolacce ai pappagalli di mia zia?»

«Ma perché non me l’hai mai detto?»

«Perché ero muto» disse soltanto. Appena prima di aggiungere quella cosa che a pensarci bene fa una paura del diavolo.

«Quando mi sono visto nello specchio, riflesso, con mia zia suora sopra a lavarmi la bocca, col sapone, mentre fissavo in quello specchio i miei occhi rossi e avevo la schiuma amara sulla lingua, ho pensato che sarei sparito. Ho desiderato che lo specchio mi prendesse. Dentro di sé, per farmi sparire. E alla fine ce l’ho fatta.»

E fu a quel punto che divenni muto io.

Ma che potevo dire? Stava finendo tutto.

Forse passarono dei minuti, lunghi, o forse anche delle ore, o forse fu un istante – chi lo sa quanto passò davvero –, fatto sta che a un certo punto arrivò Sofia.

Salì la scala invisibile, si arrampicò nella casa e ci trovò lì, vicini e zitti.

Io la guardai come un tramonto triste.

E credo lei lo sentì tutto, quel tramonto.

«Ti è caduto» disse soltanto. «Mentre correvi dietro a quello» aggiunse poi.

E con un braccio lo allungò verso di me: l’Atlante.

L’aveva raccolto, me l’aveva riportato.

Valeva ancora? O forse avremmo perso anche quel gioco?

Arrabbiandoci l’un l’altro, accusandoci l’un l’altro, solo diventando adulti?

Fu a me che infine venne quell’idea.

Uscimmo dalla casa invisibile, ma senza scendere dal ramo.

E lei apparve tra le cime scure: la luna.

Usciva per intero, tonda, da un buco d’alberi. Si staccava netta dal cielo nero, sembrava il gettone di una partita che dovevamo ancora giocare.

Non ci dicemmo nulla: giocammo e basta.

Giulio abbracciò la corteccia e mi sollevò sulle spalle, mentre Sofia mi teneva una mano, per darmi più equilibrio. E io da lassù la presi come si prende qualcosa di sottilissimo: le ali di una libellula, il cuore di una lucciola. La carezza del vento.

E presi la luna.

E lei sparì dal cielo, inghiottita dal bosco.

Era la luna. Era la luce. E ora era tutta nostra.

«Giù! Giù! Veloce!», e Sofia aprì a metà l’Atlante dell’Invisibile, alle pagine centrali.

Ed è lì che la posai.

La luna.

E poi pum. Lo chiusi forte.

Avevamo quarantadue anni quando quella notte rapimmo la luna, quarantadue anni in tre.

E fu in quel momento che Regola diventammo noi.

«Regola numero uno: chi parla del rapimento della luna, che i Krampus se lo prendano» disse Giulio.

«Regola numero due: rivogliono la luna? E noi gliela ridiamo, ma solo se e quando ci ridaranno tutto. Il paese, il prato. Noi. Tutto!» aggiunse Sofia.

E infine toccò a me.

«Regola numero tre: le cose infinite non finiscono, svaniscono magari, ma non possono finire. E se diventano invisibili, basta chiudere gli occhi e le ritrovi tutte lì. Le cose infinite continuano, in tutte le cose invisibili di cui siamo parte.»

Fu in quel momento di rabbia che giurammo alla Regola. Che giurammo di tornare.

A liberare la luna. A rivedere il prato, il paese, a essere ancora noi. In un futuro senza lago.

Per dirci che le cose infinite non finiscono.

E che noi torneremo per farle ancora vivere.

Quando giurammo davvero ci venne da piangere tanto forte, ma tanto forte, che di colpo cominciammo a ridere.

A ridere.

Ridere. E ridere. E ridere ancora.

E ridere che avremmo potuto anche non smettere più.

Di ridere, abbracciarci, piangere e poi ancora ridere.

Come quando finisce qualcosa di bellissimo.