3 GIORNI PRIMA DI NATALE

Mattina

Il dottor Conner sorseggia la sua tisana, posa la tazza sul tavolo e congiunge le mani, quasi dovessimo recitare una preghiera. Un albero di Natale luccica alle sue spalle.

«Allora, mi dica, sono matta?»

Lui scuote la testa. «Innanzit...»

«Devo saperlo, la prego. Mi sta tornando la psicosi? Lei ha fatto tutte le sue domande, la prego.... Ecco perché l’ho supplicata di darmi un appuntamento: devo sapere se sono in grado di badare a me stessa, alla bambina che ho in grembo e a Jamie. Non posso andare avanti così un giorno di più.»

Lui allarga le braccia e mi fa segno di calmarmi. «Rachel, ho ancora un paio di domande per lei. Sulla sua precedente gravidanza.»

Io lo guardo, la sua faccia amichevole inclinata verso di me con aria di partecipazione, la camicia a quadretti bianchi e blu sotto il golf di lana.

«Sa, è tutto così difficile...» dico con un sospiro.

«Ma certo», ribatte, «è normale.»

Guardo fuori dai finestroni della sala di questa bella casa sul mare. Il cielo è grigio perla con delle pennellate di azzurro, e i primi soffici fiocchi della tanto attesa nevicata cominciano a scendere. Laggiù sulla spiaggia di Maenporth c’è un cane tutto solo, apparentemente senza padrone, che abbaia alla neve quasi ne avesse paura.

Il dottor Conner ci riprova.

«Lo so com’è andata, Rachel... è stata lei stessa a raccontarmelo», mi dice, «ma dopo... cos’è successo dopo?»

Seduta qui, devo costringermi a parlare, perché la verità è molto più faticosa delle bugie. «È... andata così. Vede, la bimba era... era nata terribilmente prematura. La mia bimba, mia figlia. Dodici settimane prima del termine, forse anche di più. Me l’hanno portata via subito, mi hanno spiegato che non stava bene, qualcosa a che fare con le gambe, la spina dorsale. E... e poi lei è morta poco dopo. Non l’ho mai tenuta in braccio, non ho mai tenuto in braccio la mia bambina.» Trovato il filone del dolore, il minerale nella roccia, sto per scoppiare a piangere. «Ecco perché volevo tanto avere dei figli, per superare il dolore. Se... se... se è possibile. Sempre che sia possibile. Lo so che ho smesso di crederci nel momento in cui mi hanno detto che la mia bimba era morta. Ma... ma ci è voluto un po’ prima che il mio esaurimento si manifestasse. Forse è per questo che non ho mai pensato alla psicosi post partum.»

Il cane si è rimesso a inseguire la neve, saltando e abbaiando, quasi impazzito. Ma il vetro attutisce i suoni all’esterno e non si sente niente. Tutti i rumori sono smorzati, una mano premuta sul mondo che urla. Ricordo la mano di mio padre premuta sulla mia bocca.

«Sa, anche se mia figlia era morta, ho capito che potevo vendicarmi. Non mi restava altro.»

Conner ha un’aria perplessa. «Non sono sicuro di aver capito cosa intende.»

«L’ho detto alla polizia, dell’abuso. Di mio padre. Ho raccontato di tutte le volte che mi aveva violentato. Era ora che qualcuno lo venisse a sapere.»

La neve continua a cadere, bellissima e triste insieme. La neve sulla sabbia grigia, la neve su un calmo mare d’acciaio.

«E dopo cos’è successo?»

«Non avevano prove. Mi ero decisa troppo tardi. E la mia bimba, la mia piccolina, era stata cremata. Ovviamente nessun testimone oculare. Ma mio padre è scappato comunque, perciò la mia testimonianza ha distrutto la famiglia. Mia sorella mi ha cancellato dalla sua vita. E anche mia zia Jenny. Hanno detto che dovevo stare zitta, che avevo sfasciato la famiglia. Mia madre si sentiva in colpa per non essersene accorta, per non esserci stata, per non aver fermato la violenza sin da quando avevo otto anni.»

«E comunque non ne sarebbe rimasta traccia sui suoi documenti ufficiali, per via della legge sullo stupro, giusto?»

Lo guardo ammirata per la perspicacia. Ha capito alla perfezione il mio piano.

«Sì, esatto. Le denunce di violenza carnale restano anonime per tutta la vita. Ero protetta dalla mia stessa accusa. Hanno fatto sparire anche le cartelle cliniche relative al mio esaurimento, qualsiasi cosa potesse rivelare un precedente di abuso sessuale.»

«E l’ospedale?»

«Mi hanno diagnosticato un episodio di psicosi. Breve disturbo schizofreniforme. Ma secondo me – secondo mia sorella, a dire la verità – forse mi hanno fatto quella diagnosi perché ai medici dell’ospedale non ho detto della bambina...»

«Perché si vergognava.»

«Non potevo. Ho detto agli psichiatri quello che serviva, gli ho detto che avevo subito abusi da piccola, poi ero stata violentata... ed era più che sufficiente. Per avere aiuto. Per avere le medicine. Per rimanere anonima. E per essere ricoverata e curata.»

Conner torna ad accigliarsi e prende un altro sorso di tisana. Nel frattempo, io guardo di nuovo con aria cupa fuori dalla finestra. Il cane non c’è più. Il mondo è deserto, la coltre di neve ha messo a tacere tutto e tutti, persino le deboli, gelide onde della spiaggia di Maenporth sembrano aver voglia di arrendersi. Di fermarsi. Dopo tanto tempo.

Questa è la luce della mente. Elevato rischio di suicidio e infanticidio.

«Va bene, ormai lei sa praticamente tutto, dottor Conner. Sa perché voglio tenere la mia bambina nonostante tutto: perché ne ho già persa una. Sa tutto. Allora mi dica, la prego. Sono pazza? Mi è tornata la psicosi?»

«È una storia davvero terribile», commenta.

«Io non voglio la sua compassione! Voglio la sua opinione.»

«Ma certo», riprende agitando una mano come se volesse ricominciare da zero. «Per prima cosa, mi lasci precisare che le psicosi durante la gravidanza sono molto rare.»

«Ma sul sito... mia sorella...»

«Google non è dalla sua parte, almeno non in questa circostanza. Il sito dice cose sbagliate, o come minimo facili da fraintendere. In effetti sembra proprio che lei da giovane abbia sofferto di psicosi post partum, quasi certamente indotta dal particolare tipo di situazione che aveva vissuto.» Mi guarda e si sforza di abbozzare un sorriso rassicurante. «E a dirla tutta, è vero anche che le donne con un passato clinico del genere hanno maggiori possibilità di sviluppare lo stesso problema. Ma più facilmente dopo la seconda gravidanza. Di sicuro avrà bisogno al più presto di essere seguita da uno specialista per potersi preparare al parto, e le posso garantire che esistono ottime cure che possono aiutarla. Organizzeremo un consulto a gennaio, ormai è Natale e adesso non possiamo fare molto. Mi lasci controllare l’agenda.»

Prende il telefono e controlla. All’improvviso, mi viene il sospetto che sia tutta una messinscena. Un diversivo. Devo uscire di qui. Lasciarmi le voci alle spalle.

Mi sforzo di guardare il dottor Conner. In attesa. Speranzosa.

«Perfetto», esclama sollevando lo sguardo. «La seconda settimana di gennaio dovrebbe andar bene.» Un’occhiata penetrante. «Ma, per rispondere alla sua domanda, le ripeto che la psicosi durante la gravidanza è davvero molto rara. È per questo che si chiama post partum. E nel suo caso, io mi sentirei di escluderla. No, direi proprio di no. Tanto per fare un esempio, chi soffre di psicosi di solito non si rivolge al medico. È quasi uno dei criteri diagnostici principali.»

«E allora cosa mi sta succedendo? Ho visto davvero un fantasma?»

«No.»

«E allora chi ho visto? Nina Kerthen è morta, giusto?»

Lui si stringe nelle spalle. «Sì, è morta. Ho visto di persona i risultati del test sul DNA, ho partecipato alle indagini. Nessuno sarebbe riuscito a sopravvivere a una caduta del genere, in quella miniera, con l’acqua così fredda. Sì, Nina Kerthen è morta, su questo non ci sono dubbi.»

Cerco di soffocare un grido che mi nasce da dentro. Le voci in questo momento restano silenziose, ma mi sento confusa. Mi tengo il viso tra le mani per nascondere le lacrime. «Allora cosa cazzo mi succede, dottore? I rumori che sento, la donna sull’autobus, il profumo in casa. La prego... La prego, mi aiuti! Sono sempre così sola... Non ho nessuno. Nessuno mi parla. Solo la casa.»

Ecco, ci siamo. Sono scoppiata a piangere sul serio. A lacrimoni. Mi vergogno e allo stesso tempo non me ne importa niente. Parlo senza filtri, riaffiorano le mie origini. Cazzo cazzo cazzo. E la neve continua a cadere. Perché siamo a Natale.

Conner si alza, come se stesse per abbracciarmi d’istinto. Invece mi posa una mano sulla spalla. Io mi giro e lo guardo con occhi imploranti, quasi avessi di nuovo nove anni e cercassi un padre che non mi molesta.

Trova un fazzolettino di carta, me lo porge e torna a sedersi. «Se non sbaglio, mi ha detto che cadendo ha battuto la testa, perciò con ogni probabilità dopo avrà immaginato una sagoma, avrà immaginato Nina... era buio, può succedere, mi creda. La mente è predisposta a vedere sagome umane anche dove non ce ne sono: è una risposta evolutiva. Quanto alle voci e all’autobus, dev’essere lo stress. Per dirla senza mezzi termini, lei fa di tutto per uscire di testa. E non c’è da stupirsi. Carnhallow House è già abbastanza cupa e solitaria. Ma il punto è: quando le vengono poste delle domande precise, lei è perfettamente lucida. Perfettamente. No, lei non è matta, Rachel, e la sua non è una psicosi pericolosa.»

«E Jamie? Le cose che dice?»

«Jamie è un ragazzo problematico», mi risponde accigliandosi. «Non ha superato del tutto la morte della madre. Non ancora, perlomeno.»

«Io non sento le voci e lui dice davvero quelle cose?»

«Sì, è molto probabile. Anche se forse nel suo stato di sovreccitazione lei ci ricama sopra, fraintende le parole del suo figliastro, alimentando così i suoi traumi, trasformando una donna qualsiasi sull’autobus in Nina Kerthen. È anche possibile che Jamie stia reagendo alle sue ansie, alimentandole a sua volta. Si creerebbe in questo caso una sinergia negativa, la cosiddetta folie à deux. E adesso che il padre ha lasciato Carnhallow, lui deve sentirsi ancora più disorientato...»

Si ferma di botto. Ma certo. È chiaro: ha saputo di me e David, e adesso si sente in imbarazzo.

«Ha saputo dell’ordine di restrizione, giusto?»

Conner annuisce e sospira. «La Cornovaglia occidentale è un fazzoletto di terra, e in più ho degli amici avvocati a Truro. All’inizio non ci potevo credere, poi mi è tornato in mente che lei aveva quei brutti lividi in faccia l’ultima volta che ci siamo visti, e allora... Davvero deprecabile. David dovrebbe vergognarsi di sé stesso.»

«Ha mai fatto qualcosa del genere a Nina?»

Il dottore sembra sconcertato. «Non che io sappia. Ne era molto innamorato, anzi direi quasi ossessionato. Ma a quei tempi li vedevo pochissimo... sa, loro vivevano tra Londra e Parigi, quando è nato Jamie. Certo, anche loro dovevano litigare, verso la fine, ma più o meno come capita a tutti. Un po’ di noia, magari... Nina era stufa di vivere sempre a Carnhallow. Una donna molto intelligente, oltre che bellissima... Non sto a dirle quanto ne ha sofferto David.»

«Sì, non ho alcun dubbio.»

C’è un pizzico di amarezza nel mio tono, e in fondo non mi prendo il disturbo di nasconderlo. L’amarezza è una reazione sensata. Perciò forse è vero, non sono del tutto fuori di testa.

Finisco il tè e poso la tazza. Il silenzio mi fa piacere. Ho bisogno di assimilare quello che mi ha detto il dottore. Non sono pazza. Questa è una finestra, un’apertura. Sopravvivrò anche a questo. C’è una via d’uscita. Dobbiamo solo superare il Natale.

«Okay, grazie, grazie mille davvero.» Do un’occhiata all’orologio. «Adesso devo tornare a casa.»

Mi incammino verso la macchina sotto la neve sempre più fitta, poi avvio il motore e guido per chilometri, sotto il vento sempre più forte.

Nevica un po’ dappertutto nella Cornovaglia occidentale, sul villaggio dell’età del ferro di Chysauster, sulla brughiera e sulle chiese di Carharrack e Saint Day. Nevica sulle strade di Chacewater e Joppa e Lamorna. Nevica su Playing Place, nevica sulla penisola di Roseland, nevica su Gloweth.

E io sto piangendo ancora. Mentre percorro l’ultimo chilometro attraverso il Ladies Wood, in fondo alla vallata, verso la bella casa antica, persa nelle sue foreste, come uno scrigno dorato nascosto tra le spine. Ricordo ancora la prima volta che sono arrivata qui e ho letto la storia di Carnhallow. Della Cornovaglia occidentale. Dei Kerthen. Quanto ho desiderato farne parte: seduta nel Salotto Giallo, guardavo il sole estivo illuminare i gigli, e desideravo con tutto il cuore appartenere a questo posto ferito, ma pur sempre adorabile. Volevo essere intrecciata nell’interminabile e intricata storia di Carnhallow. Ero ansiosa di essere intrecciata nella trama intessuta dai sorbi, ero pronta a mettere radici.

E adesso è tutto finito. Il sogno è svanito. Gli alberi sono neri e brulli, la neve scende così fitta che quasi non si vedono le miniere sulla cima delle scogliere, dove i tunnel scendono profondi sotto il mare.

Parcheggio accanto alla Toyota di Cassie, poi entro e i freddi profumi di Carnhallow mi circondano all’istante: un urto di ricordi e di dolore. Guardo lungo il corridoio davanti alla Sala Vecchia, dove ho creduto di vedere il fantasma di Nina Kerthen. Dove in realtà non ho visto proprio niente. Perché non sono matta.

Il corridoio è buio, ma non c’è nessuno. Niente fantasmi, stavolta.

Sono esausta. Sento Jamie in cucina che chiacchiera con Cassie. Non ho voglia di andarli a salutare. Invece salgo al piano di sopra, mi butto sfinita sul letto e mi addormento di schianto.

Ma un sogno invade il mio riposo. Mio padre sta guidando e io sono sul sedile posteriore. Ho dieci anni, è Natale e stiamo andando dalla zia Jenny. Lui è così ubriaco che l’auto continua a sbandare, ma scoppia a ridere quando colpiamo il bambino all’altezza di Carnhallow. Io mi precipito fuori, afferro il riccio ma me lo portano via, per buttarlo in mare a Zawn Hanna, e adesso il vento mi infila i capelli in bocca, facendomi soffocare.

Grido così forte che mi sveglio.

Esco dal mio torpore, prendo il bicchiere d’acqua impolverato sul comodino e ne bevo un sorso, il gusto del sogno ancora in bocca. La camera è buia, l’unica luce viene dal pianerottolo. È stato un sonno così agitato che mi paiono pochi minuti, mentre devono essere passate ore.

E adesso Jamie entra di corsa, salta nel mio letto e mi abbraccia terrorizzato.

«Rachel, Rachel, Rachel...»

«Che ti succede?»

Mi stringe così forte da farmi male. Mentre provo con dolcezza a sottrarmi all’abbraccio, mi accorgo che ha il viso congestionato e sta piangendo.

«Cosa c’è, Jamie? Che succede? Cosa c’è che non va?»

«È tornata, è qui... riesco a vederla.»

Una lama di gelo mi trafigge. «Chi vedi, Jamie?»

«La mamma!» Respira troppo in fretta, in preda al panico.

Nonostante la paura che mi attanaglia il cuore, cerco di darmi un’aria tranquilla, misurata e ragionevole. Del resto, non sono matta. Ho risposto a tutte le domande. Me l’ha detto il dottore. «Jamie, calma, calma, shhh...»

«È lei, ti dico!» Sta quasi urlando. «Eppure non era lei. Era giù alla miniera, ti ricordi? Era lì, era lei. Mi ha parlato, era lei. Aveva il suo profumo, come la mamma, come la mamma, come la mia mamma, era la mamma eppure non lo era. Lo era e non lo era. Lo è e non lo è.»

«Jamie...»

«Lei è morta e non lo è. Rachel Rachel Rachel... ho toccato la mia mamma ma non l’ho fatto. Rachel, ho visto la mia mamma ma non è lei. L’ho abbracciata ma non l’ho fatto. Ho visto un fantasma, Rachel. Ho abbracciato un fantasma. Ho toccato un fantasma. Un fantasma un fantasma un fantasma!»

Pomeriggio

Pensavo di essermi salvata, che il dottore mi avesse aiutato a uscire dall’acqua gelida. Invece adesso ci sono di nuovo dentro fino al collo, annaspo nelle tenebre. E rischio di affogare.

Gli occhi di Jamie cercano i miei. «Tu mi credi, Rachel? Lei è qui! Nella miniera. Quella con le piattaforme. L’ho detto a papà e lui non mi ha creduto, e l’ho detto a Cassie e lei non mi ha creduto.»

Non ho la più pallida idea di cosa dire. Forse dovrei ammettere che l’ho vista anch’io, dire a questo bambino che la sua mamma è viva, o almeno mezza viva, nelle nostre due menti deliranti. Ma l’allusione alla miniera mi confonde ancora di più. Quando è stato a Morvellan? Perché Cassie l’ha lasciato libero di andarsene in giro da solo? È tutta una gran confusione, e intanto i venti gelidi sferzano i boschi là fuori e per Natale cadrà ancora altra neve su questa valle infestata.

È davvero fuori di testa. Vuole avere un altro bambino, stupida puttana.

«Adesso basta», dico a me stessa e a Jamie. E alle voci nella mia testa. «Per favore, adesso basta.»

Jamie mi guarda perplesso. «Rachel?»

«Jamie...»

Devo superare tutto questo. Mettere a tacere la pazzia. Devo anche mentire a Jamie. Far finta di essere la ragionevole e solida adulta su cui lui può fare affidamento.

«Jamie, tu non hai visto niente.»

«Ma Rachel, non è vero, io l’ho vista. Era lei ma non lo era. Era davvero la mamma, io lo so, credo. Ma... ma era così strano... un po’ come un sogno. L’ho vista alla miniera, l’ho abbracciata. C’era vento e faceva freddo e lei era lì, era lei, io l’ho annusata, l’ho abbracciata, l’ho toccata e lei mi ha abbracciato, l’ha fatto, l’ha fatto.»

Vedo nei suoi occhi l’ombra di un dubbio. Vedo che si fa delle domande. Oddio, quanto conosco quella sensazione.

L’immagine è nuda e cruda. Nina Kerthen, pallida e magra, bella e bionda, nel suo bel cappotto scuro, che ritorna dalle miniere, ritorna per suo figlio. Lo abbraccia stretto, gli occhi umidi di lacrime gelide.

«Dov’è Cassie?»

Jamie si stringe nelle spalle, lo sguardo triste, la voce spezzata e piena di angoscia.

«Nel Salotto Giallo. Stava parlando con la nonna. Qualcuno è venuto a prendere la nonna. Non so non so.»

«Juliet è qui? Voglio dire... la nonna.»

«Mi voleva vedere, sì, vedere... prima di andarsene, abbiamo fatto un gioco di Natale, ma poi lei se n’è andata e... e... e poi ho guardato fuori dalla mia finestra, ed era il momento giusto.»

«E le hai detto che hai visto la mamma giù alla miniera. L’hai detto alla nonna?»

Jamie fa un respiro profondo, e poi annuisce.

«Sì. Sì, ho parlato con la nonna. E anche con Cassie. Lei era arrabbiata con me. Dice che i fantasmi sono cattivi. Dice che non dovrei parlare così. Rachel, perché nessuno mi crede?»

M’immagino Cassie che lo sgrida e allo stesso tempo è terrorizzata e indossa i suoi amuleti contro il male. So che sono settimane che si vuole licenziare: l’atmosfera sempre più pesante di Carnhallow la rende infelice. E a me non deve di certo lealtà. Questa potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso, adesso potrebbe decidere di andarsene sul serio. Lasciandoci soli e isolati.

Suicidio.

O infanticidio.

«Rachel?»

«Jamie, senti... Jamie. Scusa. Allora, cosa ti va per cena? Una bella salsiccia con il purè, che ne dici?»

Mi guarda con aria triste e scettica. Quegli occhi blu violetti mi trafiggono fin nel profondo. Penso agli occhi di sua madre, gli stessi occhi che mi fissavano dal corridoio davanti alla Sala Vecchia.

No. Sì. No.

Mi viene una vampata gelida al solo pensiero: quella sala fredda e monastica. Lì dentro ci dev’essere qualcosa, io lo so. Lei era lì, veniva fuori dalle tenebre. Ci dev’essere qualcosa nella Sala Vecchia.

Sì. Ti sto aspettando.

Prendo Jamie per mano e lo porto con me in cucina. Cuocio le salsicce e preparo il purè mentre lui si siede al bancone, a leggere un giornale sportivo. Il suo adorato Chelsea.

Metto una cucchiaiata di purè nel piatto, poi verso le salsicce direttamente dalla padella, ma una mi cade a terra.

La raccolgo e la getto nel bidone della spazzatura, tanto ne ho cucinate un mucchio. Tre dovrebbero bastare. Jamie è ancora assorto nella lettura. Quando gli sistemo il piatto di fronte, non alza quasi gli occhi dal giornale, il collo bianchissimo e scoperto. Un collo così sottile. Un bambino così bello. E quegli occhi, poi. Il collo è così fragile, così bianco e sottile...

Facile da spezzare.

«Grazie.»

Dopo la scenata di poco fa, adesso il suo tono è neutro, il suo comportamento è più calmo. Forse fa finta che vada tutto bene. L’allusione alle miniere mi lascia perplessa. Quando ci è andato?

Adesso mi suona il cellulare, vibrando e girando in cerchio sul bancone. Grazie a Dio. Mi viene in mente che potrebbe essere David. Mi sorprendo a sperare che sia lui. Ho un bisogno immenso di parlare con mio marito. Mi manca. E mi manca la nostra famiglia. Mi manca quello che eravamo e cosa avevamo solo poche settimane fa.

Ma appena formulo questo pensiero, il mio odio per me stessa insorge. A parlare è la voce della bimba violentata, dentro di me, che perdona il suo violentatore. David è un violento. Mi ha picchiato. Non merita nessun amore.

Sullo schermo compare il nome JULIET.

«Pronto, Juliet?»

«Rachel? Dobbiamo parlare.»

Ha un tono relativamente calmo, forse anche più ragionevole del mio.

«Juliet, che succede?»

«Sei in cucina? Jamie è lì con te?»

«Sì, esatto.»

«Sta bene?»

«Ehm... abbastanza, direi di sì.» Non voglio far agitare Jamie, perciò mi sposto il più lontano possibile, davanti al calendario dell’avvento, in maniera da non farmi sentire.

La finestrella è aperta e mostra un sorridente Babbo Natale sulla slitta. Mancano solo tre giorni a Natale. La neve cade fitta su tutti noi.

«Adesso sta cenando, Juliet, ma sta bene.»

«Ma poco fa non stava bene, giusto?»

«Scusa?»

Il piccolo Babbo Natale rosso sul calendario dell’avvento brinda con un boccale di non so cosa, idromele oppure birra. Le sue renne hanno dei grossi nasi rossi come ciliegie.

Natale è in arrivo!

L’oca è all’ingrasso.

«Rachel, sono dai Penmarrick, a Lanihorne Abbey, passo qui il Natale. Sono venuti a prendermi prima. Dovevo andarmene, almeno per qualche giorno. Sai com’è, mi dispiace, ma la mia salute fa i capricci negli ultimi tempi, e tutte queste preoccupazioni... e poi volevo essere più vicina all’ospedale.»

Le tenebre si stringono su di me. Juliet se n’è andata? Siamo rimasti solo io, Cassie e Jamie.

«Okay...»

«Ma, Rachel...» La sua voce si fa tremante. Imbarazzo e incertezza. «Te lo devo dire, non posso mentirti... Rachel, prima che Andrew Penmarrick mi venisse a prendere ero con Jamie.»

Il vento gelido bussa alla porta della cucina.

«E?...»

«È stato terribile.» Adesso la sua voce comincia a spezzarsi. «Ho visto il piccolo Jamie, in cucina. E santo cielo, santo cielo, io sono entrata e lui stava ridendo come faceva un tempo, era felice come non l’ho mai più visto dopo che Nina ha avuto l’incidente. Era come se la stesse vedendo sul serio. E poi gli ho chiesto perché rideva e lui si è arrabbiato con me, era arrabbiato e spaventato, e ha detto: “Lei è qui, lei è già qui”. Era del tutto convincente, te l’assicuro. È convinto che la madre sia tornata. A Carnhallow.»

«Ma è ridicolo...»

«Lo so, lo so benissimo. Eppure io gli credo, perché l’ho visto da vicino, te lo ripeto. E lo sai come gira la testa certe volte e ti guarda con aria triste, quando dice la verità sul serio? Ecco, era così.»

Sera

Non posso negarlo. So cosa intende. So come si comporta Jamie quando dice la verità. Fa esattamente come ha detto Juliet.

Ma stavolta non è possibile. Mi sforzo di capire, di parlare.

«Perciò mi vuoi dire che vede un fantasma?»

«Sì. Non lo so... oh.»

«Juliet?»

Un attimo di silenzio, poi riprende. «Cosa dobbiamo fare? Non ne ho idea, non saprei. Tornerei a casa, ma... oh, adesso nevica così fitto, sono anni che non vedo una nevicata così, sai, da queste parti succede molto di rado. Ma quando succede, Dio ce ne scampi.» Dà un colpo di tosse profondo, poi aggiunge: «Carnhallow rischia di rimanere isolata: le strade sono profonde e la vallata è anche più profonda, dovresti stare attenta, fare scorte di cibo. È anche possibile che salti la corrente. Un anno siamo dovuti andare a piedi fino a Zennor, siamo rimasti isolati per tre, quattro giorni e da mangiare avevamo solo satsuma, noci e Vov».

La lascio divagare per un istante.

Il calendario dell’avvento è a pochi centimetri da me. Le sue finestrelle mostrano pinguini e slitte, alberi di Natale e orsi polari. Che strano, neanche un’immagine cristiana. Quaggiù nel Penwith occidentale, così vicino al Land’s End, somiglia molto al Natale pagano. Il tempo della paura e del camino acceso, un’ultima festa per tenere fuori il freddo prima che i mostri si mettano a caccia.

E magari il mostro sono proprio io.

Cercando di mantenere il controllo, mi faccio strada negli evanescenti e confusi ricordi di Juliet. Lei è tutto ciò che ho. L’unica fonte, per quanto poco affidabile. «Juliet, ti prego, ti prego... torniamo indietro. È possibile che Nina sia sopravvissuta all’incidente?»

«Ahhh... non credo proprio.»

«Ma siamo sicuri che fosse lei la persona caduta nel pozzo di Morvellan?»

Una pausa. «Sì.»

«Allora è un cane che si morde la coda, uno stupido cane che si morde la coda. Nina è affogata due anni fa, giusto? Eppure tu dici che Jamie vede sua madre. No, non è possibile.»

«Rachel, io comincio a non capirci più niente. Queste persone, qui...» La sua confusione diventa farneticazione, quasi me la vedo mentre cerca disperatamente di mettere insieme delle parole che abbiano un senso, seduta accanto al telefono a Lanihorne Abbey. «Ogni tanto ho come l’impressione di percepire la sua presenza, di sentire il suo profumo. Ma è ovvio che mi sbaglio, non starmi a sentire. Adesso è Jamie che conta. E lui dice che l’ha abbracciata alla miniera.»

«Sì, lo so, me l’ha detto.»

Ma devo saperne di più. Sono aggrappata alla mia ultima speranza, a questo punto. Se ho visto sul serio Nina su quell’autobus, forse non sono esaurita, non sto scivolando di nuovo nella psicosi, forse il dottor Conner ha ragione, in un senso che non si immagina.

«Juliet, raccontami ancora cos’è successo la sera che Nina è morta. Se non fosse morta, vorrebbe dire che è successo qualcosa di davvero strano, e magari noi due... magari io potrei scoprirlo.»

Un pinguino mi guarda da una finestrella. Aspetto di sentire le voci nel mio cervello. Niente. Molto bene. Vi prego, andate via e lasciatemi in pace.

«Ma lo sai già come sono andate le cose, no?» ribatte Juliet. «È stato orribile. Sai anche che David ha mentito e ha detto che Jamie non era lì, sul luogo dell’incidente. Mentre invece lui c’era, eccome. E sai che David ha chiesto a tutti noi di stare zitti, per il bene di Jamie.»

Giro lo sguardo dalle finestrelle del calendario alle finestre della cucina. Lo strato di neve sul davanzale è alto già qualche centimetro. Come nelle decorazioni natalizie delle vetrine.

«Perciò ne sai quanto me, mia cara.»

«Ma tu sei la testimone fondamentale, Juliet. Quella sera, a parte Cassie, c’eri solo tu. Cos’è successo davvero?»

«Io volevo dire la verità!» esclama in tono risentito. «Sul serio, volevo dire la verità. Ero nella mia stanza. Avevamo tutti bevuto un po’ troppo, erano passati a trovarci degli ospiti, ma ormai erano andati via da parecchio, era molto tardi e io stavo andando a dormire, ma mi tenevano sveglia delle voci. Voci molto alte. Stavano litigando. David e Nina, stavano gridando. Non si udivano bene le parole, ma a un certo punto ho sentito che lui le urlava: “Come hai potuto dire una cosa simile, come hai potuto dirlo?”.» Adesso esita, ma è un’esitazione frutto di reticenza, non di smarrimento o dimenticanza. È chiaro che Juliet sa qualcosa, ed è sul punto di rivelarla.

Le chiedo, nel modo più gentile che mi riesce: «Hai sentito qualcos’altro, vero?». M’immagino questa gentile e intelligente anziana signora all’altro capo della linea, in un’ampia sala signorile, l’albero di Natale sullo sfondo, la cera delle candele che cola nella penombra, un fuoco crepitante nel camino di marmo.

La voce di Juliet è carica di senso di colpa. «Nina ha detto una cosa particolare, una cosa che David non poteva tollerare.»

La pausa sembra infinita. Giuro che mi sembra di sentire i ghiaccioli formarsi sulle grondaie di Carnhallow.

Riprende in tono triste e pacato. «Non l’ho mai detto a nessuno, ma quella sera ho sentito un’altra cosa. Nina l’ha urlato così forte che l’avranno sentita anche al Land’s End.»

Trattengo il fiato. La neve continua a cadere. Su Manaccan e Killivose. Su Boskenna e Redruth.

«Lei ha urlato: “Perché non glielo dici? Di’ a tuo figlio il nostro fottutissimo grande segreto, digli chi sono i suoi veri genitori!”. E poi è scoppiata a ridere come se fosse uno scherzo di cattivo gusto, una terribile battuta sarcastica. Ma vera.»

«Nina intendeva insinuare che David non era il suo vero padre?»

«Sì.»

«E tu non l’hai detto alla polizia? Perché, Juliet?»

Nessuna risposta. La rabbia mi ribolle dentro, come le onde che si infrangono contro le scogliere di Levant. «Io lo so perché non hai parlato!» la incalzo. «Lo so, lo so! Perché avresti coinvolto David, giusto? Perché così avrebbe avuto un motivo valido per ucciderla!» Adesso sto praticamente gridando.

Invece Juliet sta piangendo. Ha un nodo in gola, la voce strascicata e affranta. «Oh, Rachel, abbiamo detto così tante bugie, quella sera, così tante! Io ho fatto quello che mio figlio mi ha detto di fare, non ho alzato un polverone. Per proteggere Jamie. Per tenerlo al riparo dalle indagini. Ho fatto una cosa cattiva?»

Devo trattenermi. «Sì, temo proprio di sì.»

«Ahhh.» La sento ansimare. «Oddio, è orribile! È così tanto che mi sento in colpa... Forse è per questo che non riesco più a pensare in maniera lucida, forse ho immaginato troppo. Forse vorrei che fosse viva, perché vorrebbe dire che David non l’ha uccisa, sua moglie, la madre di Jamie, e che lei non ha detto quella cosa terribile, e Jamie è davvero mio nipote. Devo crederci, lui è tutto quello che mi è rimasto. Il mio bellissimo Jamie. Oddio, oddio, oddio...» Sta singhiozzando senza ritegno. «E adesso ci mancava anche la neve.»