32 GIORNI PRIMA DI NATALE
Sera
Sono pronta. La casa è vuota. Come sempre. Sono sola, e da sola va bene, anche se fa paura. Ferma in cima alle scale, torcia in mano, ricordo a me stessa perché sono qui.
Quando siamo tornati a casa da St Just, dopo l’episodio dell’autobus, Jamie è corso dritto in camera sua, senza dire una parola. E la prima cosa che ho fatto è stata controllare in rete. Controllare la storia di Nina. Magari aveva una sorella, più o meno della sua età. Una gemella. Una sorellastra.
No. Secondo gli articoli di gossip aveva solo un fratello, molto più grande, che adesso vive a New York e fa il banchiere. Eppure io ho visto Nina, o qualcuno che le assomigliava molto, su quell’autobus a St Just.
Ma l’avrò vista sul serio?
Da allora in poi, il ricorso alla razionalità ha sempre funzionato. Perché ne ho bisogno. Qualsiasi altra cosa mi manda in confusione e mi disturba. Non posso far altro che negare che sia accaduto, per adesso, almeno finché non avrò altre prove, negarlo esattamente come sto negando tutto il resto, come il riccio, le fiamme e la predizione. Devo ripetermi che non è mai successo. Era qualcuno che assomigliava a Nina, un pochino. Oppure tanto. Finché non ottengo altre prove.
Non ho visto Nina Kerthen. Ero agitata per la discussione con Mavis Prisk. Lo squilibrio emotivo del mio figliastro ha contagiato anche me. La vita che conduco si ripercuote sul mio stato d’animo. La nevrosi generalizzata di questa casa, di Carnhallow, si ripercuote su tutti noi. Tutto quello che non va si può ricondurre a percezione erronea e dolore. All’inquietante idea di Nina Kerthen imprigionata nei tunnel, le dita scorticate protese verso una luce che lei sott’acqua non può vedere.
Eppure Carnhallow è ancora carica di profondi misteri. E io devo risolverli. Perché sono incinta. Mi merito di sapere in che genere di vita, di casa e di famiglia il mio bambino è destinato a nascere.
E David tornerà tra un paio di giorni. Il confronto è incombente, un po’ come il Natale. Il mio giorno speciale.
Prima di allora, voglio fare quello che finora ho sempre preferito evitare: indagare su Nina. Scendere nel seminterrato, scendere nel passato recente.
“Avanti, Rachel, devi farlo.” Sto parlando da sola.
Esatto, parli da sola.
Giro il pomello della porta e la tetra scala in disuso si spalanca sotto di me. Accendo un interruttore antiquato sulla mia destra, e la fioca luce illumina debolmente i gradini di cemento. Accendo anche la torcia, in caso le lampadine del vecchio seminterrato dovessero spegnersi, cosa che accade piuttosto spesso.
E così mi calo in questo desolato incubo di corridoi, accendendo ogni interruttore che trovo. Oltre la Sala delle Armi. Oltre la Dispensa della Selvaggina. Oltre un acuto squittio di topi, o di ratti, sulla sinistra, che mi fa accelerare il battito. Poi mi fermo, e scruto nell’oscurità.
Questi corridoi continuano all’infinito. Forse alcuni, chissà dove, si collegano davvero con i tunnel più profondi sotto Morvellan. Immagino una mappa di queste gallerie: somiglierebbe alle ossa grigie di una mano viste ai raggi X. Una mano che arriva disperata sotto il livello del mare.
All’angolo successivo sento odore di polvere e di sporco incrostato, ma anche il vago effluvio di una spezia. Dev’essere un ultimo ricordo morente della vita un tempo vissuta quaggiù nelle grandi cucine di Carnhallow House.
Qui e adesso, nella mia mente, il posto si riempie di fantasmi in carne e ossa, di voci e risate del secolo scorso. Sento le chiacchiere dei valletti in livrea che portano bibite e ghiaccio, poi le risate delle graziose domestiche di Pendeen e Hayle, St Erth e Botallack. Cuoche sudate con il grembiule, ragazzi che girano gli spiedi, qualcuno che scrive con cura il menu: Côtelettes d’Agneau à la Macédoine, Poulets à la Langue de Boeuf. Al piano di sopra mi immagino i Kerthen, che consumano con grande contegno e soddisfazione la serie infinita di portate che provengono dal seminterrato. I maialini da latte. I soufflé dorati. La lepre in salmì, cotta nel suo stesso sangue.
Adesso è tutto morto. La magia è finita.
Il bagliore della mia torcia, sommato alla fioca luce delle lampadine, mi porta oltre la Dispensa. Sento fruscii attutiti, come di pipistrelli o di roditori.
Girato l’angolo, mi ritrovo davanti alla stanza della distillazione, con la scritta RIPOSO. La porta è aperta. È la prima volta che accade. Ma c’è dell’altro: gli scatoloni non ci sono più, quegli scatoloni grandi con scritto sopra NINA. Li ho visti almeno una mezza dozzina di volte, impilati sulle mattonelle sudicie. Non ho mai sentito il bisogno di aprirli, ma adesso che vorrei farlo, sono spariti.
Questo mi dà molto fastidio.
Forse li ha spostati Cassie, forse qualcun altro. Socchiudo la porta successiva e guardo all’interno. Qui è così pieno di polvere che sembra quasi tutto carbonizzato, come se fosse scoppiato un piccolo incendio, poi spento dall’umidità. Il locale è completamente vuoto.
La porta seguente è incastrata e richiede un bella spinta. Poi un’altra. Una volta entrata, la stanza sembra più grande, più promettente. Ci sono delle sagome di mobili. Ma l’interruttore non funziona, così devo usare la torcia.
La luce mostra una pila di giganteschi crani con il becco: crani di tartaruga, forse, per la zuppa. Poi una finestrella ad arco di un migliaio di anni fa, in pietra, murata con i mattoni, appartenente al vecchio monastero.
Alla parete opposta domina un cassettone vetusto. Per raggiungerlo devo calpestare una moquette sudicia e puzzolente. Provo a guardare nel primo cassetto. È così incastrato che mi ci vuole un bello strappo per riuscire ad aprirlo. Rapida, decisa, frugo all’interno, svaligiando la storia di famiglia.
Qui dentro c’è un po’ di tutto, tutto e niente. Lettere vittoriane listate a lutto. Medaglioni da lutto con ciocche di capelli biondi sbiaditi. Un paio di vecchi guanti, qualche pezzo rotto degli scacchi. Una scatola di antichi bottoni d’argento con lo stemma dei Kerthen.
Niente.
Il cassetto di sotto è leggermente più interessante: calamai, nettapenne, quelli che sembrano atti di proprietà di miniere risalenti al Seicento. Con la torcia puntata verso il basso, do un’occhiata ai documenti. Mi colpisce soprattutto una lettera scritta a mano dal Lord luogotenente di Truro a Lord Falmouth, a conferma, credo, dell’acquisto da parte dei Kerthen di Wheal Arwenack.
L’ultimo cassetto contiene un pacco di fotografie sbiadite di parenti sconosciuti. Somigliano alle foto incorniciate nel corridoio davanti alla Sala Nuova. Una dopo l’altra, le analizzo tutte. Le persone sono rigide e non sorridono mai. Uomini in piedi e donne sedute, in posa con aria fiera e formale di fronte alle loro miniere.
Riconosco Morvellan, anche se è completamente diversa da oggi. Ci sono delle bal maidens a piedi nudi con il foulard che lavorano sodo sullo sfondo; alcune sbirciano curiose verso l’obiettivo lontano, altre pensano solo a lavorare. Un uomo porta una cesta di pietre sulle spalle, come una bestia da soma.
Di sicuro doveva essere terribilmente rumoroso: l’assordante fragore delle macine che sgretolavano i minerali, le ragazze che picchiavano con il martello per spaccare le pietre morte. Eppure l’atmosfera della foto è oppressivamente silenziosa. Soffocante e vittoriana.
Tutte le persone qui ritratte adesso sono in silenzio. Perché in silenzio guardano me.
Un’altra fotografia mostra la miniera di Levant, e un’altra Wheal Chance. Tutte con i Kerthen di fronte. “Guardate i nostri possedimenti. Questo è nostro. Tutto questo.”
Qualcosa non quadra. Torno alla prima foto.
C’è una bambina che passa quasi inosservata al centro di questa immagine dei grandi Kerthen vittoriani, all’apice della loro ricchezza, rigidamente in posa di fronte a Morvellan. Una ragazzina in abito bianco, con un paio di minuscoli stivaletti neri, allacciati stretti, è seduta su una seggiolina accanto a un uomo con i baffi e dall’espressione severa, sui quarant’anni, che la ignora nella maniera più assoluta.
La somiglianza tra la bambina e Jamie è straordinaria. Gli occhi smisurati. I capelli corvini. Ma la cosa più strana è la sua espressione. Ha un’aria terrorizzata. Per nessuna ragione in particolare. La sua bocca è mezzo aperta, quasi stesse urlando in silenzio. Ma forse sta cercando senza successo di sorridere, in questo posto orribile, con i cigolii assordanti della macina alle sue spalle e i bambini con le ulcere da arsenico attorno.
È tutto qui. La nobile e malvagia storia dei Kerthen.
Eppure non sto imparando ancora un bel niente. Faccio un passo indietro e punto il fascio di luce qui e là. Ed ecco gli scatoloni con la scritta NINA di lato, ammassati dietro la porta. Qualcuno li ha spostati in questa stanza cupa e sinistra. Forse Cassie. Oppure Juliet. O magari è stato Jamie, che passa al setaccio qualsiasi cosa per scoprire cos’è capitato alla madre: perché è ancora viva, seduta su un autobus, in attesa che arrivi Natale, a prepararsi per il grande giorno. Non riesco a biasimarlo per la sua confusione.
Mi avvicino agli enormi scatoloni. Non sono chiusi con lo scotch.
Appoggio la torcia sullo scaffale più vicino e ne apro uno. È pieno di abiti. Infilo una mano e prendo il primo vestito che tocco. Brilla alla luce della torcia, cremisi e turchese, satin e seta, davvero carino. Sotto ci sono gonne, sciarpine, altri vestiti morbidi e leggerissimi. Trovo anche bottiglie di profumo. Chanel. Il profumo di una donna morta, l’aroma di un corpo che mio marito amava così tanto toccare.
Devo vedere cosa c’è nel prossimo scatolone. Devo farlo e basta. Con una certa smania e un lieve tremore nelle mani, apro anche questo.
Quando infilo dentro la mano, un rumore mi gela. Un rumore umano, fuori dalla stanza.
Rimango in attesa, così in tensione che i muscoli delle cosce mi bruciano. Mi tremano le mani.
È lo scricchiolio inconfondibile delle vecchie scale di legno.
Qualcuno sta scendendo qui sotto. Mi troveranno a rovistare tra le cose di una donna morta. Un ladro colto sul fatto.
Il panico ha un sapore metallico in bocca. Mi pare di sentire il sibilo di una persona che respira pianissimo. Questo peggiora le cose. Evidentemente è qualcuno che non vuol farsi sentire.
Jamie non può essere, perché è insieme a Rollo. Cassie ha il giorno libero e Juliet è a casa di amici.
Sono sola. Eppure, stasera, non sono sola nel seminterrato di Carnhallow.
I passi si avvicinano lungo il corridoio. Poi si fermano. Davanti alla porta di questa stanza.
Io sgrano gli occhi in preda al panico. Chi mi vuole spaventare? Chi mi sta cercando? Nella mia testa vedo Jamie, vedo Nina Kerthen, vedo quella ragazzina di Levant con i suoi stivaletti diabolici, deforme ma saltellante, che indica il mare, la distesa infinita di onde: Guarda, guarda, guarda, guarda, guarda. La ragazzina che mi ha spaventato così tanto da spingermi ad abbracciare stretto Jamie.
«Chi è?» urlo con la voce arrochita. «Chi è? Chi c’è?»
Nessuno risponde. Sono in trappola, all’angolo in questa stanza con i vestiti profumati e la ragazzina urlante della foto.
«Adesso basta!» intimo. «Chi è? Nina?»
Sto chiamando una donna morta.
La porta si apre. Io sono pronta con la torcia.
È Juliet.
Lei mi guarda, abbagliata dalla mia luce. «Rachel.»
Io cerco di farfugliare una risposta, ma è tutto inutile.
Lei mi sorride. «Grazie a Dio! Sono tornata prima e pensavo ci fosse un fantasma. La casa è così deserta. Per fortuna non erano i ladri! Stai guardando le cose di Nina?»
Sono senza parole. Cosa posso dire? Non ho scelta. «Oddio, sì. Cioè no. Anzi sì. Mi dispiace, sì.»
Lei guarda prima me, poi gli scatoloni. Poi di nuovo me. Con tutto questo buio, la sua espressione è imperscrutabile. «Sono pieni di cose interessanti, vero? Non sei l’unica a pensarla così. Anche Jamie ogni tanto ci rovista dentro.»
Una pausa.
«Davvero?»
Lei sorride e infila le mani nelle tasche del suo vecchio cardigan di cachemire. Come se fosse una chiacchierata qualsiasi davanti a un tè o un a bicchierino di gin in cucina.
«Oh sì, cara, ecco perché ho chiesto a Cassie di spostarli qui, per renderli un po’ più difficili da trovare. Non gli fa bene. Fosse per me, li butterei via tutti, ma David non vuole, non vuole disfarsi dei ricordi.»
«Ma...» Faccio fatica a trovare le parole. «Ma...»
«Ma come si fa a condannare Jamie perché vuole capire il passato? Esatto, cara. Troppi misteri... Magari è proprio questo il problema, no? Nina ovunque, sono tutti qui, nessuno se n’è andato davvero. Ogni tanto mi pare di sentire i minatori che cantano, quando il vento fischia nel sotterraneo. Avevano le facce tutte rosse per via dell’ossido di ferro.»
Sento il bisogno urgente di condividere, di raccontare a questa donna, la mia unica possibile alleata in tutta Carnhallow, quello che ho visto. Una donna identica a Nina. Su un autobus. Ma non posso. Non ancora. Non ancora.
«Hai visto tutti i vestiti neri? Sono bellissimi, quei vestitini neri.» Il sorriso di Juliet è accondiscendente, sognante. Forse ha di nuovo esagerato con il porto. «Secondo me, erano i più belli. Forse un po’ troppo cari, però.» Tira un gran sospiro. «Ma in fondo, come dice sempre David, la morte è il prezzo che paghiamo per la bellezza. Prendine uno, dai, prova a vedere come ti starebbe.»
«Scusa?»
«Sei della stessa taglia di Nina. Molto simile, a parte i capelli. Prendi un abito, provatelo sopra i vestiti, sarà divertente.»
Sì, è ubriaca di sicuro. Ma a me non importa. Significa che forse dimenticherà questo episodio.
Infilo la mano in una scatola e docilmente estraggo un vestito. Tutto nero e luccicante. Poi me lo provo addosso, come se stessi cercando la taglia giusta in un negozio di abbigliamento.
«Oh, sì!» scoppia a ridere Juliet, molto divertita. «Sei Nina, proprio lei! Oh, sì!» La sua risata si spegne e una tristezza improvvisa prende il sopravvento. «Bene, adesso devo andare, ma tu prosegui pure. Ci sono anche dei libri da qualche parte. Buonanotte. Ti prego, ricordati di chiudere la porta a chiave per evitare che il piccolo Jamie riesca a entrare. Dobbiamo salvare Jamie. Jamie è tutto, è la ragione di tutto.»
Detto questo, si gira e se ne va, come se ci fossimo appena incontrate nel Salotto Giallo e avessimo parlato delle rose del giardino. Io rimango ferma lì, gelata, per almeno mezzo minuto, cercando di decifrare le sue frasi biascicate. Ma è tutto inutile. E poi ci sono altri scatoloni. Non vedo l’ora di chiudere le mie ricerche e correre al piano di sopra.
Il secondo scatolone è pieno di carte e documenti. Numeri e preventivi. Quasi tutti – forse tutti – contratti e lettere relativi al restauro di Carnhallow, il grande progetto di Nina, che io sto cercando di completare. Che pretesa ridicola.
Negozi di tessuti, tappezzieri, architetti d’interni, acquirenti d’asta, tutti a farle un’offerta. Persino qualche museo. Sfoglio avidamente le carte, soffermandomi su qualche frase qua e là.
Un paio di piatti georgiani d’argento dorato. Ho trovato degli specchi molto belli con la cornice di gesso. Uno specchio a figura intera e un tavolo a consolle. Due tazze da tè in porcellana Bone China; due rami fioriti d’argento da Milano; due grandi vasi giapponesi Imari di vetro: 30.000 sterline.
Trentamila sterline.
In fondo allo scatolone c’è una Moleskine. La calligrafia di Nina è particolarissima, elegante e appuntita. L’agendina nasconde una lettera tra le sue pagine. La apro e la leggo. La lettera non è finita, ma doveva essere indirizzata a una specie di esperto.
Ho fatto venire un uomo da Inverie, in Scozia, e l’ho sistemato in un cottage a Zennor. Tratta i suoi fili con tinture vegetali per ottenere la giusta sfumatura di colore per le tappezzerie.
E poco sotto:
La stoffa è prodotta e tinta da Richard Humphries; ho parlato con il reparto tessile del V&A e ho scelto il moreen, una lana damascata perfetta per lo stile del letto e i tendaggi. Tinta in uno sfumato color verde blu, quasi evanescente...
Questo mi dice ben poco, tranne che Nina sapeva alla perfezione quello che faceva. E che non ha mai spedito questa lettera scritta con tanta cura. Chissà perché. Eppure, anche stavolta, come quel giorno con la foto sulla rivista di gossip, ho la strana sensazione di aver trovato un indizio.
Richiudo la lettera e la rimetto nell’agendina, quindi mi infilo l’agendina nella tasca dei jeans.
L’ultimo scatolone è pieno di libri, come aveva detto Juliet. Un mucchio di libri. Autobiografie, volumi di storia e romanzi. Molti sono scritti in francese, Colette, Balzac, Simone Weil.
A giudicare dall’aspetto, il libro più sottile sembra quello a cui teneva di più: un’edizione con copertina rigida dell’antologia poetica di Sylvia Plath. Rigirandomelo tra le mani, vedo che le pagine hanno le orecchie e sono sgualcite, anche se Nina aveva riparato, o fatto riparare, la rilegatura. Di sicuro un libro che amava molto. Mentre lo osservo, mi si apre all’improvviso su una pagina. Il dorso si è fessurato in questo punto, evidentemente perché era la poesia che leggeva più spesso.
La luna e il tasso.
Non so granché di Sylvia Plath e delle sue poesie. Io preferisco i romanzi, sono loro la mia via di fuga quando la vita diventa intollerabile. Ma il primo verso della lirica, circolettato da Nina, basta a darmi un polveroso senso di angoscia, una volta ancora.
Questa è la luce della mente
Ricordo bene questo verso. È l’epitaffio sulla lapide di Nina. E non saprò granché di Sylvia Plath, ma di sicuro una cosa me la ricordo: si è suicidata.
Le domande si gonfiano e scoppiano, come le nuvole di pioggia su Cape Cornwall. Come le folate di vento a Natale.
Nina si sarà suicidata? In questo caso, si spiegherebbe il senso di sventura, rimorso e segretezza che circonda la sua morte. Che circonda tutti noi qui, intrappolati a Carnhallow. Ma se si è davvero suicidata, perché l’avrà fatto? In fondo, aveva tutto: bellezza, cervello, un figlio, un marito, una casa meravigliosa. O almeno così sembrava.
Penso al bimbo che ho in grembo, che erediterà la metà di Carnhallow, ma tutta la sua storia.
Spengo la luce e lascio il seminterrato, portandomi dietro il libretto e l’agendina. Ma appena apro la porta del Salotto Giallo, una nuova ondata di paura mi stringe la bocca dello stomaco, facendomi tremare le mani.
Chanel. Lo sento nell’aria. Ma non è il ricordo di un profumo, una vaga traccia del passato. No, è perfettamente reale e attuale. È il profumo di una donna che è appena stata in questa stanza, la sua stanza preferita, il suo salotto restaurato a meraviglia, e ne è uscita da pochi istanti.
È il profumo di Nina. Nessun altro in famiglia usa Chanel. È stata qui. Era qui cinque minuti fa. Lo so, lo so per certo. Non può essere. Però è così. Nina si aggira silenziosa e invisibile in questa casa, aspettando che io me ne vada, a Natale. Così potrà prendere il mio posto.