Icinesi narrano di un periodo durante la dinastia Xia (c. 2205 - c. 1782 a.C.) in cui il nostro ambiente cosmico si modificò bruscamente. Dieci soli apparvero nel cielo. Gli uomini sulla Terra soffrivano terribilmente per il caldo, e così l’imperatore ordinò a un famoso arciere di abbattere i soli in più. L’arciere fu ricompensato con una pillola che aveva il potere di renderlo immortale, ma sua moglie gliela rubò. Per tale crimine la donna fu esiliata sulla Luna.

I cinesi avevano ragione a pensare che un sistema solare con dieci soli non sia propizio alla vita umana. Oggi sappiamo che, anche se forse offrirebbe grandi opportunità di abbronzatura, qualsiasi sistema solare con stelle multiple probabilmente non consentirebbe mai alla vita di svilupparsi. Le ragioni non sono proprio così semplici come il caldo torrido immaginato nella leggenda cinese. In effetti un pianeta potrebbe fruire di temperature gradevoli, almeno temporaneamente, pur orbitando intorno a stelle multiple. Ma un riscaldamento uniforme per lunghi periodi di tempo, cosa che sembra necessaria per la vita, sarebbe improbabile. Per capirne la ragione, consideriamo che cosa accade nel tipo più semplice di sistema stellare multiplo, un sistema con due soli, che viene chiamato sistema binario. Circa la metà di tutte le stelle del cielo fanno parte di sistemi di questo genere. Ma anche i semplici sistemi binari possono ospitare soltanto certi tipi di orbite stabili, simili a quelle mostrate nella figura che segue. In ciascuna di queste orbite ci sarebbe con ogni probabilità un periodo in cui il pianeta sarebbe o troppo caldo o troppo freddo per consentire la vita. La situazione è ancora peggiore per ammassi contenenti molte stelle.

Il nostro sistema solare ha altre proprietà «fortunate» senza le quali forme di vita complesse non avrebbero mai potuto evolversi. Per esempio, in base alle leggi di Newton, le orbite planetarie possono essere circonferenze o ellissi (le ellissi sono cerchi schiacciati, più ampi lungo un asse e più stretti lungo l’altro). La misura in cui un’ellisse è schiacciata è descritta da un parametro detto eccentricità, che è un numero compreso tra zero e uno. Un’eccentricità prossima a zero significa che la curva assomiglia a un cerchio, mentre un’eccentricità prossima a uno significa che è molto schiacciata. Keplero era turbato dall’idea che i pianeti non si muovessero su cerchi perfetti, ma l’orbita della Terra ha un’eccentricità soltanto del 2 per cento circa, il che equivale a dire che è quasi circolare. Come è chiaro, questo è un grosso colpo di fortuna.

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Orbite binarie. Pianeti in orbita intorno a sistemi stellari binari avranno probabilmente un clima inospitale, in certe stagioni troppo caldo per la vita, in altre troppo freddo.

Gli andamenti climatici stagionali sulla Terra sono determinati principalmente dall’inclinazione del suo asse rispetto al piano dell’orbita terrestre intorno al Sole. Durante l’inverno nell’emisfero settentrionale, per esempio, il polo nord è inclinato dalla parte opposta al Sole. Il fatto che la Terra sia più vicina al Sole in quel periodo – a una distanza di soli 147 milioni di chilometri, a fronte di una distanza di 152 milioni di chilometri all’inizio di luglio – ha sulla temperatura un effetto trascurabile rispetto a quello dell’inclinazione. Ma su pianeti con un’elevata eccentricità orbitale la variazione della distanza dal Sole svolge un ruolo assai più rilevante. Su Mercurio, per esempio, con un’eccentricità del 20 per cento, la temperatura nel punto di massima vicinanza al Sole (perielio) è di oltre 110 gradi maggiore rispetto a quella nel punto di massima distanza dal Sole (afelio). In effetti, se l’eccentricità dell’orbita della Terra fosse prossima a uno, gli oceani bollirebbero quando il pianeta si trova nel punto più vicino al Sole, e congelerebbero quando si trova nel punto più lontano, rendendo non troppo piacevoli sia le vacanze invernali sia quelle estive. Elevate eccentricità orbitali non sono favorevoli alla vita, e quindi siamo fortunati ad abitare su un pianeta per il quale l’eccentricità orbitale è prossima a zero.

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Eccentricità. L’eccentricità è una misura di quanto un’ellisse è vicina a un cerchio. Le orbite circolari sono propizie alla vita, mentre orbite molto allungate causano ingenti fluttuazioni stagionali della temperatura.

Siamo fortunati anche per quanto riguarda il rapporto tra la massa del Sole e la nostra distanza da esso. Questo perché la massa di una stella determina la quantità di energia che emette. Le stelle più grandi hanno una massa circa cento volte maggiore di quella del nostro Sole, mentre le più piccole hanno un massa circa cento volte minore. Eppure, considerando come data la distanza Terra-Sole, se il Sole avesse una massa anche solo del 20 per cento minore o maggiore, la Terra sarebbe più fredda di quanto sia oggi Marte o più calda di quanto sia oggi Venere.

Tradizionalmente gli scienziati, data una qualsiasi stella, definiscono zona abitabile la ristretta regione intorno all’astro in cui le temperature sono tali da rendere possibile l’esistenza di acqua liquida. La zona abitabile viene chiamata a volte «zona di Goldilocks», perché la condizione che esista acqua liquida significa che per l’evoluzione della vita intelligente sono necessarie temperature planetarie che, come quella della minestra nella favoletta di Goldilocks (o Riccioli d’oro), siano «proprio giuste». La zona abitabile nel nostro sistema solare, rappresentata nella figura che segue, è piccolissima. Fortunatamente per quelli di noi che sono forme di vita intelligente, la Terra si è trovata al suo interno!

Newton credeva che il nostro sistema solare stranamente abitabile non «fosse sorto dal caos in forza di semplici leggi di natura». Riteneva invece che l’ordine dell’universo fosse «creato inizialmente da Dio e mantenuto da lui finora nel medesimo stato e condizione». È facile capire perché ci si potesse convincere di ciò. I numerosi eventi improbabili che hanno concorso a rendere possibile la nostra esistenza, e la configurazione adatta all’uomo del nostro mondo, sarebbero davvero enigmatici se il nostro fosse l’unico sistema solare nell’universo. Ma nel 1992 si ebbe la prima osservazione confermata di un pianeta in orbita intorno a una stella diversa dal Sole. Oggi siamo a conoscenza di centinaia di pianeti extrasolari, e pochi dubitano che ne esistano innumerevoli altri tra i molti miliardi di stelle del nostro universo. Ciò rende le coincidenze delle nostre condizioni planetarie – l’unicità del Sole, la fortunata combinazione di distanza Terra-Sole e massa solare – assai meno sorprendenti, e assai meno convincenti come prova del fatto che la Terra sia stata accuratamente progettata proprio per far piacere a noi esseri umani. Esistono pianeti di tutti i tipi. Alcuni – o almeno uno – sostentano la vita. Ovviamente, quando gli esseri di un pianeta che rende possibile la vita esaminano il mondo intorno a loro, non possono non constatare che il loro ambiente soddisfa le condizioni di cui hanno bisogno per esistere.

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La zona di Goldilocks. Se Goldilocks stesse «assaggiando» pianeti, troverebbe adatti alla vita soltanto quelli nella zona verde. La stella gialla rappresenta il nostro Sole. Quelle più bianche sono stelle più grandi e più calde, quelle più rosse sono stelle più piccole e più fredde. Pianeti più vicini della zona verde al loro sole sarebbero troppo caldi per la vita, e pianeti più lontani sarebbero troppo freddi. Le dimensioni della zona ospitale sono minori per le stelle più fredde.

Possiamo tradurre l’ultima affermazione in un principio scientifico: la nostra stessa esistenza impone regole che determinano da dove e in quale momento è possibile che noi osserviamo l’universo. Ossia, il fatto della nostra esistenza limita le caratteristiche del tipo di ambiente in cui ci troviamo. Tale enunciato è chiamato principio antropico debole. (Vedremo tra poco il perché dell’aggettivo «debole».) Un’espressione migliore di «principio antropico» sarebbe stata «principio di selezione», perché l’asserto si riferisce a come la nostra stessa consapevolezza della nostra esistenza impone regole che selezionano, tra tutti i possibili ambienti, soltanto quelli con caratteristiche che consentono la vita.

Sebbene possa aver l’aria di un enunciato filosofico, il principio antropico debole può essere usato per fare predizioni scientifiche. Per esempio, qual è l’età dell’universo? Come vedremo tra breve, perché noi esistiamo l’universo deve contenere elementi quali il carbonio, che vengono prodotti cuocendo elementi più leggeri all’interno delle stelle. Il carbonio deve poi essere sparso nello spazio in un’esplosione di supernova, e alla fine condensare come parte di un pianeta in un sistema solare di nuova generazione. Nel 1961 il fisico Robert Dicke dimostrò che il processo richiede all’incirca 10 miliardi di anni, e quindi la nostra esistenza implica che l’universo deve avere almeno quest’età. D’altra parte, l’universo non può avere molto più di 10 miliardi di anni, perché nel lontano futuro tutto il combustibile delle stelle si sarà esaurito, e noi abbiamo bisogno di stelle calde per il nostro sostentamento. Perciò l’universo deve avere circa 10 miliardi di anni. Questa non è una predizione estremamente precisa, ma è vera: secondo i dati attuali il big bang ebbe luogo circa 13,7 miliardi di anni fa.

Come nel caso dell’età dell’universo, le predizioni basate sul principio antropico di solito individuano per un dato parametro fisico, più che un valore esatto, un arco di valori. Questo perché la nostra esistenza, pur potendo non richiedere un particolare valore di un parametro fisico, dipende spesso dal fatto che i parametri non varino troppo rispetto al valore che effettivamente osserviamo. Inoltre ci aspettiamo che le condizioni date nel nostro mondo siano tipiche nell’ambito dell’arco antropicamente permesso. Per esempio, se soltanto eccentricità orbitali modeste, diciamo comprese tra 0 e 0,5, consentono la vita, un’eccentricità pari a 0,1 non dovrebbe sorprenderci perché fra tutti i pianeti dell’universo probabilmente una buona percentuale ha orbite con eccentricità così bassa. Ma se risultasse che la Terra percorre una circonferenza quasi perfetta, con eccentricità, per esempio, pari a 0,000 000 000 01, ciò ne farebbe un pianeta davvero molto speciale, e ci spingerebbe a cercare di spiegare perché ci troviamo a vivere in un ambiente così anomalo. Questa idea è detta a volte principio di mediocrità.

Le fortunate coincidenze relative alla forma delle orbite planetarie, alla massa del Sole e così via, sono dette ambientali perché derivano dalla favorevole configurazione dei nostri dintorni e non da una caratteristica fortuita delle leggi fondamentali di natura. Anche l’età dell’universo è un fattore ambientale, perché nella sua storia ci sono un’epoca precedente e una successiva, mentre noi dobbiamo vivere in questa perché è l’unica propizia alla vita. Le coincidenze ambientali si possono comprendere senza difficoltà perché il nostro non è che un habitat cosmico tra i molti che esistono nell’universo, e ovviamente noi non possiamo che vivere in un habitat che sostenta la vita.

Il principio antropico debole non è particolarmente controverso. Ma c’è una forma più forte dell’enunciato che noi sosterremo qui, sebbene sia considerata con disprezzo da parte di alcuni fisici. Il principio antropico forte sostiene che il fatto che noi esistiamo impone dei vincoli non solo sul nostro ambiente, ma anche su forma e contenuto possibili delle leggi di natura. L’idea si è proposta perché non sono soltanto le caratteristiche peculiari del nostro sistema solare ad apparire stranamente favorevoli all’evoluzione della vita umana, ma anche le caratteristiche del nostro intero universo, e questo è molto più difficile da spiegare.

La storia di come l’universo primordiale fatto di idrogeno, elio e un po’ di litio si è evoluto in un universo che ospita almeno un mondo dotato di vita intelligente – il nostro – si articola in molti capitoli. Come si è osservato in precedenza, le forze fondamentali dovevano essere tali che gli elementi più pesanti – specialmente il carbonio – potessero formarsi a partire dagli elementi primordiali, e rimanere stabili almeno per qualche miliardo di anni. Gli elementi pesanti furono sintetizzati nelle fornaci che chiamiamo stelle, e quindi le leggi dovevano in primo luogo consentire a stelle e galassie di formarsi. Queste strutture si svilupparono dai semi costituiti dalle minuscole disomogeneità presenti nell’universo primordiale, che era quasi del tutto uniforme, ma fortunatamente conteneva variazioni di densità di circa 1 parte su 100.000. Tuttavia, l’esistenza di stelle, e l’esistenza al loro interno degli elementi di cui siamo fatti, non è sufficiente. La dinamica delle stelle doveva essere tale che alcune finissero per esplodere e, per di più, esplodere esattamente in un modo che permettesse di distribuire gli elementi più pesanti nello spazio. Inoltre le leggi di natura dovevano fare in modo che quei residui potessero riaggregarsi in una nuova generazione di stelle, questa volta circondate da pianeti che incorporassero gli elementi pesanti di nuova formazione. Proprio come era necessario che sulla Terra dei primordi si verificassero certi eventi per consentire la nostra evoluzione, così anche ogni anello di questa catena era necessario per la nostra esistenza. Ma nel caso degli eventi che si sono tradotti nell’evoluzione dell’universo, tali sviluppi erano governati dall’equilibrio tra le forze fondamentali di natura, ed era l’interazione tra queste ultime a dover essere «proprio giusta» perché noi potessimo esistere.

Uno dei primi a rendersi conto di come ciò potesse implicare una non trascurabile dose di fortuna fu Fred Hoyle negli anni ’50. Hoyle credeva che tutti gli elementi chimici si fossero originariamente formati a partire dall’idrogeno, che considerava la vera sostanza primordiale. L’idrogeno ha il nucleo atomico più semplice, costituito da un unico protone, solo o in combinazione con uno o due neutroni. (Forme differenti di idrogeno, o di qualsiasi nucleo, contenenti lo stesso numero di protoni ma numeri diversi di neutroni, sono dette isotopi.) Oggi sappiamo che elio e litio, atomi i cui nuclei contengono due e tre protoni rispettivamente, furono anch’essi sintetizzati a livello primordiale, in quantità molto minori, quando l’universo aveva un’età di circa 200 secondi. La vita, però, dipende da elementi più complessi. Tra questi, il carbonio è il più importante, essendo la base di tutta la chimica organica.

Sebbene si possano immaginare organismi «viventi», come per esempio computer dotati di intelligenza, formati da altri elementi quali il silicio, è dubbio che la vita avrebbe potuto evolversi spontaneamente in assenza di carbonio. Le ragioni sono di carattere tecnico ma hanno a che fare con la maniera unica in cui il carbonio si lega agli altri elementi. L’anidride carbonica (o diossido di carbonio), per esempio, è gassosa a temperatura ambiente, e molto utile dal punto di vista biologico. Poiché il silicio è l’elemento direttamente sottostante al carbonio nella tavola periodica, ha proprietà chimiche simili. Tuttavia, l’anidride silicica (o diossido di silicio) sta molto meglio in una collezione di minerali che nei polmoni di un organismo. Eppure forse potrebbero evolversi forme di vita che si pascono di silicio e roteano ritmicamente le loro code in piscine di ammoniaca liquida. Ma anche questo tipo di vita esotica non potrebbe evolversi dai soli elementi primordiali, perché tali elementi possono formare soltanto due composti stabili, l’idruro di litio, che è un solido cristallino incolore, e l’idrogeno gassoso, e nessuno dei due è probabile che si riproduca o anche solo si innamori. Comunque, resta il fatto che noi siamo una forma di vita basata sul carbonio, e ciò pone il problema di come si sono formati il carbonio, il cui nucleo contiene sei protoni, e gli altri elementi pesanti presenti nel nostro corpo.

Il primo passo si verifica quando le stelle più vecchie cominciano ad accumulare elio, che si forma quando due nuclei di idrogeno collidono tra loro e si fondono. Tale fusione costituisce il modo in cui le stelle generano l’energia che ci riscalda. Due atomi di elio possono a loro volta entrare in collisione formando berillio, un atomo il cui nucleo contiene quattro protoni. Una volta formatosi, il berillio potrebbe in linea di principio fondersi con un terzo nucleo di elio per produrre carbonio. Ma ciò non accade, perché l’isotopo del berillio che si forma torna a decadere quasi istantaneamente in nuclei di elio.

La situazione cambia quando una stella comincia a esaurire l’idrogeno. Quando ciò accade il nocciolo della stella subisce un collasso che procede finché la sua temperatura centrale sale a circa 100 milioni di kelvin. In tali condizioni i nuclei si scontrano con frequenza tale che alcuni nuclei di berillio collidono con uno di elio prima di avere la possibilità di decadere. A quel punto il berillio può fondersi con l’elio per formare un isotopo del carbonio che è stabile. Ma questo carbonio è ancora ben lontano dal formare aggregati ordinati di composti chimici del tipo di quelli che possono gustare un bicchiere di Bordeaux, far roteare birilli colorati o porre domande sull’universo. Perché esistano esseri come gli umani, il carbonio deve essere trasportato dall’interno della stella in regioni più accoglienti. Ciò accade, come si è detto, quando la stella, al termine del suo ciclo vitale, esplode come supernova, espellendo carbonio e altri elementi pesanti che più tardi si addensano in un pianeta.

Questo processo di generazione del carbonio è chiamato processo delle tre alfa perché «particella alfa» è un altro nome del nucleo dell’isotopo dell’elio coinvolto, e perché richiede che tre di queste particelle (alla fine) si fondano insieme. La fisica nota prediceva che il tasso di produzione del carbonio tramite il processo delle tre alfa doveva essere pressoché trascurabile. Muovendo da questa osservazione, nel 1952 Hoyle predisse che la somma delle energie di un nucleo di berillio e di un nucleo di elio doveva essere quasi esattamente pari all’energia di un certo stato quantico dell’isotopo del carbonio generato, una situazione questa chiamata risonanza, che accresce notevolmente la velocità di una reazione nucleare. All’epoca non era noto alcun livello energetico del genere, ma prendendo spunto dall’ipotesi di Hoyle, William Fowler del Caltech se ne mise alla ricerca e lo identificò, fornendo un’importante conferma delle idee di Hoyle sul modo in cui si formano i nuclei complessi.

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Il processo delle tre alfa. Il carbonio si forma all’interno delle stelle in seguito alle collisioni di tre nuclei di elio, un evento che sarebbe molto improbabile se non fosse per una particolare proprietà delle leggi della fisica nucleare.

Scrisse Hoyle: «Credo che nessuno scienziato che esaminasse le prove si sottrarrebbe alla conclusione che le leggi della fisica nucleare siano state deliberatamente progettate in vista delle conseguenze che producono all’interno delle stelle». All’epoca nessuno ne sapeva abbastanza di fisica nucleare per comprendere la portata della serendipità insita in queste precise leggi fisiche. Ma in anni recenti, indagando sulla validità del principio antropico forte, i fisici hanno cominciato a chiedersi come sarebbe stato l’universo se le leggi di natura fossero differenti. Oggi possiamo creare modelli su computer che ci dicono come la velocità della reazione delle tre alfa dipende dalle intensità delle forze fondamentali di natura. Calcoli di questo tipo mostrano che una variazione non superiore allo 0,5 per cento nell’intensità della forza nucleare forte, o al 4 per cento nell’intensità della forza elettrica, distruggerebbe o quasi tutto il carbonio o tutto l’ossigeno in ogni stella, e quindi la possibilità della vita come la conosciamo. Se si cambiano anche di poco le leggi dell’universo in cui viviamo, le condizioni per la nostra esistenza vengono meno!

Analizzando gli universi modello che si generano quando le teorie fisiche vengono modificate in determinati modi, è possibile studiare in maniera metodica l’effetto di cambiamenti nella legge fisica. Emerge che non sono soltanto le intensità dell’interazione nucleare forte e di quella elettromagnetica a essere «fatte su misura» per la nostra esistenza. Gran parte delle costanti fondamentali che compaiono nelle nostre teorie sembrano calibrate con precisione, nel senso che se fossero alterate anche solo in misura modesta, l’universo sarebbe qualitativamente differente, e in molti casi inadatto allo sviluppo della vita. Per esempio, se l’altra forza nucleare, quella debole, fosse molto più debole, nell’universo primordiale tutto l’idrogeno si sarebbe trasformato in elio, e quindi non ci sarebbero stelle normali; se invece fosse molto più intensa, le esplosioni delle supernovae non espellerebbero i loro strati esterni, e quindi non disseminerebbero lo spazio interstellare degli elementi pesanti di cui i pianeti hanno bisogno per favorire la vita. Se i protoni fossero dello 0,2 per cento più pesanti, decadrebbero in neutroni rendendo instabili gli atomi. Se la somma delle masse dei tipi di quark che formano un protone fosse modificata soltanto del 10 per cento, ci sarebbe un numero molto minore dei nuclei atomici stabili dei quali siamo fatti; in effetti la somma delle masse dei quark sembra approssimativamente ottimizzata in vista dell’esistenza del massimo numero di nuclei stabili.

Se si assume che alcune centinaia di milioni di anni in un’orbita stabile siano necessari per l’evoluzione di vita planetaria, anche il numero delle dimensioni dello spazio è determinato dalla nostra esistenza. Questo perché, secondo le leggi della gravità, soltanto in tre dimensioni sono possibili orbite ellittiche stabili. Con altre dimensionalità sono possibili orbite circolari, che però, come Newton temeva, sono instabili. In qualsiasi numero di dimensioni diverso da tre basterebbe una piccola perturbazione, come quelle prodotte dall’attrazione degli altri corpi celesti analoghi, a far uscire un pianeta dalla sua orbita circolare immettendolo in un’orbita a spirale destinata a farlo cadere nel Sole o a farlo allontanare da esso, cosicché noi saremmo condannati a bruciare o a congelare. Inoltre, in più di tre dimensioni la forza gravitazionale agente tra due corpi decrescerebbe più rapidamente di quanto avviene in tre dimensioni. In quest’ultima dimensionalità la forza gravitazionale si riduce a 1/4 del suo valore se la distanza raddoppia. In quattro dimensioni si ridurrebbe a 1/8, in cinque dimensioni si ridurrebbe a 1/16, e così via. Di conseguenza, in più di tre dimensioni il Sole non potrebbe esistere in uno stato stabile in cui la sua pressione interna controbilanci l’attrazione gravitazionale. Si disintegrerebbe oppure subirebbe un collasso trasformandosi in un buco nero, cose che potrebbero entrambe rovinarci la giornata. Sulla scala degli atomi, le forze elettriche si comporterebbero nello stesso modo di quelle gravitazionali. Ciò significa che gli elettroni atomici o si allontanerebbero o cadrebbero a spirale nel nucleo. In nessuno dei due casi sarebbero possibili atomi come li conosciamo.

La comparsa delle complesse strutture capaci di sostentare osservatori intelligenti sembra dipendere da equilibri assai precari. Le leggi di natura formano un sistema calibrato in modo estremamente preciso, e nella legge fisica ben poco può essere modificato senza distruggere la possibilità dell’evoluzione della vita quale la conosciamo. Sembra che, se non fosse per una serie di sbalorditive coincidenze nei minimi particolari della legge fisica, esseri umani e forme di vita analoghe non sarebbero mai apparsi.

Il caso più impressionante di una regolazione fine che si presenta come una coincidenza riguarda la costante cosmologica nelle equazioni della relatività generale di Einstein. Come si è detto, nel 1915, quando formulò la teoria, Einstein credeva che l’universo fosse statico, cioè che non si espandesse né si contraesse. Dal momento che tutta la materia attrae altra materia, introdusse nella teoria una nuova forza di antigravità che contrastasse la tendenza dell’universo a ricadere su se stesso in un collasso gravitazionale. Tale forza, a differenza delle altre, non derivava da alcuna sorgente specifica ma era incorporata nella struttura stessa dello spaziotempo, e la costante cosmologica ne descriveva l’intensità.

Quando si scoprì che l’universo non era statico, Einstein eliminò dalla teoria la costante cosmologica e definì la sua introduzione il più grosso errore della sua vita. Ma nel 1998 osservazioni di supernovae estremamente lontane rivelarono che l’universo si sta espandendo a un ritmo che accelera di continuo, un effetto che non è possibile senza una qualche specie di forza repulsiva che agisca in tutto lo spazio. La costante cosmologica era risorta. Siccome oggi sappiamo che il suo valore non è zero, siamo indotti a chiederci perché ha il valore che ha. I fisici hanno proposto argomentazioni che spiegano come potrebbe derivare da effetti quantomeccanici, ma il valore che calcolano è circa 120 ordini di grandezza (un 1 seguito da 120 zeri!) maggiore del valore effettivo, ottenuto dalle osservazioni delle supernovae. Ciò significa che o il ragionamento cui si è fatto ricorso nel calcolo era sbagliato, oppure esiste qualche altro effetto che miracolosamente controbilancia tutto il valore calcolato meno una sua frazione inimmaginabilmente piccola. L’unica cosa certa è che se il valore della costante cosmologica fosse molto maggiore di quello che è, il nostro universo si sarebbe disperso prima che potessero formarsi le galassie e – ancora una volta – la vita come la conosciamo sarebbe stata impossibile.

Come possiamo interpretare queste coincidenze? La «fortuna» nella forma e natura esatta della legge fisica fondamentale è di un tipo diverso da quella in cui ci imbattiamo nel caso dei fattori ambientali. Non può essere spiegata altrettanto facilmente, e ha implicazioni fisiche e filosofiche assai più profonde. Sembra che il nostro universo e le sue leggi presentino una struttura che è fatta su misura per sostentarci e, se noi dobbiamo esistere, lascia poco spazio a modifiche. Questo non è facile da spiegare, e solleva l’ovvia questione del perché sia così.

A molti piacerebbe che ci servissimo di queste coincidenze come di prove dell’intervento divino. L’idea che l’universo sia stato progettato per accogliere il genere umano compare in teologie e mitologie formulate in ogni epoca, da migliaia di anni fa fino a oggi. Nelle narrazioni storicomitologiche maya del Popol Vuh gli dei proclamano: «Non avremo né gloria né onore da tutto ciò che abbiamo creato e modellato finché non esisteranno esseri umani senzienti». Un tipico testo egizio risalente al 2000 a.C. afferma: «Agli uomini, armenti di Dio, si è ben provveduto. Egli [il dio sole] fece la terra e il cielo a loro vantaggio». In Cina il filosofo taoista Lie Yukou (c. 400 a.C.) espresse l’idea per bocca di un personaggio che in un racconto dice: «Il cielo fa crescere i cinque tipi di cereali, e genera le tribù fornite di pinne e di piume, soprattutto per la nostra utilità».

Nell’ambito della cultura occidentale, l’Antico Testamento contiene l’idea del disegno provvidenziale nel suo resoconto della creazione, ma la tradizionale concezione cristiana fu grandemente influenzata anche da Aristotele, il quale credeva «in un mondo naturale intelligente che opera secondo un certo progetto deliberato». Il teologo medievale cristiano Tommaso d’Aquino si servì delle idee di Aristotele sull’ordine esistente in natura per argomentare in favore dell’esistenza di Dio. Nel XVIII secolo un altro teologo cristiano arrivò a sostenere che i conigli hanno la coda bianca per facilitarci nella caccia. Un’illustrazione più moderna del punto di vista cristiano fu proposta qualche anno fa allorché il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, scrisse: «Oggi, all’inizio del XXI secolo, a confronto con tesi scientifiche come il neodarwinismo e l’ipotesi del multiverso in cosmologia, escogitate per non prendere atto delle prove schiaccianti di finalità e progetto che emergono nella scienza moderna, la Chiesa cattolica si ergerà ancora una volta a difesa della ragione umana proclamando che il progetto immanente nella natura è reale». In cosmologia, la prova schiacciante di finalità e progetto cui si riferiva il cardinale è la regolazione fine della legge fisica che abbiamo appena descritto.

La svolta decisiva nel rifiuto scientifico di un universo antropocentrico fu il modello copernicano del sistema solare, in cui la Terra non occupava più una posizione centrale. Ironia della storia, la concezione del mondo di Copernico era tanto antropomorfica che volle consolarci dichiarando che, a dispetto del suo modello eliocentrico, la Terra è quasi al centro dell’universo: «Sebbene [la Terra] non sia al centro del mondo, tuttavia la distanza [da quel centro] è come nulla, in particolare quando venga paragonata a quella delle stelle fisse». Con l’invenzione del telescopio nel XVII secolo, osservazioni come quella che il nostro non è l’unico pianeta attorno a cui orbiti una luna avvalorarono il principio che non occupiamo una posizione privilegiata nell’universo. Nei secoli successivi, quanto più si apprendeva dell’universo, tanto più appariva probabile che il nostro fosse soltanto un pianeta qualsiasi. Ma la scoperta abbastanza recente della regolazione estremamente fine di tante leggi di natura potrebbe ricondurre almeno alcuni di noi all’antica idea che questo grande disegno sia opera di un grande architetto. Negli Stati Uniti, poiché la Costituzione proibisce l’insegnamento della religione nelle scuole, ci si riferisce a questo tipo di idea con l’espressione «disegno intelligente», con la tacita ma implicita intesa che l’architetto sia Dio.

Non è questa la risposta della scienza moderna. Abbiamo visto nel V capitolo come il nostro universo sia probabilmente solo uno tra molti altri, ciascuno dei quali è governato da leggi differenti. L’idea del multiverso non è un concetto inventato per rendere conto del miracolo della regolazione fine. È una conseguenza della condizione di assenza di contorno oltre che di molte altre teorie della cosmologia moderna. Ma se è vera, allora il principio antropico forte può essere considerato effettivamente equivalente a quello debole, il che pone la regolazione fine della legge fisica sullo stesso piano dei fattori ambientali, perché significa che il nostro habitat cosmico – attualmente l’intero universo osservabile – è soltanto uno dei molti, proprio come il nostro sistema solare è solo uno dei molti. Ciò vuol dire che, come le coincidenze ambientali del sistema solare furono rese irrilevanti dalla constatazione che esistono miliardi di sistemi analoghi, così le regolazioni fini delle leggi di natura possono essere spiegate dall’esistenza di universi multipli. Molti nel corso dei secoli hanno attribuito a Dio la bellezza e la complessità della natura che ai loro tempi sembravano non avere alcuna spiegazione scientifica. Ma proprio come Darwin e Wallace spiegarono in che modo l’apparentemente miracolosa struttura delle forme viventi potesse comparire senza l’intervento di un essere supremo, così il concetto di multiverso può spiegare la regolazione fine della legge fisica senza bisogno di un creatore benevolo che abbia fatto l’universo a nostro vantaggio.

Einstein una volta chiese al suo assistente Ernst Straus se, a suo parere, Dio avesse avuto qualche scelta quando aveva creato l’universo. Alla fine del XVI secolo Keplero era convinto che Dio avesse creato l’universo in conformità a un principio matematico perfetto. Newton dimostrò che le medesime leggi che valgono nei cieli vigono sulla Terra, e per esprimere tali leggi formulò equazioni matematiche che erano così eleganti da ispirare un fervore quasi religioso in molti scienziati del XVIII secolo, che sembravano decisi a servirsene a loro volta per dimostrare che Dio era un matematico.

Fin dai tempi di Newton, e soprattutto da quelli di Einstein, scopo della fisica è stato trovare principi matematici semplici del tipo immaginato da Keplero, e con essi creare una teoria unitaria del tutto che rendesse conto di ogni particolare della materia e delle forze che si osservano in natura. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX Maxwell e Einstein unificarono le teorie dell’elettricità, del magnetismo e della luce. Negli anni ’70 fu creato il modello standard, una teoria unica delle forze nucleari forte e debole e della forza elettromagnetica. Poi furono formulate la teoria delle corde e la teoria M nel tentativo di includere anche la forza rimanente, la gravità. Il proposito era di trovare non solo una teoria unica che spiegasse tutte le forze, ma anche una teoria che rendesse conto di tutte le costanti fondamentali di cui abbiamo parlato, dalle intensità delle forze alle masse e alle cariche delle particelle elementari. Per dirla con le parole di Einstein, la speranza era di poter affermare che «la natura è costituita in modo che sia logicamente possibile formulare leggi così fortemente determinate che nell’ambito di tali leggi ricorrano solo costanti razionalmente determinate in modo completo (e quindi, non costanti il cui valore numerico possa essere modificato senza distruggere la teoria)». Difficilmente una teoria unica sarebbe caratterizzata dalla regolazione fine che consente la nostra esistenza. Ma se, alla luce di recenti progressi, interpretiamo il sogno di Einstein come aspirazione a una teoria unica che spieghi questo e altri universi, con il loro intero spettro di leggi differenti, allora la teoria M potrebbe essere quella cercata. Ma la teoria M è unica, ovvero imposta da un qualche principio logico semplice? Siamo in grado di rispondere alla domanda: «Perché la teoria M?»?