Secondo il popolo boshongo dell’Africa centrale, al principio c’erano soltanto oscurità, acqua e il grande dio Bumpa. Un giorno Bumpa, in preda al mal di stomaco, vomitò il Sole. Con il tempo il Sole asciugò parte dell’acqua, scoprendo la terraferma. Ma Bumpa stava ancora male e vomitò di nuovo. Così vennero al mondo la Luna, le stelle, e poi alcuni animali: il leopardo, il coccodrillo, la tartaruga, e infine l’uomo. I maya del Messico e dell’America centrale parlano di un’analoga epoca precedente la creazione in cui esistevano solo il mare, il cielo e il Creatore. Nella leggenda maya il Creatore, infelice perché non c’era nessuno che cantasse le sue lodi, creò la Terra, le montagne, gli alberi e la maggior parte degli animali. Ma gli animali non sapevano parlare, e così decise di creare gli uomini. In un primo tempo li fece di fango e terra, ma dicevano soltanto cose senza senso. Li fece scomparire e riprovò, questa volta foggiandoli dal legno. Ma quegli uomini erano ottusi. Allora il Creatore decise di distruggerli, perciò loro si rifugiarono nella foresta, rimanendo menomati durante la fuga in un modo che li modificò leggermente, trasformandoli in quelle che oggi conosciamo come scimmie. Dopo questo fiasco, il Creatore trovò alla fine una formula che funzionava, e fece i primi esseri umani con il grano e il mais. Oggi dal mais estraiamo l’etanolo, ma finora non abbiamo uguagliato l’impresa del Creatore che ne trasse coloro che lo bevono.

Miti della creazione come questi tentano tutti di rispondere alle domande che ci poniamo qui: perché c’è un universo, e perché l’universo è com’è? I nostri tentativi di affrontare tali domande hanno potuto giovarsi di mezzi conoscitivi che sono continuamente cresciuti nel corso dei secoli, dal tempo degli antichi greci a oggi, e in modo particolarmente significativo durante gli ultimi cento anni. Armati di quanto abbiamo appreso nei capitoli precedenti, ora siamo pronti per proporre una possibile risposta a quegli interrogativi.

Una cosa che forse è parsa evidente fin dai tempi antichi è che o l’universo è una creazione molto recente oppure gli esseri umani sono esistiti soltanto per una piccola frazione della storia cosmica. Questo perché la specie umana si è sviluppata così rapidamente in fatto di conoscenza e tecnologia che, se fosse stata presente per milioni di anni, oggi avrebbe raggiunto una padronanza dell’universo molto maggiore.

Secondo l’Antico Testamento, Dio creò Adamo ed Eva soltanto sei giorni dopo l’inizio della creazione. Il vescovo Ussher, primate anglicano di tutta l’Irlanda dal 1625 al 1656, collocò l’origine del mondo in modo ancor più preciso, al calar della notte precedente domenica 23 ottobre 4004 a.C. Noi siamo di parere diverso: gli esseri umani sono una creazione recente ma l’universo ha avuto inizio molto tempo prima, all’incirca 13,7 miliardi di anni fa.

La prima vera prova scientifica del fatto che l’universo ha avuto un inizio si presentò negli anni ’20. Come si è detto nel III capitolo, a quell’epoca la maggior parte degli scienziati credeva in un universo statico esistente da sempre. La prova del contrario era di tipo indiretto, basandosi sulle osservazioni compiute da Edwin Hubble con il telescopio da 250 centimetri di diametro di Monte Wilson, sulle alture intorno a Pasadena, in California. Analizzando lo spettro della luce emessa, Hubble stabilì che quasi tutte le galassie si stanno allontanando da noi, e che quanto più sono lontane, tanto più rapidamente recedono. Nel 1929 pubblicò una legge che connetteva la loro velocità di recessione alla loro distanza da noi, e concluse che l’universo è in espansione. Se ciò è vero, deve essere stato più piccolo nel passato. Tornando a ritroso al passato più remoto, tutta la materia e l’energia dell’universo sarebbero state concentrate in una regione minuscola di densità e temperatura inimmaginabili, e se si risale all’indietro a sufficienza, ci sarebbe stato un istante in cui tutto ebbe inizio: l’evento che oggi chiamiamo big bang.

L’idea che l’universo sia in espansione implica qualche sottigliezza. Per esempio, non si deve pensare che l’universo si espanda nel modo in cui, diciamo, potremmo ampliare la nostra casa, abbattendo una parete e costruendo un nuovo bagno dove prima c’era una maestosa quercia. Non è lo spazio che si estende, ma è la distanza tra due punti qualsiasi entro l’universo che aumenta. Questa idea emerse negli anni ’30 in mezzo a molte controversie, ma uno dei modi migliori per visualizzarla è ancora una metafora proposta nel 1931 dall’astronomo dell’Università di Cambridge Arthur Eddington. Eddington immaginava l’universo come la superficie di un palloncino che si dilata, e tutte le galassie come punti su tale superficie. Questa analogia spiega chiaramente perché le galassie lontane recedono più rapidamente di quelle vicine. Se, per esempio, il raggio del palloncino raddoppiasse ogni ora, la distanza tra due galassie qualsiasi sul palloncino raddoppierebbe anch’essa ogni ora. Se a un certo momento due galassie fossero a una distanza di 1 centimetro, un’ora dopo sarebbero distanti 2 centimetri, e apparirebbero muoversi l’una rispetto all’altra alla velocità di 1 centimetro all’ora. Ma se inizialmente fossero a 2 centimetri di distanza, un’ora dopo sarebbero lontane 4 centimetri e sembrerebbero allontanarsi l’una dall’altra a una velocità di 2 centimetri all’ora. E questo è proprio ciò che Hubble aveva scoperto: quanto più lontana è una galassia, tanto più rapidamente si allontana da noi.

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Universo a palloncino. Le galassie distanti si allontanano da noi come se il cosmo fosse tutto sulla superficie di un gigantesco palloncino.

È importante comprendere che l’espansione dello spazio non altera le dimensioni degli oggetti materiali, come galassie, stelle, mele, atomi, o altri corpi tenuti insieme da qualche tipo di forza. Per esempio, se tracciassimo un cerchio sul palloncino intorno a un ammasso di galassie, questo cerchio non si dilaterebbe con l’espansione del palloncino. Viceversa, poiché le galassie sono legate da forze gravitazionali, il cerchio e le galassie al suo interno manterrebbero le loro dimensioni e la loro configurazione mentre il palloncino si dilata. Ciò è importante perché possiamo rivelare l’espansione soltanto se i nostri strumenti di misura hanno dimensioni fisse. Se ogni cosa fosse libera di espandersi, noi, i nostri metri campione, i nostri laboratori e così via, ci espanderemmo tutti in proporzione e non noteremmo alcuna differenza.

Che l’universo sia in espansione fu una sorpresa per Einstein. Ma la possibilità che le galassie si allontanino l’una dall’altra era stata prospettata qualche anno prima delle scoperte di Hubble in base a considerazioni teoriche derivanti proprio dalle equazioni di Einstein. Nel 1922 il fisico e matematico russo Alexander Friedmann aveva studiato che cosa accadrebbe in un universo modello basato su due ipotesi che semplificavano notevolmente la trattazione matematica: che l’universo appaia identico in ogni direzione, e che appaia tale da ogni punto di osservazione. Noi sappiamo che la prima ipotesi di Friedmann non è esattamente vera: fortunatamente l’universo non è uniforme dovunque! Se guardiamo verso l’alto in una direzione vediamo magari il Sole; in un’altra, la Luna oppure uno stormo di pipistrelli vampiri. Ma l’universo appare approssimativamente identico in ogni direzione se lo si osserva su una scala molto più grande, maggiore anche della distanza tra le galassie. È un po’ come guardare una foresta dall’alto. Se si è abbastanza vicini si possono distinguere le singole foglie, o almeno gli alberi, e gli spazi che li separano. Ma se si è così in alto che sporgendo il pollice questo copre un chilometro quadrato di alberi, la foresta apparirà come una distesa uniforme di verde. Diremmo che, su tale scala, la foresta è uniforme.

Basandosi sulle proprie ipotesi Friedmann riuscì a trovare una soluzione delle equazioni di Einstein in cui l’universo si espandeva proprio nel modo che di lì a poco Hubble avrebbe scoperto corrispondere al vero. In particolare, l’universo modello di Friedmann ha inizialmente dimensioni nulle e si espande finché l’attrazione gravitazionale ne rallenta il moto, e alla fine lo fa ricadere su se stesso. (Risulta che vi sono altri due tipi di soluzioni delle equazioni di Einstein che soddisfanno anch’esse le condizioni del modello di Friedmann: una corrisponde a un universo in cui l’espansione continua per sempre, pur rallentando leggermente, e un un’altra corrisponde a un universo in cui la velocità di espansione diminuisce tendendo a zero, ma senza mai annullarsi del tutto.) Friedmann morì qualche anno dopo aver condotto queste ricerche, e le sue idee rimasero pressoché sconosciute fin dopo la scoperta di Hubble. Ma nel 1927 un professore di fisica e sacerdote cattolico di nome Georges Lemaître propose un’idea simile: se si ripercorre la storia dell’universo procedendo a ritroso nel tempo, esso diventa sempre più piccolo finché si raggiunge un evento di creazione: quello che oggi chiamiamo big bang.

Non a tutti piaceva l’immagine del big bang. In realtà l’espressione stessa «big bang» fu coniata nel 1949 dall’astrofisico di Cambridge Fred Hoyle, il quale credeva a un universo destinato a espandersi per sempre, e intendeva l’espressione in senso derisorio. Le prime osservazioni dirette a sostegno del big bang si ebbero soltanto nel 1965, con la scoperta dell’esistenza di un debole fondo di radiazione a microonde che pervadeva tutto lo spazio. La radiazione cosmica di fondo a microonde, o RCFM, è analoga a quella presente nel vostro forno a microonde, ma molto meno intensa. La potete osservare voi stessi sintonizzando il vostro televisore su un canale inutilizzato: una piccola percentuale della neve che vedete sullo schermo è prodotta dalla RCFM. La radiazione fu scoperta per caso da due scienziati dei Laboratori Bell, nel tentativo di eliminare questo disturbo dalla loro antenna per microonde. In un primo momento pensarono che il disturbo potesse derivare dalle deiezioni dei piccioni che si appollaiavano sull’antenna, ma poi si capì che il problema aveva un’origine più interessante: la RCFM è radiazione residua dell’universo primordiale estremamente caldo e denso che sarebbe esistito poco dopo il big bang. Con l’espansione poi l’universo si raffreddò finché la radiazione si ridusse al debole residuo che osserviamo oggi. Attualmente queste microonde potrebbero riscaldare il vostro cibo soltanto fino a circa –270 gradi Celsius, 3 gradi sopra lo zero assoluto, e quindi non sarebbero molto utili per fare il popcorn.

Gli astronomi hanno scoperto anche altri indizi in favore dell’universo primordiale minuscolo e caldissimo creato dal big bang. Per esempio, durante il primo minuto o giù di lì, l’universo sarebbe stato più caldo del centro di una stella e l’intero cosmo avrebbe funzionato come un reattore a fusione nucleare. Le reazioni sarebbero cessate quando l’universo si dilatò e raffreddò a sufficienza, ma la teoria predice che questo processo avrebbe dovuto produrre un universo composto prevalentemente di idrogeno, il 23 per cento circa di elio e tracce di litio (tutti gli elementi più pesanti furono sintetizzati più tardi, all’interno delle stelle). Il calcolo è in buon accordo con le quantità di idrogeno, elio e litio che si osservano.

Le misurazioni dell’abbondanza dell’elio e della RCFM fornirono una prova convincente dell’universo primordiale creato dal big bang, ma se è legittimo pensare al big bang come a una valida descrizione dei primordi, è sbagliato prenderla alla lettera, e cioè pensare che la teoria di Einstein fornisca un’immagine vera dell’origine dell’universo. Questo perché la relatività generale predice che vi sia un istante nel tempo in corrispondenza del quale temperatura, densità e curvatura dell’universo sono tutte infinite, una situazione che per i matematici costituisce una singolarità. Per un fisico ciò significa che la teoria di Einstein a quel punto cessa di valere e pertanto non può essere usata per predire come l’universo ha avuto inizio, ma soltanto come si è evoluto in seguito. Così, sebbene possiamo servirci delle equazioni della relatività generale e delle nostre osservazioni dei cieli per farci un’idea dell’universo nelle sue primissime fasi di vita, non è corretto estendere la descrizione del big bang fino all’inizio.

Torneremo tra breve alla questione dell’origine dell’universo, ma prima qualche parola sulla fase iniziale dell’espansione. I fisici la chiamano inflazione. A meno che viviate in Zimbabwe, dove l’inflazione monetaria di recente ha superato il 200.000.000 per cento, il termine può non sembrare propriamente esplosivo. Ma anche secondo le stime più caute, durante l’inflazione cosmologica, l’universo si dilatò di un fattore 1.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000 in 0,000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 01 secondi. È come se una monetina di 1 centimetro di diametro all’improvviso si dilatasse fino a diventare dieci milioni di volte più grande della Via Lattea. Può sembrare che ciò costituisca una violazione della relatività, la quale stabilisce che nulla può muoversi più rapidamente della luce, ma tale limite di velocità non vale per l’espansione dello spazio stesso.

L’idea che possa essersi verificato un episodio di inflazione fu proposta inizialmente nel 1980, sulla base di considerazioni che vanno al di là della teoria della relatività generale di Einstein e tengono conto anche di alcuni aspetti della teoria quantistica. Dal momento che non disponiamo di una teoria quantistica completa della gravità, i particolari sono ancora in corso di elaborazione e i fisici non sono sicuri di come si sia svolta di preciso l’inflazione. Ma, secondo la teoria, l’espansione causata dall’inflazione non sarebbe stata completamente uniforme, come previsto dal modello tradizionale del big bang. Le irregolarità avrebbero prodotto minuscole variazioni della temperatura della RCFM in differenti direzioni. Queste disomogeneità sono troppo piccole perché potessero essere osservate negli anni ’60, ma furono scoperte nel 1992 dal satellite COBE della NASA, e in seguito misurate dal suo successore, il satellite WMAP, lanciato nel 2001. Di conseguenza, oggi siamo convinti che l’inflazione abbia effettivamente avuto luogo.

Paradossalmente, sebbene le minuscole variazioni presenti nella RCFM siano una prova dell’inflazione, una delle ragioni per cui l’inflazione è un concetto importante è la quasi perfetta uniformità della temperatura della RCFM. Se si fa in modo che una parte di un corpo sia più calda delle regioni circostanti e poi si attende, il punto caldo si raffredderà e i suoi dintorni si riscalderanno finché la temperatura del corpo risulterà uniforme. Analogamente ci si aspetterebbe che l’universo alla fine abbia una temperatura uniforme. Ma questo processo richiede tempo, e se non ci fosse stata l’inflazione, nella storia dell’universo non ci sarebbe stato tempo sufficiente perché il calore si distribuisse in modo uniforme in regioni separate da grandi distanze, ammettendo che la velocità di trasferimento di calore non possa essere superiore alla velocità della luce. Un periodo di espansione estremamente rapida (molto più rapida della velocità della luce) pone rimedio a questa difficoltà perché ci sarebbe stato tempo sufficiente per il livellamento termico nell’universo primordiale estremamente piccolo prima dell’inflazione.

L’inflazione spiega il «bang», lo scoppio, del big bang, almeno nel senso che l’espansione fu assai più estrema di quella prevista dalla teoria tradizionale del big bang basata sulla relatività generale per l’arco di tempo in cui l’inflazione si verificò. Il problema è che lo stato iniziale dell’universo, perché i nostri modelli teorici dell’inflazione funzionino, doveva essere predisposto in un modo molto specifico e altamente improbabile. Così la teoria tradizionale dell’inflazione risolve un insieme di problemi, ma ne crea un altro: la necessità di uno stato iniziale del tutto speciale. La questione dell’istante zero è eliminata nella teoria della creazione dell’universo che stiamo per presentare.

Dal momento che non possiamo descrivere la creazione servendoci della teoria della relatività generale di Einstein, se vogliamo descrivere l’origine dell’universo, tale teoria deve essere sostituita da una più completa. Ci si aspetterebbe che occorra una teoria più completa anche se la relatività generale non cessasse di valere, perché essa non tiene conto della struttura della materia su piccola scala, che è governata dalla teoria quantistica. Si è detto nel IV capitolo che, alla maggior parte dei fini pratici, la teoria quantistica non ha grande rilievo per lo studio della struttura dell’universo su vasta scala perché si applica alla descrizione della natura su scale microscopiche. Ma, risalendo a sufficienza all’indietro nel tempo, l’universo aveva dimensioni dell’ordine della lunghezza di Planck, pari a un miliardesimo di trilionesimo di trilionesimo di centimetro, e su questa scala si deve per forza tener conto della teoria quantistica. Così, sebbene non disponiamo ancora di una teoria quantistica completa della gravità, sappiamo per certo che l’origine dell’universo fu un evento quantistico. Di conseguenza, proprio come abbiamo combinato la teoria quantistica e la relatività generale – almeno in modo provvisorio – per ricavare la teoria dell’inflazione, se vogliamo risalire ancora più indietro e comprendere l’origine dell’universo, dobbiamo combinare quanto sappiamo della relatività generale con la teoria quantistica.

Per farci un’idea di come vanno le cose, dobbiamo comprendere il principio secondo il quale la gravità deforma lo spazio e il tempo. La deformazione dello spazio è più facile da visualizzare della deformazione del tempo. Immaginiamo che l’universo sia la superficie di un tavolo da biliardo piano. La superficie del tavolo è uno spazio piatto in due dimensioni. Se si fa rotolare una bilia sul tavolo, si muoverà in linea retta. Ma se il tavolo risulta incurvato o presenta delle buche, come nella figura qui sopra, la bilia seguirà una traiettoria curva.

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Deformazione dello spazio. Materia ed energia deformano lo spazio, modificando le traiettorie dei corpi.

È facile rendersi conto di come è deformato il tavolo da biliardo in questo esempio, perché la sua superficie è incurvata in una terza dimensione esterna che noi possiamo vedere. Siccome non possiamo uscire dal nostro spaziotempo per vederne la curvatura, la deformazione dello spaziotempo nel nostro universo è più difficile da immaginare. Ma la curvatura può essere rivelata anche se non è possibile porsi all’esterno e osservarla dal punto di vista di uno spazio con più dimensioni. Può essere rivelata dall’interno dello spazio stesso. Immaginiamo una microformica confinata sulla superficie del tavolo. Anche senza la possibilità di allontanarsene, la formica potrebbe scoprirne la curvatura registrando con precisione le distanze. Per esempio, nello spazio piatto la lunghezza di una semicirconferenza è sempre un po’ più di tre volte maggiore della lunghezza del suo diametro (il fattore effettivo è π). Ma se la formica tagliasse lungo il cerchio che racchiude la buca visibile nel tavolo, scoprirebbe che la distanza lungo il diametro è maggiore di quanto previsto, maggiore cioè di un terzo della semicirconferenza. Anzi, se la buca fosse abbastanza profonda, la formica scoprirebbe che la distanza lungo la circonferenza è minore della distanza lungo il diametro. Lo stesso vale per la curvatura nel nostro universo: essa dilata o comprime la distanza tra i punti dello spazio, modificandone la geometria, ossia la forma, in un modo che è misurabile dall’interno dell’universo. La deformazione del tempo dilata o comprime gli intervalli di tempo in maniera analoga.

Armati di queste idee, torniamo alla questione dell’inizio dell’universo. Possiamo parlare separatamente di spazio e tempo, come abbiamo fatto in questa discussione, in situazioni caratterizzate da velocità basse e forze gravitazionali deboli. In generale, però, tempo e spazio sono strettamente intrecciati, e quindi la loro dilatazione e compressione implica anche una certa quantità di mescolamento. Il mescolamento è importante nell’universo primordiale ed è la chiave per comprendere l’inizio del tempo.

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Deformazione dello spaziotempo. Materia ed energia deformano il tempo facendo sì che la dimensione temporale si «mescoli» con le dimensioni spaziali.

La questione dell’inizio del tempo è un po’ simile alla questione dell’orlo del mondo. Quando si pensava che il mondo fosse piatto, poteva accadere di chiedersi se il mare traboccava dall’orlo. La cosa è stata sottoposta a verifica sperimentale: si può girare intorno al mondo senza cadere giù. Il problema di che cosa accada all’orlo del mondo fu risolto quando ci si rese conto che la Terra non era una distesa piatta, ma una superficie curva. Il tempo, però, sembrava analogo a un plastico ferroviario. Se aveva un inizio, avrebbe dovuto esserci qualcuno (cioè, Dio) a mettere in moto i treni. Sebbene la teoria della relatività generale di Einstein unificasse tempo e spazio nello spaziotempo e implicasse una certa mescolanza dei due, il tempo era ancora distinto dallo spazio, e aveva un inizio e una fine, oppure durava per sempre. Ma una volta che si combinino gli effetti della teoria quantistica con la teoria della relatività, la deformazione in casi estremi può verificarsi in misura così elevata che il tempo si comporta come un’altra dimensione dello spazio.

Nell’universo primordiale – quando era così piccolo da essere governato sia dalla relatività generale sia dalla teoria quantistica – c’erano effettivamente quattro dimensioni spaziali e nessuna temporale. Ciò significa che, quando parliamo dell’«inizio» dell’universo, evitiamo la delicata questione che allorché guardiamo a ritroso verso l’universo delle origini, il tempo come noi lo conosciamo non esiste! Dobbiamo accettare il fatto che le nostre consuete idee di spazio e tempo non sono applicabili all’universo delle origini. Ciò va al di là della nostra esperienza, ma non della nostra immaginazione, o della nostra matematica. Se nell’universo delle origini tutte e quattro le dimensioni si comportano come lo spazio, che ne è dell’inizio del tempo?

L’intuizione che il tempo può comportarsi come un’ulteriore direzione spaziale significa che ci si può sbarazzare del problema dell’inizio del tempo come ci siamo sbarazzati del problema dell’orlo del mondo. Supponiamo che l’inizio dell’universo fosse paragonabile al polo sud della Terra, con i gradi di latitudine che svolgono il ruolo del tempo. Man mano che si procede verso nord, i paralleli (cerchi di latitudine costante), che rappresentano le dimensioni dell’universo, si dilaterebbero. L’universo avrebbe origine come un punto al polo sud, ma il polo sud è del tutto simile a qualsiasi altro punto. Chiedersi che cosa sia accaduto prima dell’inizio dell’universo non avrebbe più alcun senso, perché non c’è nulla a sud del polo sud. In questa descrizione lo spaziotempo non ha un contorno: le medesime leggi di natura valgono al polo sud come negli altri luoghi. In una maniera analoga, quando si combina la teoria della relatività generale con la teoria quantistica, la questione di che cosa sia accaduto prima dell’inizio dell’universo diventa priva di senso. L’idea che le storie debbano essere superfici chiuse prive di contorno è detta condizione di assenza di contorno (o di confine).

Nel corso dei secoli molti, compreso Aristotele, hanno creduto che l’universo dovesse essere sempre esistito per evitare la questione di come abbia avuto avvio. Altri hanno creduto che l’universo ha avuto un inizio, e se ne sono serviti come argomento a favore dell’esistenza di Dio. La comprensione del fatto che il tempo si comporta come lo spazio propone una nuova alternativa. Elimina infatti l’annosa obiezione all’idea che l’universo abbia avuto un inizio, ma significa anche che l’inizio fu governato dalle leggi della scienza e non presuppone un atto di avvio da parte di una qualche divinità.

Se l’origine dell’universo è stata un evento quantistico, dovrebbe essere descritta con precisione dalla somma sulle storie di Feynman. Ma applicare la teoria quantistica all’intero universo – dove gli osservatori sono parte del sistema sotto osservazione – è questione delicata. Nel IV capitolo abbiamo visto che particelle materiali sparate contro una barriera con due fenditure possono produrre figure di interferenza proprio come le onde sull’acqua. Feynman dimostrò che ciò accade perché una particella non ha una storia unica. Vale a dire che, quando si sposta dal punto di partenza A a un punto di arrivo B, non segue una traiettoria definita, ma segue simultaneamente ogni possibile percorso che congiunge A e B. Da questo punto di vista, l’interferenza non è una sorpresa perché, per esempio, la particella può passare da entrambe le fenditure allo stesso tempo e interferire con se stessa. Applicato al moto di una particella, il metodo di Feynman implica che per calcolare la probabilità di un qualsiasi punto di arrivo occorre considerare tutte le possibili storie che potrebbero condurre la particella dal punto di partenza a quel punto di arrivo. Si possono usare i metodi di Feynman anche per calcolare le probabilità quantistiche di osservazioni relative all’universo. Quando tali metodi sono applicati all’universo nel suo insieme, non c’è un punto A, e quindi si sommano tutte le storie che soddisfanno la condizione di assenza di contorno e conducono all’universo che osserviamo oggi.

In questa concezione, l’universo è comparso in modo spontaneo, iniziando in ogni modo possibile. La maggior parte di questi modi corrisponde ad altri universi. Sebbene alcuni di questi universi siano simili al nostro, gran parte di essi sono assai differenti. Non differiscono soltanto nei particolari, del tipo se Elvis sia morto giovane o no, o se le rape siano un dessert o no, ma differiscono perfino nelle loro leggi visibili di natura. In effetti esistono molti universi con molti insiemi differenti di leggi fisiche. C’è chi considera assai misteriosa questa idea, cui a volte ci si riferisce con il termine «multiverso», ma si tratta semplicemente di un altro modo di parlare della somma sulle storie di Feynman.

Per farcene un’idea intuitiva, modifichiamo l’analogia del palloncino di Eddington e immaginiamo l’universo in espansione come la superficie di una bolla. La creazione quantistica spontanea dell’universo è allora in qualche modo analoga alla formazione delle bolle di vapore nell’acqua bollente. Compaiono molte bollicine minuscole, che poi tornano a scomparire. Queste corrispondono a miniuniversi che si espandono ma poi subiscono il collasso mentre ancora hanno dimensioni microscopiche. Rappresentano possibili universi alternativi, ma non sono di grande interesse perché non durano abbastanza a lungo da produrre galassie e stelle, e tanto meno vita intelligente. Alcune delle bollicine, però, diventeranno abbastanza grandi da non rischiare di subire il collasso: continueranno a espandersi a una velocità sempre crescente e formeranno le bolle di vapore che riusciamo a vedere. Queste corrispondono a universi che cominciano espandendosi a un ritmo sempre più elevato: in altre parole, a universi in uno stato di inflazione.

Come abbiamo detto, l’espansione causata dall’inflazione non sarebbe stata del tutto uniforme. Nella somma sulle storie, c’è soltanto una storia completamente uniforme e regolare, e avrà la massima probabilità, ma molte altre storie impercettibilmente irregolari avranno probabilità quasi altrettanto elevate. Questa è la ragione per cui la teoria dell’inflazione predice che l’universo primordiale presenti probabilmente leggere disomogeneità, corrispondenti alle piccole variazioni di intensità osservate nella RCFM. Le irregolarità presenti nell’universo primordiale sono una fortuna per noi. Perché? L’omogeneità è una buona cosa se non vogliamo che la panna si separi dal latte nella nostra tazza, ma un universo omogeneo è un universo noioso. Le irregolarità nell’universo delle origini sono importanti perché, se alcune regioni avessero avuto una densità leggermente maggiore di altre, l’attrazione gravitazionale di questa materia più densa avrebbe rallentato l’espansione di tali regioni rispetto a quella delle regioni circostanti. La forza di gravità aggruma lentamente la materia, e alla fine può causarne il collasso con la conseguente formazione di galassie e stelle, e di qui possono aver origine pianeti e, almeno in un caso, persone. Perciò guardiamo con attenzione la mappa del cielo nella gamma delle microonde. Rappresenta il progetto di tutte le strutture dell’universo. Noi siamo il prodotto delle fluttuazioni quantistiche presenti nell’universo primordiale. Chi fosse religioso potrebbe dire che davvero Dio gioca a dadi.

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Il multiverso. Le fluttuazioni quantistiche portano alla creazione di minuscoli universi dal nulla. Alcuni raggiungono una dimensione critica, poi si espandono con una fase di inflazione, formando galassie, stelle e, in almeno un caso, esseri come noi.

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La radiazione cosmica di fondo a microonde. Questa immagine del cielo è stata realizzata nel 2010 con i dati registrati dal satellite WMAP nell’arco di sette anni. La mappa rivela le fluttuazioni di temperatura – rappresentate da differenze di colore – risalenti a 13,7 miliardi di anni fa. Le fluttuazioni corrispondono a differenze di temperatura inferiori a un millesimo di grado Celsius, ma furono i semi che si svilupparono fino a diventare galassie. (NASA/WMAP Science Team)

Quest’idea porta a una visione dell’universo che è profondamente diversa dalla concezione tradizionale e ci richiede di adeguare il modo in cui pensiamo alla storia cosmica. Per fare predizioni in cosmologia dobbiamo calcolare le probabilità di differenti stati dell’intero universo al momento attuale. Di norma in fisica si ammette per un sistema un certo stato iniziale e lo si fa evolvere in avanti nel tempo utilizzando le appropriate equazioni matematiche. Dato lo stato di un sistema a un certo istante, si cerca di calcolare la probabilità che il sistema si venga a trovare in un qualche stato diverso in un istante successivo. Il presupposto usuale in cosmologia è che l’universo abbia un’unica storia ben definita e che si possano usare le leggi della fisica per calcolare come questa storia si sviluppa nel tempo. Chiamiamo questo modo di concepire la cosmologia impostazione bottomup (dal basso verso l’alto). Ma siccome si deve tener conto della natura quantistica dell’universo, che si esprime nella somma sulle storie di Feynman, si perviene all’ampiezza di probabilità che l’universo si trovi ora in un particolare stato sommando i contributi di tutte le storie che soddisfanno la condizione di assenza di contorno e terminano nello stato in questione. In cosmologia, in altre parole, non si dovrebbe seguire la storia dell’universo dalle origini in poi perché ciò presuppone che vi sia un’unica storia, con un punto di partenza e un’evoluzione ben definiti. Si dovrebbero invece ricostruire le storie con procedimento top-down, cioè dall’alto verso il basso, a ritroso dal momento attuale. Alcune storie saranno più probabili di altre, e la somma sarà di norma dominata da un’unica storia che inizia con la creazione dell’universo e culmina nello stato preso in considerazione. Ma ci saranno storie diverse in corrispondenza di differenti stati possibili dell’universo al momento attuale. Ciò conduce a una visione radicalmente innovativa della cosmologia, e della relazione tra causa ed effetto. Le storie che contribuiscono alla somma di Feynman non hanno un’esistenza indipendente, ma dipendono da ciò che si sta misurando. Siamo noi a creare la storia con la nostra osservazione, e non la storia a creare noi.

L’idea che l’universo non abbia un’unica storia indipendente dall’osservatore potrebbe sembrare in conflitto con certi fatti di cui siamo a conoscenza. Potrebbe esserci una storia in cui la Luna è fatta di formaggio Roquefort, mentre noi abbiamo osservato che la Luna non è fatta di formaggio, il che rappresenta una cattiva notizia per i topi. Perciò le storie in cui la Luna è fatta di formaggio non contribuiscono allo stato attuale del nostro universo, anche se potrebbero contribuire a quello di altri. Potrebbe sembrare fantascienza, ma non lo è.

Un’importante conseguenza dell’impostazione top-down è che le leggi visibili di natura dipendono dalla storia dell’universo. Molti scienziati credono che esista una teoria unica che spiega tali leggi oltre alle costanti fisiche di natura, come la massa dell’elettrone o la dimensionalità dello spaziotempo. Ma la cosmologia top-down implica che leggi visibili di natura siano differenti per storie diverse.

Consideriamo la dimensionalità visibile dell’universo («visibile» nel senso specificato alla fine del capitolo precedente). Secondo la teoria M, lo spaziotempo ha dieci dimensioni spaziali e una temporale. L’idea è che sette delle dimensioni spaziali siano avvolte su se stesse su una scala così piccola che non le percepiamo, venendo indotti a credere erroneamente che tutto quanto esiste siano le tre rimanenti dimensioni grandi con cui abbiamo familiarità. Una delle principali questioni che rimangono aperte nella teoria M è perché nel nostro universo non vi siano più dimensioni grandi, e perché ve ne siano alcune avvolte su se stesse.

A molti piacerebbe credere che vi sia un qualche meccanismo che fa avvolgere su se stesse spontaneamente tutte le dimensioni spaziali eccetto tre. In alternativa potrebbe darsi che tutte le dimensioni fossero in origine piccole, ma che per qualche ragione tre dimensioni spaziali si siano dilatate e le altre no. Sembra però che non vi sia alcuna ragione di carattere dinamico perché l’universo appaia quadridimensionale. Anzi, la cosmologia top-down predice che il numero di dimensioni spaziali grandi non sia determinato da alcun principio fisico. Vi sarà un’ampiezza di probabilità quantistica per ogni numero di dimensioni spaziali grandi da 0 a 10. La somma di Feynman tiene conto di tutte queste possibilità, e di tutte le storie possibili dell’universo, ma l’osservazione che il nostro universo ha tre dimensioni spaziali grandi seleziona la sottoclasse di storie che hanno la proprietà osservata. In altre parole, la probabilità quantistica che l’universo abbia più o meno di tre dimensioni spaziali grandi è ininfluente perché abbiamo già stabilito che siamo in un universo con tre di queste dimensioni. Quindi, purché l’ampiezza di probabilità per tre dimensioni spaziali grandi non sia esattamente nulla, non ha importanza quanto sia piccola rispetto all’ampiezza di probabilità per altri numeri di dimensioni. Sarebbe come chiedersi quale sia l’ampiezza di probabilità che l’attuale papa sia cinese. Sappiamo che è tedesco, anche se la probabilità che sia cinese è più alta perché ci sono più cinesi che tedeschi. Allo stesso modo, sappiamo che il nostro universo presenta tre dimensioni spaziali grandi, e quindi anche se altri numeri di dimensioni spaziali grandi possono avere un’ampiezza di probabilità maggiore, siamo interessati soltanto a storie con tre dimensioni di questo tipo.

E che si può dire delle dimensioni avvolte su se stesse? Si rammenti che nella teoria M la forma precisa delle rimanenti dimensioni nascoste, lo spazio interno, determina sia i valori di grandezze fisiche come la carica dell’elettrone sia la natura delle interazioni tra particelle elementari, cioè delle forze fondamentali. Le cose sarebbero state semplici se la teoria M avesse consentito soltanto una forma per le dimensioni nascoste, o magari un numero limitato di forme, eventualmente suscettibili di essere in qualche maniera scartate tutte all’infuori di una, con la conseguenza di lasciarci un’unica possibilità per le leggi visibili di natura. Invece vi sono ampiezze di probabilità per non meno forse di 10500 spazi interni differenti, ciascuno dei quali porta a leggi e valori per le costanti fisiche diversi.

Se si costruisce la storia dell’universo dal basso verso l’alto (bottom-up), non c’è alcuna ragione per cui l’universo debba finire con lo spazio interno associato alle interazioni tra particelle che effettivamente si osservano, cioè con il modello standard (delle interazioni tra particelle elementari). Ma nell’impostazione top-down si ammette che esistano universi con tutti gli spazi interni possibili. In alcuni universi gli elettroni hanno la massa di palle da golf e la forza di gravità è più intensa di quella magnetica. Nel nostro vige il modello standard, con tutti i suoi parametri. È possibile calcolare l’ampiezza di probabilità per lo spazio interno che porta al modello standard, sulla base della condizione di assenza di contorno. Come accade per la probabilità di esistenza di un universo con tre dimensioni spaziali grandi, non importa quanto piccola sia tale ampiezza rispetto a quella di altre possibilità, perché abbiamo già osservato che il modello standard descrive il nostro universo.

La teoria che stiamo presentando in questo capitolo è verificabile. Negli esempi discussi in precedenza abbiamo sottolineato che le ampiezze relative di probabilità per universi radicalmente differenti tra loro, come quelli con un diverso numero di dimensioni spaziali grandi, non hanno importanza. Le ampiezze relative di probabilità per universi contigui (cioè simili) sono, però, importanti. La condizione di assenza di contorno implica che l’ampiezza di probabilità sia maggiore per storie in cui l’universo è inizialmente del tutto regolare. L’ampiezza è minore per universi più irregolari. Ciò significa che l’universo primordiale sarebbe stato quasi omogeneo, ma con piccole irregolarità. Come si è detto, possiamo osservare tali irregolarità sotto forma di piccole differenze tra le microonde che provengono da diverse direzioni nel cielo. Si è constatato che queste differenze sono in perfetto accordo con le predizioni generali della teoria dell’inflazione; ma sono necessarie misurazioni più precise per distinguere pienamente la teoria top-down da altre, e per confermarla o confutarla. Tali misurazioni potranno senz’altro essere effettuate dai satelliti in futuro.

Secoli fa si pensava che la Terra fosse unica, e situata al centro dell’universo. Oggi sappiamo che ci sono centinaia di miliardi di stelle nella nostra galassia, e centinaia di miliardi di galassie, e che una larga percentuale delle stelle è dotata di sistemi planetari. I risultati illustrati in questo capitolo indicano che anche il nostro universo è uno tra molti, e che le sue leggi visibili non sono univocamente determinate. Questo dev’essere deludente per coloro che speravano che una teoria ultima, una teoria del tutto, avrebbe determinato la natura della fisica di tutti i giorni. Invece non possiamo predire caratteristiche discrete come il numero delle dimensioni spaziali grandi o lo spazio interno che determina le grandezze fisiche che si osservano (per esempio, la massa e la carica dell’elettrone e di altre particelle elementari). Ma possiamo usare quei numeri per selezionare le storie che contribuiscono alla somma di Feynman.

Pare che siamo a un punto critico nella storia della scienza, in cui dobbiamo modificare la nostra concezione degli obiettivi della ricerca e di che cosa rende accettabile una teoria fisica. Sembra che le costanti fondamentali e anche la forma delle leggi di natura visibili non siano imposte dalla logica o da un principio fisico. I parametri sono liberi di assumere parecchi valori e le leggi di assumere qualunque forma che porti a una teoria matematica coerente, ed effettivamente assumono valori e forme diverse in differenti universi. Ciò potrà non soddisfare il desiderio umano di essere speciali o di scoprire una bella confezione che contenga tutte le leggi della fisica, ma pare proprio che sia il modo di agire della natura.

Sembra dunque che vi sia un immenso panorama di universi possibili. Come vedremo nel prossimo capitolo, gli universi in cui possono esistere esseri viventi come noi sono rari. Noi viviamo in uno in cui la vita è possibile, ma se l’universo fosse soltanto leggermente differente, esseri come noi non potrebbero esistere. Come dobbiamo interpretare questa regolazione fine? È la prova che l’universo, dopotutto, è stato progettato da un creatore benevolo? Oppure la scienza offre un’altra spiegazione?