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Non ricordo cosa provai mentre sprofondavo, forse solo il tremendo impatto con il mare e il freddo paralizzante dell’acqua. Ma ricordo bene il panico che mi strizzò le viscere quando la corrente mi agguantò, trascinandomi molto più a fondo.

Scalciate, ordinai alle mie gambe, con il respiro che mi singhiozzava in gola. E scalciai. Nella fredda oscurità scalciai, primo perché non volevo morire, e secondo perché, quando la fredda oscurità mi afferrò nella sua morsa, non potevo fare altro: i polmoni stavano urlando e capii che se non fossi tornata subito in superficie sarei morta.

La corrente mi strattonava le gambe con dita scivolose cercando di trascinarmi più a fondo nel buio del fiordo. Scalciavo e scalciavo, sempre più disperata. In quel buio, con il turbinio delle correnti tutt’intorno a me, era quasi impossibile distinguere l’alto dal basso. E se invece mi fossi spinta ancora più in profondità? Eppure non osavo fermarmi. L’istinto di sopravvivenza era troppo forte. Stai morendo! mi gridò una voce dentro la testa. E le mie gambe sapevano rispondere solo scalciando, e scalciando ancora.

Serrai gli occhi contro il bruciore del sale e dietro le palpebre chiuse cominciò ad accendersi uno scintillio, terribilmente simile alle schegge di luce e di buio che mi frammentavano la vista quando avevo un attacco di panico. Ma la cosa stupefacente, anzi, incredibile, fu che quando riaprii gli occhi vidi qualcosa: il pallido luccichio del chiarore lunare sull’acqua.

Per un istante stentai a crederci, ma si stava avvicinando sempre di più e la morsa della corrente sul mio corpo si stava allentando. Fu allora che irruppi in superficie con un respiro che suonò più simile a un grido, il viso grondante d’acqua, mentre tossivo e boccheggiavo e poi tossivo di nuovo.

Ero vicinissima allo scafo della nave, abbastanza da sentire il palpito dei motori come una pulsazione trasmessa dall’acqua, e capii che dovevo nuotare. Non solo perché si può morire di ipotermia anche in mari non troppo freddi, ma soprattutto perché se la nave si fosse mossa, solo l’intervento divino avrebbe potuto salvarmi, a una distanza così ravvicinata. E negli ultimi giorni ero stata così sfortunata da pensare che, se lassù c’era un Dio, allora non dovevo stargli molto simpatica.

Scossa dai brividi, mi tenni a galla e cercai di orientarmi. Ero riemersa a prua. Sulla banchina riuscivo a scorgere una fila di luci e quella che mi sembrò la sagoma scura di una scaletta, anche se non ne ero certa, con tutta quell’acqua negli occhi.

Il mio corpo non mi obbediva più: tremavo così tanto che non riuscivo quasi a controllare gli arti. Tuttavia obbligai braccia e gambe a mettersi in moto, e pian piano cominciai a nuotare in direzione delle luci, tossendo contro le onde che mi schiaffeggiavano il viso, il gelo che mi penetrava nelle ossa. Mi imposi di respirare lentamente e a fondo, anche se ogni parte del mio corpo voleva annaspare e ansimare di fronte all’assalto fisico del freddo. Un oggetto morbido ma solido si scontrò con la mia faccia. Rabbrividii, più di freddo che di repulsione. Mi sarei preoccupata di topi morti e pesci in decomposizione una volta arrivata a riva. Adesso l’unica cosa che mi interessava era sopravvivere.

Non potevo essere caduta in acqua a più di venti o trenta metri dal molo, che però adesso sembrava molto più lontano. Nuotai e nuotai, e in certi momenti avrei potuto giurare che le luci della riva si stessero allontanando, mentre in altri sembravano talmente vicine da poterle toccare. Alla fine sentii il ferro arrugginito della scaletta sotto le dita intirizzite. Mi arrampicai, scivolai e mi arrampicai di nuovo, cercando di non mollare la presa mentre issavo le mie ossa bagnate e scosse dai brividi su per i pioli.

Arrivata in cima crollai sul cemento, tremante e senza fiato, poi squassata dai colpi di tosse. Nel giro di qualche istante mi sollevai carponi e guardai in su, prima verso l’Aurora, poi in direzione della cittadina che sorgeva dinanzi a me.

Non era Bergen. Non avevo idea di dove fossi. Era poco più di un villaggio, e a quell’ora non si vedeva in giro anima viva. I rari bar e locali allineati lungo il molo erano tutti chiusi. Solo qualche luce era accesa nelle vetrine dei negozi, ma l’unico edificio dove poteva esserci qualcuno disposto ad aiutarmi era un hotel affacciato sulla banchina.

Mi rialzai in piedi e scavalcai barcollando la catena che separava il molo dal precipizio sul mare, poi mi diressi a passi malfermi verso l’hotel. Il rombo dei motori dell’Aurora era aumentato e comunicava un senso d’urgenza. Attraversando lo spiazzo di cemento apparentemente infinito del molo, sentii quel rumore diventare ancora più acuto, seguito dallo sciabordio dell’acqua. Guardandomi timorosa alle spalle vidi che la nave stava cominciando a muoversi, la prua puntata verso il largo del fiordo, i motori che stridevano e tambureggiavano via via che la sua mole si staccava lentamente dalla riva.

Distolsi in fretta lo sguardo come per una sorta di superstizione, quasi che il solo fatto di voltarmi a guardarla potesse attirare l’attenzione dei passeggeri.

Mentre raggiungevo l’ingresso dell’hotel, il ruggito dei motori riprese vigore. Sentii le mie ginocchia cedere mentre bussavo più volte e con forza al portone. Udii la mia voce dire: «Vi prego, vi prego, oh, per favore, qualcuno venga ad aprirmi...» La porta si aprì e venni inondata di luce e calore. Qualcuno mi aiutò a reggermi in piedi e a entrare.

Circa mezz’ora dopo ero accoccolata in una poltrona di vimini, avvolta in una coperta di stoffa sintetica rossa, sulla veranda poco illuminata e chiusa da vetrate che dava sulla baia. Avevo tra le mani una tazza di caffè, ma ero troppo stanca per berlo. Potevo udire in sottofondo delle voci che parlavano in... norvegese, immaginai. Ero distrutta, come se non dormissi da giorni... e in effetti era così. Continuavo a ciondolare la testa sul petto per poi rialzarla di scatto appena mi ricordavo dov’ero, e a cos’ero sfuggita. Era stato reale, quell’incubo della bellissima nave e della cella simile a una bara, molto al di sotto delle onde? Oppure era stata solo un’allucinazione?

Sonnecchiavo in una sorta di dormiveglia, durante il quale osservavo le luci nell’immobile oscurità della baia, l’Aurora un puntino lontano che si muoveva verso ovest, quando udii una voce sopra la mia spalla.

«Miss?»

Alzai lo sguardo. Era un uomo che portava sul petto, appuntata leggermente di traverso, una targhetta su cui c’era scritto: «Erik Fossum – General Manager». Sembrava che l’avessero buttato giù dal letto, i capelli arruffati e la giacca abbottonata male, e si sedette nella poltrona di fronte alla mia passandosi una mano sul mento ispido di barba.

«Salve» dissi fiacca. Avevo già raccontato all’uomo della reception la mia storia, o almeno tutto quello che pensavo fosse il caso di raccontare e che la sua conoscenza dell’inglese gli avrebbe consentito di capire. Si trattava evidentemente del portiere di notte, il quale, stando al suo aspetto e al suo accento, doveva essere più spagnolo o turco che norvegese. Certo il suo norvegese era migliore del suo inglese, il quale si limitava a poche frasi di circostanza sugli orari dell’hotel, e non certo abbastanza avanzato da capire un ingarbugliato racconto di scambi d’identità e di omicidio.

Lo avevo visto mostrare l’unico documento d’identità che avevo con me – quello di Anne – al direttore e avevo sentito i suoi toni bassi e guardinghi, il mio vero nome ripetuto svariate volte.

Ora l’uomo seduto di fronte a me fletté le dita e sorrise nervosamente.

«Miss... Black Lock, è giusto?»

Annuii.

«Mi scusi, vorrei capire meglio... il portiere di notte ha cercato di spiegarmi la situazione, ma come mai lei ha con sé le carte di credito di Anne Bullmer? Noi conosciamo bene Anne e Richard, a volte soggiornano qui. Lei è una loro amica?»

Mi coprii il volto con le mani, come se potessi spingere indietro la stanchezza che minacciava di sopraffarmi.

«È... una storia davvero molto lunga. Per favore, potrei usare il telefono? Devo chiamare la polizia.»

Avevo preso una decisione mentre, gocciolante ed esausta, stavo china sopra il lucido bancone della reception. Nonostante la promessa che avevo fatto a Carrie, era la mia unica chance di salvarla. Richard l’avrebbe uccisa, ne ero sicura. Lei sapeva troppo, e aveva combinato troppi pasticci. Senza il foulard non avevo nessuna possibilità di farmi passare per Anne, e senza il passaporto di Carrie non sarei riuscita nemmeno a impersonare lei. Entrambe erano perdute in qualche punto della baia, a migliaia di metri sotto il livello del mare. Solo il portafoglio di Anne era sopravvissuto, ancora miracolosamente integro nella tasca dei leggings.

«Ma certo» rispose Erik, comprensivo. «Vuole che chiami io? Magari a quest’ora non c’è nessuno in servizio che parla inglese. E poi devo avvertirla che non abbiamo un commissariato di polizia in città: il più vicino è a qualche ora di distanza, nella... come si dice... nella valle successiva. Forse dovremo aspettare domani, prima che arrivi qualcuno.»

«Però dica loro che è urgente» sottolineai con stanchezza. «Prima arrivano e meglio è. Posso pagarvi un letto. Ho del denaro.»

«Non si preoccupi di questo» replicò con un sorriso. «Posso portarle qualcos’altro da bere?»

«No, grazie. Dica solo alla polizia di venire presto. La vita di una persona potrebbe essere in pericolo.»

Appoggiai pesantemente la testa sulla mano, con le palpebre che quasi si chiudevano mentre il direttore tornava al bancone della reception. Udii il rumore di una cornetta che veniva sollevata e il bip bip bip di un numero che veniva digitato. Piuttosto lungo, mi parve. Forse la versione norvegese del 999 era diversa. O magari stava chiamando il commissariato di polizia locale.

Poi sentii squillare. Qualcuno all’altro capo del filo rispose. Seguì un breve scambio. Attraverso la nebbia di spossatezza sentii Erik che diceva qualcosa in norvegese, di cui riuscii a distinguere solo la parola «hotel»... poi una pausa e altre parole in norvegese tra cui il mio nome, ripetuto due volte, e quello di Anne.

«Ja, din kone, Anne» disse Erik, come se la persona dall’altra parte non avesse capito bene, o non avesse creduto a ciò che aveva sentito. Poi un altro scambio in norvegese e una risata, e infine: «Takk, farvel, Richard».

Sollevai di scatto la testa dalla mano che la sosteneva e mi sentii gelare il sangue.

Spinsi lo sguardo verso le navi nella baia, e verso l’Aurora, con le sue luci che si affievolivano in lontananza. E... era solo la mia immaginazione? Mi sembrò che la nave si fosse fermata.

Restai seduta ancora per qualche istante a guardare le luci, cercando di intuirne la posizione rispetto ai punti di riferimento della baia. Non c’erano dubbi. L’Aurora non si stava più muovendo verso ovest né stava inoltrandosi nel fiordo. Stava girando. Stava tornando indietro.

Erik aveva riagganciato e adesso stava componendo un altro numero.

«Politiet, takk» disse quando qualcuno rispose dall’altra parte.

Per un attimo non riuscii a muovermi, paralizzata da ciò che avevo fatto. Non avevo creduto alle affermazioni di Carrie a proposito delle conoscenze e dell’influenza di Richard, non del tutto, almeno, liquidandole come le paranoie di una donna troppo oppressa per credere alla possibilità di fuggire. Ma adesso... adesso quelle paure mi sembravano fin troppo reali.

Posai piano la tazza di caffè sul tavolo e, lasciata cadere a terra la coperta rossa, aprii molto silenziosamente la porta della veranda e scivolai fuori nella notte.