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Persino le docce dei ricchi erano migliori.

I getti mi schiaffeggiavano e massaggiavano da ogni angolo con una forza tale che dopo un po’ era difficile stabilire dove cominciasse l’acqua e dove finisse il corpo.

Mi lavai i capelli e mi rasai le gambe, poi me ne restai semplicemente in piedi sotto la doccia a guardare il mare, il cielo e i gabbiani che tracciavano cerchi nel cielo. Avevo lasciato la porta aperta in modo da poter spingere lo sguardo fuori, al di là della veranda. E l’effetto era... be’, devo ammetterlo: era piuttosto piacevole. D’altronde dovevano pur offrire qualcosa in cambio delle ottomila sterline o giù di lì che quella crociera probabilmente costava.

Una somma un tantino esosa, se confrontata con il mio stipendio... o persino con quello di Rowan. Avevo passato anni a sbavare sui resoconti che lei inviava da una villa alle Bahamas o da uno yacht alle Maldive, in attesa del giorno in cui anch’io sarei arrivata abbastanza in alto da ottenere quel genere di gratifiche. Ma ora che ne avevo avuto un assaggio mi domandavo: come faceva il mio capo a sopportare quelle fuggevoli puntate in una vita che nessuna persona normale si sarebbe mai potuta permettere?

Stavo oziosamente calcolando quanti mesi avrei dovuto lavorare per pagarmi una settimana come passeggera sull’Aurora, quando udii qualcosa: un piccolo rumore indistinto sotto il frastuono dell’acqua. Pur non riuscendo a collocarlo con esattezza, proveniva decisamente dalla mia stanza. Nell’aprire gli occhi per chiudere la doccia, il mio battito cardiaco accelerò un poco, ma mantenni il respiro calmo e regolare.

E a quel punto vidi la porta del bagno venire verso di me come se fosse stata spinta da una mano rapida e sicura.

Si chiuse rumorosamente con il suono sordo di un materiale pesante della migliore qualità, e io rimasi nel buio caldo e umido con l’acqua che mi martellava la sommità del cranio e il cuore che mi batteva abbastanza forte da poter essere registrato dal sonar della nave.

Non riuscivo a sentire nulla al di sopra del sibilo del sangue che fluiva nelle mie orecchie e del fracasso della doccia. E non riuscivo a vedere niente a parte il rosso luccicante dei comandi digitali che la azionavano. Cazzo. Cazzo. Perché non avevo chiuso la porta della cabina a doppia mandata?

Sentii abbassarsi su di me le pareti del bagno, mentre il buio parve inghiottirmi.

Non farti prendere dal panico, mi dissi. Nessuno ti ha fatto niente. Nessuno ha fatto irruzione qui dentro. Probabilmente è soltanto una cameriera che è venuta a piegare l’orlo del lenzuolo, oppure la porta che si è chiusa da sola. Niente. Panico.

Mi costrinsi a cercare i comandi a tentoni. L’acqua diventò gelida e poi atrocemente bollente, al punto che strillai e barcollai all’indietro sbattendo il tallone contro il muro, ma alla fine trovai il pulsante giusto, il flusso si arrestò e io brancolai in cerca delle luci.

Si accesero inondando la piccola stanza di un bagliore impietoso. Mi guardai allo specchio: pallida come un cadavere e con i capelli bagnati appiccicati al cranio, assomigliavo alla ragazza di The Ring.

Accidenti.

Che razza di piega stava prendendo la mia vita? Mi stavo per caso trasformando in una persona che si faceva assalire dalla paranoia alla sola idea di tornare a casa dalla stazione della metro o di rimanere da sola di notte senza il suo fidanzato?

No, col cavolo. Io non sarei mai stata così.

Vidi un accappatoio appeso alla porta, me lo misi in fretta attorno alle spalle e poi tirai un lungo, tremolante respiro.

Non sarei mai stata una persona del genere.

Aprii la porta del bagno con il cuore che mi batteva così forte da farmi comparire tante stelline nel campo visivo.

Niente panico, ripetei furiosa a me stessa.

La stanza era vuota. Del tutto deserta. E la porta era effettivamente chiusa a doppia mandata, avevo persino messo la catenella. Era impossibile che qualcuno fosse entrato. Forse avevo solo sentito muoversi qualcosa in corridoio. In un caso o nell’altro, il movimento della nave doveva aver fatto sì che la porta del bagno si chiudesse da sola.

Controllai di nuovo la catenella che mi rassicurò con la sua solida consistenza e poi, le ginocchia ancora deboli, andai verso il letto e mi sdraiai, il cuore martellante per l’adrenalina, in attesa che il polso tornasse alla normalità.

Immaginai di seppellire il viso contro la spalla di Judah e per qualche secondo fui lì lì per scoppiare in lacrime, ma strinsi i denti e le ricacciai in gola. Non era Judah la soluzione a tutto questo. Il problema ero io e i miei attacchi di panico da fifona.

Non è successo niente. Non è successo niente, continuavo a ripetermi al ritmo dei miei respiri affrettati, finché non sentii che stavo cominciando a calmarmi.

Non è successo niente. Né adesso né prima. Nessuno ti ha fatto del male.

Okay.

Oddio, avevo proprio bisogno di un drink.

Nel minibar c’erano acqua tonica, ghiaccio e una mezza dozzina di bottigliette mignon di gin, whisky e vodka. Misi del ghiaccio in un bicchiere e ci svuotai sopra un paio di mignon con la mano ancora scossa da un leggero tremito. Completai il tutto con uno spruzzo d’acqua tonica e lo ingollai in fretta.

Il gin era così forte da farmi strozzare, ma il calore dell’alcol che si diffondeva nelle cellule e nei vasi sanguigni mi fece sentire subito meglio.

Svuotato il bicchiere, mi rialzai in piedi con la testa e le membra già molto più leggere e tirai fuori il cellulare dalla borsa. Nessuna ricezione, quindi eravamo chiaramente fuori campo, ma c’era il wi-fi.

Cliccai su Mail e, rosicchiandomi un’unghia, stetti a guardare le e-mail che venivano scaricate a una a una nella casella della posta in arrivo. Nessun diluvio come avevo temuto – dopotutto era domenica – ma mentre scorrevo la lista mi resi conto di essere tesa come un elastico sul punto di spezzarsi, e al tempo stesso capii cosa stavo cercando e perché. Non c’era niente da Judah. Mi sentii cadere le braccia.

Risposi alle più urgenti, contrassegnai le altre come non lette e alla fine cliccai su Nuovo messaggio.

«Caro Judah» digitai, per poi trovarmi subito a corto di parole. Mi domandai che cosa stesse facendo in quel momento. Stava preparando il borsone? Oppure era già salito su un aereo low cost pieno zeppo di passeggeri? O magari stava già disteso sul letto di un anonimo hotel, intento a mandare sms o messaggi su Twitter, pensando a me...

Ripensai al momento in cui gli avevo fracassato in faccia la pesante lampada di metallo. Cosa diavolo mi era passato per la testa?

Niente, mi dissi. Eri mezza addormentata. Non è colpa tua. È stato un incidente.

Secondo Freud gli incidenti non esistono, sussurrò la vocina interiore. Forse sei tu...

Scossi la testa, rifiutandomi di ascoltarla.

Caro Judah, ti amo.

Mi manchi.

Scusami.

Cancellai l’e-mail e ne cominciai un’altra.

Da: Laura Blacklock

A: Pamela Crew

Data: Domenica 20 settembre

Oggetto: Sana e salva

Ciao mamma, sono arrivata sana e salva a bordo della nave che è veramente una sciccheria, ti piacerebbe un sacco! Per favore stasera ricordati di andare a prendere Delilah, ho lasciato il suo cestino sul tavolo e il cibo per gatti è sotto il lavello. Ho dovuto cambiare le serrature, la nuova chiave ce l’ha Mrs Johnson al piano di sopra.

Un forte abbraccio e GRAZIE!

Lo xx

Premetti Invio, poi aprii Facebook e scrissi un messaggio alla mia migliore amica, Lissie.

Questo posto è di una bellezza assurda. Bottigliette di liquore in omaggio ILLIMITATO nel minibar della mia cabina – ops, volevo dire della mia enorme SUITE – il che non è di buon auspicio né per la mia professionalità né per il mio fegato. Ci rivediamo a terra, sempre che io possa ancora reggermi in piedi. Lo xx

Mi versai un altro gin e tornai alla mail per Judah. Dovevo assolutamente scrivergli qualcosa, non potevo lasciare le cose così come stavano quando ero andata via. Ci pensai su per qualche istante e poi digitai: «Caro J., scusami per essere stata così maligna prima di partire. Quel che ti ho detto era incredibilmente ingiusto. Ti amo tanto». Dovetti fermarmi perché non vedevo più lo schermo a causa delle lacrime. Feci un paio di respiri, poi mi asciugai rabbiosamente gli occhi e conclusi: «Mandami un sms quando sarai arrivato. Buon viaggio. Lo xxx».

Tornai alla casella della posta in arrivo, stavolta con meno speranze, ma non comparve nulla. Sospirai e mi scolai il secondo gin. L’orologio accanto al letto segnava le 18.30, il che significava che era arrivata l’ora dell’abito da sera numero uno.

Dopo avermi avvertita che il dress code per le cene a bordo era «formale» (traduzione: assurdo), Rowan mi aveva raccomandato di prendere a noleggio almeno sette abiti da sera, in modo da non dover indossare due volte lo stesso. Ma siccome non aveva proposto di pagarmeli di tasca sua, io ne avevo noleggiati tre, e cioè il triplo di quel che avrei fatto se la decisione fosse spettata a me.

Il mio preferito del negozio era anche il più eccessivo: una lunga guaina bianco argentea tempestata di cristalli che, secondo quanto aveva dichiarato la commessa senza il minimo guizzo di sarcasmo, mi faceva assomigliare a Liv Tyler nel Signore degli anelli. Forse non ero riuscita a mantenere un’espressione facciale abbastanza seria, però, perché lei aveva continuato a lanciarmi occhiate sospettose anche mentre mi provavo gli altri.

Tuttavia non mi sentivo sufficientemente coraggiosa da partire subito con le borchie di cristallo, dato che a quanto ne sapevo la gente sarebbe potuta venire in jeans, perciò scelsi l’abbigliamento meno vistoso: una lunga sottoveste di raso grigio scuro. C’era un ramoscello di paillettes sulla spallina sinistra, ma a quanto pareva era impossibile trovarne un abito che fosse sprovvisto di lustrini. La maggior parte dei vestiti da sera sembrava disegnata da bambinette di cinque anni armate di pistole spara-glitter, però almeno questo non ricordava troppo un’esplosione in una fabbrica di Barbie.

Me lo infilai con qualche contorcimento e chiusi la zip sul fianco, quindi tirai fuori dal beauty-case tutta l’artiglieria di cosmetici. Stasera ci sarebbe voluta ben di più che una passata di lucidalabbra per farmi apparire almeno un po’ umana. Stavo giusto spalmandomi del correttore sulla ferita sopra lo zigomo quando mi resi conto di non aver notato il mascara in mezzo alle altre cianfrusaglie.

Setacciai la borsa nella vana speranza che fosse lì, cercando di ricordarmi l’ultima volta che lo avevo visto. Poi realizzai: era nella borsa che mi era stata rubata. Non ho l’abitudine di metterlo sempre, ma senza le ciglia scure il trucco sfumato degli occhi, stasera, sarebbe apparso strano e sproporzionato, come qualcosa di lasciato a metà. Mi balenò per un attimo l’idea ridicola di improvvisare con l’eyeliner liquido, poi optai per un’ultima, vana ricerca dentro la borsa, rovesciando tutto sul letto casomai mi ricordassi male, o ne avessi avuto uno di riserva nascosto dentro la fodera. In cuor mio, però, sapevo che non c’era e stavo già rimettendo tutto dentro quando udii un rumore provenire dalla cabina accanto alla mia: uno sciacquone pressurizzato, riconoscibile anche al di sopra del ronzio attutito dei motori.

Con la chiave magnetica in mano, uscii scalza in corridoio.

Sulla porta in legno di frassino accanto alla mia c’era una targhetta: «10. Palmgren», e mi venne in mente che la scorta di illustri scienziati scandinavi doveva essersi pressoché esaurita nel momento in cui avevano finito di equipaggiare la nave. Bussai esitante.

Non ci fu risposta. Aspettai. Forse l’occupante era sotto la doccia.

Bussai di nuovo, tre colpi secchi e poi, come ripensandoci, una gran botta finale nel caso fossero duri d’orecchio.

La porta si spalancò all’improvviso, quasi che l’inquilina si fosse trovata giusto dall’altra parte. «È tutto a posto?» Poi il suo viso cambiò. «Oh, cavolo. E lei chi è?»

«Sono la sua vicina» risposi. Era giovane e graziosa, con lunghi capelli scuri, e indossava una logora maglietta dei Pink Floyd tutta bucherellata, cosa che per qualche motivo me la rese parecchio simpatica. «Laura Blacklock. Lo. Scusa, lo so che una richiesta del genere può sembrare strana, ma non è che potresti prestarmi del mascara?»

C’erano vari tubetti e vasetti di creme sparpagliati sul piano della toletta dietro di lei, che oltretutto aveva il viso parecchio truccato, cosa che mi fece pensare di essermi rivolta alla persona giusta.

«Oh.» Sembrava agitata. «Certo. Aspetta un secondo.»

Si dileguò chiudendosi la porta alle spalle, per poi tornare con un tubetto di mascara Maybelline che mi ficcò in mano.

«Be’, grazie» dissi. «Te lo riporto subito.»

«Tienilo pure» rispose. Protestai automaticamente, ma lei liquidò le mie parole con un gesto. «Sul serio, non mi interessa.»

«Posso lavare lo spazzolino» le proposi, al che lei scosse impaziente la testa.

«Te l’ho detto, non lo rivoglio.»

«Okay» replicai sorpresa. «Allora grazie.»

«Non c’è di che.» Mi chiuse la porta in faccia.

Tornai nella mia cabina ancora stupita da quel breve, strano incontro. Se io mi sentivo abbastanza fuori posto in questo viaggio, quella ragazza sembrava ancor più un pesce fuor d’acqua. La figlia di qualcuno, magari? Chissà se l’avrei rivista a cena.

Avevo appena finito di applicarmi il rimmel preso in prestito quando sentii bussare alla porta. Forse aveva cambiato idea.

«Ehilà» dissi aprendo la porta, tendendo il tubetto. Ma lì fuori c’era un’altra ragazza, con indosso la divisa da hostess. Le sopracciglia selvaggiamente depilate le davano un’espressione di perenne sorpresa.

«Salve» mi salutò, con una cantilenante inflessione scandinava. «Mi chiamo Karla e sono l’addetta alla sua suite insieme a Josef. Volevo solo ricordarle la presentazione di...»

«Guardi che non me l’ero dimenticato» risposi, più bruscamente di quanto avessi intenzione di fare. «Alle sette nella sala Pippi Calzelunghe o come cavolo si chiama.»

«Ah, vedo che conosce bene gli scrittori scandinavi!» osservò raggiante.

«Gli scienziati molto meno» ammisi. «Sarò di sopra tra pochissimo.»

«Perfetto. Lord Bullmer è impaziente di accogliervi tutti a bordo.»

Dopo che se ne fu andata mi misi a frugare nella valigia in cerca della sciarpa coordinata al vestito – una sorta di scialle di seta che mi faceva assomigliare a una lontana cugina delle sorelle Brontë – e me lo drappeggiai attorno alle spalle, per poi avviarmi lungo il corridoio verso le scale che portavano al Salone Lindgren.