23

Non mi ero accorta di essermi addormentata, ma dovevo essere crollata, spossata dal mal di testa e dal frastuono dei motori, perché mi svegliai al rumore di un ticchettio.

Mi tirai su di colpo a sedere, sbattei la testa contro la cuccetta superiore e ricaddi all’indietro, le mani strette alle tempie mentre il sangue mi martellava nelle orecchie e un acuto ronzio mi risuonava alla base del cranio.

Rimasi distesa per qualche istante, le palpebre strizzate contro il dolore. Poi riuscii a girarmi su un fianco e ad aprire gli occhi, strabuzzandoli alla fioca luce al neon.

C’era un piatto sul pavimento, più un bicchiere di qualcosa: succo di frutta, pensai.

Lo annusai: succo d’arancia, ma non riuscivo a decidermi di berlo. Invece mi alzai in piedi e aprii la porta del piccolo bagno, dove svuotai il bicchiere nel lavandino e lo riempii con l’acqua del rubinetto. Benché fosse tiepida e avesse un sapore stantio, avevo talmente sete che avrei bevuto di peggio. La buttai giù tutta d’un fiato, poi riempii di nuovo il bicchiere e lo sorseggiai più lentamente mentre tornavo alla cuccetta.

Avevo bisogno di un analgesico contro quell’atroce mal di testa, ma soprattutto mi sentivo da schifo, debole e scossa dai brividi come se stesse per venirmi l’influenza. Probabilmente era la fame: non mangiavo da ore e la mia glicemia doveva essere scesa quasi a zero.

Una parte di me avrebbe voluto sdraiarsi per far riposare la testa martellante, ma siccome mi brontolava troppo lo stomaco mi imposi di esaminare il piatto di cibo appoggiato a terra. Sembrava del tutto normale: polpette di carne al sugo, purè di patate e piselli e un panino. Pur sapendo di dover mangiare, sentivo montarmi dentro lo stesso voltastomaco che mi aveva spinto a gettare via il succo di frutta. Il fatto era che mi sembrava sbagliatissimo mangiare della roba portata da chi mi aveva rinchiusa in una prigione subacquea: avrebbe potuto esserci di tutto, lì dentro. Veleno per topi. Sonniferi. O anche di peggio. E io non avevo altra scelta che di mandarla giù.

Tutt’a un tratto l’idea di mettermi in bocca anche una sola cucchiaiata di quella salsa mi procurò un’ondata di panico misto a nausea, e mi venne voglia di buttare tutto nel lavandino come avevo fatto con il succo di frutta, ma mentre mi rialzavo in piedi, pronta a raccogliere il piatto, mi resi conto di una cosa e tornai a sedermi, le gambe vacillanti.

Non avevano bisogno di avvelenarmi. Perché avrebbero dovuto, in fondo? Se volevano uccidermi, sarebbe bastato lasciarmi morire di fame.

Cercai di pensare con lucidità.

Se la persona che mi aveva portata lì – di chiunque si trattasse – avesse voluto sbarazzarsi di me avrebbe potuto già farlo. Giusto?

Giusto. Avrebbe potuto colpirmi di nuovo, con più forza, o premermi un cuscino sulla faccia mentre ero svenuta, o infilarmi la testa in un sacchetto di plastica. E non lo aveva fatto. Bensì si era presa il disturbo di trascinarmi fin lì.

Dunque non mi volevano morta. Non subito, in ogni caso.

Un pisello. Non si poteva mica morire mandando giù un unico pisello, vero?

Lo presi con la punta della forchetta e lo guardai. Completamente normale. Nessuna traccia di polveri strane né di strani colori.

Me lo misi in bocca e lo assaporai lentamente, cercando di individuare eventuali anomalie nel gusto. Non ce n’erano.

Lo inghiottii.

Non successe granché. Non che mi fossi aspettata di morire stecchita: pur non essendo un’esperta di veleni, immaginai che quelli che uccidono nel giro di pochi secondi fossero pochi e difficili da ottenere.

Senonché qualcosa successe: cominciai ad avere fame.

Raccolsi un’altra forchettata di piselli e li mangiai, inizialmente con cautela, poi sempre più in fretta via via che il cibo nello stomaco mi faceva sentire meglio. Infilzai una polpetta: odore e sapore erano normali, ricordandomi vagamente il tipico cibo da mensa.

Quando il piatto fu vuoto, mi misi in attesa di qualcuno che venisse a riprenderselo.

E aspettai.

E aspettai ancora.

Il tempo è molto elastico: è la prima cosa di cui ci si accorge in una situazione priva di luce naturale, senza un orologio né nessun altro modo di misurare la durata di un secondo sull’altro. Provai a contare: i secondi, le mie pulsazioni, ma arrivata a duemila e passa persi il conto.

Mi doleva la testa, ma erano i brividi che mi scuotevano gli arti a preoccuparmi di più. All’inizio pensai che si trattasse della glicemia bassissima, ma dopo aver mangiato mi assalì la preoccupazione che il cibo contenesse davvero una qualche strana sostanza. Ripensandoci meglio, tuttavia, forse il problema era capire quando fosse stata l’ultima volta che avevo preso le mie pasticche.

Ricordai di averne spremuta una dal blister subito dopo il colloquio con Nilsson, lunedì mattina. Solo che non l’avevo inghiottita. Qualcosa me l’aveva impedito, forse uno stupido bisogno di dimostrare che non ero chimicamente dipendente da quelle minuscole, innocenti pillole bianche. L’avevo invece lasciata sul ripiano del mobiletto, incapace di mandarla giù ma anche di gettarla via.

Non che avessi intenzione di smettere. Volevo solo dimostrare... non so bene che cosa. Di avere il controllo di me stessa, suppongo. Come un piccolo, insensato «Vaffanculo» a Nilsson.

Poi però il litigio con Ben me lo aveva fatto passare di mente. Ero andata alla spa senza prendere la pillola, dopodiché c’era stato l’episodio della doccia...

Il mio primo attacco di panico lo ebbi quando avevo... non so, tredici anni, forse? Oppure quattordici? Ero un’adolescente, comunque. Arrivò... e se ne andò, lasciandomi terrorizzata e sconvolta. In ogni caso non ne parlai con nessuno. Mi sembrava una stramberia che potesse succedere solo a una pazza. Tutti gli altri attraversavano la vita senza tremare né ritrovarsi incapaci di respirare, giusto?

Per qualche tempo andò tutto bene. A sedici anni passai gli esami di maturità e cominciai il biennio preparatorio per l’università. Fu più o meno allora che le cose cominciarono a peggiorare. Gli attacchi di panico tornarono. Dopo un po’ il fatto di combattere con l’ansia cominciò a sembrarmi un lavoro a tempo pieno, e iniziai a sentirmi in trappola.

Andai da un terapeuta... anzi da parecchi. Ci fu quella della «terapia della parola» che mia madre trovò sulla guida telefonica, una donna dal viso serio, occhialuta e dai capelli lunghi, la quale pretendeva di farmi rivelare a tutti i costi qualche oscuro segreto che sarebbe stato la chiave, secondo lei, per sbloccare tutto... solo che io non ce l’avevo, quel segreto. Pensai addirittura di inventarmene uno, tanto per vedere se poi mi sarei sentita meglio. Mia madre tuttavia si stancò di lei (e delle sue parcelle) prima che io riuscissi a venirmene fuori con una storia davvero convincente.

Ci fu il giovanotto al passo con i tempi che gestiva una comunità di sostegno per ragazzine sofferenti di tutta la gamma dei disturbi mentali, dall’anoressia all’autolesionismo. E finalmente arrivò Barry, lo psicologo cognitivista comportamentale fornitomi dal medico della mutua, che mi insegnò a respirare e a contare, e mi lasciò in eredità un’allergia permanente nei confronti degli uomini stempiati dalla suadente voce tenorile.

Nessuno di loro funzionò. O meglio nessuno funzionò completamente. Comunque riuscii a tener duro abbastanza a lungo da superare gli esami, dopodiché andai all’università e mi sentii un po’ meglio, al punto da pensare che forse tutta quella... esperienza fosse una cosa che mi ero lasciata alle spalle, un po’ come la band dei NSYNC e il lucidalabbra alla ciliegia. Una fetta di vita che avevo abbandonato nella vecchia cameretta a casa dei miei insieme al resto della mia infanzia. Quello dell’università fu un periodo fantastico. Alla fine, con la mia laurea nuova di zecca in tasca, mi sentii pronta per affrontare il mondo. Conobbi Ben, trovai lavoro da Velocity e un appartamentino tutto mio a Londra, e ogni cosa sembrò andare a posto.

E fu allora che tutto andò in pezzi.

Cercai di smettere con le pillole, una volta. Stavo passando un buon momento della mia vita, avevo superato la storia con Ben (oh, se l’avevo superata!). Il mio medico ridusse la dose a venti milligrammi al giorno, poi a dieci e alla fine, siccome me la stavo cavando proprio bene, a dieci milligrammi ogni due giorni, finché non smisi del tutto.

Resistetti due mesi prima di sbroccare, e nel frattempo ero dimagrita di tredici chili e rischiavo di perdere il lavoro da Velocity, anche se loro non sapevano perché avessi smesso di andare in ufficio. Alla fine Lissie telefonò a mia madre, la quale mi riportò in men che non si dica dal medico. Lui si strinse nelle spalle e disse che magari era per via dell’astinenza, oppure perché non avevo scelto il momento giusto per chiudere con le pasticche. Mi prescrisse di nuovo quaranta milligrammi al giorno – la mia dose originale – e mi sentii meglio nel giro di pochi giorni. Concordammo che ci avrei riprovato un’altra volta, solo che «quella volta» non arrivò mai.

Neanche adesso era il momento giusto. Non qui, rinchiusa in una scatola d’acciaio parecchio al di sotto del livello del mare.

Cercai di ricostruire quanto tempo ci fosse voluto la volta precedente, prima che cominciassi a sentirmi davvero di merda. Non molto, da quel che ricordavo. Quattro giorni? Forse meno.

Difatti iniziò a formicolarmi la pelle con tante piccole, fredde scosse elettriche.

Morirai lì dentro.

Nessuno lo saprà mai.

Oh, Dio. Oh Dio oh Dio oh...

Ci fu un rumore dietro la porta. Mi paralizzai. Smisi di respirare, di pensare, di provare panico... restai bloccata, la schiena contro la cuccetta. Era questo il momento? Di balzare all’attacco?

La maniglia girò.

Con il cuore in gola, mi alzai e indietreggiai contro il muro sul fondo. Sapevo di dover combattere, ma non potevo, non senza sapere chi stesse entrando da quella porta.

Tante immagini mi sfilarono in testa. Nilsson. Il cuoco con i guanti di lattice. La ragazza con la maglietta dei Pink Floyd, con un coltello in pugno.

Deglutii.

Poi una mano si infilò nella fessura, afferrò fulminea il piatto e la porta si richiuse con un tonfo. La luce si spense, facendo sprofondare la cabina in un’oscurità nera come l’inchiostro, talmente fitta che potevo quasi assaporarla.

Cazzo.

Non c’era niente che potessi fare. Me ne restai lì distesa in quel buio impenetrabile per quelle che mi sembrarono ore, ma avrebbero potuto essere giorni o minuti, passando da uno stato di coscienza all’incoscienza, sperando ogni volta che aprivo gli occhi di vedere qualcosa, anche solo una sottile riga di luce in corridoio, qualcosa che dimostrasse che ero proprio lì, che esistevo davvero, e non ero solo sperduta in qualche inferno della mia fantasia.

Molto probabilmente alla fine mi addormentai sul serio, perché mi svegliai di soprassalto, il cuore che mi rimbombava nel petto a battiti irregolari. La cabina era ancora immersa nella più completa oscurità e io stavo aggrappata alla cuccetta come se fosse stata una scialuppa di salvataggio mentre emergevo con le unghie e con i denti dal sogno più orribile che ricordassi di aver fatto da molto tempo.

Nel sogno, la ragazza con la maglietta dei Pink Floyd si trovava nella mia cabina. Era buio, ma chissà come riuscivo ugualmente... non proprio a vederla, ma a sentirla. Sapevo che era lì, in piedi al centro della stanzetta, e io non potevo muovermi, l’oscurità che incombeva su di me come una creatura vivente acquattata sul mio petto. La ragazza si avvicinò sempre di più finché non fu a pochi centimetri di distanza da me, la maglietta che le sfiorava le cosce lunghe e snelle.

Sorrise, e con un unico movimento sinuoso si spogliò della camicia. Sotto era magra come un chiodo, tutta costole e clavicole e ossa sporgenti del bacino, le articolazioni del gomito più grosse degli avambracci, i polsi nodosi come quelli di una bambina. Abbassò lo sguardo su di sé e poi si tolse il reggiseno con la lentezza di una spogliarellista, se non fosse stato per il fatto che non c’era niente di erotico in quello spettacolo, niente di sexy nei suoi piccoli seni flosci e nel buco che aveva al posto della pancia.

Io, distesa nella cuccetta, la guardavo, ansimante e paralizzata dalla paura, ma lei non si fermò lì. Continuò a spogliarsi. Delle mutande, che le scivolarono giù dai fianchi stretti fino a formare una pozzanghera ai suoi piedi. E poi addirittura dei capelli, che si strappò alle radici. Infine si tolse le sopracciglia, prima una e poi l’altra, e le labbra. Persino il suo naso finì a terra. Si tirò via le unghie, a una a una, lentamente, come una donna che si stia sfilando i guanti da sera, lasciandole cadere sul pavimento con un leggero ticchettio, seguito da quello dei denti, clic... clic... clic, uno dopo l’altro. E infine – con il gesto più orribile – cominciò a staccarsi di dosso la propria pelle, quasi si stesse togliendo un abito molto aderente, finché di lei non rimase altro che un fascio sanguinolento di muscoli e ossa e tendini, simile a un coniglio scuoiato.

A quel punto si mise carponi e prese a strisciare verso di me, la bocca priva di labbra spalancata nell’orribile parodia di un sorriso.

Si avvicinò così tanto che alla fine, benché non avessi smesso di indietreggiare, mi ritrovai con le spalle contro il muro della cuccetta.

Mi morì il respiro in gola, con un gemito. Cercai di parlare, ma ero muta. Provai a muovermi, ma ero raggelata dalla paura.

Aprì bocca e capii che stava per parlare, ma a quel punto vi ficcò una mano dentro e ne estrasse la propria lingua.

Mi risvegliai boccheggiante, la pelle accapponata per l’orrore, il buio che mi stritolava come un pugno serrato intorno a me.

Avevo voglia di urlare, con il panico che premeva contro le pareti chiuse della mia gola e dei miei denti quasi fosse stato un vulcano sul punto di esplodere. E poi pensai, in una sorta di delirio: Se adesso urlo, qual è la cosa peggiore che può succedere? Che qualcuno mi senta? Che mi sentano pure. Così magari verranno a tirarmi fuori di qui.

Perciò buttai fuori l’urlo che montava dal centro di me stessa.

E urlai e urlai e urlai.

Non so per quanto tempo me ne restai lì tremante, i pugni stretti attorno al cucino sottile e floscio, le unghie conficcate nel materasso nudo sotto di me.

So solo che alla fine calò il silenzio nella piccola cabina, con in sottofondo il rumore dei motori e del mio respiro che mi grattava la gola ormai rauca ed escoriata dal gran gridare.

Non era venuto nessuno.

Nessuno aveva bussato alla porta per chiedere cosa stesse succedendo né per minacciare di uccidermi se non fossi stata zitta. Nessuno aveva fatto un bel nulla. Era come se avessi urlato a squarciagola nel vuoto silenzioso dello spazio siderale.

Mi tremavano le mani e non riuscivo a togliermi dalla testa la ragazza del sogno, con la sua sagoma umida e sanguinolenta che strisciava verso di me pronta ad afferrarmi, a fagocitarmi.

Che cosa avevo fatto? Oh, Dio, perché mi ero tanto intestardita a voler rimestare nel torbido? Mi ero resa da sola un bersaglio, con il mio rifiuto di starmene zitta a proposito di quanto era successo in quella cabina. Eppure... eppure cos’era successo in realtà?

Restai lì distesa, le dita premute sugli occhi nel buio soffocante, sforzandomi di trovare un senso in tutta la situazione. La ragazza era viva: qualsiasi cosa avessi sentito, o mi fosse sembrato di sentire, non si era trattato di un omicidio.

Doveva essere rimasta tutto il tempo sulla nave. Non ci eravamo fermati. Non ci eravamo neppure avvicinati alla terraferma. Ma allora chi era lei, e perché si nascondeva a bordo? E di chi era il sangue che avevo visto sul vetro?

Cercai di ignorare il mal di testa per poter pensare in maniera coerente. Era un membro dell’equipaggio? Aveva accesso alla zona riservata allo staff, dopotutto. Poi però mi ricordai di Nilsson mentre digitava il codice. Non aveva neppure tentato di nascondere la tastiera. Se solo avessi voluto, sarebbe stato un gioco da ragazzi appuntarmi i numeri mentre lui premeva i tasti. E oltre a quella non c’erano molte altre porte chiuse a chiave, sotto coperta.

La ragazza era riuscita a entrare nella cabina vuota, comunque, per la quale invece ci voleva una chiave magnetica, vuoi da ospite, programmata specificamente per quella porta, vuoi un passepartout dello staff in grado di aprire tutte le cabine. Pensai alle donne delle pulizie che avevo intravisto nelle cuccette sottocoperta, ai loro visi spaventati che mi lanciavano un’occhiata prima che la porta venisse frettolosamente chiusa. Quanti soldi avrebbe preteso una di loro per vendere una chiave magnetica? Un centinaio di corone? Un migliaio, magari? Non avrebbero neanche avuto bisogno di venderla: di sicuro c’erano posti in cui tessere del genere si potevano copiare. Dovevano solo darla in prestito per un’ora o due, senza che nessuno facesse domande. Pensai a Karla: praticamente mi aveva detto che succedeva, che qualcuno poteva aver prestato la cabina a un’amica.

Le cose non dovevano essere andate per forza così, tuttavia. La tessera magnetica poteva essere stata rubata, per quel che ne sapevo, o comprata su Internet... non avevo idea di come funzionassero quelle serrature elettroniche. Magari non era coinvolto nessun altro.

Era forse possibile che, mentre io cercavo un colpevole tra l’equipaggio o i passeggeri, in realtà fossero tutti innocenti? Pensai alle accuse che avevo rivolto a Ben, ai sospetti su Cole, su Nilsson, su tutti quanti, e mi sentii male.

Il fatto che quella ragazza esistesse e fosse viva, comunque, non escludeva di per sé il coinvolgimento di altri. Più ci pensavo e più ero sicura che qualcuno l’avesse aiutata, lassù ai piani alti: qualcuno che aveva scritto quel messaggio sullo specchio della spa, che aveva gettato la macchina fotografica di Cole nella vasca idromassaggio, che aveva rubato il mio telefono. Non poteva essere stata sempre lei. Qualcuno doveva pur aver visto e riconosciuto la ragazza di cui blateravo a destra e a manca da due giorni, se era andata in giro tutto il tempo per la nave.

Agh, la testa mi faceva ancora più male al solo pensiero. Perché? Questa era la domanda a cui non sapevo rispondere. Perché prendersi il disturbo di nascondersi sulla nave, di impedirmi di fare domande? Se la ragazza fosse stata morta, l’occultamento avrebbe avuto un senso. E invece era viva e stava benissimo. Il punto importante era un altro: chi era? La moglie di qualcuno? Oppure la figlia? L’amante? Una che stava cercando di uscire dal paese senza che nessuno ficcasse il naso?

Pensai a Cole e alla sua ex moglie, ad Archer e alla sua misteriosa «Jess». Pensai alla foto provvidenzialmente scomparsa dalla macchina fotografica.

Niente di tutto questo aveva senso.

Mi girai su un fianco, oppressa dal peso dell’oscurità intorno a me. Ovunque mi trovassi, doveva essere un posto situato nel ventre più profondo della nave, ne ero sicura. Qui i motori erano molto più rumorosi che sul ponte passeggeri, o addirittura degli alloggi dello staff, da quel che potevo ricordare. Ero da qualche altra parte – forse in sala macchine, molto al di sotto del livello dell’acqua – sprofondata all’interno dello scafo.

A quel pensiero mi venne di nuovo la pelle d’oca per l’orrore: tonnellate e tonnellate d’acqua che mi pesavano sulla testa e sulle spalle, pressate contro lo scafo, l’aria nella cabina che circolava, circolava mentre io me ne stavo lì a soffocare nel mio stesso panico...

Con le gambe tremanti scesi dalla cuccetta e attraversai piano la cabina, le braccia tese davanti a me, atterrita all’idea di una qualsiasi presenza nel buio assoluto. Rievocai orribili fantasie dagli incubi dell’infanzia: ragni giganti che mi strisciavano sul viso, uomini che mi afferravano in una stretta simile a una morsa, persino la ragazza della cabina 10, senza palpebre, senza labbra, senza lingua. Ma un’altra parte di me sapeva che non c’era nessun altro lì dentro: che sarei stata in grado di sentire, fiutare, intuire la presenza di un altro essere umano in uno spazio così ristretto.

Dopo essere avanzata lentamente per qualche istante, le mie dita incontrarono la porta. Prima trovai la maniglia, che era ancora chiusa – non che mi fossi aspettata diversamente, del resto. Cercai a tentoni uno spioncino, ma non c’era, o per lo meno non ne trovai neanche uno sulla liscia superficie di plastica. Non c’era neppure prima, da quel che ricordavo. Rammentavo invece, e infatti lo trovai subito dopo, il piatto interruttore beige a sinistra della porta. Lo premetti con le dita, con il cuore che mi batteva a mille.

Non successe nulla.

Riprovai ad accenderlo, ma stavolta senza speranza perché sapevo che cosa avevano fatto: nel corridoio doveva esserci un dispositivo che disabilitava la luce della cabina, un interruttore generale o un quadro elettrico. La porta era già chiusa quando la luce era stata spenta, e in ogni caso in qualsiasi cabina in cui ero stata avevo sempre notato la presenza di una luce di sicurezza: non si veniva mai lasciati nel buio completo, anche quando le luci erano spente. Questa invece era un’oscurità totale, che poteva essere ottenuta solo con un’interruzione esterna della corrente.

Strisciai di nuovo fino alla cuccetta e mi infilai sotto le coperte, i muscoli di nuovo tremanti per un misto di terrore e di nausea simile all’influenza. Nella mia testa si stava espandendo il vuoto, come se il buio della cabina avesse invaso il mio cranio e si stesse infiltrando nelle sinapsi, insonorizzando ogni cosa, a parte il panico che mi saliva dalle viscere.

Oddio, no. Non darti per vinta, non ora.

Non potevo, e non volevo. Non gliel’avrei data vinta.

La rabbia che mi inondò fu di colpo qualcosa a cui potevo aggrapparmi, qualcosa di concreto nella silenziosa oscurità della mia cella. Quella stronza. Brutta traditrice. Alla faccia della solidarietà femminile. Avevo combattuto per lei, mettendo in gioco la mia credibilità, avevo sopportato i dubbi di Nilsson e le domande insistenti di Ben... per che cosa, poi? Perché lei potesse tradirmi, sbattermi la testa contro il muro e rinchiudermi in quella maledetta bara.

Di qualunque macchinazione si trattasse, lei ne faceva parte.

Era stata lei a tendermi l’imboscata nel corridoio. E più ci pensavo più mi rendevo conto che anche la mano insinuatasi dentro la fessura per riprendere il vassoio era la sua: una mano magra e flessuosa, ma forte. Una mano capace di graffiare, di schiaffeggiare e di sbattere la testa di una persona contro la parete.

Doveva esserci un motivo per tutto questo: nessuno si sarebbe sobbarcato tutta questa complicata farsa per nulla. Aveva messo in scena la propria morte? Ed era previsto che io assistessi a quanto era successo? In tal caso, però, perché prendersi il disturbo di fingere di non essere mai stata lì? Perché sgomberare la cabina, pulire il sangue, far sparire il mascara e screditare deliberatamente ogni dettaglio del mio resoconto di quella notte?

No. Lei non aveva voluto essere vista. Era successo qualcosa in quella cabina, e di qualunque cosa si fosse trattato non era affatto previsto che io ne fossi testimone.

Restai lì distesa a lambiccarmi il mio povero cervello malandato per tentare di capirci qualcosa, ma più cercavo di ricomporre il puzzle di informazioni, più mi sembrava che i pezzi fossero troppi per entrare nel quadro.

Cercai di esaminare a fondo quali possibilità potessero andare d’accordo con l’urlo, il sangue e l’insabbiamento successivo. Una lite? Un colpo in faccia, un grido di dolore, un fiotto di sangue mentre la persona correva sulla veranda a sanguinare in mare, lasciando la sbavatura sul vetro... nessun morto. E se la ragazza fosse stata una sorta di passeggera clandestina? Questo avrebbe potuto spiegare come mai avessero dovuto coprire tutto, trasferendola altrove, pulendo le tracce di sangue.

Ma altri dettagli non quadravano. Se la lite non era premeditata, allora perché avevano sgomberato la cabina così in fretta? La ragazza si trovava lì poco prima: la stanza era piena di vestiti ed effetti personali. L’avevo vista con i miei occhi. Se lo scontro fisico non era previsto, com’erano riusciti a ripulire la suite nei pochi minuti in cui avevo telefonato a Nilsson?

No. Qualunque cosa fosse successa lì dentro era stata pianificata. Avevano sgomberato la cabina prima di quel momento, ripulendola meticolosamente. E, come cominciavo a sospettare, forse non era un caso che fosse stata la cabina 10 a essere vuota. No, una cabina era stata lasciata volutamente vuota e doveva essere la numero 10. La Palmgren era l’ultima in fondo alla nave, perciò dalle altre non era possibile vedere un oggetto fluttuare qualche istante in superficie per poi scomparire nella spuma della scia della nave.

Qualcuno era morto sul serio, ne ero sicura. Solo che quel qualcuno non era la ragazza. Ma allora, chi era?

Continuai a girarmi e rigirarmi nel buio, l’orecchio teso a qualsiasi rumore al di sopra del fracasso dei motori, cercando nel frattempo di rispondere alle domande che mi ribollivano dentro. Nonostante la densa nebbia da cui era avvolto, il mio cervello tornava ancora e ancora su quella domanda: chi. Chi era morto?