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Era un edificio fin troppo dozzinale, per una cittadina così prospera. Sembrava di essere finiti nella Bible Belt. I barboni se ne stavano tranquilli in una lunga fila, seduti sul muretto di contenimento che impediva al prato antistante – ormai coperto perlopiù di gramigna rossa – di traboccare sulla strada. La City Hall era una palazzina a due piani sormontata da un vecchio campanile, che ai bei tempi in cui si masticava tabacco serviva probabilmente per convocare la brigata dei pompieri volontari.

In fondo al vialetto pieno di crepe, alcuni gradini conducevano a una porta a due battenti aperta, oltre la quale un gruppo di uomini – faccendieri, evidentemente – ciondolava in attesa che succedesse qualcosa per poterne ricavare qualcos’altro. Avevano tutti un aspetto florido, occhi attenti, bei vestiti e modi stereotipati. Mi hanno lasciato sì e no dieci centimetri per entrare.

All’interno c’era un lungo corridoio buio il cui pavimento doveva essere stato lavato l’ultima volta per l’insediamento di McKinley. Una targa in legno indicava lo sportello informazioni del dipartimento di polizia. Un uomo in divisa sonnecchiava dietro il pannello di un minuscolo centralino sistemato a un’estremità di un bancone di legno pieno di sfregi. Un agente in borghese, senza giacca e con appoggiata alle costole una sputafuoco che pareva un idrante, ha sollevato un occhio dal giornale della sera, centrato una sputacchiera a tre metri di distanza, e sbadigliato. Poi mi ha detto che l’ufficio del capo era al primo piano, in fondo.

Il primo piano era più luminoso e più pulito, ma ciò non significa che fosse luminoso e pulito. Su una porta, lato oceano, quasi alla fine del corridoio, c’era una targa: «John Wax. Capo della polizia. Avanti».

Al di là della porta c’era una balaustra di legno, dietro la quale un uomo in divisa scriveva a macchina usando i due indici e un pollice. Ha preso il mio biglietto da visita, ha sbadigliato anche lui, quindi mi ha detto che sarebbe andato a vedere, riuscendo poi a trascinarsi oltre una porta di mogano su cui c’era scritto: «John Wax. Capo della polizia. Privato». Quando è tornato, mi ha aperto il cancelletto della balaustra.

Sono entrato nell’ufficio privato e ho richiuso la porta. Era elegante e grande, con finestre su tre lati. In fondo allo stanzone, stile Mussolini, c’era una scrivania di legno tinta a mordente, e per arrivarci si era costretti a percorrere un lungo tratto su una passatoia blu, dando modo al padrone dell’ufficio di squadrare per bene chiunque arrivasse.

Ho guadagnato la scrivania, su cui una piccola targa inclinata, con le lettere incise, recitava: «John Wax. Capo della polizia». Tutto sommato sarei riuscito a ricordarmelo, quel nome, ho pensato. Intanto guardavo l’uomo seduto davanti a me. Non aveva un pelo fuori posto.

Era un peso massimo tarchiato, con capelli rosacei cortissimi che lasciavano intravedere un cranio roseo anche lui, e lustro. Gli occhi piccoli, affamati e dalle palpebre pesanti, erano irrequieti come pulci. Indossava un completo di flanella fulvo chiaro, camicia e cravatta color caffè, anello con diamante, spilla con diamante e simbolo di una loggia sul risvolto della giacca, e le immancabili tre punte rigide del fazzoletto, che sbucavano dal taschino un po’ oltre i dieci centimetri regolamentari.

In una mano paffuta aveva il mio biglietto da visita. Lo ha letto, girato, ha visto che sul retro non c’era scritto niente, quindi lo ha riletto sul davanti, lo ha posato sulla scrivania e ci ha messo sopra un fermacarte di bronzo a forma di scimmia, come per essere sicuro di non perderlo.

Alla fine mi ha allungato una zampa rosa. Quando gliel’ho restituita, l’ha usata per indicarmi una sedia.

«Si accomodi, Marlowe. Vedo che è un collega, più o meno. Cosa posso fare per lei?».

«Ho un piccolo problema, capo. Lei saprà senz’altro risolverlo in un attimo, se vorrà».

«Un problema» ha ripetuto, pacato. «Un piccolo problema».

Ha fatto ruotare un po’ la poltroncina e accavallato i gamboni, volgendo lo sguardo pensieroso verso una delle coppie di finestre. Ciò mi ha permesso di apprezzare sia i calzini in filo di Scozia tessuti a mano, sia le brogues inglesi che parevano marinate nel vino di Porto. Contando quel che non si vedeva, ed escludendo il portafoglio, doveva avere addosso almeno cinquecento dollari. Magari aveva una moglie ricca.

«I problemi» ha proseguito, con la stessa pacatezza «sono una cosa con cui nella nostra cittadina non abbiamo molta familiarità, Mr. Marlowe. La nostra cittadina è piccola, ma pulita, anzi pulitissima. Guardo fuori dalle mie finestre a ovest e vedo l’Oceano Pacifico. Non c’è niente di più pulito, dico bene?». Ha sorvolato sui due casinò galleggianti all’ancora tra le onde di ottone appena oltre le tre miglia del limite delle acque territoriali.

Anch’io. «Dice benissimo, capo».

Ha spinto il petto in avanti di qualche centimetro. «Guardo fuori dalle mie finestre a nord e vedo il brulichio operoso dell’Arguello Boulevard e le deliziose colline della California, mentre in primo piano c’è uno dei quartieri commerciali più belli che si possano desiderare. Guardo fuori dalle mie finestre a sud, come sto facendo ora, e vedo il più bel porticciolo per yacht al mondo, nonostante le sue dimensioni ridotte. Non ho finestre rivolte a est, ma se le avessi vedrei un quartiere residenziale da far venire l’acquolina in bocca. Nossignore, non abbiamo tanti problemi per le mani, nella nostra cittadina».

«Il mio problema viaggia con me, capo. Almeno in parte. C’è per caso un certo Galbraith che lavora per lei? Un sergente in borghese».

«Be’, certo che c’è» ha detto, riportando lo sguardo su di me. «Perché me lo domanda?».

«E per lei lavora anche un altro uomo fatto più o meno così?». Gli ho descritto l’altro uomo, il piccoletto baffuto che parlava poco o niente e che mi aveva colpito col manganello. «Fa coppia con Galbraith, molto probabilmente. Qualcuno lo ha chiamato Mr. Blane, ma sembra un nome fasullo».

«Al contrario» ha detto il capo, con la massima rigidità concessa a un uomo così grasso. «Il capitano Blane è il mio ispettore capo».

«Potrei incontrarli, tutt’e due, qui nel suo ufficio?».

Ha preso il mio biglietto da visita e lo ha riletto. Poi lo ha posato, e ha fatto un vago cenno con la sua manona lucida.

«Non senza una ragione migliore di quella che mi ha fornito finora» ha detto, suadente.

«Lo immaginavo, capo. Ha mai sentito nominare un certo Jules Amthor? Un sedicente parapsicologo. Abita in cima a una collina a Stillwood Heights».

«No. E Stillwood Heights non rientra nella mia giurisdizione». I suoi occhi, ormai, erano quelli di uno che ha altro a cui pensare.

«Proprio questa è la stranezza. Io, vede, sono andato a far visita a Mr. Amthor per conto di una mia cliente. Mr. Amthor deve aver creduto che volessi ricattarlo. È facile, per gente che lavora in quel campo, farsi certe idee. Aveva una guardia del corpo, un indiano tosto che mi ha sopraffatto. E Amthor, mentre l’indiano mi teneva fermo, mi ha picchiato con la mia pistola. Dopo di che ha mandato a chiamare un paio di poliziotti, che, guarda caso, erano proprio Galbraith e Mr. Blane. La cosa può interessare?».

Wax – basta chiamarlo capo – ha intrecciato le mani sulla scrivania con estrema grazia. Poi ha abbassato le palpebre pesanti, ma non del tutto, e i suoi occhi hanno emesso un freddo luccichio proprio nella mia direzione. È rimasto perfettamente immobile, come in ascolto. Quindi ha riaperto gli occhi e ha sorriso.

«E cosa è accaduto, a quel punto?» mi ha chiesto, cortese come un buttafuori allo Stork Club.

«Mi hanno torchiato un po’, e poi mi hanno portato via con la loro auto. A un certo punto mi hanno fatto scendere su una strada di montagna, e mentre scendevo mi hanno tramortito con un manganello».

Ha annuito, come se quel che gli avevo appena detto fosse la cosa più naturale al mondo. «E tutto questo sarebbe successo a Stillwood Heights» ha detto, sereno.

«Già».

«Sa cosa penso di lei?». Si è sporto un po’ sulla scrivania, quanto gli consentiva la pancia.

«Sì, lei pensa che io sia un bugiardo».

«Quella è la porta» ha detto, indicandola con il mignolo della mano sinistra.

Non mi sono mosso. Continuavo a guardarlo. Sono intervenuto giusto un attimo prima che la furia montante gli facesse premere il campanello: «Non commettiamo tutt’e due lo stesso errore. Lei pensa che io sia un investigatore privato da quattro soldi convinto di poter competere con gente dieci volte più grossa, intenzionato ad accusare un agente di polizia che, se anche fosse davvero colpevole, farebbe sicuramente di tutto perché nessuno possa dimostrarlo. Be’, si sbaglia. Non sono venuto qui a reclamare. Credo che il suo errore sia perfettamente naturale. Io vorrei soltanto porgere le mie scuse a Mr. Amthor, e vorrei che il suo sottoposto, Galbraith, mi desse una mano. Non ci sarà bisogno di disturbare Mr. Blane. Basterà Galbraith. E non sono venuto qui senza una protezione: ho dietro gente importante».

«Dietro, ma a che distanza?» ha chiesto Wax, con una risatina arguta.

«Quanto dista da qui l’862 di Aster Drive, dove abita Mr. Lewin Lockridge Grayle?».

La faccia gli si è trasfigurata al punto che mi sembrava di avere davanti un’altra persona. «Si dà il caso che Mrs. Grayle sia la mia cliente».

«Chiuda le porte a chiave» ha detto. «Lei è più giovane di me, Marlowe. Giri quelle manopole per bene. Discuteremo la questione da buoni amici. Lei ha una faccia onesta».

Ho fatto come diceva. Quando sono tornato alla scrivania percorrendo la passatoia blu, Wax aveva tirato fuori una bottiglia niente male e due bicchieri. Ha gettato un po’ di semi di cardamomo sul sottomano, e versato da bere.

Abbiamo bevuto. Lui ha rotto alcuni semi di cardamomo che abbiamo masticato in silenzio, guardandoci negli occhi.

«Buono» ha detto, riempiendo di nuovo i bicchieri. Ora toccava a me darmi da fare con i semi di cardamomo: lui spazzava le bucce dal sottomano, gettandole a terra. Dopo di che ha sorriso, appoggiandosi all’indietro.

«Ora, sentiamo. Il lavoro che sta svolgendo per conto di Mrs. Grayle ha qualcosa a che fare con Amthor?».

«C’è un nesso, ma le conviene verificare che io le stia dicendo la verità».

«Giusto» ha detto, allungando una mano verso il telefono. Quindi ha preso un’agendina da una tasca del gilè e si è messo a cercare un numero. «Finanziatori della campagna elettorale» ha detto, strizzando un occhio. «Il sindaco raccomanda sempre di trattarli con tutti i riguardi. Sì, ecco». Ha messo via l’agendina e composto il numero.

Con il maggiordomo ha avuto le mie stesse difficoltà, avvampando fino alle orecchie. Alla fine gliel’hanno passata, ma il rossore alle orecchie non si è attenuato. Doveva aver ricevuto una risposta molto secca.

«La signora vuole parlare con lei, Marlowe» ha detto Wax, spingendo il telefono sulla scrivania verso di me.

«Pronto? Sono Phil» ho detto, rivolgendo a Wax una strizzatina d’occhio lasciva.

La risata era compiaciuta, e provocante. «Cosa ci fai da quel maiale?».

«Stavamo bevendo qualcosa».

«Devi per forza farlo con lui?».

«Al momento, sì. Affari. Mi domandavo: ci saranno novità? Immagino tu sappia a cosa alludo».

«No. Ti sei reso conto, mio caro, di avermi fatto aspettare per un’ora, l’altra sera? Ti sembro il genere di ragazza che si fa trattare così?».

«Ho avuto un problema. Che ne diresti di vederci stasera?».

«Fammi pensare... stasera... oddio, che giorno è?».

«Ti richiamo, è meglio. Non sono sicuro di farcela. Comunque, venerdì».

«Bugiardo». Di nuovo quella sua risata morbida e roca insieme. «È lunedì. Stesso posto, stessa ora. E niente scherzi, stavolta».

«Ti richiamo, è meglio».

«Ti conviene farti trovare».

«Non sono sicuro di fare in tempo. Ti richiamo».

«Sei difficile da acciuffare, vedo. Forse sono una stupida a preoccuparmi di te».

«Direi di sì, in effetti».

«Perché?».

«Io sono povero, ma a modo mio lo pago, quello che devo. È un modo meno comodo di quello che piace a te, purtroppo».

«Al diavolo, se non ti fai vedere...».

«Ho detto che ti richiamo».

Ha sospirato. «Sono tutti uguali, gli uomini».

«Anche le donne, dalla decima in poi».

Mi ha mandato di nuovo al diavolo e ha riagganciato. Wax aveva gli occhi così fuori dalla testa che sembravano sospesi nel vuoto.

Ha riempito i due bicchieri e ne ha spinto uno verso di me. Gli tremavano le mani.

«Dunque, così stanno le cose» ha detto, molto ingrugnito.

«Al marito non importa, quindi non ci faccia troppo caso».

Già. Però aveva un’aria offesa. Ha rotto altri semi, sprofondato nei suoi pensieri, e abbiamo brindato l’uno ai begli occhi azzurri dell’altro. Poi, sfortunatamente, ha fatto sparire bottiglia e bicchieri, e premuto un pulsante sull’interfono.

«Fa’ venire Galbraith, se è qui. Se non c’è, mettiti in contatto con lui e digli che lo sto cercando».

Mi sono alzato per sbloccare le porte e sono tornato a sedermi. Non abbiamo aspettato a lungo. Abbiamo sentito bussare alla porta laterale, Wax ha detto avanti, e nella stanza è comparso Hemingway.

Si è avvicinato a passo di marcia alla scrivania, fermandosi accanto al lato corto più vicino. Guardava Wax con virile umiltà.

«Ti presento Mr. Philip Marlowe» ha detto Wax, cordiale. «Un detective privato di Los Angeles».

Hemingway si è voltato quanto bastava per inquadrarmi. Niente, nella sua reazione, dava l’impressione che mi avesse già visto. Mi ha teso la mano e io gliel’ho stretta. Poi è tornato a guardare Wax.

«Mr. Marlowe mi ha raccontato una strana storia» ha detto Wax con aria astuta, come un Richelieu dietro un arazzo. «A proposito di un certo Amthor, che abita a Stillwood Heights. È una specie di chiaroveggente. Pare che Marlowe sia andato a trovarlo, e che, proprio in quella circostanza, siate arrivati tu e Blane e abbiate avuto una piccola discussione, di cui ora mi sfuggono i particolari». Ha guardato fuori da una finestra proprio con quell’espressione, di uno che dimentica i particolari.

«Dev’esserci un errore» ha detto Hemingway. «Quest’uomo non l’ho mai visto prima d’ora».

«C’è stato un errore, infatti» ha detto Wax, con voce sognante. «Da nulla, ma pur sempre un errore. Marlowe non lo considera granché importante».

Hemingway mi ha guardato, con la solita faccia di pietra.

«Anzi, non ha il minimo interesse per quell’errore. Ma vorrebbe far visita a questo Amthor, a Stillwood Heights, e gli piacerebbe essere accompagnato da qualcuno. Ho pensato a te. Gli serve qualcuno che possa garantirgli una condizione di parità. A quanto sembra, questo Amthor ha come guardia del corpo un indiano decisamente tosto, e Mr. Marlowe è incline a dubitare della sua capacità di gestire la situazione senza aiuto. Pensi di poter scoprire dove abita, questo Amthor?».

«Sì, ma Stillwood Heights è fuori dal nostro territorio, capo. Devo farlo a titolo di favore per un suo amico?».

«Puoi metterla così, se vuoi» ha detto Wax, guardandosi il pollice sinistro. «Lungi da noi l’idea di fare qualcosa che non rientri nei limiti della legge, naturalmente».

«Già» ha detto Hemingway. «Infatti». Ha tossicchiato. «Quando si parte?».

Wax mi ha guardato benevolo. «Anche subito,» ho detto «se per Mr. Galbraith va bene».

«Come volete voi» ha detto Hemingway.

Wax lo ha squadrato da capo a piedi, con l’aria di dire: ci siamo intesi. «Come sta il capitano Blane, oggi?» ha domandato, masticando un seme di cardamomo.

«In pessima forma. Appendice perforata. Situazione molto critica».

Wax ha scosso mestamente la testa. Poi ha afferrato i braccioli della poltroncina e si è alzato in piedi a fatica, protendendo una zampa rosa al di sopra della scrivania.

«Galbraith avrà per lei ogni riguardo, Marlowe. Può starne certo».

«Be’, molto gentile da parte sua, capo. Non so proprio come ringraziarla».

«Bah! Non c’è bisogno di ringraziare. È sempre un piacere aiutare un amico di un amico, per così dire». Occhiolino. Hemingway lo ha visto, ma non ha commentato.

Siamo usciti, quasi sulle ali dei cortesi mormorii di Wax in fondo all’ufficio. La porta si è chiusa. Hemingway ha guardato da una parte e dall’altra del corridoio, e poi ha guardato me.

«Te la sei giocata alla grande, zucchero. A quanto pare, avevi un asso nella manica».