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«Quattro minuti» ha detto la voce. «Cinque. Magari anche sei. Devono essersi mossi alla svelta e in silenzio. Non ha avuto nemmeno il tempo di gridare».

Aperti gli occhi, ho visto tremolare una stella fredda. Ero steso sulla schiena. Mi sentivo male.

La stessa voce: «Magari ci è voluto qualcosa di più. Otto minuti al massimo, diciamo. Dovevano essere nascosti tra gli arbusti, proprio dove c’è l’auto. Quello era uno facile da spaventare. Gli avranno puntato una luce in faccia, e sarà svenuto dalla paura. La mammoletta».

C’era silenzio. Mi sono rialzato su un ginocchio. Dalla nuca, le fitte mi arrivavano fino alle caviglie.

«Poi uno di loro è salito in auto e ha aspettato che ritornassi. E gli altri si sono nascosti di nuovo. Dovevano aver previsto che non se la sarebbe sentita di presentarsi da solo. Magari si sono insospettiti anche solo parlandogli al telefono».

Mi sono appoggiato sui palmi, tendendo le orecchie. Ero stordito.

«Sì, dev’essere andata così».

Era la mia voce. Stavo parlando da solo, mentre riprendevo i sensi. Tentavo di capire cosa fosse successo.

«Zitto, idiota». Ha funzionato. Ho smesso.

In lontananza, le fusa dei motori; più vicino, il frinire dei grilli e il caratteristico ii-ii-ii prolungato delle raganelle. Quei rumori non mi sarebbero mai più piaciuti, ho pensato.

Ho sollevato una mano da terra scuotendola per liberarla dall’umidità appiccicosa della salvia, poi me la sono passata su un fianco dell’impermeabile. Bel lavoro, per cento dollari. Ho infilato una mano nella tasca interna dell’impermeabile. La busta con i soldi era sparita, ovvio. Ho infilato una mano nella giacca. Il portafoglio c’era ancora. Non sapevo i miei cento dollari, ma dubitavo. C’era qualcosa che mi pesava sulle costole a sinistra. La pistola nella fondina.

Che gentili. Mi avevano lasciato la pistola. Era un tocco elegante, come abbassare le palpebre di una persona dopo averla accoltellata.

Mi sono tastato la nuca. Avevo ancora il cappello. Me lo sono tolto per sentire il cranio. La mia cara, vecchia testa: ce l’avevo da tanto. Era un po’ più tenera del solito, un po’ sanguinolenta, un po’ molle. La manganellata, però, non era stata così violenta. Il cappello, inoltre, aveva aiutato. Riuscivo ancora a usarla, la testa. Per un altro po’, almeno, mi sarebbe tornata utile.

Ho riappoggiato la destra a terra per guardare l’ora sulla sinistra. Una volta messo faticosamente a fuoco, il quadrante illuminato dell’orologio segnava le 10.56.

La telefonata era arrivata alle 10.08. Marriott aveva parlato un paio di minuti, altri quattro ed eravamo usciti. Il tempo passa lentamente, quando si fa qualcosa. Intendo: si possono fare molti movimenti in pochissimi minuti. Intendo davvero questo? Ma a chi può fregare di quel che intendo? Be’, uomini di gran lunga migliori di me hanno inteso anche meno. Insomma, quel che intendo è che potevano essere le 10.15. La nostra meta distava dalla casa una dozzina di minuti. 10.27. Scendo dall’auto arrivo in fondo alla conca, resto lì a cincischiare e poi torno su a farmi curare il cranio: altri otto minuti al massimo. 10.35. Datemi un minuto per cadere e sbattere la faccia a terra. So che l’ho sbattuta perché ho il mento graffiato. Fa male. Lo sento graffiato. Ecco come faccio a sapere che è graffiato. No, non riesco a vederlo. Magari vi interessava saperlo. Bene, fate silenzio e lasciatemi pensare. Con che cosa, volete sapere?...

L’orologio segnava le 10.56.

Venti minuti di sonno. Proprio un bel pisolino. Intanto la missione era andata in fumo, e gli ottomila dollari spariti. Be’, niente di strano. In venti minuti puoi affondare una nave da guerra, abbattere tre o quattro aerei, giustiziare due persone. Puoi morire, sposarti, farti licenziare e trovare un nuovo lavoro, farti cavare un dente o le tonsille. In venti minuti puoi riuscire persino ad alzarti dal letto la mattina. Puoi farti servire un bicchiere d’acqua in un locale notturno, forse.

Venti minuti di sonno. È un tempo lunghissimo. Soprattutto in una nottata fresca, all’aperto. Cominciavo ad avere i brividi.

Ero ancora sulle ginocchia. L’odore della salvia cominciava a infastidirmi. La linfa appiccicosa con cui le api selvatiche fanno il miele. Il miele è dolce, troppo. Il mio stomaco si rivoltava. Serrando i denti sono riuscito a non vomitare. Avevo la fronte madida di sudore freddo e continuavo ad avere i brividi. Ho messo un piede a terra e mi sono rialzato raddrizzando la schiena, un po’ vacillante. Mi sentivo come una gamba amputata.

Mi sono voltato, piano. L’auto non c’era più. Lo sterrato in direzione del saliscendi e della strada asfaltata, dove terminava il Camino de la Costa, era deserto. Sulla sinistra, la barriera di assi bianche spiccava nel buio. Dietro la bassa muraglia di arbusti, il pallido chiarore in cielo dovevano essere le luci di Bay City. Più a destra, più vicino, c’erano quelle del Belvedere.

Raggiunto il punto preciso in cui ci eravamo fermati, ho sganciato dal taschino una stilografica, puntando verso il basso la luce incorporata. Il terreno, argilloso e rosso, era di quelli che si compattano, ma il clima non era così secco. C’era foschia, e il terreno era abbastanza umido. A guardar bene, si vedevano i segni degli pneumatici Vogue a dieci tele. Chinandomi ho sentito una fitta che mi ha fatto girare la testa. Mi sono messo a seguire le tracce. Proseguivano per quattro o cinque metri, dopo di che deviavano bruscamente a sinistra. Non avevano fatto inversione. Si erano infilati nel varco sul lato sinistro della barriera. E lì le tracce si perdevano.

Mi sono avvicinato alla barriera e ho indirizzato la luce sugli arbusti. Rametti spezzati di fresco. Superato il varco ho preso la strada curva. Il terreno, lì, era ancora più soffice. Altre tracce di pneumatici. Ho continuato a scendere e mi sono ritrovato al margine della conca, circondato dalla vegetazione.

Ed era lì, infatti: i profili cromati e la vernice luccicavano anche al buio, come il catarifrangente di coda quando l’ho illuminato. Era lì, immersa nel silenzio, al buio, con le portiere chiuse. Mi sono avvicinato lentamente, digrignando i denti a ogni passo. Ho aperto una delle portiere posteriori puntando la luce all’interno. Vuota. Anche davanti. Il motore era spento. La chiave, con una catenella, era inserita nel quadro. I rivestimenti erano intatti, i vetri anche, e non c’erano tracce di sangue, né cadaveri. Tutto pulito e in perfetto ordine. Richiusa la portiera ho fatto il giro dell’auto in cerca di tracce, ma senza riuscire a trovarne.

Un rumore mi ha gelato il sangue.

Dietro gli arbusti ronzava un motore. Ho sobbalzato, ma non più di una spanna, e ho spento la luce. A quel punto ho visto i fasci dei fanali inclinarsi verso il cielo, e poi verso terra. A giudicare dal motore, doveva trattarsi di un’auto piccola. Faceva il suono soddisfatto di quando l’aria è umida.

Le luci hanno di nuovo puntato verso il basso, più intense. L’auto stava scendendo lungo lo sterrato. A due terzi si è fermata. Qualcuno ha acceso una torcia, muovendola di lato per illuminare la zona. A lungo. Poi l’ha spenta. La macchina ha proseguito un altro po’. Ho estratto la pistola e mi sono nascosto dietro l’auto di Marriott.

È apparso un piccolo coupé, anonimo per dimensioni e colore, che ha girato in modo da illuminare per intero una fiancata della berlina. Ho buttato giù la testa. I fasci di luce mi sono passati sopra come una spada. Il coupé si è fermato, il motore spento. Anche i fanali, spenti. Silenzio. Poi qualcuno ha aperto una portiera e posato a terra un piede leggero. Ancora silenzio. Persino i grilli tacevano. Un raggio orizzontale ha squarciato il buio a pochi centimetri dal suolo. La luce ha sventagliato così rapida che non ho avuto il tempo di spostare le caviglie. Il raggio si è fermato sui miei piedi. Silenzio. Poi la luce è risalita, passando di nuovo sopra il cofano dell’auto di Marriott.

E, a quel punto, una risata di ragazza. Tirata, tesa come una corda di mandolino. Un suono strano, in un posto come quello. Il raggio ha fatto come prima: sotto l’auto e poi sui miei piedi.

La voce non era esattamente tremula: «Ehi, tu. Vieni fuori di lì con le mani in alto, e vediamo di fare in modo che siano vuote. Sei sotto tiro».

Non mi sono mosso.

La luce ha avuto un piccolo fremito, come se la mano che reggeva la torcia avesse tremato. È ripassata lentamente sul cofano. Di nuovo la voce, fastidiosa.

«Senti, straniero. Ho un’automatica a dieci colpi. E so sparare. I tuoi piedi sono scoperti. Cosa scegli?».

«Mettila via, o te la faccio saltare dalle mani!» ho ringhiato. La mia voce era il rumore di qualcuno che svelle assi di legno da un pollaio.

«Oh, un gentiluomo, ma duro». Adesso sì che nella sua voce c’era una piccola e bella vibrazione. Poi, però, le è uscita tesa un’altra volta. «Vieni fuori o no? Conto fino a tre. Considera la situazione: hai davanti dodici grossi cilindri, forse anche sedici. I piedi, però, ti faranno male. E le ossa delle caviglie ci mettono anni a guarire, quando guariscono».

Mi sono alzato in piedi, lentamente, e ho guardato in direzione della luce.

«Anch’io parlo troppo, quando sono spaventato».

«Fermo! Non fare un altro millimetro! Chi sei?».

Ho fatto il giro del cofano, avvicinandomi. A un paio di metri dall’esile e scura sagoma dietro la torcia mi sono fermato. Ero in piena luce.

«Sta’ fermo dove sei» ha detto secca la ragazza, quando ormai mi ero fermato. «Chi sei?».

«Fa’ vedere la pistola».

L’ha illuminata con la torcia. Me la teneva puntata allo stomaco. Era una pistoletta. Forse una piccola Colt automatica da taschino.

«Ah, quella. Un giocattolo. Non ha dieci colpi: ne ha sei. È minuscola, una scacciafarfalle. Giusto a quelle puoi sparare. Dovresti vergognarti: non si dicono certe bugie».

«Sei pazzo?».

«Io? Sono appena stato manganellato da un rapinatore. Può essere che sia un po’ suonato».

«Quella... è la tua macchina?».

«No».

«Chi sei?».

«Cosa stavi guardando lassù, con la torcia?».

«Ho capito. Sei tu quello che vuole risposte. Un uomo vero. Stavo guardando un tizio».

«Uno con i capelli biondi ondulati?».

«Non più» ha detto lei, a bassa voce. «Forse li aveva... prima».

Ci sono rimasto. Chissà perché, non me l’aspettavo. «Non l’ho visto» ho detto, confuso. «Stavo seguendo tracce di pneumatici. È messo molto male?». Ho fatto un altro passo verso di lei. La piccola pistola è scattata contro di me, la luce della torcia non si è mossa.

«Vacci piano» ha detto a bassa voce. «Molto piano. Il tuo amico è morto».

Ci ho messo un attimo, prima di reagire: «Bene, andiamo a vedere».

«Resteremo qui fermi, invece, e tu mi dirai chi sei e cos’è successo». La voce era frizzante. La ragazza non aveva paura. Faceva sul serio.

«Marlowe. Philip Marlowe. Investigatore. Privato».

«Ora so chi sei, ammesso che tu abbia detto la verità. Dimostramelo».

«Devo tirare fuori il portafoglio».

«Meglio di no. Tieni le mani dove sono. Tralasciamo la dimostrazione, per il momento. Racconta».

«Quell’uomo potrebbe non essere morto».

«È morto, fidati. Con tutto il cervello sulla faccia. La tua storia, signorino. Sbrigati».

«Dicevo... potrebbe non essere morto. Andiamo a controllare». Ho mosso un piede.

«Muoviti ancora e ti riduco un colabrodo!» ha sbottato.

Ho mosso anche l’altro piede. La torcia ha avuto un piccolo sobbalzo. Probabilmente la ragazza aveva fatto un passo indietro.

«Rischi grosso» ha detto a bassa voce. «D’accordo, va’ avanti, io ti seguo. Sembri messo male. È la tua fortuna, se no...».

«Mi avresti sparato. È che dopo certe passate di manganello mi vengono sempre un po’ di occhiaie».

«Abbiamo un umorista, qui. Un po’ da obitorio, ma pazienza».

Non appena mi sono incamminato la torcia ha illuminato il terreno davanti a me. Ho superato il coupé, una piccola e comunissima automobile, ma luccicante nella foschia, sotto le stelle. Ho risalito la curva dello sterrato. Alle mie spalle, i passi della ragazza erano vicini, e la luce della torcia mi guidava. Non c’erano rumori, a parte i nostri passi e il suo respiro. Il mio non lo sentivo.