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La casa era sprofondata nel silenzio. Da lontano giungeva un rumore come di risacca, o di auto che sfrecciano in autostrada, o di vento tra i pini. Erano le onde del mare, naturalmente, che si rompevano sotto di noi. Sono rimasto per un po’ ad ascoltare, assorto in lunghi e attenti pensieri.
Nell’ora e mezza successiva il telefono ha squillato quattro volte. La telefonata giusta è arrivata otto minuti dopo le dieci. Marriott ha parlato brevemente, a bassa voce, ha riattaccato senza fare rumore e si è alzato in piedi con un movimento felpato. Sembrava teso. Si era messo un abito scuro, per l’occasione. Tornato in silenzio nella sala, si è preparato un drink, forte, in un bicchiere da brandy. Per un attimo lo ha sollevato in controluce con uno strano sorriso infelice, gli ha impresso con un rapido gesto un moto rotatorio e, rovesciata la testa all’indietro, lo ha mandato giù in un sorso.
«Bene. Ci siamo, Marlowe. È pronto?».
«È tutta la sera che sono pronto. Dove si va?».
«In un posto chiamato Purissima Canyon».
«Mai sentito».
«Vado a prendere una carta». Al ritorno l’ha aperta alla svelta, e quando si è chinato a studiarla i suoi capelli d’ottone hanno mandato un luccichio. Marriott mi ha indicato un punto: era uno dei tanti canyon che si diramavano dal boulevard ai piedi delle colline, quando dalla costiera a nord di Bay City si devia verso la città. Sapevo solo vagamente dov’era. A quanto pareva, in fondo a una strada chiamata Camino de la Costa.
«Da qui ci si arriva in dodici minuti al massimo» ha detto Marriott, concitato. «Conviene muoversi. Abbiamo solo venti minuti».
Con l’impermeabile chiaro che mi ha dato ero un ottimo bersaglio. Mi stava a meraviglia. Come cappello, ho usato il mio. Avevo una pistola sotto l’ascella, ma non gliel’avevo detto.
Mentre infilavo l’impermeabile Marriott continuava a parlare nervosamente e a rigirarsi tra le mani irrequiete la busta di carta marroncina con gli ottomila dollari.
«Hanno detto che nel punto più interno del Purissima Canyon c’è una specie di piattaforma, chiusa da uno steccato di assi di legno dipinte di bianco che si può facilmente superare. Lì c’è una sterrata che scende in fondo a una piccola conca, dove dovremo aspettare a fari spenti. Non ci sono case nei dintorni».
«Dovremo?».
«Be’, insomma, io... in teoria».
«Ah».
Mi ha passato la busta marroncina, e ci ho guardato dentro. I soldi c’erano, come previsto: un enorme mazzo di banconote. Non li ho contati. Ho rimesso l’elastico intorno all’involto, che poi ho infilato in una tasca interna dell’impermeabile. Per poco non mi incrinavo una costola.
Ci siamo avviati alla porta, e Marriott ha spento tutte le luci. Ha aperto e scrutato circospetto nell’aria fosca. Poi siamo scesi in garage per la scala a chiocciola.
Da quelle parti, di notte, c’è sempre una leggera foschia. Ho dovuto accendere il tergicristallo e farlo andare un po’.
La grossa auto straniera si guidava da sola, ma per salvare le apparenze tenevo lo stesso una mano sul volante.
Dopo un paio di minuti di otto sul pendio della montagna, siamo sbucati proprio accanto al bar con i tavolini all’aperto. Lì ho capito perché Marriott mi avesse consigliato di fare la scalinata. In quelle viuzze tortuose avrei potuto guidare per ore senza fare più strada di un verme in una scatoletta portaesche.
Sulla strada principale, i fanali delle auto proiettavano fasci di luce quasi tangibili in entrambe le direzioni. I grossi camion filavano verso nord ringhiando, decorati da festoni di luci verdi e gialle. Tre minuti, poi abbiamo svoltato verso l’interno in corrispondenza di una grande stazione di servizio, procedendo lungo il fianco delle prime colline. C’era soltanto silenzio e desolazione, oltre all’odore delle alghe e a quello della salvia che arrivava dalle colline. Ogni tanto una finestra gialla sospesa nel buio, tutta sola, come l’ultima arancia rimasta. Le auto di passaggio irroravano l’asfalto di fredda luce bianca, per poi allontanarsi nel buio con un ruggito. Volute di foschia inseguivano le stelle.
Marriott si è sporto dal sedile posteriore: «Le luci sulla destra sono il Belvedere Beach Club. Il prossimo canyon si chiama Las Pulgas, subito dopo c’è il Purissima. Alla fine della seconda salita dobbiamo girare a destra». La voce era sommessa, tesa.
Ho grugnito in segno di assenso, continuando a guidare. «Tenga giù la testa» ho detto girandomi leggermente verso di lui. «Non è escluso che ci stiano tenendo d’occhio. Questa macchina si fa notare come un paio di ghette a un picnic nell’Iowa. Magari ai ragazzi non piace che lei abbia un gemello».
Siamo scesi in un avvallamento all’estremità più interna di un canyon, per poi salire di nuovo, ridiscendere e risalire. Ho sentito in un orecchio la voce nervosa di Marriott: «La prossima a destra. La casa con quella torretta squadrata. Ci giri intorno».
«Non è che per caso ha detto la sua sulla scelta del posto?».
«Non direi proprio» ha risposto, con una risatina preoccupata. «Ma si dà il caso che io conosca questi canyon piuttosto bene».
Superata una casa d’angolo con una torretta bianca, ho svoltato a destra. I fanali hanno illuminato per un attimo l’indicazione «Camino de la Costa». Siamo scesi per un ampio viale fiancheggiato da lampioni non funzionanti e marciapiedi invasi dalle erbacce. Il sogno di qualche costruttore si era trasformato nei postumi di una sbronza. Al di là dei marciapiedi infestati, i grilli frinivano e le rane toro saltavano nel buio. L’auto di Marriott non faceva il minimo rumore.
Gli isolati ospitavano una casa ciascuno, poi neanche più quella. Da una finestra o due filtrava ogni tanto una vaga luce, ma da quelle parti la gente sembrava andare a letto con le galline. A un certo punto del viale l’asfalto finiva all’improvviso, lasciando il posto a una strada sterrata che, quando non pioveva, era altrettanto dura. Si restringeva e digradava lentamente tra muraglie di arbusti. Le luci del Belvedere Beach Club erano sospese a mezz’aria sulla destra, mentre più in là si intravedeva il luccichio dell’acqua. L’odore intenso della salvia saturava la notte. Poi ci si è parata davanti una barriera dipinta di bianco, e Marriott: «Non credo si possa superare. Non c’è abbastanza spazio».
Ho spento il motore – non che si sentisse la differenza – e abbassato i fari. Sono rimasto in ascolto. Niente. Ho spento i fari e sono sceso. I grilli avevano smesso di frinire. C’era un tale silenzio che sentivo il rumore di pneumatici sulla strada principale, a un paio di chilometri. Poi, poco alla volta, i grilli hanno ricominciato, fino a riempire la notte di quel suono.
«Stia lì buono. Vado giù a dare un’occhiata» ho detto sottovoce, avvicinandomi al finestrino posteriore.
Una controllata al calcio della pistola sotto l’impermeabile, e mi sono mosso. Tra la muraglia di arbusti e il fianco della barriera bianca c’era più spazio di quel che mi era parso dalla macchina. Qualcuno aveva sfrondato la vegetazione, e a terra c’erano tracce di pneumatici. Giovani, probabilmente, che andavano lì a pomiciare nelle serate tiepide. Ho superato la barriera. La stradina scendeva ripida e curvava. In basso, solo il buio, e un fioco, remoto rumore di onde. E i fanali delle auto sulla strada principale. Ho proseguito. La stradina terminava in una conca poco profonda interamente circondata da arbusti. Non c’era nessuno. L’unica via d’accesso era quella che avevo percorso. Sono rimasto in silenzio ad ascoltare.
I minuti passavano lenti.
Niente. A quanto pareva, la piccola conca era tutta per me.
Ho guardato più oltre, verso le finestre illuminate del Belvedere, sulla spiaggia. Da quelle superiori un uomo con un binocolo decente avrebbe tranquillamente potuto tenere tutto sotto controllo, notare auto in arrivo o in sosta, e vedere chi ne usciva, se solo o accompagnato. Da una stanza buia, con un buon binocolo si possono scoprire più particolari di quel che generalmente si crede.
Mi sono voltato per risalire. Dalla base di un cespuglio, un grillo ha frinito così forte da farmi sobbalzare. Ho proseguito, seguendo la curva, fin oltre la barriera bianca. Ancora niente. L’auto nera baluginava fioca in un grigiore che non era né luce né tenebre. Mi ci sono avvicinato, salendo sul predellino accanto al posto di guida.
«Forse è una prova» ho detto a mezza voce, ma abbastanza forte da farmi sentire da Marriott sul sedile posteriore. «Giusto per vedere se sta ai patti».
L’unica risposta è stato un leggero movimento sul sedile. Continuavo a osservare, per capire se ci fosse qualcosa a parte i cespugli.
Per chiunque sia stato, prendermi alle spalle e colpirmi alla testa non dev’essere stata un’impresa. A posteriori, mi è parso forse di aver sentito lo spostamento d’aria di un manganello. Si pensano sempre cose così, a posteriori.