18

L’oceano era vicino e lo si sentiva nell’aria, ma dall’ingresso della tenuta l’acqua non si vedeva. Proprio in quel punto Aster Drive faceva un’ampia curva. Quelle sul lato interno erano belle case, come tante. Affacciate sul canyon, invece, sorgevano dimore imponenti e silenziose, con muri di cinta alti quattro metri, cancelli in ferro battuto e siepi ornamentali; all’interno, per chi aveva il permesso di entrare, un sole tutto particolare, placidissimo, come chiuso in una scatola insonorizzata a esclusivo beneficio delle classi alte.

Un uomo con una casacca azzurra alla russa, lucidi gambali neri e braghe a sbuffo piantonava il cancello semiaperto. Era un ragazzo bruno, di bella presenza, con le spalle abbondanti, i capelli lisci e lucidi, e la visiera dell’elegante berretto a fargli un po’ d’ombra sugli occhi. Aveva una sigaretta all’angolo della bocca e teneva la testa leggermente inclinata, come se preferisse non inalare il fumo dal naso. Una mano era coperta da un guanto nero e liscio, l’altra era nuda. All’anulare portava un anello massiccio.

Non c’erano numeri in vista, ma l’862 doveva essere quello. Ho fermato la macchina, mi sono sporto dal finestrino e gliel’ho chiesto. Prima di rispondermi ha dovuto squadrarmi per bene. Sia me che la macchina. Mi si è avvicinato, e già che c’era ha portato con noncuranza la mano nuda in prossimità del fianco. Quel genere di noncuranza che vuole farsi notare.

A meno di un metro si è arrestato e mi ha dato un’altra bella occhiata.

«Sto cercando la residenza dei Grayle».

«È questa. Non c’è nessuno».

«Mi stanno aspettando».

Ha annuito, gli occhi che scintillavano come acqua. «Nome?».

«Philip Marlowe».

«Aspetti qui». È andato al cancello come se il tempo non fosse un suo problema e ha aperto uno sportello di ferro incorporato in una delle colonne. All’interno c’era un telefono. Ha parlato brevemente, richiuso lo sportello ed è tornato da me.

«Ha un documento d’identità?».

L’ho invitato a esaminare la patente di guida attaccata al piantone dello sterzo. «Quella non prova niente. Come faccio a sapere che l’auto è sua?».

Ho tirato fuori la chiave dal quadro, ho aperto la portiera e sono sceso, ritrovandomi a una spanna da lui. Aveva l’alito profumato. Haig and Haig, come minimo.

«Ti sei fatto un altro giro al mobile bar, eh?».

Sorriso, e altro sguardo.

«Sta’ a sentire» gli ho detto. «Ho parlato al telefono col maggiordomo: riconoscerà senz’altro la mia voce. Può bastare, per entrare, o devo passarti sulla schiena?».

«Sto solo facendo il mio lavoro» ha detto suadente. «Altrimenti...». Ha lasciato la frase in sospeso, continuando a sorridere.

«Sei un bravo ragazzo» ho detto, dandogli una pacca sulle spalle. «Da dove sei uscito, Dartmouth o Dannemora?».

«Cristo. Perché non l’hai detto subito che sei uno sbirro?».

Abbiamo sorriso entrambi, un po’ tesi. Mi ha fatto cenno di entrare e io ho varcato il cancello semiaperto. Il vialetto d’accesso curvava, completamente schermato da siepi verde scuro ben potate, invisibile sia dalla casa sia dalla strada. Al di là di un cancello verde, un giardiniere giappo strappava erbacce da un enorme prato. Ne stava estirpando una da quella distesa di velluto, e sogghignava come tutti i giardinieri giappo. Poi le alte siepi sono tornate a incombere, e per un’altra trentina di metri non ho visto più nulla, fin quando non si sono interrotte, lasciando il posto a un’ampia rotonda dov’erano parcheggiate cinque o sei auto.

Un piccolo coupé. Due bellissime Buick bicolori ultimo modello, buone per andarci all’ufficio postale. Una limousine nera con griglie di nichel opaco e coprimozzi grossi come cerchi di bicicletta. Una lunga Phaeton sportiva con il tettuccio abbassato. Da lì, un breve e larghissimo vialetto in cemento portava all’entrata laterale della casa.

Sulla sinistra, oltre lo spazio adibito a parcheggio, c’era un giardino ribassato con una fontana a ogni angolo. L’ingresso era sbarrato da un cancello in ferro battuto con al centro un Cupido in volo. C’erano busti su sobrie colonne, una panchina in pietra con grifoni acquattati alle due estremità, e una vasca oblunga con ninfee in pietra, su una delle quali era posata una grossa rana toro, in pietra anch’essa. Ancora più in là, un colonnato rosa conduceva a una sorta di altare fiancheggiato da siepi, ma non al punto da impedire al sole di disegnare arabeschi sui gradini dell’altare. In fondo, sempre sulla sinistra, un giardino selvatico non grandissimo, con una meridiana vicino a due pezzi di muro ad angolo retto, che dovevano sembrare una rovina. E fiori. Milioni di fiori.

La residenza vera e propria non era granché: più piccola di Buckingham Palace, piuttosto grigia per essere in California, e con meno finestre del Chrysler Building, credo.

Mi sono avvicinato quatto quatto all’ingresso laterale e ho premuto un pulsante: all’interno, una serie di campanelle ha prodotto un suono dolce e profondo, come di chiesa.

Ad aprire è venuto un uomo in gilè a righe con bottoni dorati, che fatto un inchino e preso in consegna il cappello si è guadagnato la giornata. Alle sue spalle, in penombra, un uomo con pantaloni a righe freschi di stiro, giacca nera, camicia dal colletto ampio e cravatta grigia a righe ha allungato di un centimetro la testa canuta: «Mr. Marlowe, se vuole seguirmi, da questa parte, prego».

Mi ha fatto strada lungo un corridoio in cui non volava una mosca. Il pavimento era coperto di tappeti orientali, e le pareti di quadri. Girato un angolo, il corridoio proseguiva. Una porta-finestra rivelava uno scorcio di acqua azzurra, in lontananza. Con sgomento, mi sono ricordato che l’Oceano Pacifico non era lontano, e che la casa era sull’orlo di un canyon.

Giunto all’altezza di una porta, il maggiordomo l’ha aperta su un brusio di voci, poi si è fatto da parte per lasciarmi passare. Era una bella sala con grandi divani e comode poltrone in pelle gialla sistemati intorno a un caminetto, davanti a cui, sul pavimento – lucido, ma non scivoloso –, era adagiato un tappeto fine come seta e vecchio come la zia di Esopo. Un getto di fiori sfolgorava in un angolo, un altro su un tavolino basso. Le pareti erano color pergamena opaca. C’erano comodità, spazio, atmosfera accogliente, un tocco di estrema modernità e uno di antico. Le tre persone sedute mi guardavano in silenzio.

Una era Anne Riordan, identica a come l’avevo vista l’ultima volta, eccezion fatta per il bicchiere pieno di liquido ambrato in mano. Poi c’era un lungagnone con la faccia triste, il mento di pietra, occhi profondi e un colorito giallognolo piuttosto malsano. Doveva avere sessant’anni buoni – o, più probabilmente, non tanto buoni. Indossava un completo scuro da uomo d’affari, con garofano rosso all’occhiello. Non proprio il ritratto della vitalità.

La terza persona era la bionda. Era vestita per uscire, di verde acqua. Ma non mi sono concentrato più di tanto, sui suoi vestiti. Sembravano disegnati apposta per lei, e dalla persona giusta. Facevano sembrare lei giovanissima, e i suoi occhi ancor più due lapislazzuli. I capelli erano dell’oro dei dipinti antichi e abbastanza acconciati, ma non troppo. Aveva una dotazione di curve impossibile da migliorare. A parte il collier di diamanti, la mise era piuttosto semplice. Le mani non erano piccole, ma ben formate, e le unghie erano la solita nota vistosa: quasi magenta. Mi stava dedicando uno dei suoi sorrisi. Aveva l’aria di sorridere facilmente, ma gli occhi erano fermi, come se stesse pensando con calma e attenzione. E la bocca era sensuale.

«È stato molto gentile a venire» ha detto. «Le presento mio marito. Offri da bere a Mr. Marlowe, tesoro».

Mr. Grayle mi ha stretto la mano. La sua era fredda e un po’ umida. Gli occhi, tristi. Mi ha versato un whisky e soda e me lo ha porto.

Poi è andato a sedersi in un angolo, in silenzio. A metà bicchiere ho sorriso a Miss Riordan. Lei mi ha guardato con espressione un po’ assente, come se stesse pensando ad altro.

«Crede di poterci aiutare?» ha domandato con calma la bionda, guardando dentro il bicchiere. «Ne sarei felicissima. Il danno, però, è niente in confronto al fastidio di avere a che fare con banditi e gente orribile».

«Se devo essere sincero, non lo so».

«Oh, spero proprio che potrà aiutarci». Mi ha rivolto un sorriso che ho sentito fin nella tasca dei pantaloni.

Vuotato il bicchiere, cominciavo a sentirmi a mio agio. Mrs. Grayle ha suonato un campanello incorporato in un bracciolo del divano in pelle, e subito è comparso un valletto. La signora ha indicato il vassoio. Il valletto si è guardato intorno e ha preparato due drink. Miss Riordan stava ancora coccolando il suo primo bicchiere, e Mr. Grayle, a quanto pareva, era astemio. Il valletto è uscito di quinta.

Mrs. Grayle e io abbiamo brindato, lei accavallando le gambe con un po’ di noncuranza.

«Non sono sicuro di poter fare qualcosa. Anzi, ne dubito. Cos’abbiamo in mano?».

«Lei può sicuramente fare qualcosa». Altro sorriso. «Quanto le ha raccontato Lin Marriott?».

Si è voltata verso Miss Riordan, che però non se ne è accorta: era sempre al suo posto, ma guardava altrove. Mrs. Grayle si è rivolta al marito: «Sicuro di volerti trattenere, tesoro?».

Mr. Grayle si è alzato, ha detto che era molto contento di aver fatto la mia conoscenza e che sarebbe andato un po’ a coricarsi. Non si sentiva tanto bene. Sperava che lo scusassi. È stato così cortese che quasi lo accompagnavo fuori in segno di apprezzamento.

Invece se n’è andato da solo. Ha chiuso piano la porta, come temesse di svegliare qualcuno. Mrs. Grayle ha guardato la porta per un po’, quindi si è stampata di nuovo in faccia il suo sorriso e mi ha guardato.

«Miss Riordan gode della sua totale fiducia, naturalmente».

«Nessuno gode della mia totale fiducia, Mrs. Grayle. Miss Riordan conosce i dettagli del caso. Entro certi limiti, perlomeno».

«Già». Ha bevuto due sorsetti, poi si è scolata di botto il bicchiere e lo ha posato lì accanto. «Al diavolo la moderazione. Veniamo al sodo. Lei è un uomo molto bello per il mestiere che fa. Strano».

«È il mestiere che è schifoso».

«Non volevo dire questo. Si guadagna bene? O la domanda è impertinente?».

«Non ci si arricchisce. E si ingoia parecchia robaccia. Però a volte ci si diverte. E può sempre capitare un caso importante».

«Come si diventa investigatori privati? Non le dispiace se la interrogo un po’, vero? E mi avvicini quel vassoio, per cortesia. Così posso servirmi da bere».

Mi sono alzato e ho spinto sul pavimento lucido il carrello su cui era posato il grande vassoio d’argento, in modo che l’avesse vicino. Mrs. Grayle ha preparato altri due drink. Io avevo ancora il secondo.

«Molti sono ex poliziotti. Anch’io ho lavorato per il procuratore distrettuale, per un certo periodo. Poi mi hanno licenziato».

Ha sorriso, graziosa. «Non certo per incapacità».

«No, infatti. Ho avuto da ridire. Ha ricevuto altre telefonate?».

«Be’...». Ha guardato Anne, in modo molto eloquente.

Anne si è alzata in piedi, posando il bicchiere ancora pieno sul vassoio. «Di sicuro non rimarrà a corto, ma nel caso... La ringrazio molto per aver accettato di incontrarmi, Mrs. Grayle. Terrò per me le informazioni che mi ha dato. Ha la mia parola».

«Oh, santo cielo, non vorrà andarsene, vero?» ha detto Mrs. Grayle, col solito sorriso.

Anne si è presa il labbro inferiore tra i denti e se l’è tenuto così per un po’, come stesse decidendo se staccarlo con un morso e sputarlo o lasciarlo al suo posto, per il momento.

«Mi spiace, temo di dovere. Non lavoro per Mr. Marlowe, in realtà. È soltanto un amico. Arrivederla, Mrs. Grayle».

La bionda le ha fatto un sorriso da qui a lì, stavolta. «Spero tornerà presto. Quando vuole». Ha premuto due volte il campanello, e il maggiordomo è comparso, tenendo la porta aperta.

Miss Riordan è uscita subito, e la porta si è richiusa. Per un lungo istante Mrs. Grayle è rimasta a guardarla con un vago sorriso sulle labbra. «Così va molto meglio, non trova?» ha detto, quando ha deciso di rompere il silenzio.

Ho annuito. «Si starà probabilmente domandando come mai la nostra amica è così informata, essendo solo un’amica. Ecco, è una ragazza molto curiosa. Certe cose le ha scoperte da sola. Ad esempio il suo nome, e il fatto che la collana appartenesse a lei. Altre cose sono semplicemente successe: si trovava in fondo a quella conca, dove Marriott è stato ucciso. Era in giro, così. Ha visto una luce ed è scesa a controllare».

«Ah». Mrs. Grayle ha sollevato in fretta il bicchiere, con una smorfia. «È orribile quello che è capitato al povero Lin. Era un tipo un po’ scialbo. Come quasi tutti i miei amici. Morire così, però, è terribile». Ho visto un brivido, e i suoi occhi si sono fatti grandi e cupi.

«Di Miss Riordan ci si può fidare. Non parlerà. Suo padre è stato a lungo il capo della polizia di questa città».

«Sì, me l’ha detto. Lei non sta bevendo, Marlowe».

«Bevo, ma a modo mio».

«Noi due dovremmo andare d’accordo. Lin le ha spiegato com’è andata la rapina?».

«So che è successo tra qui e il Trocadero. Non mi ha detto di preciso. Ha parlato di tre o quattro uomini».

La luminosa testa d’oro ha fatto cenno di sì. «Già. È stata una rapina decisamente strana. Mi hanno restituito un anello, anche piuttosto prezioso».

«Marriott me l’aveva detto».

«C’è anche da dire che quella collana non la indossavo quasi mai. Del resto, è un pezzo da museo: non devono essercene molte al mondo, quel tipo di giada è decisamente raro. Loro, però, ci si sono tuffati. Non pensavo potessero attribuirle tanto valore. Non è strano?».

«Forse sapevano che lei non l’avrebbe indossata, se non fosse stata preziosa. Chi altri era al corrente del suo valore?».

Ci ha pensato su. Era bello, guardarla pensare. Aveva ancora le gambe accavallate, con la stessa noncuranza di prima.

«Molta gente, immagino».

«Ma non tutti potevano sapere che lei l’avrebbe indossata quella sera. Chi lo sapeva?».

Ha scrollato le spalle verde acqua. Facevo il possibile per tenere gli occhi al loro posto.

«La mia cameriera, ma avrebbe avuto centinaia di altre occasioni. E poi mi fido di lei».

«Perché?».

«Non lo so. Di certe persone mi fido e basta. Come di lei, Marlowe».

«E di Marriott?».

La faccia le si è fatta più tesa, gli occhi un po’ guardinghi. «Per certe cose, no. Per altre, sì. Questione di gradi». Aveva un bel modo di parlare: sicura di sé, un po’ cinica, ma non dura. Arrotondava le parole, come andrebbe fatto sempre.

«D’accordo. E a parte la cameriera? L’autista?».

Scosse la testa. «No. Quella sera guidava Lin: eravamo con la sua auto. Credo che George non ci fosse neanche, quella sera. Non era giovedì?».

«Io non c’ero. Ieri sera Marriott diceva che erano passati quattro o cinque giorni. Se fosse come dice lei, arriviamo a una settimana giusta».

«Be’, era giovedì». Mentre allungava la mano verso il mio bicchiere, le sue dita liscissime hanno sfiorato le mie. «George non c’è il giovedì. È la sua serata libera». Mi ha versato una dose di quel whisky pastoso e ci ha spruzzato un po’ di seltz. Era il genere di liquore che uno pensa di poter bere senza limiti, solo che poi si diventa imprudenti. Se n’è versato altrettanto.

«Lin le ha fatto il mio nome?». La voce adesso era suadente, l’occhiata sempre cauta.

«Se ne è guardato bene».

«Allora può darsi che abbia cercato di sviarla anche sulla tempistica. Facciamo un po’ il punto. Cameriera e autista li escludiamo. Come possibili complici, intendo».

«Io non li escludo».

«Be’, mi lasci provare» ha detto, ridendo. «Ci sarebbe anche Newton, il maggiordomo. Potrebbe avermela vista al collo quella sera. La collana però è molto lasca, e io indossavo una stola di volpe... No, non credo possa averla vista».

«Doveva essere un incanto».

«Non sta esagerando con l’alcol, vero?».

«Sono stato più sobrio altre volte».

Ha rovesciato la testa all’indietro, ridendo senza freni. Ho conosciuto solo quattro donne capaci di ridere in quel modo senza imbruttirsi. Una era Mrs. Grayle.

«Newton lo escluderei. Non mi sembra il tipo che se la fa coi delinquenti. È solo una congettura, però. Cosa mi dice del valletto?».

Ci ha pensato su finché non si è ricordata. «No, non mi ha vista».

«Qualcuno le ha per caso chiesto di indossare la collana?».

Adesso camminava sulle uova. «Non creda di fregarmi».

Mi ha preso il bicchiere, e anche se ne avevo ancora due dita abbondanti l’ho lasciata fare. Intanto studiavo le incantevoli linee del suo collo.

Riempiti i bicchieri, con cui ci siamo rimessi a giocherellare, ho detto: «Quando mi avrà raccontato tutto per bene, le dirò una cosa. Mi descriva la serata».

Ha guardato l’orologio che aveva al polso, scoprendo il braccio fino alla spalla. «Dovrei andare...».

«Lo lasci aspettare».

Negli occhi le è passato un lampo. Piuttosto bello. «Oltre un certo limite si finisce per essere un po’ troppo diretti».

«Non nel mio campo. Mi descriva la serata. Oppure mi faccia sbattere fuori di peso. Una cosa o l’altra. Sta alla sua deliziosa testolina decidere».

«Venga a sedersi qui accanto a me. Sarà meglio».

«Era da un po’ che ci stavo pensando. Da quando ha accavallato le gambe, se ricordo bene».

Si è tirata un po’ giù il vestito. «Accidenti, questi affari te li ritrovi sempre intorno al collo».

Sono andato a sedermi accanto a lei, sul divano giallo. «Non perde tempo, eh?» mi ha chiesto a bassa voce.

Non ho risposto.

«Fa spesso così?» mi ha domandato, guardandomi in tralice.

«Praticamente mai. Nel tempo libero sono un monaco tibetano».

«Peccato che di tempo libero lei non ne abbia».

«Concentriamoci» ho detto. «Prendiamo il poco che resta della nostra mente – o della mia – e cerchiamo di mettere a fuoco il problema. Quanto ha intenzione di pagarmi?».

«Ah, questo è il problema. Credevo volesse recuperare la mia collana. O almeno provarci».

«Io lavoro a modo mio. Così». Il lungo sorso mi ha quasi ribaltato. Ho deglutito aria. «E poi c’è un omicidio, su cui indagare».

«L’omicidio non c’entra. Se ne sta occupando la polizia, ormai, no?».

«Già. Solo che quel poveraccio mi ha pagato cento dollari perché mi prendessi cura di lui... e non l’ho fatto. Mi sento in colpa. Mi viene da piangere. Lo faccio? Piango?».

«Beva un goccio». Mi ha versato altro scotch. Su di lei sembrava avere l’effetto che ha l’acqua sulla diga di Hoover.

«Be’, dov’eravamo arrivati?» ho chiesto, cercando di tenere il bicchiere in modo da non rovesciare il liquore. «Niente cameriera, né autista. Niente maggiordomo, niente valletto. Tra un po’ toccherà farci il bucato da soli. Come si è svolta la rapina? Magari la sua versione ha qualche dettaglio in più, rispetto a quella di Marriott».

Si è sporta verso di me, appoggiando il mento al palmo di una mano. Riusciva a sembrare seria, senza esagerare e cadere nel ridicolo.

«Siamo andati a una festa a Brentwood Heights. Poi Lin mi ha proposto di fare un salto al Troc a bere qualcosa e ballare un po’. E così abbiamo fatto. Siccome sul Sunset Boulevard c’erano lavori in corso, e molta polvere, al ritorno Lin ha deciso di scendere sul Santa Monica Boulevard. Siamo passati davanti a un albergo sciatto, l’Indio, che mi ha colpito per ragioni che non sto a dirle. Di fonte c’era una birreria, con una macchina parcheggiata davanti».

«Una sola auto, davanti a una birreria?».

«Sì, una sola. Era un posto decisamente sordido. La macchina comunque ci ha seguiti, ma all’inizio, come può immaginare, non le ho dato importanza. Non ce n’era ragione. Poi, prima di arrivare dove il Santa Monica diventa Arguello, Lin fa: “Prendiamo l’altra strada”. E imbocca una via tutta curve in una zona residenziale. All’improvviso una macchina ci supera, ci graffia il paraurti e poi si ferma sul ciglio della strada. Scende un tale in impermeabile, sciarpa e cappello sugli occhi che si avvicina come per scusarsi. Era completamente avvolto nella sciarpa, questo l’ho notato subito. Di lui in pratica non ho visto altro, a parte il fatto che era alto e magro. Quando ci ha raggiunto... Ah, dopo mi è venuto in mente che si era tenuto lontano dai nostri fanali».

«Naturale. A nessuno piacciono i fanali negli occhi. Beva un goccio. Offro io, stavolta».

Era protesa in avanti, e le sue finissime sopracciglia – vere, non disegnate – si erano contratte in un’espressione pensosa. Ho riempito tutti e due i bicchieri, poi ha continuato.

«È arrivato dal lato di Lin, si è tirato la sciarpa anche sul naso e ci ha puntato addosso una pistola. “Su le mani” ha detto. “Se fate i bravi, andrà tutto bene”. Intanto era arrivato un secondo uomo, dalla parte opposta».

«Tutto questo a Beverly Hills, i dieci chilometri quadrati più sorvegliati della California» ho commentato.

Si è stretta nelle spalle. «Comunque sia, è successo. Hanno chiesto i gioielli e la borsa. Quello con la sciarpa, per la precisione. Quello dal mio lato non ha mai aperto bocca. Allungandomi sopra Lin ho consegnato le mie cose al tizio con la sciarpa, che mi ha restituito la borsa e un anello. Ci ha detto di aspettare, di non chiamare la polizia o quelli dell’assicurazione, perché ci avrebbero fatto una bella proposta, molto vantaggiosa. Ha detto che per loro era molto più comodo lavorare a percentuale. Dava l’impressione di non avere la minima fretta. Ha detto che avrebbero potuto trattare anche con quelli delle assicurazioni, se necessario, ma così avrebbero dovuto pagare anche un avvocato. E loro preferivano evitare. Sembrava una persona istruita».

«Poteva essere Eddie l’Elegantone. Cioè, se non l’avessero fatto fuori a Chicago».

Altra scrollata di spalle, altro goccetto. Ha proseguito.

«A quel punto se ne sono andati, e io ho detto a Lin di non parlarne con nessuno. Il giorno dopo ho ricevuto una telefonata. Abbiamo due telefoni: il primo è collegato in derivazione; il secondo, nella mia camera, è una linea diretta. La chiamata l’ho ricevuta su quest’ultimo, che ovviamente non compare sull’elenco».

«È un’informazione che si può comprare per pochi dollari. C’è gente del cinema costretta a cambiare numero una volta al mese».

Altro giro di whisky.

«Ho detto al tizio di parlare con Lin, che se ne sarebbe occupato per me, e se le loro richieste non fossero state irragionevoli avremmo trovato un accordo. Lui ha detto che andava bene, dopo di che credo abbiano aspettato un po’ per osservare il nostro comportamento. Alla fine, come sa, ci siamo accordati per ottomila dollari».

«Saprebbe riconoscere qualcuno?».

«No, ovvio».

«Randall ne è al corrente?».

«Certo. Dobbiamo proprio continuare a parlare di questo? Mi annoio». Mi ha fatto un altro sorriso. E che sorriso.

«Randall ha fatto commenti?».

Sbadiglio. «Credo di sì, ma li ho dimenticati».

Ero lì seduto col bicchiere vuoto in mano, e pensavo. Lei me l’ha tolto e l’ha riempito.

L’ho ripreso con la destra e l’ho passato nell’altra mano, mentre con quella appena liberata le ho preso la sinistra. Era liscia e morbida e calda e piacevole da stringere. Lei ha ricambiato la stretta. Aveva muscoli forti: non era un fiorellino di carta.

«Credo si sia fatto una sua idea. Ma non ha voluto parlarmene».

«Chiunque si sarebbe fatto un’idea».

Si è voltata, piano: «È una cosa di cui non si può fare a meno, eh?».

«Da quanto tempo conosceva Marriott?».

«Oh, da anni. Lavorava come speaker alla radio di mio marito, la KFDK. L’ho conosciuto lì, dove ho conosciuto anche mio marito».

«Questo lo sapevo, ma Marriott viveva come se soldi ne avesse. Non una montagna, ma da starci comodo».

«Ne ha fatti un po’ e ha smesso con la radio».

«Lo sa per certo, o gliel’ha detto lui?».

Non sapendo bene, mi ha stretto di nuovo la mano.

«Magari ne ha fatti, ma non troppi, e li ha finiti alla svelta». Ho stretto anch’io. «A lei ne ha mai chiesti?».

«Lei è un tipo un po’ antiquato, eh?». Guardava la mano che le stavo tenendo.

«Sto ancora lavorando. E il suo scotch è così buono che sono ancora mezzo sobrio. Non che io debba per forza essere ubriaco...».

«Già». Ha ritratto la mano per massaggiarsela. «Deve avere una certa presa... nel tempo libero. Lin Marriott era un ricattatore d’alto bordo, naturalmente. Questo è ovvio. Campava alle spalle delle donne».

«Anche alle sue?».

«Vuole che glielo dica?».

«Non sarebbe una cosa tanto saggia, credo».

È scoppiata a ridere. «Glielo dico lo stesso. Una volta, a casa di Marriott, mi sono ubriacata un po’ troppo. Mi capita di rado. Lui ne ha approfittato per scattarmi alcune foto... con i vestiti tirati su».

«Che porco. Non ne avrebbe qualcuna a portata di mano?».

Mi sono preso uno schiaffetto su un polso. Poi mi ha chiesto, in un soffio, come mi chiamavo.

«Phil. E tu?».

«Helen. Baciami».

Mi si è appoggiata dolcemente addosso, mentre mi chinavo a perlustrare il suo viso. Strusciandomi sulle guance, le ciglia davano piccoli baci da farfalla. Quando l’ho raggiunta, la bocca era socchiusa e incandescente, con la lingua che guizzava tra i denti come una serpe.

Si è aperta la porta, e nella sala ha fatto il suo silenzioso ingresso Mr. Grayle. Avevo sua moglie tra le braccia, e non c’era modo di negarlo. Ho alzato la testa e l’ho guardato. Mi sentivo freddo come i piedi di Finnegan al momento della sepoltura.

La bionda non solo non si è mossa, non ha neppure chiuso la bocca. Aveva un’espressione per metà sognante e per metà sarcastica.

Mr. Grayle si è schiarito leggermente la voce: «Chiedo scusa» ha detto. Poi è uscito senza aggiungere altro. Nei suoi occhi c’era una tristezza infinita.

L’ho scostata e mi sono alzato in piedi, asciugandomi col fazzoletto.

Mrs. Grayle è rimasta come l’avevo lasciata: semidistesa sul divano, e con un bel tratto di pelle in mostra al di sopra della calza.

«Chi era?» ha chiesto con voce impastata.

«Mr. Grayle».

«Ignoralo».

Mi sono allontanato, tornando alla poltrona su cui mi ero seduto al mio arrivo.

Un attimo dopo si è rimessa a sedere, guardandomi con aria curiosa.

«Va tutto bene. È comprensivo. Che diavolo può aspettarsi, del resto?».

«Lui secondo me lo sa».

«Be’, ti assicuro che va tutto bene. Non ti basta? È un uomo malato. Che diavolo...».

«Non metterti a strillare con me. Non mi piacciono le scene».

Da una borsa posata accanto a lei ha preso un piccolo fazzoletto con cui si è pulita le labbra, per poi controllarsi in uno specchietto.

«Credo tu abbia ragione. Troppo scotch. Stasera al Belvedere. Alle dieci». Non mi stava guardando. Aveva il respiro leggermente affannoso.

«È un bel posto?».

«Il padrone è Laird Brunette. Lo conosco piuttosto bene».

«D’accordo». Ero di nuovo freddo. Mi sentivo perfido, manco avessi borseggiato un poveraccio.

Ha tirato fuori un rossetto, si è ritoccata leggermente le labbra e mi ha guardato di traverso. Poi mi ha lanciato lo specchietto, che ho preso al volo. Ho cercato di riparare col fazzoletto per quanto potevo, e gliel’ho restituito.

Era reclinata all’indietro, con il collo completamente scoperto, e mi guardava languida.

«Cosa c’è?».

«Niente. Alle dieci al Belvedere. Non vestirti troppo. Io ho a malapena qualcosa da mettermi per andare a cena. Al bar?».

Ha annuito, lo sguardo sempre languido.

Ho attraversato la stanza e sono uscito, senza voltarmi. Il valletto mi è venuto incontro in anticamera e mi ha passato il cappello, con una faccia che sembrava intagliata nella pietra.