[93] Erano cinquanta uomini e una donna. Fra loro, gli eroi più celebrati. Si imbarcarono sulla nave Argo, che Eratostene definì «la prima nave attrezzata e dotata di parola, la prima ad attraversare il mare, sino allora impercorribile». Avrebbero dovuto conquistare il Vello d’Oro, appeso ai rami più alti di una quercia, protetto da un drago nella remota Colchide. Era la prova a cui il re Pelia voleva sottoporre Giasone, convinto che equivalesse a una condanna a morte. Ma da tutte le parti della Grecia altri eroi convennero, per esporsi allo stesso pericolo.
La conquista del Vello d’Oro, la caccia al Cinghiale Calidonio, la guerra di Troia: per tre volte – e soltanto per quelle tre volte – gli eroi si radunarono per un’impresa. Per le spoglie di un animale, per uccidere un animale, per riconquistare una donna. Null’altro poteva essere motivo sufficiente perché gli eroi agissero insieme. Ci furono tre regimi. Nel primo si uccideva un mostro. Nel secondo si cacciava un animale possente. Nel terzo gli uomini si uccidevano tra loro. Prima uccidere il mostro, poi cacciare, poi uccidersi a vicenda. Era il compendio di ciò che era accaduto, a partire dai primordi.
[94] Giasone è l’uomo che non voleva diventare re. Fin dall’inizio mirava a questo. Quando si presentò davanti a Pelia, che aveva usurpato il trono di suo padre, cadde subito nel suo primo tranello, come se lo volesse. «Qual è un’impresa impossibile?» gli era stato chiesto. Conquistare il Vello d’Oro, disse Giasone, per incoscienza – o addirittura «per caso». Parlava per caso nell’incontro che doveva decidere la sua vita? Già questo era strano. E subito Giasone accettò l’impresa impossibile. Era sempre meglio che lo scontro per un trono. Giasone covava un dubbio su tutto ciò che riguarda la sovranità. Eppure fu lui a guidare la spedizione per riconquistare il talismano della sovranità. Di cui, alla fine della sua avventura, non si servì neppure. Quando Giasone tornò a Iolco, non si parlava più del Vello d’Oro. Nessuno sembrava interessarsene. C’era altro da pensare. Regnava sempre il feroce Pelia. Non gli era bastato spodestare il padre di Giasone. Aveva voluto farlo morire, obbligandolo a bere sangue di toro. Morte atroce e inaudita. Ma non era tutto: Pelia aveva ucciso anche il fratello infante di Giasone, Promaco. Voleva essere sicuro su ogni lato. E Giasone sembrava essere l’ultima delle sue preoccupazioni. Correva voce che gli Argonauti fossero tutti morti. Voce plausibile, auspicata.
Occorse a Giasone un lungo, meticoloso giro della Grecia per arruolare gli Argonauti. Dovevano essere non meno di cinquanta, quasi tutti di origine divina, «nati dal sangue dei Beati». Gli toccò anche spingersi fino all’Arcadia, il paese più scabro e il più estraneo al mare. Lì aveva una missione opposta, non persuadere ma dissuadere. Sapeva che la cacciatrice Atalanta nulla desiderava come unirsi agli Argonauti. Giasone usava sempre, all’inizio, il tono della ragionevolezza. Le disse che no – non gli sembrava accettabile che una sola donna, e di folgorante bellezza, salisse sulla stessa nave di cinquanta uomini per un’impresa che tutti consideravano disperata. Sarebbe stata l’origine di dissidi. Precisò che [95] «aveva paura di tremende liti per via dell’amore». Atalanta ascoltò Giasone in silenzio e gli mise in mano un giavellotto. Era il dono che aveva preparato per l’ospite.
Apollonio Rodio non incluse Atalanta nell’elenco degli Argonauti che si radunarono a Iolco. Ma, quando il furibondo re Eete con le sue guardie del corpo raggiunse gli Argonauti sulla riva da cui si preparavano affannosamente a ripartire, nello scontro venne ucciso Ifito e rimasero feriti «il capo Giasone, Laerte, Atalanta e i figli di Tespio», secondo Diodoro Siculo. Atalanta era dunque con gli Argonauti, mescolata a loro, pari a loro. Fu Medea a guarire i feriti, in pochi giorni, con le sue erbe e i suoi intrugli.
Sulla nave Argo, Meleagro e Atalanta si osservavano, si spiavano. Ogni giorno, ogni ora. Ma soltanto loro lo sapevano. Nessuno degli Argonauti se ne accorse. Meleagro e Atalanta sentivano crescere ogni giorno la tensione che li attirava verso l’altro e non si manifestava mai. Tutto era rimandato. Ora dovevano partecipare alla conquista del Vello d’Oro, di cui non molto gli importava. Ma sentivano che ci sarebbe stato, per loro, un altro appuntamento, fatale: la caccia al Cinghiale Calidonio.
Il Pelio: una montagna che entrava nel mare, interamente coperta da una foresta, come da un vello. Una massa verde, scura con chiazze smeraldine. Sulla sua punta, fra le rocce, gli Argonauti scorsero tre figure che li salutavano, ultima immagine prima del mare aperto. Una donna, di severa bellezza; un Centauro; un bambino biondo. Filira, Chirone, Achille. Filira era stata sorpresa da Rea abbracciata a Crono, nell’ultimo spasimo. Crono si era subito rialzato, trasformato in cavallo, ed era caracollato lontano. Voleva evitare una scena coniugale. Dal suo seme era nato Chirone, capostipite dei Centauri. E a Chirone era stato affidato il [96] piccolo Achille, perché fosse educato in tutto ciò che è essenziale.
Chirone, Filira: Giasone li osservava mentre si stavano riducendo a un punto, persi nell’ultimo profilo del Pelio. Anche altri Argonauti li guardavano, ma nessuno di loro sapeva che Chirone, Filira e le foreste del Pelio erano stati, per Giasone, il mondo intero, durante vent’anni. Finché non li aveva abbandonati e si era presentato a Iolco, «con due giavellotti in mano, uomo stupefacente», secondo Pindaro. Che aggiungeva: «Non aveva lasciato tagliare gli splendidi riccioli della sua capigliatura, che incendiavano di luce la sua schiena». Camminava dritto e si fermò al centro della piazza. Era la prima che vedeva. «Nessuno lo conosceva; tutti lo ammiravano».
Ora Giasone pensava a quel minuscolo essere, anche lui biondo, che aveva intravisto fra Chirone e Filira, come in un incavo già predisposto. Non poteva essere che un altro anello nel ciclo degli eroi. Ma prima spettava agli Argonauti chiudere il loro anello. Ormai li circondava soltanto il mare.
Nulla si compie se prima non si sacrifica. Perciò gli Argonauti fecero precedere un sacrificio cruento al loro imbarco. Vennero condotti all’altare due buoi. Allora Eracle «con la sua clava colpì un bue in mezzo alla testa, sulla fronte, e l’animale stramazzò a terra». Dopo di lui Anceo abbatté la sua bipenne di bronzo sul collo dell’altro bue. Uccidere l’animale era un privilegio che spettava in primo luogo all’eroe che aveva più peso (così tanto che a un certo punto si temette che la nave Argo non reggesse a sostenerlo). Ed era l’atto che ha maggior peso.
Quando approdarono a un’isola abitata soltanto da donne avide di maschi stranieri, dopo che avevano ucciso tutti i loro mariti ed espulso tutti gli uomini da [97] Lemno, gli Argonauti non ebbero dubbi. Accettarono subito di rimanere sul posto e vivere «reclusi». La vocazione per le imprese gloriose non era imprescindibile, se per riscuotersi ebbero bisogno delle frecciate che venivano dal più improbabile maestro del sarcasmo: Eracle. Alla fine ripresero a navigare, di mala voglia. Nessuno quanto Giasone, che si congedò dalla sua amante Ipsipile con parole rivelatrici: «Per me è sufficiente vivere in patria, con il consenso di Pelia. Piaccia agli dèi liberarmi dalle imprese». Mai come in questa confessione ci si era avvicinati al segreto dell’eroe. Non solo di Giasone ma degli eroi in genere: il profondo desiderio di sgravarsi delle imprese che gli spettavano, questo onere escogitato dagli dèi, forse soltanto per il loro piacere. Congedandosi dall’amante, l’eroe ricorreva spesso a nobili menzogne. Non così Giasone: fu anzi quello il momento in cui disse con la massima sobrietà ciò che mai più avrebbe potuto dire. Ed era «commosso».
L’oscurità greca era smaltata, blu scura più che nera. Kyáneos la sua parola. E il colore era così significativo che le rocce cozzanti attraverso cui dovevano passare gli Argonauti venivano chiamate Kyáneai, le Blu. Kýanos è lo smalto blu che si trova già descritto per oggetti micenei. Blu scura è la chioma di Poseidone. O il peplo luttuoso di Demetra e di Teti. Platone spiega che per produrre il kyanoûn occorre mescolare al bianco e al nero il lamprón, il «lucente». Anche i piedi di un tavolo possono essere blu o una prua o le nuvole. E anche le sopracciglia di Zeus.
Fineo era un veggente cieco che aiutava gli Argonauti e dagli Argonauti veniva aiutato – o era un nemico degli Argonauti, che lo accecarono? La prima storia è raccontata da Apollonio Rodio, l’altra da Eschilo e Sofocle. Come scegliere? Occorreva trovare un modo per accettarle [98] entrambe. Il caso più difficile, nella storia degli eroi, riguarda i mostri. Ogni eroe deve uccidere un mostro. Anche Giasone, eroe riluttante, dovette uccidere l’immane drago, lungo quanto la nave Argo, che si avvolgeva alla quercia dove, sui rami più alti, era appeso il Vello d’Oro. Ma pochi osano ammettere che, a ogni eroe che uccide il mostro, corrisponde nell’ombra il mostro che uccide l’eroe. Un caso evidente fu offerto dallo stesso Giasone. In una kýlix di Duris, databile intorno al 480, si vede l’eroe che fuoriesce dalle fauci del drago. È un corpo integro, perfettamente abbandonato, come di un dormiente che viene rigurgitato. Atena osserva la scena, assorta. Giasone è nudo, non rivela tracce di ferite, anche se il drago lo stringe fra due file fittissime di denti, piccoli e acuminati. Il drago lo sta restituendo al mondo – e soltanto la dea può testimoniare la scena. Giasone rigurgitato dal drago appare solo nella kýlix di Duris. Quell’immagine è indispensabile per ricostruire la vita segreta di Giasone, là dove le parole non soccorrono.
Secondo gli scrupolosi calcoli di Hermann Fränkel, Medea doveva avere poco più di quindici anni, all’arrivo degli Argonauti. Da che cosa riconoscerla? Era evidente. Come sua sorella Circe, come tutte le figlie del Sole, «irraggiava lontano uno scintillio, come se emanasse uno splendore dorato».
L’impresa degli eroi non era che un pretesto: questo sognò Medea, subito dopo aver visto Giasone. Lo straniero era venuto per lei: «Le sembrò che, se lo straniero aveva accettato la prova, non era per desiderio di portar via il vello dell’ariete». Chi voleva portar via era lei stessa, come «sposa legittima». I cinquanta eroi, la nave che parla, l’ariete volante, le rocce che cozzano, le Arpie: tutto si dissolveva nel sogno di Medea. Sprofondato il mito, subentrava la mitomania amorosa. Sulla scena rimanevano solo due figure: lo straniero e Medea. Era già Racine.
[99] L’ariete dal Vello d’Oro aveva salvato dalla morte Frisso e Elle appena prima che venissero sacrificati. Aveva manifestato un prodigio inaudito per sottrarli a ogni insidia, trasportandoli in volo per centinaia di chilometri, quando nessun uomo era in grado di volare. Sospeso nell’aria, aveva detto parole di consolazione a Frisso quando la sorella era precipitata nel mare che divide l’Europa dall’Asia. Dopo tante imprese, appena atterrarono nella Colchide, paese remoto e ignoto, avrebbe potuto aspettarsi di essere venerato, come un dio egizio. Invece suggerì subito a Frisso che lo uccidesse, sacrificandolo. Colui che l’ariete aveva salvato dal sacrificio doveva diventare il suo sacrificatore. Non c’era modo di uscire dai gesti del sacrificio. Il re Eete si compiacque di accogliere la spoglia prodigiosa dell’ariete e concesse allo straniero Frisso sua figlia Calciope. Non c’era neppure bisogno di doni. Il dono era il Vello d’Oro.
Fra l’epos omerico e le Argonautiche di Apollonio Rodio avviene un rovesciamento divinatorio: nell’Iliade e nell’Odissea i rapaci che hanno ghermito le loro prede sono un segno favorevole e vittorioso. Nelle Argonautiche la «timida colomba» che si sottrae agli artigli del falco e cade in grembo a Giasone segnala la benevolenza degli dèi e il favore di Afrodite: gli Argonauti potranno salvarsi soltanto grazie all’aiuto di Medea. Ma, se lo sguardo si spinge oltre, il favore di Afrodite si rivela rovinoso. Il «dolce uccello» che ora è sfuggito al rapace un giorno ucciderà i suoi figli.
Giasone compie le imprese prescritte e non viene mai meno ai doveri dell’eroe, pur «non desiderandoli». Ma la conquista del Vello d’Oro non è suo merito. Apollonio Rodio fu esplicito: «Giasone portò il vello a Iolco grazie all’amore di Medea». È come se l’eroe fosse un fantoccio necessario, mosso da forze che gli sono esterne. Una volta compiute le sue imprese, dell’eroe [100] rimane una carcassa vuota. E nessuno sembrava avere la vocazione dell’eroe meno di Giasone. Giunto nel regno del feroce Eete, che uccideva sistematicamente gli stranieri appena si avvicinavano, Giasone provò a persuaderlo, con acconce parole, a cedere il Vello d’Oro appunto a un gruppo di stranieri. Illusione di retore. Ascoltando le sue parole, Eete si domandava se ucciderlo all’istante.
Gli Argonauti si accorsero presto di trovarsi su un terreno ominoso e ostile. Appena sbarcati, procedevano in una pianura che portava il nome di Circe. C’erano tamerici e salici, in cima ai quali erano «sospesi cadaveri attaccati con corde». Quei corpi corrosi dagli elementi, avvolti in pelli di bue, stavano sulla soglia di un regno sciamanico. Se considerato nella prospettiva di quei luoghi, dirà la principessa Calciope, sorella di Medea, «il desiderio della Grecia» non era che «funesta infatuazione». I suoi figli volevano tornare a Orcomeno, per rivendicare l’eredità di Atamante. Orcomeno? Dove sarà mai Orcomeno?
In certe occasioni gli dèi preferivano assumere il comando di ciò che accadeva, accantonando gli uomini come irrilevanti. Anche gli eroi, anzi soprattutto gli eroi, che erano per loro i più cari fra i viventi. La nave Argo si stava avvicinando a Scilla e Cariddi, sulla via tormentosa del ritorno. Già nel viaggio verso la Colchide gli Argonauti erano riusciti a passare attraverso le Rocce Blu, le rocce cozzanti. E questo soltanto grazie a Fineo, l’indovino che – per sua sventura – «non aveva scrupolo di rivelare agli uomini con precisione anche il sacro pensiero di Zeus». Ma ora si ripeteva l’ordalia. Per passare da un mondo all’altro bisogna insinuarsi fra rocce in perpetuo movimento, che schiacciano. O attraversare un ponte che è come la lama di un rasoio.
Questa volta gli dèi pensarono che non era più il caso [101] di sottomettere gli Argonauti alla prova. Il Vello d’Oro lo avevano già conquistato. Ora dovevano soltanto sopravvivere, tornare nei loro regni a finire i loro giorni. Al più, si sarebbero riuniti di nuovo per cacciare un prodigioso cinghiale. Non solo per necessità, ma per nostalgia.
Hera sapeva che non poteva agire da sola. Chiese aiuto a Teti, l’unico essere femminile di cui Zeus si era incapricciato invano. Al suo corpo aveva rinunciato perché gli era stato detto che il loro figlio sarebbe stato «migliore del padre». E Zeus intendeva regnare per sempre. Ma Hera non credeva che fosse l’unico motivo di quell’amore incompiuto. Pensava che Teti non avesse ceduto a Zeus anche per riguardo verso la sua consorte. Unica donna, unica dea che aveva avuto quel riguardo. Così Hera, che non aveva amiche, la considerava quasi un’amica.
E ora fra gli Argonauti che stavano per schiantarsi sulle rocce ruggenti c’era anche Peleo, il mortale a cui Teti, alla fine, aveva dovuto congiungersi. Nessun’altra poteva essere altrettanto d’aiuto. Perché Teti era anche il mare. Come in una confidenza fra complici, Hera chiese a Teti di sostituirsi agli Argonauti. Da soli non si sarebbero salvati. Teti annuì.
La videro affiorare dalle onde e salire a poppa della nave Argo. Come un adusto marinaio prese il timone, senza guardare gli Argonauti che la seguivano, attoniti. Ma la sua perizia non sarebbe bastata. Si videro allora su un fondo scuro e confuso, fra schiume e vapori, spuntare in agili drappelli giovani donne dalla pelle bianca, battuta dal vento. Si muovevano come se, invece che fra rocce e flutti, si trovassero su un prato. Erano le Nereidi. Giocavano. Da una sponda all’altra si gettavano la nave, carica degli eroi, come una palla. Ora la nave volava, più che navigare. In alto, come una macchia chiara fra le rocce, si riconosceva una figura maschile, ferma e assorta, appoggiata a un imponente martello: Efesto. Ma c’erano anche altri testimoni. Più in alto ancora, ormai nel cielo, si stagliava la reggitrice degli eventi: Hera stessa. E teneva Atena [102] stretta al petto, quella dea che non poteva considerare sua figlia, ma neppure una delle innumerevoli illegittime di cui Zeus aveva cosparso la terra. Gli occhi freddi e luminosi delle due dee erano fissi sulla scena. Anche loro non sapevano se l’azzardo sarebbe riuscito.
Oppresso da un «grande sgomento», Apollonio Rodio dovette riconoscere che «le malattie e le ferite non sono le uniche vie della morte». Si può uccidere anche soltanto con la mente, «da lontano».
Era venuto il momento di raccontare come Medea avesse abbattuto Talos, il gigante di bronzo, che scaraventava massi in mare per impedire agli Argonauti di attraccare a Creta. Fu allora che Medea decise di agire. Tenendola per mano, Giasone l’accompagnò sul ponte della nave. All’inizio la maga accostò al volto il suo peplo di porpora. Scoperti rimanevano gli occhi irraggianti. Mormorava parole che nessuno capiva. Si rivolse alle «agili cagne dell’Ade, che vagano ovunque dando la caccia ai viventi». Ma era solo l’inizio. Allora assunse «il pensiero malvagio» e diresse lo sguardo verso il gigante metallico che li guatava da terra. Gli occhi di Medea sprigionavano impalpabili «simulacri», eídōla, che andavano ad annidarsi nel corpo immane di Talos.
All’inizio nulla accadde. Regnava un denso silenzio. Poi Talos riprese a correre e gettare macigni nelle acque. Correndo, una pietra aguzza lo ferì vicino alla caviglia. Era il suo unico, minuscolo punto vulnerabile, il foro della cera persa. Da lì cominciò a scorrere un liquido che sembrava piombo fuso. Talos si abbatté come un castello di carte. Così quella notte gli Argonauti poterono sbarcare a Creta. Eressero subito un santuario per Atena Minoica. Appena toccavano terra, ovunque fossero, gli eroi si preoccupavano di celebrare un sacrificio o fondare un luogo sacro.
Ma, quando ripresero a navigare, tornarono con la mente a Medea, al suo «pensiero malvagio». Era una notte sinistra, di quel genere che i marinai chiamano [103] «sepolcrale». Era l’opaco invincibile. Non si vedevano la luna o le stelle, ma nemmeno c’era la nebbia. Gli Argonauti si domandavano se stessero navigando nell’Ade o sul mare. Il cielo si spalancava in un «nero caos». Giasone aveva le guance rigate di lacrime. Invocava Apollo – e continuò finché non vide profilarsi nella tenebra un arco d’oro.
Pelia era stato crudele, per tutta la vita. E anche la sua fine, da vecchio, rivelò una sovrabbondanza di ferocia e di perfidia. Tre delle sue figlie (Alcesti si astenne) lo uccisero a bastonate. Poi lo fecero a pezzi, che gettarono in un calderone bollente. Avrebbe dovuto uscirne integro. Discepole diligenti, applicavano la ricetta suggerita da Medea per restituire al padre la giovinezza. Ma Medea non partecipò alle operazioni. Disse che doveva pregare la Luna. Salì sugli spalti del palazzo e accese un fuoco. Era il segnale convenuto per Giasone e i suoi, che irruppero nel palazzo e se ne impadronirono, versando molto sangue.
Quando tornò a Iolco con il Vello d’Oro, Giasone si trovò in una situazione simile a quando era partito. Anzi, peggiore. La sua famiglia era stata sterminata. E Giasone continuava a essere l’erede legittimo che non riesce a farsi valere. Alla fine, si era disfatto di Pelia soltanto perché Medea aveva fatto agire le sue arti. Ma neppure allora diventò re. Era come se non volesse mai trarre vantaggio dalle sue vittorie. Nei dieci anni che avrebbe passato a Corinto con Medea e i figli, si accontentò di essere trattato come ospite illustre. Però privo di una funzione precisa. E il Vello d’Oro dov’era? Ancora una volta, nessuno lo ha detto.
Anche se, a detta di Omero, la storia degli Argonauti era «sulla bocca di tutti», i testi sopravvissuti che la rac [104] contano sono pieni di lacune e di omissioni. Né Pindaro, né Apollonio Rodio e neppure le scabre cronache di Apollodoro e Diodoro Siculo ci dicono perché fosse così importante conquistare il Vello d’Oro e perché i più gloriosi eroi greci avessero subito obbedito all’araldo che li convocava a Iolco e si fossero lanciati in quella impresa. E nulla si dice su ciò che avvenne del Vello d’Oro una volta riconquistato. L’unico uso a cui venne adibito, per quanto ci risulta, fu quello di morbida, luminosa coperta sul letto di Giasone e Medea durante la loro prima notte coniugale nell’antro dei Feaci. Fu una decisione presa per scaltrezza e necessità. Se Medea fosse rimasta vergine un giorno ancora, Alcinoo l’avrebbe consegnata al suo furioso padre Eete, perché la riconducesse nella Colchide. Ma anche in quella notte il Vello d’Oro non fu più che un ornamento.
Altrimenti, durante i quattro mesi del fortunoso ritorno, il Vello d’Oro rimase appeso a uno degli attrezzi sul ponte della nave Argo. Gli eroi non lo guardavano neppure. E, dopo che Argo riattraccò a Iolco, altri eventi funesti si succedettero, ma del Vello d’Oro ormai non si parlava più. Se era stato un talismano di sovranità, quella sovranità non venne più esercitata. Giasone non si oppose quando venne esiliato a Corinto, insieme a Medea. Finalmente non si trattava più di diventare re.
Ci fu un’epoca in cui il divino non si doveva soltanto riconoscere, ma scorreva in alcuni esseri. Erano i «figli degli dèi», nati perché Zeus – o Poseidone o Afrodite o Teti – si erano «mescolati nell’eros» con mortali, donne e uomini. Fu un’epoca breve e anomala. Durò poche generazioni e non era associata a un metallo, ma al sangue di quelli che furono chiamati eroi. Nome che Omero estendeva a tutti coloro, anche anonimi, che si battevano sotto le mura di Troia.
La mappa e albero genealogico di quell’epoca erano contenuti nel Catalogo delle donne, poema che nell’antichità veniva usualmente attribuito a Esiodo. Ne rimangono [105] solo schegge eloquenti. Gli esseri umani venivano spartiti in vari ceppi, ciascuno dei quali aveva all’origine una incursione erotica di Zeus. Mentre la fine era segnata dal ritorno dei guerrieri greci da Troia. Così si chiudeva il ciclo. Ciò che lo precedeva era una sequenza frastornante di convulsioni legate a nomi generici – Titani, Giganti, Centimani. Ciò che lo seguiva è la storia soltanto umana, dove sarà arduo trovare trame altrettanto dense di significati e di enigmi. E dove mancherà la rete che tiene insieme tutte le trame come quelle di un’unica famiglia, quanto mai ramificata. È quella rete che rende possibile il riverberarsi di ogni trama mitica in tutte le altre. Mentre le trame dei romanzi rimangono pur sempre isolate. Anche se le vicende dei potenti o degli amanti o degli sventurati hanno ogni volta qualche tratto comune. Ma la loro nobiltà sta nella solitudine dei casi singoli.
Se Zeus fosse stato soltanto giusto, non vi sarebbe mai stata commistione con il divino. Suo padre, Crono, non aveva potuto essere giusto perché ai suoi tempi quella parola neppure esisteva. Allora un dio poteva essere soltanto esatto. Quella era la sua virtù suprema. Perciò non si parla mai della giustizia di Crono. Si parla invece della giustizia di Zeus, che incessantemente la violava. Zeus si arrogò il privilegio dell’arbitrio. Isolava una donna, la aggirava, spesso con l’inganno, la invadeva. Con quegli arbìtri sommati si costruiva, a poco a poco, la storia degli uomini. Così sarebbero finalmente riusciti a sfuggire alla rigida e anonima ripetizione della natura. E intanto si manifestava una stirpe altamente ambigua, quella degli eroi. Per ascendenza, gli eroi partecipano del divino, quindi sono portati ad appropriarsi di un qualche scampolo di quell’arbitrio. Ma non sanno mai con certezza se l’arbitrio che praticano appartiene al divino o all’altra parte della loro ascendenza, che è umana. Allora il segno del loro privilegio diventerebbe una semplice violazione dell’ordine – e si attirerebbe una pena. Questa è la perplessità invincibile degli eroi.
[106] La passione di Zeus era il visibile, l’esistenza di profili nella luce. Quello era stato il prodigio che gli orfici attribuivano a Fanes. Ora, una volta giunto a regnare, Zeus tentava di ripeterlo. Una immensa luce radiante – e bagnati dalla luce innumerevoli corpi, cose. Un’aurea catena li teneva legati, ma era quasi una difesa perché le figure non straripassero, erratiche. Zeus sorvegliava le misure. Non era stato però lui a fissarle. La misura apparteneva al regno del padre, a Crono. L’attenzione di Zeus amava fissarsi su altro: sulla metamorfosi, sulla capacità delle forme di vivere molte vite, rapide e fluide. Sulla terra le figure apparivano e sparivano come folgorazioni. Obbedivano a uno slancio, attraversavano l’inganno. Cercavano soltanto ciò che appare – e di esso si saziavano. Anche gli dèi cercavano soltanto ciò che appare. Chiedevano alle figure terrestri di esistere, ancor più che di venerarli. Qualche fumo di sacrificio era sufficiente. Mentre nulla era loro inviso come ciò che sfugge alla gloria dell’apparire. Perché gli uomini lo capissero, spesso gli Olimpi si mostravano sulla terra e sul mare. Così gli uomini sapevano che cosa può essere lo splendore. Così anche gli uomini che vissero in quegli anni furono conquistati dal visibile, di cui facevano parte occasionalmente anche gli dèi. Per gli eroi, questa sembrò una vita desiderabile: fulgente, intensa, breve, come un duello. Una vita che schiumava di forza – e spesso cadeva nell’ebbrezza della forza. Ma appena la vita finiva e il soffio ultimo usciva dalle narici, cominciava una lunghissima e monotona infelicità. Non c’erano il buio e l’incoscienza, ma un fioco bagliore, che faceva male agli occhi, e una vasta spossatezza attraversata da ricordi di un’altra vita, della vita nella luce. Era uno stato simile a quello di chi è esausto e non può dormire. In quell’ombra larvale bramavano tutti una sola cosa: il sangue. E questa avidità ovunque diffusa apparentava le ombre a un branco di bestie pronte a sbranarsi. Se le ombre non si gettavano sulle altre ombre era solo perché non vi avrebbero trovato sangue.
[107] Secondo Esiodo gli uomini sono esseri decaduti, anche se in origine appartengono allo stesso ceppo degli dèi. Sulla loro caduta si danno due storie – una brusca e connessa a un singolo atto, l’altra diffusa nel tempo. Nella prima versione, Prometeo ruba il fuoco dall’Olimpo e Zeus gli risponde donando Pandora agli uomini. La caduta che ne consegue è immediata e irreparabile.
Nell’altra versione, che Esiodo chiama lógos, «discorso» (ed è «la prima occorrenza della parola al singolare» osservò M.L. West), ma altrettanto è myˆthos, a dispetto dei moderni, che vogliono tenere ben lontani i due termini, l’uomo decade attraverso una successione di età. Non è però una caduta graduale e lineare, come un giorno invece si immaginerà, in direzione opposta, il progresso. Anzi, è un percorso capriccioso, tortuoso e frastagliato. Non sempre prevale il deterioramento. Al contrario, l’età degli eroi, che precede l’età del ferro, «è più giusta e migliore» rispetto alla truce età del bronzo. Per la prima volta appaiono i nomi e le storie. Non basta essere un guerriero per avere un nome. Tali erano gli uomini dell’età del bronzo, ma finirono «anonimi nel gelido Ade». Nel male e nel bene, solo con l’età degli eroi si disegnano i precedenti di tutti i gesti. È un’epoca breve e fremente, a cui Zeus decise di mettere fine scrutando gli uomini che si battevano sotto le mura di Tebe e quelle di Troia – e più di una volta si dava il caso che fossero suoi figli e discendenti.
La successione esiodea delle età del mondo ha paralleli indiani, iranici, mesopotamici, ebraici. Ogni suo elemento trova un corrispettivo in altri luoghi. Eccetto uno: non si riscontra alcun equivalente dell’età degli eroi, la quarta età, quella che precede la tormentosa età del ferro, a cui Esiodo stesso appartiene.
Quanto alla letteratura degli inizi, che si tratti dei poemi e degli inni omerici o del Catalogo delle donne e della Teogonia esiodei, dovrà parlare o degli dèi o di un’età inabissata. [108] La sola eccezione è in una parte di Opere e giorni, dove Esiodo racconta la dura esistenza di chi lavora la terra. Esseri oscuri, condannati a ripetere sempre gli stessi gesti.
Gli eroi stentavano a districarsi dalle loro origini animali. Il centauro Chirone fu il maestro di Achille, ma venne ucciso da Eracle. E Eracle stesso finì torturato e indotto a uccidersi dalla tunica intrisa dello sperma, dell’olio e del sangue di un altro Centauro, Nesso, da lui ucciso per difendere una donna, Deianira, che aveva conquistato strappandola a un fiume metamorfosato in toro. Sofocle precisa che una stessa freccia aveva ucciso Chirone e Nesso, come se Eracle riservasse quell’arma per lo sterminio di una razza da cui gli eroi avevano imparato molti segreti. Appena separati dagli animali, prossimi agli dèi, presto estinti – così passarono gli eroi.
Le imprese degli eroi erano esercizi di astuzia e di forza. Ma potevano essere astuzia e forza vane, se non interveniva l’aiuto femminile. Teseo fu il primo a capirlo. Eracle ancora era troppo rudimentale, subiva le donne invece di usarle. Teseo invece sapeva, fin dall’inizio, fin da quando scese su Atene per la via dell’istmo, che gli incontri femminili stanno sulla soglia delle difficoltà ultime, quelle dove non bastano né l’astuzia né la forza. La donna appartiene al nemico, ma se l’eroe riesce a farle tradire la sua parte, la sua patria, il nemico si accascia, come il corpo del Minotauro squarciato dalla spada.
Ricorre spesso nelle Leggi di Platone, per bocca del vecchio Ateniese, la formula «dèi e figli degli dèi». Le danze onorano «gli dèi e i figli degli dèi»; certe forme di vita sono attuabili soltanto da loro. Perché quella insistenza? I «figli degli dèi» sono gli eroi, esseri che appartengono a un’età scomparsa. Ma a loro è dedicato uno [109] speciale culto. Platone non si stanca di ripetere che tutti i culti dovranno essere mantenuti e celebrati nella città che sta disegnando. Quella parte del divino che si era mescolata con donne mortali per far nascere gli eroi è una parte indelebile, acquisita per sempre alla vita.
Come in molti altri casi, e a dispetto dei glottologi, il punto di partenza più giusto, per quanto riguarda gli eroi, fu stabilito da Platone nel Cratilo, dove si legge che herōs deriva da érōs, perché gli eroi «sono nati o da un dio innamorato di una mortale o da un mortale innamorato di una dea». Quindi l’eroe si distingueva perché testimone di un periodo dove era stata particolarmente intensa l’attrazione reciproca fra il divino e l’umano. Breve periodo, che si chiuse nel giro di tre generazioni, il tempo che passò fra l’impresa degli Argonauti e il ritorno di Odisseo a Itaca.
Nessun ritorno da Troia durò più a lungo di quello di Odisseo. E Odisseo si era spinto più in là di tutti gli altri eroi con le armi della mente. Sarebbe stato lui a sigillare l’epoca. E si potrebbe pensare che l’uccisione dei Proci ne fosse la scena finale. Ma i poeti del ciclo epico tenevano in serbo qualche sorpresa.
Telegono era il figlio di una figlia del Sole e dell’ultimo eroe. Figlio di Circe e di Odisseo. Non aveva mai visto il padre. Per anni vide accanto a sé soltanto una donna – la madre – e leoni, orsi e lupi che vagavano attorno alla loro dimora. Ovunque guardasse, il mare. Ma era impaziente di partire. Voleva trovare il padre. Anche la madre lo voleva: «Circe mandò Telegono, il figlio che aveva avuto da Odisseo, alla ricerca del padre». Quando Telegono si congedò, Circe gli mise in mano una strana arma dalla punta ritorta. Era una lancia che aveva come punta l’aculeo di una razza. Un’arma come nessun’altra al mondo, disse Circe. L’aveva forgiata Efesto. E solo Telegono avrebbe potuto usarla. Il giovane figlio partì dall’isola. Non aveva un nome, era Colui-che-è-nato-lontano. Vagò a lungo.
[110] Su che cosa accadde a Itaca si hanno versioni diverse. Secondo alcuni, Telegono venne scaraventato dalle onde sull’isola e cominciò a devastarla. Odisseo gli si parò incontro per fermarlo. Si batterono e l’aculeo della razza penetrò nel fianco di Odisseo, uccidendolo. Secondo altri, Odisseo era stato avvertito dall’oracolo di Dodona che sarebbe stato ucciso da suo figlio. Per questo aveva allontanato Telemaco, prigioniero a Cefalonia. Un giorno sentì un vociare, fuori dal palazzo. Un giovane voleva entrare per vedere suo padre, diceva – e non lo lasciavano passare. Odisseo pensò che fosse Telemaco. Forse era tornato per ucciderlo. Uscì armato. Ma la sua lancia si conficcò nel tronco di un melo. Mentre l’aculeo della razza, sulla punta della lancia di Telegono, gli penetrò nel fianco e lo uccise. Quando Telegono capì che cosa era successo, si disperò. Disse a Telemaco che dovevano dare degna sepoltura al padre. Ma dove? Nell’isola di una donna divina. «Nell’isola di mia madre» disse Telegono.
Fu uno strano viaggio, quello di Telegono, quando tornò dalla madre Circe accompagnato da Penelope e Telemaco. Nella nave ospitavano anche il cadavere di Odisseo. Avevano confabulato a lungo prima di decidere che il luogo giusto per seppellirlo non era Itaca, dove Odisseo era nato e dove era tornato, ma l’isola della maga che voleva sequestrarlo per sempre. Come ora sarebbe avvenuto. La navigazione fu lunga e incerta, perché l’isola di Circe non si trova sulle mappe. Per arrivarci, occorre l’aiuto di un dio. Ma Atena era presente. Accompagnava Odisseo anche nella morte. I tre passeggeri ebbero tempo per studiarsi. E parlavano di un solo argomento: Odisseo. Penelope si sorprendeva sempre più spesso a osservare, con intenzione, il giovane che aveva ucciso suo marito. E non era ovvio perché Telemaco avesse subito assecondato Telegono nel sostenere che l’isola di Circe sarebbe stata la soluzione più adatta per la tomba del padre. Forse perché era un buon pretesto, e forse l’unico possibile, per incontrare la figlia del Sole.
[111] Finalmente i tre naviganti sbarcarono nell’isola di Eea. Circe vide Penelope, di cui molto aveva sentito parlare; e Penelope vide Circe, di cui molto aveva sentito parlare. Seppellirono nell’isola deserta colui che era stato loro marito, padre, amante. Poi si guardarono. Non sapevano che fare delle loro vite. Allora Atena intervenne. Disse che Telegono avrebbe dovuto sposare Penelope e Telemaco avrebbe dovuto unirsi con Circe. «Da Circe e Telemaco nacque Latino, dal quale prese il nome la lingua latina, mentre da Penelope e Telegono nacque Italo, che diede il suo nome all’Italia».
Ancora una volta, l’intelligenza di Atena aveva trovato la via che per chiunque altro sarebbe stata preclusa. Troppo audace, troppo inusuale. Atena sapeva che incombevano gli ultimi momenti dell’età degli eroi, occorreva concluderla con un atto che avesse tutta la potenza di ciò che lo aveva preceduto – e fosse qualcosa di unico e irripetibile, come gli eroi stessi.
Volle che Penelope, dopo aver temuto per anni che uno dei Proci uccidesse Odisseo, sposasse colui che veramente lo aveva ucciso. Volle che il figlio di Penelope si unisse alla donna che aveva tenacemente impedito a Odisseo di tornare dalla sua sposa. Volle che l’amante divina si unisse con il figlio che l’amato aveva avuto da un’altra donna. Tutto doveva rimanere in famiglia. Erano gli ultimi spasimi dell’età degli eroi. Atena volle chiudere Penelope, Telemaco e Telegono nell’isola di Circe come insetti nell’ambra.
Il mondo esterno? Indifferente. Coloro che sarebbero venuti dopo erano innanzitutto estranei. Appartenevano a un’altra storia; anzi, a un’altra èra, da cui le vicende di Odisseo erano separate come da una barriera impercettibile. E al tempo stesso quella nuova storia discendeva legittimamente dall’età degli eroi – anche se si trattava di legittimità paradossale e revocabile in dubbio, come ogni legittimità.
Latino, Italo: le loro figure presto si appannarono. Si confusero con quelle di certi luoghi: il Lazio, Roma, l’Italia. I luoghi dove più si sarebbe scritto intorno agli eroi. [112] E lì si leggeva l’Odissea, ma non vi si trovava menzione di Telegono. Solo i poeti dotti lo ricordavano. Ovidio, nella desolazione dell’esilio, chiamava i suoi tre libri erotici «i suoi Telegoni», perché avevano ucciso il loro padre. Se l’Italia avesse guardato alle sue origini, avrebbe trovato Circe e Penelope. Ma le dimenticò. Romolo non poteva discendere da un uomo che aveva ucciso il padre e sposato la matrigna. Occorrevano il pio Enea, la voce di Virgilio e la discendenza da Afrodite. Ma Atena aveva già agito e lasciato il segno, spostando il baricentro delle storie dalla Grecia a un’altra penisola: l’Italia. Dalla terra prediletta dagli Olimpi si passava alla terra dei giureconsulti e dei legionari.
La pelle del Cinghiale Calidonio finì appesa nel tempio di Atena a Tegea. Pausania poté ancora vederla nel secondo secolo d.C. Era una spoglia consunta, «che il tempo aveva raggrinzito e lasciato senza una sola setola». Quanto alle zanne, erano diventate parte del bottino di Augusto, dopo la vittoria su Antonio, insieme alla statua di Atena in avorio. Una delle zanne era rotta, aggiunge Pausania, mentre «quella superstite è conservata nei giardini dell’imperatore in un santuario di Dioniso, di là dal Tevere, e misura tre piedi».
Pausania non fu colpito né sorpreso, quando vide la pelle del Cinghiale Calidonio. Anche così potevano finire gli animali favolosi. Lo impressionò, invece, il tempio di Atena, «di gran lunga il primo di tutti i templi del Peloponneso, per dimensioni e architettura». Aveva colonne doriche, ioniche, corinzie, come in un compendio dell’arte greca. E il suo architetto era un sommo scultore: Scopas di Paros. Sul frontone si riconoscevano gli eroi della caccia al Cinghiale Calidonio. Anche Anceo, già ferito, che brandiva un’ascia. E, primi fra tutti, Atalanta e Meleagro. Il Cinghiale Calidonio veniva celebrato nella terra di colei che era stata la prima a colpirlo. Era come se la storia più remota e l’arte giunta al suo culmine si fossero riunite in uno stesso luogo. Nel tempio Pausania [113] vide anche una statua della Madre Dindymene «con il volto non d’avorio ma scolpito in denti di ippopotamo».
Del trafugamento del Palladio da Troia circolarono subito versioni contrastanti. Sembra che Odisseo, camuffato da mendicante e accompagnato da Diomede, si sia introdotto a Troia attraverso un cunicolo. Entrato nel palazzo di Priamo, Elena riconobbe in lui uno dei suoi corteggiatori di Sparta. Ma non lo tradì. E neppure Ecuba, che lo vide. Anzi, Elena guidò i due Achei al tempio di Atena. Era il giorno della festa della statua e nella confusione Odisseo poté impadronirsi del Palladio. Ma era il Palladio vero – o la copia? O una delle molte copie? Il Palladio vero era il più piccolo, una statuetta lignea che si poteva tenere in mano. La copia eccita la rissa. Già davanti a Elena, Odisseo e Diomede si disputavano il Palladio. Elena riuscì ad acquietarli per il momento, il suo solo pensiero era di farli sparire senza essere scoperta. Nella notte, tornando verso il campo acheo, Odisseo e Diomede ricominciarono a disputare. Diomede stringeva in mano il Palladio e sosteneva che fosse una copia. Fino a oggi la disputa non si è risolta.
Un talismano abbandonato – il Vello d’Oro; le spoglie scabre e mutilate di un animale prodigioso, esposte come un trofeo di caccia o un ex voto in un tempio di Tegea – il Cinghiale Calidonio; una statuetta della quale nessuno poteva dire se era l’originale o una copia – il Palladio. Così si chiude l’età degli eroi. Là dove si concentrava, la potenza si è dileguata. Ora si insinuerà altrove, in altre forme, clandestina e contraffatta.
Gli Argonauti, la caccia al Cinghiale Calidonio, la guerra di Troia, il ritorno di Odisseo: sono cicli inanellati. Tutto si svolge in poco più di mezzo secolo. Nestore, il vegliardo che Telemaco incontra a Pilo, era «nel fiore degli anni» al tempo della caccia al Cinghiale Calidonio. E aveva combattuto a Troia. Il padre di Achille [114] era uno degli Argonauti, che Achille bambino aveva visto salpare da Iolco. Giasone guida gli Argonauti e partecipa anche alla caccia al Cinghiale Calidonio. Gli Argonauti passano da Scilla e Cariddi, ma così anche Odisseo. I prodigi abbondano, soprattutto all’inizio e alla fine.
In quei pochi decenni, nella breve età degli eroi, la storia si contrasse per offrire materia da cantare, da narrare, da variare. Poi Zeus volle chiudere la partita. Sarebbero rimaste le guerre e i romanzi. E il ricordo di quei pochi anni in cui era accaduto tutto ciò che può accadere, soltanto un po’ più fulgente di prima e di dopo.