[401] Quando Atene era appena diventata Atene, si batté in guerra con un’altra città, che sorgeva a circa venti chilometri: Eleusi. Atene era un regno ed Eleusi era un regno, troppo vicini per non urtarsi. Fu una guerra – si usa dire – mitica, perché non ha data. E fu una guerra teologica, perché Atene apparteneva a Atena e Eleusi a Poseidone. Eumolpo e Eretteo, i re fondatori delle due città, vi morirono entrambi. Ancora ai tempi di Pausania, sull’Acropoli, vicino al tempio di Atena Polias, si vedevano una piccola statua dell’ancella di Lisimache, sacerdotessa della dea per sessantaquattro anni, e accanto due grandi statue bronzee di guerrieri che si fronteggiavano: Eretteo e Eumolpo. Secondo alcuni, Eretteo uccise Eumolpo e poi venne trafitto dal tridente di Poseidone.

Euripide scrisse l’Eretteo, di cui rimangono pochi frammenti, mentre in Atene si preparavano i lavori per «l’edificio che avrebbe riunito in unità rituale la venerabile statua di Atena Polias e l’altare comune di Poseidone e di Eretteo». Il dio uccisore e il re ucciso vi erano adorati insieme, secondo le prescrizioni di Atena: «In memoria del suo uccisore, Eretteo prenderà il nome [402] dell’augusto Poseidone, quando i cittadini gli sacrificheranno buoi». Anche questo legava Eleusi a Atene. Quel luogo si visita tuttora e viene chiamato Eretteo.

 

 

Eumolpo, il bel cantore dai riccioli fluenti, l’uomo del cigno bianco, capostipite degli ierofanti di Eleusi, ebbe vita travagliata fin dall’inizio. Figlio di «nozze illegittime» di Poseidone, la madre – la nivea Chione – lo gettò subito in mare, restituendolo al genitore. Che lo salvò, trasportandolo dalla Tracia in Etiopia, dove lo affidò a un’altra sua figlia, Bentesichime. Poi Eumolpo dovette fuggire dall’Etiopia, perché aveva violentato la sorella della moglie. Tornò in Tracia e ne divenne re. Il padre gli impose di scendere con un esercito contro Atene, che lo aveva offeso. Così la disputa fra l’ulivo di Atena e il tridente di Poseidone, che era stata una lite fra dèi, si trasformò in una guerra senza tregua fra uomini. A Eretteo, re di Atene, venne annunciato dall’oracolo di Delfi che, se voleva salvare la sua città, avrebbe dovuto immolare una delle sue figlie. Con ogni pretesto, Eretteo tentò di sottrarsi. Pensò anche di sacrificare un figlio adottivo. Ma la moglie Prassitea non gli concedeva dubbi e argomentò come una tecnica della ragion di Stato: «Quanto a me, offrirò mia figlia perché sia uccisa. E per molte ragioni … Unico è il nome della città intera, ma è abitata da molti. Dovrei lasciare che muoiano, se al posto di tutti posso far morire una sola? … Questa figlia, che è mia soltanto per natura, la sacrificherò per la nostra terra». Così Ctonia venne immolata. Subito dopo, due sue sorelle (Procri allora pare fosse a Creta) si gettarono dalle mura dell’Acropoli. Avevano stretto un patto per suicidarsi insieme. Questo sarebbe rimasto come parte della storia fra Atene e Eleusi. Demetra rivelò i Misteri a Eumolpo, che fu il loro fondatore.

 

 

Come spesso accade nella materia mitica, Eumolpo non visse una sola vita. Fu figlio di Poseidone, ma anche [403] di Museo, incerta controfigura di Orfeo. In quanto figlio di Museo, Eumolpo compose le Bacchiche, opera di cui rimane soltanto il titolo, che corrisponde perfettamente, all’altro capo del tempo, a quello dell’ultima opera esoterica della paganità: le Dionisiache di Nonno.

Ma sulla doppia discendenza di Eumolpo trapelava un senso di sconcerto. Come scrisse Johannes Toepffer nella Attische Genealogie: «Che uno straniero, uno xénos della stirpe dei selvaggi barbari del Nord non potesse essere il fondatore del più sacro servizio divino dei Greci apparve già altrettanto chiaro ai seguaci della devozione misterica eleusina nel periodo della sua fioritura quanto agli odierni studiosi di mitologia». Eppure ciò che risulta tardivo, sovrapposto ed eufemistico è piuttosto la discendenza di Eumolpo da Museo.

 

 

Per non pochi storici è stato facile gioco liquidare come leggendaria la guerra fra Atene e Eleusi. Ma Creuzer li aveva confutati in anticipo con una semplice frase: «Qualcosa di storico è sicuramente alla base di questa guerra, altrimenti Tucidide non l’avrebbe ricordata». Dopo un sacrificio umano e la morte dei due condottieri nemici, Eleusi e Atene «conclusero la guerra in questi termini: che gli Eleusini fossero soggetti agli Ateniesi in tutto, eccetto per i Misteri, che avrebbero continuato a compiere per conto loro [idía]». Ídion, lo stesso termine che sarebbe stato usato un giorno per accusare Alcibiade di celebrare i Misteri «in privato», serviva anche per definire lo statuto stesso dei Misteri: del tutto indipendenti, disancorati da qualsiasi società, extraterritoriali per costituzione.

 

 

Supremi sacerdoti di Eleusi, gli Eumolpidi perdevano il loro nome nel momento in cui diventavano ierofanti. E il nome si immergeva nei flutti posidonici da cui il loro progenitore era stato salvato. Su una pietra di Eleusi si leggeva questa iscrizione dello ierofante Apollonio: [404] «Non chiedere il mio nome, chi io sia. La legge / dei Misteri lo ha sospinto verso il mare purpureo». Testimonia Filostrato che Apollonio venne sepolto sulla via verso Eleusi, «in quel sobborgo che viene chiamato Sacro Fico e, quando gli oggetti sacri di Eleusi vengono portati in corteo verso la città, lì fanno sosta».

Prima di quella Eleusi che oggi si visita, in una baia punteggiata da raffinerie di petrolio, un’altra Eleusi era esistita. E anche un’altra Atene. Entrambe erano state sommerse dalle acque del lago Copais, secondo Pausania. Strabone aggiunge: «Queste città, si dice, furono fondate da Cecrope, quando regnò sulla Beozia, che allora si chiamava Ogigia». Ma Ogigia è un aggettivo, riconobbe Wilamowitz, e significa «Primordiale». È il nome dell’isola di Calipso e di tutto ciò che nel mondo appartiene a qualcosa che lo precede. Ogigia è l’ombra della storia – e quell’ombra si era inabissata sotto le acque di un lago che non somigliava a nessun altro. Lago mobile, frastagliato, che ogni anno inondava le regioni vicine e cambiava forma. Frazer, che ebbe modo di osservare, incantato, il paesaggio intorno al lago Copais quando ancora non erano conclusi i lavori per prosciugarlo e gli dedicò una dettagliatissima nota – per lui l’equivalente di un inno –, si soffermò a lungo sulla peculiarità di quei luoghi costantemente mutevoli: «Così ben riconoscibili erano le vicissitudini delle stagioni che certi luoghi sulle rive del lago, come Orcomeno, Lebadeia e Cope, avevano strade per l’estate e strade per l’inverno attraverso cui comunicavano, quelle invernali lungo i declivi delle colline, quelle estive lungo la pianura». E la visione mutava totalmente. D’autunno e fino a marzo, «visto da un’altezza pari a quella dell’acropoli di Orcomeno, il lago appariva come una immensa palude di un vivido color verde, che si estendeva per miglia e miglia, fra canne e giunchi». Invece in piena estate affioravano isole e finivano per congiungersi. Sui bordi abbandonati [405] dalle acque crescevano granturco, riso, cotone. E nelle parti più basse pascolavano armenti. Sotto il lago e intorno al lago, la terra era forata da innumerevoli crepacci, passaggi sotterranei, caverne, detti katavothres. Quarantuno erano segnati sulle mappe. Oggi il lago Copais non esiste più. Attraversando la regione sulla Ethnikì Odòs, si ha un’impressione lievemente allucinatoria, come se si stesse per entrare in un mondo parallelo, sconnesso da tutto. È la traccia dello svanito paesaggio dei primordi.

 

 

I discendenti di Eumolpo «formularono la loro esegesi» sulla base delle leggi non scritte. Compito altissimo, avvolto nel silenzio, avvertibile soltanto grazie a testimonianze occasionali, come quella dello Pseudo-Lisia, che ricorda quando Pericle volle applicare leggi non scritte – oltre a quelle scritte – contro chiunque avesse commesso empietà.

Le «leggi non scritte», ágraphoi nómoi, sono l’unica legge inattaccabile perché invisibile. Altrimenti ogni nómos soffre per la ferita di essere nómō, quindi stabilito per convenzione e accordo collettivo, ma anche revocabile e abrogabile per convenzione e accordo collettivo. Mentre gli ágraphoi nómoi sono «leggi che nessuno mai ha avuto il potere di abrogare né osato contraddire e che non si sa da chi siano state stabilite». Qui non si parla di leggi naturali e neppure divine (anche se soltanto le leggi non scritte permettono di «pagare il fio [díkēn didónai] non solo agli uomini ma agli dèi»). Lo Pseudo-Lisia vuole soltanto precisare che si tratta di leggi di origine ignota, leggi di cui la storia non è in grado di rendere conto.

Non è evidente perché le «leggi non scritte» non dovessero esserlo. Quale danno ne sarebbe risultato? E perché quelle leggi dovevano essere affidate agli Eumolpidi – e a nessun altro? Al pari dei Misteri, le leggi non scritte avrebbero potuto rivelarsi in altro modo. Invece che su una parola, si fondavano su un páthos, una «commozione». Le leggi non scritte non si opponevano alle leggi [406] scritte come una parola nascosta a una parola esposta, ma come un riconoscimento primordiale a un precetto.

 

 

Eleusi segnò la crisi più grave nella vita degli Olimpi, dall’instaurazione del regno di Zeus sino alla sua profetata esautorazione per opera di un «figlio più forte del padre», che poi non fu Apollo né Dioniso, ma Gesù. E l’origine della crisi era dovuta alle incursioni amorose dei tre fratelli sovrani – Zeus, Poseidone, Ade – fra le donne della terra. Materia di enorme conseguenza, non solo vaudeville. La coazione divina ad avventurarsi sulla terra, pungolati da Eros, era inclusa nell’ordine cosmico, ma poteva anche lederlo. Per Zeus e Poseidone le discese (o ascese) sulla terra, occasionate da una donna, erano innumerevoli. Ma per entrambi le donne andavano cercate nei loro luoghi: sotto un albero, in uno stagno o addirittura nel loro letto. Zeus riuscì a raggiungere Danae anche se imprigionata. Ade invece apparve una volta sola. Sollevò da terra una fanciulla e da quel momento mise in pericolo la terra intera. E non era una fanciulla, ma la fanciulla, Core, che non può avere altro nome perché è «la fanciulla indicibile». Fu quello il modo scelto dall’irreversibile per lanciare la sua sfida agli Olimpi – e quindi agli uomini. Se Core scompariva, era implicito che tutto scomparisse. Fu questo il motivo della rivolta di Demetra. Accettare che Core fosse accolta nell’invisibile, una volta per sempre, significava accettare che gli dèi stessi scomparissero. Demetra invece esigeva di tornare a «vedere con gli occhi» la figlia. Se i Dodici non erano riusciti a ottenerlo, Demetra avrebbe provveduto con la sua secessione a obbligarli. Fu quello il più duro atto d’accusa che uno degli Olimpi abbia rivolto al cielo, «per l’agire / intollerabile degli dèi beati». Gli uomini ne parteciparono di conseguenza, come sempre, minacciati di estinzione per un dissidio che era sorto fra i celesti. Dissidio che sulla terra si stentava a decifrare. Ma gli uomini sapevano che i doni degli dèi erano anche un giogo. Con questo [407] pensiero si avvicinarono a Eleusi. Occorreva trovare una formula – e una forma – che permettesse di coprire la spaccatura aperta dalla scomparsa di Core. Quella formula e quella forma furono i Misteri, necessari per gli dèi non meno che per gli uomini.

 

 

Per chi conosceva le storie degli dèi, presupposto di Eleusi non era una delle tante avventure di Zeus, ma la più scandalosa fra tutte, per un triplice motivo, come volle precisare l’imperatore Giuliano: «Zeus si congiunse con sua madre e, dopo averne avuto una figlia, sposò la figlia, o per meglio dire non la sposò ma si congiunse con lei, quindi la consegnò semplicemente a un altro». E quell’altro era suo fratello Ade, zio di Persefone, sovrano dei morti.

Precedente al patto fra Demetra e gli uomini, ben più grave, ben più radicale, era stato quello fra Zeus e Ade. L’«accorto» Zeus (mētíeta, provvisto della Metis che aveva inghiottito) cedette la figlia Persefone al fratello Ade, tacendo l’accordo alla madre Demetra. Perché questo avvenne? Zeus sapeva che, dopo tutto, aveva battuto Ade ai dadi. La sua supremazia era aleatoria come il gioco. E, fra gli dèi, come poi fra gli uomini, il gioco supremo è quello che avviene fra la presenza e l’assenza. La morte era una parte – anche se solo una parte – di quel gioco. Zeus sapeva che avrebbe dovuto accettare un compromesso. Lo fece in silenzio, verso tutti. Fu questo che Demetra ritenne oltraggioso e insanabile. Zeus aveva ceduto sua figlia di nascosto. E l’aveva ceduta a suo fratello. Soltanto Helios, che tutto vede, poteva testimoniarlo.

Ma perché Zeus volle accordarsi con Ade? Non fu un gioco, questa volta, ma una necessità. Core significa «pupilla» – e la pupilla è l’unico punto del corpo che ospita in sé il riflesso. Ma, dove c’è il riflesso, c’è anche uno sguardo che guarda se stesso. Non c’è vita, per gli uomini, senza quello sguardo. E al tempo stesso è quello [408] sguardo a rivelare il predominio inscalfibile dell’assenza sulla presenza.

Il guardare è l’unico processo fisiologico scindibile senza termine: in chi guarda c’è anche colui che guarda se stesso mentre guarda. E questi può essere guardato da un ulteriore altro. Ma chi è allora il soggetto: chi guarda o colui che guarda chi guarda? Quest’ultimo, si direbbe, perché ingloba chi guarda. Ma chi guarda siamo noi. Allora chi guarda lo sguardo diventa un altro rispetto a noi, che però abita in noi. Da lui noi dipendiamo. Ma con lui non possiamo confonderci, perché nel momento in cui diventiamo quell’altro, subito si forma uno sguardo che ci guarda diventare quell’altro. Il processo può ricominciare, all’infinito. Ciò che ci governa mentre guardiamo è ciò che per sempre ci sfugge. Ma è anche ciò che per sempre ci accompagna. Noi possiamo oscurarlo, ignorarlo. Ma, se l’attenzione appena si fissa, eccolo apparire di nuovo, a coglierci, come Ade colse Core. Ma dov’è quell’essere che guarda chi guarda, quando noi non lo avvertiamo, quindi per una larga parte della nostra vita? È assente o presente? E dove? È l’assenza stessa, ma – quando appare – è una presenza che rapisce ogni altra presenza.

 

 

Con Ade che rapisce Core riaffiora la figura del Nemico assoluto: il predatore, che gli uomini ormai avevano ricacciato nell’ombra, ma soltanto perché erano riusciti a imitarlo così bene da occuparne il posto nella «machina rerum», nel «congegno delle cose». Claudiano descrive il sovrano dei morti non più come un vigoroso e lussurioso rapitore, ma come un leone che ha addentato una giovenca e ne ha «lacerato con le unghie le interiora, infuriando su tutte le membra». Poi il leone «si erge macchiato da grumi di sangue e scuote la criniera aggrovigliata e spregia la flebile rabbia dei pastori». Qui si imprime il marchio dell’irreversibile. E Core, nel momento in cui viene rapita, fa in tempo a evocare le altre numerose che l’hanno preceduta, chiamandole «fortunate»: [409] «O fortunatas alii quascumque tulere / raptores! saltem communi sole fruuntur», «O fortunate coloro che altri rapitori si presero! / almeno godono della comune luce del sole». Soltanto attraverso Eros ci si avvicina alla spaccatura dell’irreversibile. Allora sarà in gioco l’intera costituzione dell’esistenza.

 

 

Persefone non disse mai una parola contro il suo rapitore, una volta entrata nel suo regno. Sedeva accanto a lui sul trono – e presto cominciarono a somigliarsi, come due vecchi coniugi. Nel nome di lui c’era «l’invisibile», nel nome di lei «l’uccisione». Uniti, rappresentavano qualcosa di ultimo. Non era dato andare oltre.

 

 

Sofocle, poeta del deinón, del «tremendo» che è anche «stupendo», parola sempre ricorrente, talismano e fiaccola nei meandri delle sue tragedie, è il poeta che nel modo più fermo e più limpido ha riconosciuto che l’«inganno», apátē, non è soltanto prerogativa degli uomini, ma domina gli dèi. Se Ananke li costringe a inchinarsi, Eros riesce a trattarli alla stregua degli uomini, attirandoli in tranelli. Dei tre fratelli sovrani – Zeus, Ade, Poseidone – nessuno è riuscito a sfuggirgli, dice il coro delle Trachinie. E non si sofferma. «Passerò oltre alle cose degli dèi. Non dirò come Cipride ha ingannato il figlio di Crono o Ade il tenebroso o Poseidone che scuote la terra». Temeraria litote. Ma se di Zeus e Poseidone sappiamo come siano stati occasionalmente ingannati, diverso è il caso per il sovrano dei morti. Qui Sofocle insinua che Eros era riuscito anche a ingannare Ade. Ma quando? Ade non dispone di molte storie come i suoi fratelli. L’unica vicenda dettagliata che gli viene attribuita è il ratto di Core. Fu quello l’inganno: l’incursione di un predatore che veniva costretto dalla rapina a introdurre una vita perenne nel suo regno. Inganno supremo compiuto da Afrodite. Il coro delle Trachinie vuole subito passare ad altro, come se fosse pago di aver [410] insinuato qualcosa che sarebbe sufficiente per sconvolgere l’assetto del mondo. E non vuole dire di più.

 

 

Non si può vivere senza l’invisibile, ma l’invisibile racchiude in sé la morte. Questo pensiero, questa ossessione furono all’origine dei Misteri. Ade il predatore porta l’invisibile nel suo nome e sequestra il fiore dell’apparire – Core che guarda il narciso, «prodigio per tutti da vedere, per gli dèi immortali e per gli uomini mortali» dice l’Inno a Demetra – nel regno dei morti.

 

 

Core è l’unica figlia di Demetra, ma molto spesso si nomina al duale, insieme alla madre: «le due dee», Core e Demetra, un’entità errante, dove i due termini non sono mai disgiunti, neppure quando Demetra grida lungo il magma dell’Etna e Persefone già sorride in silenzio guardando Ade, sul trono dei morti: dal profondo crepaccio della terra ode il richiamo della madre, ma ha scelto di non rispondere. Core è figlia di Zeus e Demetra – ma è anche figlia di Poseidone e Demetra. Dei tre fratelli che si spartiscono l’universo, due sono suoi padri – Zeus e Poseidone –, uno è il suo sposo: e Core è l’unica fanciulla rivendicata da tutti e tre i sovrani, con ciascuno sovrana (Déspoina è un altro suo nome). L’unica è sempre sdoppiata.

 

 

Demetra si presentò a Eleusi camuffata da vecchia. Poteva fare ormai soltanto la balia, se ci fosse stato un bambino piccolo da accudire. O la guardiana di un oscuro magazzino. Era uno di quegli esseri su cui lo sguardo non si posa. Stava seduta accanto a un pozzo, come una mendica silenziosa. Al pozzo si avvicinarono allora quattro sorelle, fragranti di bellezza: Callidice, Cleisidice, Demo, Callitoe. Rivolsero la parola alla vecchia sconosciuta, poi la invitarono a seguirle nella loro dimora. Le quattro sorelle correvano come cerbiatte, [411] con i capelli al vento, «simili al fiore del croco». Demetra le seguì, nella sua lunga veste, con il capo velato. Ma, correndo anche lei, «il peplo scuro si avvolgeva alle agili caviglie della dea», dice l’inno omerico. È un dettaglio lancinante. Il segno ultimo del divino, che non riesce a non svelarsi.

Demetra si sedette sulla pietra di un pozzo: era il macigno che ostruiva la caverna cosmica da cui fluiscono le acque. Solo il riso provocato da Baubò, solo la squassante, futile ilarità poteva sciogliere la pietra che impediva la vita. È questo il tratto più arcaico di Demetra. Le risponde Amaterasu, in Giappone, secondo il racconto del Kojiki.

La «agélastos pétra», la «pietra che non ride», su cui era seduta la disperata Demetra era la pietra che non riflette la luce. Segnalava che il mondo era entrato nell’opacità. Per uscirne, occorreva soltanto il riso. Ma non fu solo Demetra a ridere. «Tutta la terra rise» dice l’inno omerico. Come può ridere la terra? Illuminandosi. Il primo significato del verbo geláō è «splendere di luce riflessa». Dice Omero che, sotto le mura di Troia, la terra «rise tutta all’intorno per lo splendore del bronzo». Fisicità e mente. La fase in cui Demetra stava seduta sulla «pietra che non ride», a Eleusi, fu l’acme di una crisi cosmica. Senza il riflettersi della luce il mondo non potrebbe continuare a lungo. Perciò i Misteri salvano il mondo, prima ancora di salvare i suoi singoli abitatori.

 

 

Tutto ciò che accade a Eleusi è metafisico e sessuale. E si addensa in Baubò, figura che appare in cinque versi attribuiti a Orfeo e citati da Clemente Alessandrino: «Dopo aver così parlato, sollevò il peplo e mostrò tutta / la parte indecente del suo corpo. C’era lì il bambino Iacco / e muovendo la mano rideva sotto il ventre di Baubò; / allora la dea sorrise, sorrise nell’animo, / e accettò la coppa variegata che conteneva il ciceone». Nell’Inno a Demetra e in Apollodoro, Baubò diventa la «vecchia» Iambe, ancella nella reggia di Celeo [412] e Metaneira, mentre di Baubò, nata dalla terra di Eleusi, nulla si dice riguardo all’età. Iambe «con molti lazzi» induce Demetra «a sorridere, a ridere e a rasserenare l’animo»; lo stesso accade quando Baubò si scopre il ventre, mentre il bambino Iacco si mostrava fra le sue gambe.

Con il gesto di Baubò, la paralisi cosmica si scioglie. L’ostentazione della vulva vince la «pietra che non ride»; ciò che è duro e arido viene disciolto da ciò che è morbido e umido. Lo stesso gesto aveva compiuto Hathor, «signora del sicomoro del Sud», quando suo padre Ra, offeso dal dio Baba e esasperato dalla disputa fra Horus e Seth, che durava da anni, si distese «sul dorso nel suo padiglione, e il suo cuore era triste e lui era solo». Allora Hathor, dopo lunga riflessione, «venne e stette davanti a suo padre, il Signore Universale, e scoprì la sua vulva davanti a lui. Allora il grande dio ne rise; poi si alzò e venne a sedersi con la grande Enneade, e disse a Horus e a Seth: “Parlate voi!”».

 

 

Se il corso delle cose si interrompe, l’unico espediente per restituirgli la fluidità è il riso, unito all’eros. Se uniti, disincagliano il vascello cosmico dalle secche. Anche questo era dottrina di Eleusi. Che gli Olimpi disponessero di un «riso inestinguibile» da una parte li separava con una barriera invalicabile dagli umani, per i quali il riso non può essere che un accesso, un rapido spasmo, dall’altra offriva la garanzia più salda che la macchina universale fosse sempre in funzione – e riaccesa a tratti dall’estro erotico.

 

 

Chi ride per primo è il bambino Iacco – e «íakchos» era il grido ripetuto nel corteo verso Eleusi. I Misteri facevano passare dal grido al riso. Anche Demetra veniva indotta a seguire il «sacro fanciullo».

 

 

[413] Nel lessicografo Esichio si legge, sotto la voce «Baubò»: «Nutrice di Demetra. Vulva, secondo Eracleone». «Vulva» si connette al gesto di Baubò che scopre il ventre davanti a Demetra. «Nutrice di Demetra» lascia perplessi: era Demetra, infatti, nell’Inno omerico, a offrirsi come «nutrice» del piccolo Demofonte, che proverà a rendere immortale. Come potrebbe invece Baubò essere stata «nutrice» della dea che era madre di Persefone? A meno che Baubò precedesse Demetra, sovrapponendosi al suo profilo. Così il gesto indecente di Baubò viene attribuito dal malevolo Gregorio di Nazianzo a Demetra stessa, citando Orfeo: «Non può evitarci di udire quest’altra bella frase: “Detto questo, la dea si scoprì le due cosce” per dare ai suoi amanti l’iniziazione che le sue posture dispensano ancora oggi». Parole che si riverberano ancora nella Bisanzio di Psello: «Poi ancora Baubò che spalanca le cosce e la conchiglia femminile, perché così chiamano l’organo genitale, pieni di vergogna; e così concludono il mistero nell’oscenità [en aischrô]». Come i Padri della Chiesa avevano voluto da sempre dimostrare.

 

 

Di Eleusi, che significa «luogo dell’avvento», Diodoro Siculo volle innanzitutto dire questo: i Misteri spiccavano per la loro «estrema antichità e purezza»; erano «magnifici per lo splendore del loro apparato»; imitavano «la vita antica». E aggiunse che nei dieci giorni delle cerimonie i partecipanti «usano un linguaggio osceno [aischrología], quando si trovano insieme, in quanto per via di quel linguaggio osceno la dea, afflitta per il ratto di Core, rise».

 

 

Quando «Hermes il corridore, messaggero veloce, / inviato dal padre Cronide e dagli altri dèi» si presentò negli Inferi, Core stava seduta in trono, accanto al sovrano Ade. Secondo una voce tramandata da Cicerone, Hermes allora ebbe un’erezione: «Mercurius ... cuius obscenius excitata natura traditur quod adspectu Proserpinae [414] commotus sit», «Mercurio, di cui si dice che alla vista di Proserpina si sia oscenamente eccitato».

 

 

La vita greca ruota attorno a un cardine: il riconoscimento degli dèi. Nel doppio senso del riconoscere gli dèi e dell’essere riconosciuto dagli dèi. In questo secondo caso il riconoscimento è anche un dono, l’origine della grazia. «Difficili da vedere sono gli dèi per i mortali» avverte già l’Inno a Demetra, mostrandone le conseguenze. Riconoscere una vecchia sconosciuta, errante, disperata, scoprire che è una dea possente: questo sarà il fondamento dei Misteri di Eleusi e di un nuovo regime della vita. L’equivoco, l’intreccio, l’epifania: sono il territorio di ogni riconoscimento.

 

 

Nell’Inno a Demetra la rivelazione dei Misteri è una sequenza di scene che accadono in una sola notte, fra donne. Alla fine, c’è un bambino abbandonato per terra. Anche la madre «nemmeno si ricordava / del figlio prediletto, di raccoglierlo dal pavimento». Saranno le quattro figlie di Metaneira a curarsi di lui, anche se «meno brave nutrici» rispetto a Demetra. Il re Celeo verrà informato soltanto «all’apparire dell’aurora». E allora deciderà di costruire un tempio per la dea. Ma nulla avrà visto. È come se l’intervento regale, virile, fosse solo una conseguenza secondaria di qualcosa che è già avvenuto in un’oscurità solcata da «una grande fiamma» e da un bagliore «come per un lampo», un dramma soltanto femminile.

 

 

Demetra è un dono per i mortali: i Misteri. Ma rivela questa sua natura all’interno di un racconto falso che Demetra così presenta alle figlie di Celeo: «È giusto che alle vostre domande io risponda la verità». Dice di venire da Creta, di essere stata rapita da pirati e di chiamarsi Dos, Dono. Ma il racconto è anche tutto vero: l’iniziazione [415] viene da Creta, la figlia Core – unità duale con la madre – è stata rapita dal pirata Ade, che violava la legge di Zeus con il consenso di Zeus stesso, padre della rapita. E Demetra stessa era Dono. C’era anche un accenno che aiutava a capire il racconto. Perché i Cretesi, si sapeva, erano «tutti mentitori».

Il dono di Demetra non era l’agricoltura – contrariamente a quanto gli studiosi di stampo positivistico (ma sarebbe più esatto dire produttivistico) hanno sostenuto in pubblicazioni innumerevoli – per il semplice motivo che, quando Demetra giunse a Eleusi, l’agricoltura sussisteva già. E in particolare l’agricoltura cerealicola. Eliminando ogni possibile dubbio, questo dichiara l’Inno a Demetra, che è la prima e la più rivelatrice fonte su Eleusi: «Molti ricurvi aratri i buoi trascinavano invano nei campi, / molto candido orzo cadde a vuoto nei solchi». Se l’agricoltura cerealicola era già praticata, non poteva essere il dono di Demetra. Il suo primo dono erano i Misteri stessi, che gli uomini da allora tentano di scoprire. E l’oppio, come indica il papavero che è suo attributo, insieme alla spiga, come appare anche in Teocrito.

 

 

Il culto della fertilità, devozione fiorita in età vittoriana, che annovera seguaci anche oggi, imponeva che nel mondo arcaico la fertilità dovesse valere come l’equivalente della produzione nel mondo industriale: unica fede indiscussa, unico fondamento ragionevole dell’esistenza. Così il mistero di Eleusi continuò a essere protetto e coperto nelle aule universitarie e tuttora sopravvive, illeso.

L’ipotesi del significato agrario dei Misteri di Eleusi, cara a tanti studiosi, era già stata liquidata da Platone nell’Epinomis: «La fabbricazione delle farine d’orzo e di frumento e la loro trasformazione in alimento sono senz’altro cosa buona e bella, ma non riusciranno mai a produrre un uomo che sia un sapiente perfetto». Parole a cui faceva seguito una frase di letale sarcasmo: «Anzi [416] quel termine stesso di fabbricazione produrrebbe piuttosto una avversione per quelle cose».

 

 

Perché c’era bisogno dei Misteri? Perché occorreva accedere a qualcosa di nascosto? La risposta è in Esiodo: «Gli dèi tengono la vita nascosta ai mortali». E questo nascondimento era un preciso disegno di Zeus, in risposta all’inganno che Prometeo «dalla mente ritorta» gli aveva fatto subire. Ciò che è nascosto è la vita stessa.

Ma Eleusi non è soltanto il segreto delle cose nascoste. Eleusi è anche il segreto delle cose che stanno davanti agli occhi di tutti. Di Demetra si dice, in qualsiasi manuale, che è dea della «fertilità». E subito si aggiunge che la spiga è suo attributo. Secondo alcuni, la spiga è il segreto di Eleusi. Tuttavia in statue, rilievi, monete, oltre che nelle parole dei poeti, Demetra non ostenta soltanto la spiga, ma qualcos’altro: il papavero, anzi capsule di papavero. Perché il papavero, sempre il papavero – e non un qualche altro fiore o pianta? Alcuni studiosi, con sommo candore, hanno spiegato che anche il papavero era immagine della fertilità, perché racchiude molti semi.

Gli antichi sapevano qualcosa di più sul papavero. Conoscevano il «succo», opós, che cola dalle incisioni verticali nelle capsule di Papaver nigrum: da cui l’«oppio», opium, parola che appare per la prima volta in Plinio. Il quale in proposito si mostra quanto mai preciso, come suo costume: «Il papavero nero è un narcotico che agisce se si incide la capsula, come suggerisce Diagora, prima della fioritura ... Il succo, come per ogni erba, va raccolto sulla lana o, se ve n’è poco, sull’unghia del pollice, come si fa per la lattuga, si raccoglie ancor meglio la mattina dopo, quando si è seccato; il succo di papavero, in abbondante quantità, viene addensato, tritato e impastato in piccoli pani e si fa prosciugare all’ombra. Non ha soltanto poteri soporiferi ma, se preso [417] in abbondanza, può anche provocare la morte nel sonno». E poi: «Opium vocant», «Lo chiamano oppio».

 

 

Demetra scoprì il papavero a Sicione. E trasformò nel papavero il suo amante Mecone. Del quale nulla sappiamo se non questo: era un Ateniese che si aggirava per quella regione intorno al golfo di Corinto, mentre Demetra vagava ovunque, disperata, alla ricerca di Core scomparsa. Sicione allora non si chiamava così, ma dopo il passaggio di Demetra si chiamò Mecone, Papavero. Era una regione opulenta, folta di grano, di zucche, di cetrioli, di ulivi. Un giorno sarebbe diventata il luogo di un’altra scoperta: la pittura. E lì, un giorno ancora più remoto, era avvenuta la spartizione delle carni del «grande bue» fra Zeus e Prometeo. In quell’occasione dèi e uomini si erano separati per sempre. Ciascuno era rimasto dalla sua parte e con la sua parte. Sicione-Mecone era un luogo dove accadevano fatti a partire dai quali tutta la vita diventava diversa.

 

 

Nulla è estraneo agli dèi come l’esclusività. Ciò che è di Demetra può essere anche di Afrodite e ciò che è di Afrodite può essere anche di Artemis. La catena prosegue e non si interrompe mai. Il papavero, che a Sicione insegnò a Demetra a mitigare il dolore, appariva anche, sempre a Sicione, nella mano di un’Afrodite in oro e avorio, come suo attributo. Nell’altra mano la dea teneva una mela. Qualcuno sostiene che fosse piuttosto una melagrana. Il frutto del melograno e la capsula del papavero racchiudevano tutta la storia di una madre e di una figlia, di Demetra e di Core. Ma appartenevano anche ad Afrodite, nella quale non spiccava il carattere né di madre né di figlia. Ciò che è il segreto di una divinità si coglieva attraverso un’altra. E non stava soltanto in certi gesti, certi oggetti, certe parole, ma in certe piante: il melograno, il papavero, il mirto. Nello Heraion di Argo c’era una statua di Hera in trono, opera di Policleto: «imponente, [418] d’oro e di avorio», la dea «tiene in una mano una melagrana e nell’altra uno scettro». Pausania aggiunge: «Mi guardo bene dal parlare della melagrana, perché la sua storia è indicibile». Secondo Ovidio, giunta a Eleusi, Demetra raccolse e perfino assaggiò papaveri, «incosciente, per calmare la sua lunga fame», prima ancora di mescolarne il succo con latte tiepido per salvare il bambino Trittolemo, che sembrava morente. Nella ceramica protocorinzia, melagrane e papaveri si confondono – ed è «interessante osservare fino a che punto diventano intercambiabili», annotò Axel Seeberg. E la melagrana, che Persefone assaggiò distrattamente nell’Ade e la vincolò per sempre a quel regno, era cresciuta dal sangue di Dioniso. Nel papavero e nel melograno è incessante la circolazione divina e intreccia, senza mai scioglierle, le potenze dell’eros e degli Inferi.

 

 

Il papavero a Eleusi, il soma nei riti vedici: furono le sostanze che concedevano l’accesso all’ebbrezza. E l’ebbrezza era il presupposto delle cerimonie. Per i ritualisti vedici, il soma fu l’occasione per elaborare sequenze immensamente complicate di gesti e parole; per gli ierofanti di Eleusi non c’era un canone scritto dei gesti rituali e il papavero non veniva neppure nominato, nelle rare parole che sono state tramandate. Ma si mostrava, fra le dita di Demetra o di Core – o intrecciato nei loro capelli.

Con la dea di Gazi, sulla cui testa si ergono tre steli di papavero, con le capsule incise, alla maniera usata per estrarne oppio, appare sulla scena mediterranea, intorno al 1200 a.C., l’immagine di una sostanza che può insinuarsi nella mente, trasformandola. Un frammento di mondo che modifica la coscienza. In un piatto corinzio del quinto secolo Demetra si mostra seduta su un trono.Nella sinistra tiene due spighe e due capsule di papavero, alternate. Il pane e l’oppio, in pari evidenza.

 

 

[419] Epopteía, «visione», era il grado supremo raggiungibile a Eleusi, un anno dopo la prima visita. Perché l’epóptēs potesse essere riconosciuto, il sacerdote che reggeva le torce, dadoûchos, gli consegnava una tessera rotonda di piombo, con spiga e papavero – l’essenziale. Sotto si leggevano le lettere epops, che stavano per epopteía.

 

 

Quattro secoli dopo l’Inno a Demetra, anche il dotto Callimaco – la cui regola era: «Non canto nulla che non sia testimoniato» – volle scrivere un inno alla dea. Non parlò di Core e dei Misteri. Ma parlò di un luogo del quale Demetra «andava pazza come di Eleusi». Eppure era un luogo che non aveva neppure un nome. Era solo un boschetto, fitto di alberi.

Alla testa di una ventina di uomini forti, muniti di asce, Erisittone mosse un giorno verso quel boschetto, dove si intrecciavano pini, meli, peri, olmi, pioppi. Ma così fitti che una freccia non sarebbe riuscita a penetrare nell’intrico. Era un luogo intatto. Per Demetra, un «santuario». Ma un «malvagio volere» si impadronì di Erisittone e lo spinse a distruggerlo. Il primo albero che colpirono fu un pioppo, «così alto da toccare il cielo». Già questo avrebbe potuto fermarli. Ma lo colpirono e il tronco emise un gemito, che Demetra udì. Disse: «Chi mi taglia i begli alberi?».

La dea prese allora l’aspetto di Nicippe, sua sacerdotessa. «Teneva in mano ghirlande e papaveri, sulla spalla la chiave». Chiave imponente, non ci viene detto di che cosa. Forse del suo santuario. All’inizio parlò a Erisittone e ai suoi uomini con pacatezza. Li avvertì che si stavano attirando l’ira di Demetra. Ma nell’occhio di Erisittone brillava qualcosa di assassino, come accade – si dice – alle leonesse quando hanno appena partorito. Dalla sua bocca uscirono parole che nessuno aveva mai rivolto alla dea: «Vattene, se no ti conficco questa grossa ascia nella carne. Questo legno coprirà la sala dove ogni giorno mi compiacerò a offrire festini ai miei compagni, [420] a sazietà». Mentre parlava un’altra dea, Nemesi, invisibile, incideva le sue parole su una tavoletta. Soprattutto quell’ádēn, «a sazietà».

Allora Demetra decise di tornare ad apparire come dea. E le divinità terrorizzano. Quei venti uomini forti, con le loro asce in mano, si dispersero. Demetra li ignorò e si rivolse solo a Erisittone. Questa volta non lo chiamò «figlio», ma «cane». Disse: «Sì, sì, costruisciti la tua sala e dài i tuoi festini; festeggerai, sì, senza fine». E in quel momento insinuò in Erisittone «una fame terribile e selvaggia, una fame ardente, enorme». Era il desiderio insaziabile, che sussiste in sé, indipendente da ciò che desidera. Demetra sapeva che era un male estremo, risposta a un altro male estremo.

Se Callimaco aveva scelto un modo così inconsueto per celebrare Demetra, doveva essere un capriccio erudito – pensarono in molti. E con ciò passavano sopra all’implicazione metafisica della storia. Demetra si era ribellata agli Olimpi perché non accettava che qualcosa, che qualsiasi cosa sparisse. Sua figlia era la cosa stessa. E ciò che fa sparire qualcosa è, prima di ogni altro, l’atto di mangiare. Era questa la colpa primordiale, comune a tutti gli abitanti della terra, senza eccezione. La fame inesausta di Erisittone coincideva con l’opera vorace della morte. «Da Morte questo mondo era coperto, da fame, perché Morte è fame» si legge nello Śatapatha Brāhmaṇa. Quando Ade insinuò – «di soppiatto» – qualche chicco di melagrana fra le dita di Persefone, sapeva che la sua consorte avrebbe finito per portarne almeno uno alla bocca. Sarebbe bastato. E, come quel chicco nella bocca di lei, così la figlia di Demetra sarebbe tornata a scomparire periodicamente dalla terra, per raggiungere il suo sposo negli Inferi.

 

 

Il frammento 837 di Sofocle dice con la massima chiarezza che cosa offrono i Misteri: «O tre volte beati / quelli fra i mortali che dopo aver visto questi [Misteri] / vanno nell’Ade; soltanto per loro laggiù / c’è vita, [421] per gli altri vi sono tutti i mali». Mantenere intatta la vita: questo i Greci, al di fuori dei Misteri, non avevano mai osato promettere. L’anima non si annullava, ma diventava un essere inerte, torpido, volatile, menomato. Soltanto i Misteri concedevano la vita integra, inscalfibile. Non una vita buona, virtuosa, pia. Ma la pura vita – «per loro laggiù c’è vita».

Per qualsiasi essere vivente, la vita è inizialmente lo stato normale. Con fatica, e per vie tortuose, che potrebbero anche passare da Eleusi, si arriva a cogliere che la vita è uno stato d’eccezione, come anche la morte, che l’accompagna. Normale, in quanto prevalente, è la non-vita, l’inanimato, la «pietra che non ride». Questo testimonia il cosmo – e anche la costituzione della materia, che ignora, salvo in un suo minuscolo frammento, l’eventualità della vita.

 

 

Eros aleggia sul carro trainato da quattro cavalli con il quale Ade riconduce Core, ora divenuta Persefone, perfettamente tranquilla, alla madre Demetra. Nelle mani, Eros regge tre elementi indispensabili in quell’istante: attaccata a un filo, una íynx, ruota della possessione erotica, una corona e una phiálē, per le libagioni.

Ade forse non è Dioniso, come afferma Eraclito, ma gli somiglia molto. Seduto sul trono nella dimora dei morti, è una figura virile, con il torace scoperto, la barba a punta, una corona fra i capelli. Dioniso, in piedi di fronte a lui, sembra suo fratello. Il suo piede destro tocca il piede sinistro di Persefone, la regina degli Inferi, seduta sul trono accanto a Ade, il quale regge in una mano la phiálē per la libagione e nella sinistra un melograno. Già pronto è l’artificio per richiamare Persefone accanto a lui. Dall’alto pendono grappoli d’uva.

Anche gli dèi inferi versano libagioni. Nell’iscrizione di un vaso oggi a Malibu si legge Theós (nome eleusino di Ade). Ed è Persefone a versare il liquido della brocca nella phiálē, che è retta dallo stesso Ade. Quindi la libagione attraversava verticalmente tutti i mondi, dall’Olimpo [422] agli Inferi. Non era un gesto di devozione degli uomini verso gli dèi. Se mai, poiché gli dèi vengono prima degli uomini, era un gesto con cui gli uomini imitavano gli dèi. Se qualcuno si chiede che cosa facciano gli dèi – e in particolare che cosa faccia il sovrano del regno dei morti –, una risposta sicura che si può dare è questa: versano libagioni. Evidentemente quel gesto era necessario per il protrarsi della vita, divina e umana. Anche nel regno dei morti.

Nell’ultimo giorno delle celebrazioni eleusine avveniva il rito delle Plemochoai, che significano «pienezza versata»: erano due recipienti di argilla, colmi di un liquido che non viene specificato. All’estremità est e ovest del santuario quel liquido veniva versato in una spaccatura del suolo, mentre si pronunciava una «formula mistica». Così si concludevano i Misteri.

 

 

«L’anima in cerca del piacere incontra la bellezza divina, che quaggiù appare sotto forma di bellezza del mondo, come una trappola tesa all’anima. Col favore di questa trappola, Dio s’impossessa dell’anima, suo malgrado». Questo fu il ratto di Core secondo Simone Weil.

Core non venne semplicemente rapita «mentre giocava con le figlie di Oceano dal seno profondo, / raccogliendo fiori». Core cadde in una «trappola», che era un altro fiore: il narciso. Quel fiore, un «giocattolo» da cui spuntavano «cento altri fiori», era il risultato di un accordo fra gli dèi: Ge lo aveva fatto crescere per volere di Zeus, che voleva compiacere Colui-che-accoglie-molti, suo fratello Ade. Cielo, terra e Inferi si univano perché apparisse quel fiore. Già questo accennava alla prodigiosità dell’evento. In che cosa si incontrano gli dèi e gli uomini? Nella contemplazione di un fiore. In questo momento iniziale si manifesta l’essenza dei Misteri: guardare qualcosa che anche gli dèi guardano con lo stesso rapimento degli uomini. Era quella la suprema «visione», epopteía. Tutti quegli occhi, di immortali e [423] mortali, convergevano su un fiore spuntato «nella pianura di Nysa», sull’altopiano di Enna. In un punto qualsiasi del visibile, ben circoscritto, si incrociavano gli sguardi divini e umani. Qualcosa di familiare – e insieme «una meraviglia radiosa».

 

 

Che cosa devono sanare i Misteri? Perché occorre questa aggiunta irriducibile al culto degli dèi nella pólis? Perché uscire dalla pólis e cercare qualcosa che all’interno della pólis può avere soltanto una rappresentanza, come l’Eleusinion in Atene? Le risposte non possono che essere approssimative. Ma avranno sempre a che fare con quella che Nietzsche chiamò «l’eterna ferita dell’esistenza».

Sia nel Papiro di Derveni sia in una citazione dai poemi orfici nel De mundo pseudoaristotelico si dice, con quasi identica formula, che Zeus emise alla luce gli esseri «dal suo sacro [puro] cuore, compiendo tremendi atti», «mérmera rhézōn». Questi «tremendi atti» non vengono specificati, ma sottintendono una immensa colpa divina, simultanea all’apparizione degli esseri e presupposto di tutte le colpe umane. Su quel basamento poggiavano i Misteri: per liberarsi delle proprie colpe spettava all’iniziando diventare parte di un’anamnesi delle colpe divine, quale si celava nei meandri della storia delle due dee, Demetra e Core. Era la colpa stessa dell’esistenza che andava riscattata, qualcosa di incommensurabile rispetto ai modesti vizi umani. Eleusi introduceva a quella colpa e la dissolveva, così come sbriciolava la «pietra che non ride» su cui si era seduta Demetra durante il suo lutto. Soltanto a quel patto poteva essere garantito il protrarsi della vita.

 

 

L’iniziato tornava ad Atene e si spogliava della veste a brandelli che aveva indossato a Eleusi, per riprendere la sua solita vita petulante e litigiosa. Se i Misteri di Eleusi promettevano qualcosa di là dalla morte, questo era un [424] tratto che li accumunava a tutte le religioni. E molti lo avrebbero considerato un pio adescamento. Il tratto unico di Eleusi era un altro – e lo rivelava il coro degli iniziati eleusini nelle Rane di Aristofane: «Soltanto per noi il sole / e la luce sono sacri». Luce che è «sacra», hierón, o «gioiosa», hilarón, a seconda dei codici. Il sole splende per tutti, ma soltanto coloro che sono passati da Eleusi sanno che la sua luce è sacra (o gioiosa) e «vivono con reverenza / verso gli stranieri / e i cittadini». Ma occorre ricordare che, nel momento in cui parlano, quegli iniziati si trovano nell’Ade.

I Misteri non servivano soltanto a vivere diversamente la vita dopo la morte. I Misteri servivano a vivere diversamente la vita nella vita. Servivano per vedere ciò che tutti vedono, in ogni istante. Non cambiavano nulla in ciò che è. Ma cambiavano tutto nella percezione di ciò che è. A questo punto il mistero diventava impenetrabile perché troppo chiaro.

 

 

Si salva chi ha visto: così dice l’Inno a Demetra, giunto al suo culmine. Non già chi è buono o ha fatto cose buone si salva, se non ha visto. E neppure è escluso chi ha fatto cose cattive, purché abbia visto. Che cosa? Gli órgia, indissolubile mescolanza di drṓmena, deiknýmena, legómena, «cose che si fanno, cose che si mostrano, cose che si dicono». Questa visione, l’epopteía, sopravanza i meriti e le colpe. È essa stessa il bene – e così forte da garantire a chi l’ha raggiunta una vita futura, di singolo essere «felice», ólbios. Agli altri toccherà la «tenebra marcescente».

Ólbios è parola che ricorre nei tre testi fondamentali (Inno a Demetra, frammento 137 di Pindaro, frammento 837 di Sofocle) che parlano di ciò che accade all’iniziato dopo la morte. E tutti e tre parlano di qualcosa che è stato visto, usando verbi diversi (ópōpen, idṓn, derchthéntes). Sofocle è l’unico ad affermare che solo per gli iniziati «laggiù c’è vita», «ekeî zên ésti». Se questo era un segreto di Eleusi, non meraviglia che andasse custodito, fra genti che avevano sino allora concepito l’oltretomba [425] come un luogo torturante e una sopravvivenza sfibrata.

 

 

Eleusi fu, per i Greci, il luogo dove si subiva una mutazione. Era il ricordo vivente dell’èra in cui la metamorfosi ancora apparteneva a ciò che accade, prima di esserne espulsa ed espunta. Mentre Delfi era il luogo a cui si ricorreva per essere governati e diretti nelle scelte della vita comune e si fondava sulla parola, da Eleusi non emanavano parole, se non in brevi formule. La regola era il silenzio e la metamorfosi invisibile, non più percepibile dall’esterno, ma soltanto da chi la pativa.

 

 

Anche se i Misteri di Eleusi sono «il culto meglio documentato del mondo antico», secondo Burkert, nessuno di coloro che vi partecipavano li ha descritti. Eppure i Misteri erano aperti a tutti, anche ai ragazzi, agli schiavi, alle etere (però escluse dalle Tesmoforie). Non ammessi: soltanto gli assassini e chi non sapeva parlare il greco. «Viene iniziato chi degli Ateniesi e degli altri Greci lo vuole» si legge in Erodoto. Per più di undici secoli, se si prende come arbitraria data d’inizio l’Inno a Demetra e come data finale la devastazione di Eleusi per opera dei Visigoti, nessuno dei devoti ha voluto rompere il segreto. Eppure ciò che avveniva in Eleusi era, secondo Elio Aristide, «ciò che vi è di più terrificante e di più risplendente fra tutto ciò che è divino per gli uomini».

 

 

Un carattere irriducibile dei Misteri («Dire molte cose da ridere e molte cose gravi», secondo Aristofane) era anche un carattere del teatro quale era vissuto in Atene. Proprio questo ha sconcertato i moderni. Pickard-Cambridge non poté trattenersi dal riconoscerlo: «Il problema che sbalordisce i lettori moderni e cristiani – e cioè come fosse possibile, per lo stesso pubblico, e magari nello stesso giorno, essere assorbiti nella [426] più nobile tragedia e passare subito dopo alla scurrilità ... accompagnata da battute di alta e bassa qualità, che la commedia dispiegò per un secolo e mezzo – non sarebbe stato capito dagli Ateniesi del quinto secolo, e forse è destinato a non essere mai completamente risolto».

In una iscrizione di Eleusi, databile intorno all’80 a.C., si dice che «l’associazione degli artisti di Dioniso» (come venivano chiamati i teatranti in genere) aveva sempre operato per promuovere il culto di Demetra e di Core. Avevano eretto un altare e creato un recinto dove offrire libagioni e cantare peana durante i Misteri. L’altare era stato distrutto durante certi disordini e infine ricostruito, sempre per opera degli artisti di Dioniso.

 

 

Con un certo disappunto Tertulliano deve ammettere che nella Scrittura nulla si dice contro gli spettacoli, che pure sono per lui l’epitome e l’ostentazione di quel supremo oltraggio che è l’idolatria. Ma Tertulliano non era uomo che si scoraggiasse facilmente. Pur ammettendo a denti stretti che nella Bibbia non si legge un comandamento che suoni «Tu non andrai al circo o al teatro» e si possa giustapporre al «Tu non ucciderai», individuò nelle prime parole dei Salmi la condanna di qualsiasi spettacolo: «Felice l’uomo / che non è andato alla riunione dei malvagi». Certo, quei due versetti prefiguravano l’assemblea degli Ebrei per decidere l’uccisione di Gesù, eppure potevano anche essere applicati alla proibizione di andare a teatro. E qui Tertulliano formulava il principio fondamentale dell’esegesi biblica: «Late tamen semper scriptura divina dividitur», «Tuttavia la Scrittura si applica sempre a largo raggio» e perciò non va intesa soltanto «secundum praesentis rei sensum», «in rapporto al suo significato immediato». Così la decisione di uccidere Gesù e la decisione di andare a teatro «per vedere ed essere visti» convergevano in un solo significato, su piani diversi.

Infatti, se la Scrittura late dividitur, quindi si compie, si adempie in vari modi e gradi, è vero però ugualmente che tutti questi modi e gradi dovranno essere coerenti e [427] concordanti: perciò la decisione collettiva di uccidere Gesù e l’atto di andare a teatro si riveleranno congeneri e si sosterranno l’uno con l’altro. Di fatto così avvenne lungo tutta la storia cristiana fino a Bossuet – e oltre. E fu un sintomo desolante quando la Chiesa, in anni nuovissimi, tentò di insinuare un supplemento di spettacolo nella liturgia, per attirare qualche fedele in più.

Ma Tertulliano non era mosso da una volontà di invadere la vita profana. Lo spettacolo – qualsiasi spettacolo – aveva per lui origine da un dio, che fosse Apollo o Marte o Diana. Il teatro non era che una tarda variante del templum. Perciò condannabile con la stessa asprezza con cui altri Padri condannavano i Misteri. Dietro lo spettacolo, dietro il tempio, dietro i Misteri una stessa potenza operava: l’apparenza. Là dove qualcosa appare, lì si insediano i demoni. Quello è il luogo della guerra senza scampo fra l’empio e il fedele.

 

 

Scrive Aristotele che l’iniziazione non è altra cosa dalla filosofia, ma una sua «parte» – e precisamente l’ultima parte, quella che permette di possedere il «fine ultimo» della filosofia. Ma in che cosa consiste? In una folgorazione, che «attraversa l’anima balenando come un lampo» ed è «il pensiero dell’intelligibile»: occasione «unica» per «toccare e contemplare». La teoresi non è pura visione di ciò che è, ma qualcosa che permette di toccare (thigeîn, verbo assai comune e del tutto fisico) ciò che è. Tuttavia di questo contatto il pensiero essoterico non parla, come se gli fosse precluso. Perciò occorre l’iniziazione, se si vuole raggiungere quella estremità dove la filosofia finisce.

 

 

Nessun linguista è riuscito a spiegare perché i Greci e i Latini abbiano designato lo stesso evento – i Misteri – con due parole che indicano per gli uni la fine e per gli altri l’inizio: teletḗ e initia. Una tenaglia verbale, che isola l’evento all’interno del tempo informe.

[428] Teletḗ, teleutḗ, teleiótēs, queste tre parole che hanno la stessa origine e dicono «l’iniziazione», la «morte» e la «perfezione», passando insensibilmente dall’una all’altra, dovevano suonare indispensabili a Platone, se arrivava a giocarci con tale ostentazione: «Teléous aeì teletàs teloúmenos, téleos óntōs mónos gígnetai», «Solo diventa realmente perfetto chi si inizia a iniziazioni sempre perfette». Non si può andare oltre nel corteggiare la tautologia, lasciando intravedere al tempo stesso la morte.

 

 

Il silenzio imposto dai Misteri ha retto. Da Erodoto a Pausania incontriamo spesso frasi che si fermano sulla soglia: «Di ciò non è devoto parlare», «su questi riti non è concesso scrivere». Ma non una sola volta incontriamo un autore pagano che intenda violare quel silenzio. Eppure, non si tratta di totale silenzio. Un chiacchiericcio di scoli, coincidenze onomastiche e toponomastiche, parallelismi cerimoniali, oltre alla quieta eloquenza dei monumenti figurati, ci accompagnano finché a quelle tenui voci si sovrappongono le contumelie dei Padri della Chiesa. Loro sì volevano dire tout, come Sade. Ma non ci sono riusciti. I Misteri non ne hanno molto sofferto. Permangono intatti nel silenzio, aiutati anche della timorosa pudicizia dei filologi.

Il malevolo Lobeck osservava che di numerosi autori pagani si tramandava che avessero scritto sui Misteri, ma non ne sopravviveva nulla che potesse essere usato come precisa testimonianza («nullo testimonio uti licere, cui non auctor et locus et tempus nominatim sint praescripta»). Ma non per questo si doveva prestare fede agli apologisti cristiani, secondo i quali i Misteri si celebravano «helluandi et scortandi causa», «per gozzovigliare e andare a puttane». Si dava quindi il caso, frustrante per ogni spirito positivista, di un evento celebrato per più di dieci secoli, sempre nello stesso luogo, ma tale da non aver lasciato di sé nessuna testimonianza attendibile. Lobeck aggiungeva che molta parte di ciò che sui Misteri era stato scritto sembrava opera dei Sabini, [429] «dei quali è stato detto che sognassero quello che volevano».

Non pochi trattati sono stati scritti su Eleusi, dall’Aglaophamus di Lobeck a Kerényi, a Kevin Clinton. Sui Misteri, contro i Misteri, per i Misteri. Ma nessuna esposizione suona del tutto persuasiva. Più di un millennio e mezzo è passato dalla distruzione di Eleusi, eppure si direbbe che quel divieto non sia mai stato abolito. È come se i Misteri respingessero ogni descrizione esauriente e si lasciassero nominare solo per frammenti e schegge ostili, come nel caso dei Padri cristiani. O per allusioni e accenni, come in Platone e in Plotino. O in Plutarco. Invano si cercherebbe una esposizione dettagliata dei Misteri nei suoi Moralia, pur così variegati nei temi. Ma Plutarco era un sacerdote di Delfi.

 

 

«Eleusi, escludendo solamente chi si è macchiato di omicidio, inizia tutti i Greci di qualunque genere, senza indagare le loro azioni, la loro vita e neppure il loro carattere»: così Erwin Rohde delineava la singolarità eleusina. È questo innanzitutto che distingue Eleusi da ogni altro rituale sacro: la sospensione di ogni contabilità di bene e male. L’iniziazione non era un lasciapassare che permetteva di ottenere certi premi. Il paradosso dei Misteri stava nel loro essere una via separata, inaccessibile attraverso la pratica della virtù. Paradosso che scandalizzava. Diogene il Cinico, tagliente argomentatore, non mancò di farlo notare: «Il ladro Pataikion, in quanto iniziato a Eleusi, avrà dopo la morte una sorte migliore di Agesilao e di Epaminonda». Quindi la virtù non serviva – o almeno non aveva un potere equiparabile alle rivelazioni di Eleusi.

 

 

Eleusi non era un passaggio rituale da uno stadio all’altro nella vita della società. Era l’uscita dalla società verso ciò che sta prima e ciò che sta dopo la società stessa. Neppure nella loro piena decadenza i Misteri di Eleusi [430] divennero parte di una religione di Stato. È questo lo spartiacque. I Misteri non sono mai stati al servizio di una società, ma erano la via per andare al di là della società. Fra le ultime note di Simone Weil a Londra: «Sotto Augusto, infatti, i Misteri eleusini, anche se ridotti a una miserabile caricatura, non si erano lasciati trasformare in religione romana ufficiale». Ciò che sarebbe avvenuto invece agevolmente con la liturgia cristiana.

 

 

Nella notte, Achille era rimasto abbracciato al cadavere di Patroclo. Singhiozzava rumorosamente. Attorno in cerchio, vari soldati, «molti compagni». Il peplo zafferano di Eos colora il cielo e «porta la luce». Apparve una dea, Teti, con un carico di «armi bellissime, che nessun mortale ha mai tenuto sulle spalle». Erano il dono di Efesto per Achille. L’apparizione della dea non è preparata né commentata. Come un guerriero può passare la notte abbracciato a un cadavere, così – d’improvviso – può apparire una dea. Né l’uno né l’altro fatto richiedono una spiegazione. È questa la vita «scoscesa», aipýs, di cui parla Omero. I suoi picchi, in alto e in basso, vanno molto lontano, dove pochi osano spingersi.

Ora Achille parlava alla dea, che era sua madre. Le diceva che era subito pronto a indossare quelle armi, opera che «nessun mortale ha potuto compiere». Ma Achille aveva un cruccio, che subito confessò a Teti: aveva paura che, già mentre si armava distaccandosi dal cadavere di Patroclo, le mosche potessero penetrare nel corpo dell’amico, «attraverso le ferite aperte dal bronzo».

A che serve una dea se non a scacciare le mosche? E Teti, di cui allora si ricordava che ha «piedi d’argento», sapeva che le spettava innanzitutto quel compito: «allontanare quella stirpe selvaggia, quelle mosche, che divorano gli uomini uccisi in battaglia». Teti rassicurò il figlio: avrebbe provveduto lei a quell’impresa da dea, lasciare «inalterata la carne» di Patroclo. «Inalterata» aggiunse «o ancora meglio»: che cosa potrà essere quel «meglio» Teti non disse. Ma, come in uno scorcio fulmineo, si in [431] travedeva ciò che sarebbe stata la leva potentissima della dottrina di Gesù in Palestina: la resurrezione dei corpi, raggiungibile soltanto da chi mangia un corpo divino, quello del Figlio dell’uomo. «Dura dottrina», «Durus est hic sermo», commentarono «molti discepoli» di Gesù. Il quale subito li sfidò: «Questo vi scandalizza?», «Hoc vos scandalizat?». Di fatto, è proprio quella la «pietra d’inciampo», lo skándalon, di tutta la dottrina di Gesù.

Il punto più delicato e arduo, per ogni sopravvivenza, non è l’anima, ma la carne. Solo i cristiani lo risolsero con l’arma più potente: la letteralità. La carne risorge: se si toglie questo dogma alla cristianità, cade molta parte della sua attrazione. I Greci non osarono altrettanto. Puech ha compendiato la differenza con luminosa semplicità: «Per il cristianesimo, ciò che viene salvato o la posta della Salvezza non è affatto, come nell’ellenismo e nella Gnosi, il solo noûs, l’“io” atemporale suscettibile di rivestire una molteplicità di corpi temporali nel corso di una serie di cicli di reincarnazioni, ma un individuo unico nella sua carne come nella sua anima, integralmente costituito dall’unione di un corpo, di un’anima e di uno spirito». Rispetto a questa promessa, circostanziata e legalistica, le promesse dei Misteri e poi della Gnosi erano vaghe e incerte. La reincarnazione più che una promessa è una minaccia. Il singolo non ha soltanto il terrore di perdere con la morte la sua anima. Ancor più, teme di perdere la sua carne. Vuole il corpo, il proprio corpo e nessun altro, se deve avere la certezza della vita. Di una vita non diminuita e non troppo diversa rispetto all’unica che conosce.

Quanto alla salvezza, faceva parte del contratto il riconoscimento che la salvezza era già avvenuta, una volta per tutte, nello hápax della morte e resurrezione di Gesù. Perciò la salvezza non era più qualcosa da conquistare, in un processo laborioso e angosciante, dove si avanza in solitudine. La salvezza era già a disposizione di chiunque. Bastava adeguarsi a essa, commemorarla nel rito della messa. Ma era qualcosa di acquisito e già in atto. E chiunque poteva averne parte.

[432] Nessuna delle dottrine religiose precedenti a Gesù aveva promesso tanto – e con tale dovizia di particolari. La tracotante sicurezza di Paolo su questo si fonda. Mentre il vero punto arduo è l’altra parte del contratto: non ciò che il fedele ottiene, ma ciò che deve dare. E questo era l’osservanza di una dottrina paradossale ed estrema, predicata da Gesù nei Vangeli. Se osservata nei dettagli, quella dottrina esporrebbe chiunque a prove durissime. Ma avrebbe provveduto la Chiesa, fin dall’inizio, a mitigare quelle prove, a renderle più accessibili e trattabili per tutti.

 

 

Si andava da Atene a Eleusi camminando per ventuno chilometri, lungo la Via Sacra. Marcia che era anche un agṓn, una «gara», protetta da un dio speciale, Telesidromos, «Colui che aiuta a finire la corsa». L’iniziazione era la fine di una corsa. Si usciva di città dal Dipylon. La strada era costeggiata da tombe, recinti sacri, altari, piccoli santuari. Passo per passo si poteva ricostruire la storia, ma anche la cronaca più pettegola, di Atene. E si incontravano le varie presenze divine. Come preludio a Eleusi, Demetra e Core venivano celebrate là dove Fitalo aveva dato ospitalità a Demetra nella sua casa. E dove la dea, per compensarlo, gli aveva donato «il sacro fico». Davanti a quel fico, coperto da un tetto, c’era una sosta obbligata. Poi un gruppo di sfaccendati, guidati da «una qualche puttana» o un uomo mascherato, aspettavano il corteo degli iniziandi accanto a uno stretto ponte sul Cefiso. Appena si avvicinavano, li dileggiavano e schernivano. Lazzi feroci. Quel momento era una parte insopprimibile dei Misteri. Occorreva anche ridere molto, perché i Misteri si compissero. Si passava anche da Sciro, ritrovo malfamato di avventurieri, giocatori e prostitute. Spiccava il sacerdote di Poseidone, con il suo ombrellino bianco. A Rhiti, nei due laghetti di acqua salata potevano bagnarsi solo i sacerdoti eleusini. Lì si trovava il confine fra il territorio di Atene e quello di Eleusi. Da un’iscrizione del 421/420 a.C. si desume [433] che un ponte in quei luoghi, probabilmente distrutto in guerra, doveva essere ricostruito. Il decreto ingiungeva che il ponte fosse abbastanza largo perché vi passassero le sacerdotesse con gli «oggetti sacri» e i futuri iniziati, che venivano definiti «i camminatori». Non occorreva altro per designare il candidato all’iniziazione.

 

 

Sulla Via Sacra, fra Atene e Eleusi, c’era un punto in cui appariva l’Acropoli. Lì si trovava il monumento funebre per Pitionice, celebre prostituta, in origine schiava della flautista Bacchis, a sua volta schiava di Sinope. Di lei dicevano: «Tre volte schiava e tre volte puttana». Pitionice aveva anche un’altra tomba, a Babilonia. Enorme il costo del monumento, più di duecento talenti. Ci fu chi si indignò per quello sforzo. Dicevano che sembrava la tomba di Milziade o Pericle o Cimone, eretta a spese della pólis.

 

 

Chi partecipava ai Misteri non accettava di separarsi dalle sue vesti «finché non andavano a pezzi». Così lo scoliasta al Pluto di Aristofane. Nella lunghissima, minuziosa iscrizione dei Tesorieri delle Due Dee si parla di una himatiothḗkē: secondo Tsountas si trattava dell’edificio dove venivano accolte le vesti dedicate dagli iniziati. Stracci iniziatici.

 

 

Sotto l’Acropoli di Atene: l’Eleusinion, santuario dalle alte mura, che era l’ancoraggio nella pólis del santuario di Eleusi, isolato, extraterritoriale. I suoi mattoni venivano ricavati dalla agélastos pétra, la «pietra che non ride», in Eleusi. È rimasta l’annotazione del costo per il trasporto di quei mattoni. Evidentemente si riteneva che fosse l’unico materiale adatto. I muratori che lavoravano all’Eleusinion erano schiavi che venivano sottoposti alla mýēsis, la «pre-iniziazione». [434] Altrimenti non avrebbero potuto calcare il suolo del santuario.

 

 

«Molte sono le cose stupefacenti che si possono vedere o udire in Grecia; ma più di tutte partecipano della cura divina i riti che si compiono a Eleusi e le gare di Olimpia». Così pensava Pausania, da asiatico, straniero alla Grecia, nel secondo secolo d.C. Ma questo è il sentimento che aveva attraversato l’intera storia greca. Eleusi e Olimpia erano i due soli luoghi che potevano imporre la tregua sacra, quella sospensione di ogni servitù, al sangue, al lavoro, al traffico, che corrispondeva al Sabato degli Ebrei. Segnavano i tempi in cui qualcosa doveva compiersi: certi gesti e certe parole. La concentrazione nella corsa e l’ostensione degli oggetti sacri. Null’altro nella vita greca poteva pretendere una tale vicinanza a ciò che viene «ek theoû», «dal dio».

Spondḗ, spondaí: la parola che designa il «trattato», l’«accordo», designa anche la «libagione». Infine, spondḗ è la «tregua», quella sospensione di ogni conflitto che solo Olimpia e Eleusi avevano l’autorità di imporre. Profondo rapporto, da una parte, fra l’atto di versare, disperdere un liquido e dall’altra l’arresto provvisorio di ogni tensione. Questi due gesti confluivano verso uno stato primordiale, precedente ogni vita profana, che è lo stato usuale e conflittuale delle cose. Ma, perché ciò avvenga, atto preliminare è la libagione, quella disposizione a perdere e dissipare qualcosa che è il presupposto dell’attitudine sacrificale. Ciò che distingueva i Persiani dai Greci, secondo Erodoto, era innanzitutto che nei sacrifici «non usano libagioni né flauti né bende né chicchi d’orzo».

 

 

Hálade mýstai, «Iniziandi al mare»: sotto gli occhi dei «sorveglianti», epimelētaí, dei Misteri, gli iniziandi ricevevano l’ordine di correre verso il mare e gettarsi in acqua. Correvano trascinando con sé i porcellini che [435] avrebbero dovuto sacrificare con le loro mani. Ciascuno il suo. L’acqua marina, il sangue del porcellino: servivano a purificarli. Nulla di diverso, in fondo, da quel che accadeva in Atene, prima delle assemblee: «Alcuni porci sgozzati venivano portati in giro intorno ai cittadini riuniti e, se crediamo allo scoliasta di Eschine, il sangue appena sgorgato di queste vittime attirava i demoni che avrebbero potuto sviare le menti e turbare le delibere».

Prima dell’iniziazione, i sacrifici. Tre animali guidati da un bue, per Demetra, per Core, per Plutone, per il misterioso Dolichos, «dio della Lunga Corsa». Erano i protéleia, riti propedeutici all’iniziazione, che avveniva fra le colonne del telestḗrion. Vari dèi avevano templi e altari attorno al telestḗrion, come se lo assediassero – o volessero esserne protetti. Iacco aveva guidato la marcia degli iniziandi, ma non c’era un tempio per lui.

 

 

Durante la processione per i Misteri di Andania, che Pausania definiva «secondi per venerabilità solo a quelli di Eleusi», le donne sposate dovevano indossare una tunica non trasparente, con un orlo colorato non più largo di mezzo dito; le ragazzine una tunica lunga alla maniera egizia e un mantello non trasparente. «Nessuna indossi gioielli d’oro, né sia truccata con il rossetto o con il belletto bianco, né porti nulla che sia annodato né abbia i capelli acconciati in trecce, né porti calzari che non siano di feltro o della pelle delle vittime offerte in sacrificio». Se un indumento non era appropriato, il gineconomo, che aveva il compito di controllare il vestiario delle donne, perché fosse «adatto agli dèi», theoprepôs, aveva facoltà di farlo a brandelli, consacrandolo poi agli dèi. Le iniziande non dovevano avere nulla che le facesse notare. L’uguaglianza nasce con l’iniziazione.

 

 

C’erano due grandi pietre, accostate. Una certa notte le scostavano. Estraevano scritti che riguardavano i Misteri. Li leggevano agli iniziandi. Poi li riponevano [436] dietro le pietre, nella stessa notte. Questo accadeva a Feneo, in Arcadia. Lì era passata Demetra. Lì era arrivato un nipote di Eumolpo, per volere dell’oracolo di Delfi. E soltanto lì si accennava a scritti che venivano letti durante le cerimonie. Soltanto lì il sacerdote indossava una maschera di Demetra. Poi batteva il terreno con bastoni. Si pensava che così colpisse il popolo sotterraneo. Anche a Feneo, indispensabile per i Misteri era la pietra, così come Demetra era stata indotta al riso mentre stava seduta sulla «pietra che non ride». A Feneo chiamavano pétrōma le due grandi pietre accostate e davanti a esse giuravano «per le questioni più importanti».

Epaminonda voleva rifondare i Misteri di Andania in Messenia. Gli venne consegnata un’urna di bronzo ritrovata scavando, in seguito a un sogno. Epaminonda, «dopo che riuscì ad aprirla, vi trovò un foglio sottilissimo di stagno, arrotolato come i libri. Esso conteneva per iscritto l’iniziazione delle Grandi Dee». Sono parole fatali: per la prima volta si dice che i Misteri potevano essere scritti. Già negli ultimi anni di Platone, quel fatto si era compiuto. E qualcosa lo collegava ai riti originari: l’urna di bronzo che conteneva il foglio sottilissimo di stagno, inciso con lettere, ereditava il suo potere dalla cesta dei Misteri, che conteneva gli oggetti sacri da mostrare, non da leggere.

 

 

Sempre prudente e ben attento a non dire una parola di troppo quando si trovava di fronte alle cose segrete, almeno una volta Pausania si tradì, scrivendo: «Chiunque abbia visto il rito misterico a Eleusi o abbia letto i cosiddetti Scritti orfici [Orphiká] sa che cosa intendo». Qui si dava per sottinteso che l’iniziazione eleusina e la lettura di certi scritti – e proprio degli orfici, che varie generazioni di studiosi hanno tentato invano di tenere ben distinti da Eleusi – fossero per certi versi equivalenti. Un giorno quella iniziazione attraverso il libro sarebbe stata praticata nella Firenze del Quattro [437] cento dalla cerchia di Marsilio Ficino, negli Orti Oricellari.

 

 

Zarmaros era un indiano che faceva parte dell’ambasceria inviata dal re Porus ad Augusto. Nicola Damasceno lo incontrò ad Antiochia. Gli ambasciatori erano tre, ma la lettera del re ne indicava un numero maggiore. Probabilmente erano morti durante il viaggio. I doni per Augusto venivano offerti da otto giovani nudi, con una fascia intorno ai fianchi, e fragranti di oli. Con loro vari animali, «anche tigri, ed era la prima volta che non solo i Romani ma credo anche i Greci ne vedessero», annotò Dione Cassio. C’erano inoltre serpenti e una imponente tartaruga di fiume, nonché un ragazzino senza braccia («come le erme che ci sono da noi» annota sempre Dione Cassio).

Zarmaros si presentò ad Augusto a Samo, poi lo seguì ad Atene. Venne iniziato ai Misteri. Eleusi poteva avere effetti molto diversi, ma tutti avevano a che fare con la felicità. Tornato ad Atene, Zarmaros si diede fuoco perché era felice. «Salì sulla pira ridendo, nudo, con una fascia sui fianchi, ben cosparso di oli». Sulla sua tomba fece scrivere che si era «dato l’immortalità all’uso patrio degli Indiani».

 

 

Negli ultimi anni di Eleusi si incontra Vettius Agorius Praetextatus. Proconsole in Grecia, «uomo adorno di tutte le virtù», come non pochi Romani educati, aveva voluto essere iniziato a Eleusi. Nell’anno 364 l’imperatore Valentiniano proclamò un editto che proibiva tutte le celebrazioni notturne. Praetextatus colse subito che quell’editto aveva una mira precisa: sradicare il culto di Eleusi «a partire dal focolare» – allusione a una figura indecifrata dei Misteri: «il bambino al focolare». Allora Praetextatus semplicemente disse no al suo imperatore. E, secondo Zosimo, «diede questa spiegazione, che quella legge avrebbe reso la vita invivibile [abíōtos] per i Greci, [438] se fossero stati impediti a celebrare, secondo l’ordine stabilito, i sacri misteri, che riunivano l’intero genere umano, e garantì, come se l’editto non fosse vigente, che tutto continuasse a compiersi nella maniera trasmessa dai padri». Non bastava l’Impero, ora cristiano, per sopprimere i Misteri. Trentadue anni dopo, vi avrebbe provveduto Alarico con le sue truppe. Risparmiarono Atene, ma rasero al suolo Eleusi.

 

 

L’Attica era deserta. Gli Ateniesi, fuggiti – verso Trezene, verso Egina, verso Salamina. Il Partenone, incendiato dai Persiani. L’ateniese Diceo e lo spartano Demarato si trovarono nella pianura Triasia, solitari. Videro «avanzarsi da Eleusi una nube di polvere, come se fosse sollevata da trentamila uomini; stupefatti, si chiesero da quali uomini fosse sollevata quella nube, e improvvisamente udirono una voce, e quella voce gli sembrò essere quella mistica di Iacco». Lo Spartano non si capacitava. Diceo gli disse che, «essendo l’Attica deserta, quel suono divino muoveva da Eleusi in soccorso degli Ateniesi e dei loro alleati». Seguì la battaglia di Salamina e gli Ateniesi non caddero sotto il dominio persiano. I Misteri – Diceo riconobbe – non solo avvicinano alla salvezza dopo la morte, ma possono salvare durante la vita.

 

 

Eleusi, il luogo dove «vengono iniziate le genti delle regioni più remote», secondo Cicerone. Era la massima approssimazione all’universalità. Ma non lasciava segni visibili. Rispetto ai non iniziati, si abbandonava Eleusi nella stessa condizione in cui vi si era entrati: i poveri con i poveri, i ricchi con i ricchi, i meteci con i meteci, i potenti con i potenti, gli stranieri con gli stranieri. E, come gli altri non avrebbero potuto dire chi fosse veramente iniziato, così anche l’iniziato non avrebbe mai avuto certezze su se stesso. Perciò Eleusi era un luogo a cui occorreva tornare.

[439] «Eleusin servat quod ostendat revisentibus», «Eleusi serba qualcosa da mostrare a chi vi ritorna». Cinque parole di Seneca dicono l’essenziale su Eleusi, senza lederne il segreto. I Misteri non sono qualcosa che si possiede, come un pensiero; non sono qualcosa che si applica, come una formula. Sono un luogo che offre qualcosa di ulteriore ogni volta che vi si torna. Ma per tornarvi occorre allontanarsene, rientrare nella vita comune – e poi lasciarla di nuovo.