[199] A vent’anni, Ovidio era un provinciale di buona famiglia in cerca di fortuna a Roma. Recalcitrava all’idea di entrare in una carriera seria, di quelle che piacciono ai genitori. La retorica lo inclinava non dalla parte del foro, ma da quella del verso, che sgorgava dalla sua bocca come la prosa da quella di Monsieur Jourdain. Il primo dio che incontrò fu Cupido. Irridente, il dio aveva sottratto un piede agli esametri e li aveva ammorbiditi in distici elegiaci. Era un furto – e Ovidio avrebbe passato la vita a mostrare come il furto sia innanzitutto un atto erotico. Ora non sarebbe più stata d’obbligo la gravità epica. Ora Ovidio era indotto dal metro alleggerito a cantare qualche «ragazza dalla lunga e ben curata chioma». Nacquero così gli Amores, fedeli soltanto all’irriverenza del dio che aveva invaso il «petto sgombro» del poeta con una sola parola, generica e imperiosa: Amor.

L’improntitudine di Ovidio investì anche il sovrano degli dèi, sin dall’inizio delle Metamorfosi. Nella prima delle sue avventure amorose, Zeus si rivolge a Io chiamandola «vergine degna di Giove» – e fin qui gioca –, ma subito dopo non si trattiene e parla di sé come di un dio «che non viene dalla plebe», «nec de plebe deo». C’era [200] dunque una plebe fra gli dèi? Sconcertante idea, ma il poema vi aveva già accennato pochi versi prima. Sull’Olimpo, a destra e a sinistra del palazzo di Zeus si spalancavano le porte delle dimore degli altri dèi. Poi, disperse e irregolari, le case della plebe («plebs habitat diversa locis»). Non meraviglia che, subito dopo, Ovidio si azzardi a parlare di un «Palatino del cielo». Perché secondo la sua descrizione l’Olimpo è un duplicato celeste della Roma imperiale. Colui che stava per dedicare migliaia di versi a una sequenza ininterrotta di prodigi non riteneva che occorresse segnalare una qualche differenza fra le dimore degli dèi e quelle dei suoi concittadini. Mai la vita degli dèi si era sovrapposta a tal punto, fin nei minimi e intimi dettagli, a quella degli abitanti di una metropoli, di quella città che pretendeva di essere la città. Ma ciò non attenuava in alcun modo la numinosità dei prodigi che stavano per essere narrati. Ed è questo lo scandalo peculiare delle Metamorfosi: racconto di un mondo intessuto di prodigi e abitato da personaggi – innanzitutto gli dèi – che ragionano come se i prodigi si incontrassero ormai soltanto nei poemi. Il giovane Ovidio lo aveva già detto con crudezza, in un distico degli Amores: «Parlo dei prodigi menzogneri degli antichi poeti, / che nessun giorno ha mai visto o mai vedrà».

 

 

Elegia respirava in una spessa foresta, con acque e una grotta stillante al centro. Luogo adatto per il nume. Era leggera, amabile nello zoppicare, la veste increspata, inconsistente. Asciutto e nervoso, il poeta di cui molto si chiacchierava a Roma, ma non tanto per ragioni letterarie, stava camminando fra quegli alberi. Pensava a che cosa scrivere. Tutto lo attraeva fuorché la sonora tragedia, con la sua faccia di circostanza, i coturni dipinti, l’uniformità dell’eloquio. E poi, già allora non si potevano più scrivere tragedie, erano un affare da funzionari imperiali, come i sacrifici. Ovidio guardò Elegia, che gli sorrideva di sbieco. Aveva ancora la fragranza [201] del nuovo. Finse di volerla perché era giovane, breve e adatta ai biglietti amorosi. Ma quelli erano pretesti. Se la voleva, era perché per lui figurava la poesia stessa, corsiva, accidentale e molto privata. Quando fu tra i Geti, alla foce ghiacciata del Danubio, continuava a parlare in distici, ed era un farneticare sommesso, scandito ancora da quel fremito. Ma non si offriva più occasione per biglietti amorosi – e anche le lettere a Roma erano un soliloquio.

 

 

Sotto un cielo di exempla, euforico perché Cupido aveva azzoppato l’esametro, Ovidio descriveva per la prima volta la stanza in penombra, assediata dalla calura («aestus erat»), un attimo prima che nel varco della porta si scorgesse il piede dell’amante. Ovidio è già pienamente lo scrittore moderno, per lui tutto è materiale per letteratura: l’intera mitologia, i gesti del rito si presentano come una ruota di varianti, un repertorio sempre disponibile di movenze, combinazioni, immagini canoniche. Una vibrazione religiosa si avverte in Ovidio solo all’interno della letteratura. È l’unico numen a cui sempre si inchina. Per il resto, che insofferenza a passare una notte casta perché l’indomani la puella dovrà celebrare i riti di Cerere... Allora, in mezzo alle impudenze amorose, Ovidio accenna a una terribile scoperta: che sia la morte a distruggere il sacro. «Scilicet omne sacrum mors inportuna profanat», «La morte molesta profana tutto quel che c’è di sacro». Come se l’opera incombente della secolarizzazione, che procede da sempre, non fosse dovuta a un’empietà della mente, ma alla naturale empietà della morte, che invade, come un’intrusa, ogni recinto. La pochezza, il depauperarsi dei riti funebri, sino alla miseria a cui si riducono, sarebbe allora il segno di questo infido processo: non solo sfuggita alle cerimonie che la sacralizzano, ma perenne testimone avversa, la morte importuna aggira ogni sacro in attesa di profanarlo.

 

 

[202] Ovidio fu tra i primi, se non il primo, a usare tutti gli accorgimenti cautelativi che sono considerati peculiari dei moderni. «Expedit esse deos», «È opportuno che gli dèi ci siano»: così si dice nell’Ars amatoria. Ma se una cosa è «opportuna», dovrà per questo non essere vera? Gli dèi appartengono alle buone maniere dell’esistere. Ma forse questo attenua la loro forza? O inficia la loro necessità? L’urbanità di Ovidio lo pone sullo spartiacque fra la magia e la parodia. Carmen significa per lui «incantamento, evocazione magica», come nelle origini della parola, ma anche «poesia» nel senso di Ronsard o di Mallarmé. E «carmen perpetuum», la formula con cui volle definire le Metamorfosi, significa al tempo stesso «incantesimo senza fine» e «poesia ininterrotta», che si apre con i primordi del cosmo e si chiude nell’istante stesso in cui viene scritta.

Così Ovidio giunse al punto di insinuare che, se gli scrittori hanno bisogno degli dèi, i quali sono la loro prima materia, anche gli dèi hanno bisogno degli scrittori: «Dei quoque carminibus, si fas est dicere, fiunt», «Anche gli dèi, se è lecito dirlo, vengono a essere attraverso i canti». Parole che nominano un rischio nuovo ed estremo – la letteratura assoluta – e Ovidio ne è ben consapevole, con un certo tremore. Perciò intercala quel «si fas est dicere». E scrisse queste parole ex Ponto, dove era stato relegato per aver commesso o per aver visto un nefas, qualcosa di «nefando».

Le Metamorfosi sono l’ultimo dispiegarsi degli dèi nella loro piena variegatezza. L’occasione successiva, quattro secoli dopo, furono le Dionisiache di Nonno, ma lì già tutto era una protratta, sterminata allucinazione. Intorno a Ovidio, invece, nell’Impero da poco insediato, gli dèi mantenevano una loro presenza ufficiale. Nel frattempo in Galilea stava crescendo un bambino ebreo: Gesù. A Roma, se mai, poteva suonare preoccupante la facilità, la familiarità con cui Ovidio trattava gli dèi. «Il meraviglioso diventa plausibile, gli dèi vengono umanizzati, i loro annali sono scritti come se venissero copiati da un registro di parrocchia, i loro eroi potrebbero [203] essere altrettanti conoscenti del padre dell’autore» (annotazione del giovane Ezra Pound).

Fra i Latini, Ovidio fu il più sfrontato verso gli dèi, ma anche il più duttile nel nominare il divino. Afrodite gli appare e gli offre «una foglia e poche bacche» di mirto, che si era tolta dai capelli. Tanto basta per avvertire il numen: «Sensimus acceptis numen quoque», «Appena li presi sentii il divino». E subito tutto cambia: «Purior aether / fulsit et e toto pectore cessit onus», «L’aria più pura / rifulse e qualsiasi peso svanì dal cuore».

 

 

Le donne frivole dove potevano comprare parrucche, a Roma? «Sotto gli occhi di Eracle e davanti al coro delle vergini». Così intendendo: al Circo Flaminio, davanti alle statue di Eracle Musagete e davanti al gruppo delle Muse che lo seguono. Parrucche e statue: Ovidio era la guida migliore per trovarle e combinarle. I vari culti erano anche un pretesto perché l’occhio isolasse le più attraenti puellae, le ragazze che sembravano tutte essersi date convegno in quei luoghi. «Roma ha tutto ciò che c’è mai stato al mondo» si diceva Ovidio, con formula simile a quella che in India era stata usata per il Mahābhārata. «Vanno a teatro per guardare e per essere guardate». Ma lo stesso si poteva dire per le cerimonie. Non c’era che da scegliere, fra «i riti del settimo giorno celebrati dagli Ebrei di Siria» o «i templi egizi della giovenca vestita di lino», dedicati al culto di Iside, o anche altre cerimonie, che Ovidio non precisa. E intanto le equiparava, ai fini della caccia amorosa, al «brusio del Foro», là dove discettavano i giureconsulti accanto alla fontana delle Ninfe Appiadi. Segno di una totale disponibilità e duttilità verso ogni forma del sacro e del profano. Era questo il presupposto di Ovidio – e la condizione da lui prediletta, che aveva potuto manifestarsi soltanto con l’età di Augusto.

 

 

[204] All’inizio Ovidio volle accodarsi a Tibullo, Properzio, Cornelio Gallo, praticando l’elegia come cronaca delle oscillazioni che avvengono in chi è trafitto da Eros, tra l’euforia e la desolazione. Ma poi concepì un piano che lo distaccava da tutti, azzardato e privo di precedenti: un trattatello che avesse come oggetto il concubitus, la «copula» e il suo piacere. La materia usuale dell’elegia diventava il pretesto per giungere a quell’unico fine. Nessuno a Roma – e anche in Grecia – aveva osato proporsi qualcosa di simile.

Ma come fare? Innanzitutto trasferendo il materiale dell’elegia in un altro regime e registro: quello del genere didascalico. Come Virgilio, nelle Georgiche, aveva insegnato in qual modo coltivare e far germinare la terra, Ovidio avrebbe trattato come giungere al concubitus e goderne. In entrambi i casi, era un insegnamento e al tempo stesso una celebrazione.

L’Ars amatoria lo dichiara senza indugi: tratterà di una caccia, accorta e paziente, dove il concubitus è il bersaglio. Passioni divampanti, amori tenaci: sono occasionali conseguenze, ma non l’oggetto stesso del trattatello. E, come in ogni caccia, vi si mescola una certa ferocia: «barbaria noster abundat amor», «nel nostro amore abbonda la barbarie» (eco anticipata della «ferocia naturale dell’amore», di cui scriverà un giorno Baudelaire). Così anche, come in ogni caccia, perpetuo è il movimento, perché «errat et in nulla sede moratur Amor», «Amore è vagante e non si sofferma in alcun luogo».

Mentre attorno a lui si celebrava il «Pudor priscus», il «pudore di una volta», Ovidio ebbe l’insolenza di trattarlo come «sopravvivenza» della «rusticitas» – ovvero della rozzezza contadina – degli «antichi padri». E aggiungeva, come sfida: «ego me nunc denique natum / gratulor: haec aetas moribus apta meis», «mi rallegro di esser nato ora: / questa è l’epoca adatta alle mie maniere». Ovidio spiccava, solitario cantore del presente, in mezzo a una torma di lodatori dei tempi andati e della «simplicitas rudis», quella «grezza semplicità» a cui era ben felice di sfuggire.

[205] Afrodite aveva avvertito Ovidio: «Praecipue nostrum est quod pudet», «La nostra specialità è ciò di cui ci si vergogna». Ma il poeta non rinunciava, così si apprestò a trattare delle posizioni nel concubitus. E anche questa volta, per via acrobatica, lo soccorse un exemplum mitologico: «Milanion umeris Atalantes crura ferebat», «Melanione si sollevava sulle spalle le gambe di Atalanta», perché quella posizione permetteva più di ogni altra di ammirare le lunghe gambe della grande cacciatrice. E Briseide si lasciava toccare dalle mani di Achille, «sempre intrise di sangue frigio», anzi – suggeriva Ovidio – «proprio questo ti faceva godere, spudorata». Se il mito era un repertorio di atti esemplari, questi dovevano estendersi anche a «quod pudet», a ciò che si ha vergogna a dire.

 

 

Che il concubitus – e non il cosmo, come in Lucrezio, o la terra, come in Virgilio – venga eletto a oggetto di un poema didascalico è possibile soltanto se si scrive tongue in cheek. Il sottile veleno della parodia ora penetrava nei capillari di un genere augusto, che risaliva a Esiodo. Ma anche i tormenti amorosi di Properzio o di Tibullo, da cui Ovidio aveva preso le mosse, diventavano casi specifici in un repertorio di possibilità sperimentabili da chiunque. E così perdevano quel carattere di unicità e irripetibilità a cui aspirava la voce del poeta elegiaco. Ormai Properzio non avrebbe potuto dire a Cynthia: «Tu mihi sola places», «Soltanto tu mi piaci», né aspettarsi che Cynthia gli rispondesse come all’unico suo amante.

Concubitus ricorre sette volte nei tre libri dell’Ars amatoria, mentre negli Amores le ricorrenze sono soltanto due. Altre sette volte la parola appare nei quindici libri delle Metamorfosi. E c’è un legame sottile fra le due opere. L’Ars è un trattatello didascalico che si autodistrugge. Insegna regole minuziose su qualcosa che, secondo l’autore stesso, si sottrae a ogni regola, perché occorrono «mille metodi diversi per catturare mille animi diversi». [206] È vano elencare precetti se l’unico argomento sicuro sarebbe quello di addestrarsi all’arte della metamorfosi, finché il cacciatore di ragazze «utque leves Proteus modo se tenuabit in undas, / nunc leo, nunc arbor, nunc erit hirtus aper», «come Proteo si scioglierà in onde leggere, / ora sarà leone, ora albero, ora irto cinghiale».

Il luogo comune sull’uomo come cacciatore amoroso doveva essere ovvio nella Roma di Augusto non meno che in tutte le epoche successive. Ovidio lo trattò come soltanto i veri scrittori sanno fare: lo prese alla lettera, e fin dall’inizio dell’Ars amatoria parlò del cacciatore che «ben sa dove porre le reti per i cervi», ritornando poi costantemente a immagini venatorie. Ma non si trattava solo di trarre profitto da una supposta proverbiale sapienza. Come Bloy, Ovidio cercava nei luoghi comuni l’immagine speculare di verità divine e non temeva di inseguirle, anche là dove lo inducevano a entrare in territori proibiti. E tanto più pericolosi, quanto più leggero era il suo passo.

 

 

Ottantatré volte compare la parola puella, «ragazza», nell’Ars amatoria. Lo sappiamo dalla Concordance of Ovid approntata da Roy J. Deferrari e Martin R.P. McGuire insieme a una religiosa, Sister M. Inviolata Barry, of the College of Our Lady of the Lake. Alta concordanza anche di civiltà, pagana e cristiana.

 

 

Dopo aver indagato per anni intorno all’epoca di Augusto, Syme scrisse dell’Ars amatoria: «Il trattatello non si proponeva di essere preso sul serio: era solo una specie di parodia. Ma Augusto non vide lo scherzo». O altrimenti si potrebbe dire che lo vide troppo bene. Da eminente politico, sapeva che la parodia non era cosa seria, ma grave. Tanto grave da suffragare, un giorno, una condanna all’esilio.

 

 

[207] Pur essendo per costituzione il meno adatto a imprese del genere, toccò a Ovidio scrivere l’opera che si proponeva di penetrare verticalmente nella geologia rituale di Roma per esporla alla luce in forma di racconto scandito dai tempi del calendario: i Fasti. Il poeta più irriverente avrebbe dovuto cantare le cose più sacre. E il primo a dubitare della propria adeguatezza al compito fu Ovidio stesso. Ancora una volta, chiese in soccorso Elegia, sua «indulgente servitrice nell’amore». Ma ora il poeta avvertiva: «sacra cano signataque tempora fasti», «canterò le feste sacre, segnate dai Fasti». E subito sorgeva la domanda: «ecquis ad haec illinc crederet esse viam?», «chi mai crederebbe che da laggiù a queste cose si potesse trovare un passaggio?». Come arrivare dai giochi erotici degli Amores agli arcani di Roma, quando ormai «la marea greca aveva sommerso tutto, distruggendo il gusto e la conoscenza delle spiegazioni tradizionali»? Senza volerlo, e in forma interrogativa, Ovidio aveva definito in quelle parole i punti più distanti del suo territorio e al tempo stesso la peculiarità irriducibile della sua poesia: la capacità di passare con pari efficacia dalla presenza imperiosa del numen a una impavida disinvoltura nel nominare i fatti della vita. L’uno e l’altro elemento sarebbero concresciuti uno sull’altro, come in una vegetazione tropicale, nelle Metamorfosi. O poteva anche darsi il caso che un elemento servisse a occultare e eludere l’altro, come accadde nei Fasti a proposito dei Lupercalia.

 

 

Onfale, sovrana d’Oriente, così apparve a Fauno, nome latino di Pan, dio dell’aspra Arcadia: «Ibat odoratis umeros perfusa capillis / Maeonis, aurato conspicienda sinu», «La Meonia incedeva con i capelli profumati sciolti sulle spalle, / mirabile per il seno dorato». Accanto a lei uno schiavo robusto reggeva un ombrellino per proteggere dal sole il suo incarnato lunare. Onfale entrò in una grotta foltamente decorata. Mentre i servi preparavano cibi e bevande, la regina cominciò a rivestire Eracle con i suoi ornamenti più preziosi. Voleva fare di lui [208] una donna il più possibile simile a lei. Non era facile: una cintura, troppo stretta, saltò; i braccialetti non passavano ai polsi; e i grossi piedi non entravano negli esili sandali. Intanto Onfale si era appropriata della clava di Eracle e della pelle del leone di Nemea. Così addobbati, cenarono e si distesero poi su due letti accostati. Giacevano immobili, come fossero due gemelli. Non potevano toccarsi perché il giorno dopo si sarebbe celebrata una festa che richiedeva la purezza rituale.

Fauno aveva spiato tutta la scena, momento per momento. Non desiderava nulla più che toccare il corpo di Onfale. Aspettò che fosse notte fonda e si avvicinò nel buio, procedendo a tentoni. Allungò una mano, sentì il pelo irsuto del leone di Nemea e si ritrasse. Spostandosi, sfiorò vesti morbide e vi si distese accanto. Provò a sollevarle. A quel punto, «tumidum cornu durius inguen erat», «il suo fallo gonfio era più duro del corno». Una mano si insinuò sotto la veste leggera, incontrando una coscia muscolosa, coperta da una fitta peluria. Eracle si svegliò e gettò l’importuno giù dal letto. Onfale rise, appena i servi fecero luce. Da allora Fauno, ingannato dalle vesti, volle che i celebranti partecipassero «nudi alle sue cerimonie».

Ovidio azzardava con impudenza una spiegazione che nulla spiegava dell’origine dei Lupercalia, festa arcaica e selvaggia. Circa millenovecento anni dopo, nella quiete di Cambridge, James Frazer tentò di rendere ragione di quel rito sconcertante. Secondo la sua ricostruzione, giovani nudi, salvo un cinto di pelle sui fianchi, correvano intorno al perimetro della Roma antica. Con le strisce ricavate scuoiando i capri che avevano sacrificato i Luperci frustavano chiunque incontrassero, ma soprattutto le donne, «che offrivano le mani per riceverne i colpi, convinte che fosse un modo sicuro per ottenere prole e un parto facile». Il resoconto di Frazer è eufemistico e tace i dettagli che sino a oggi «restano senza spiegazione», come osservò Dumézil: dopo aver sacrificato i capri, i Luperci devono avere la fronte spalmata di sangue con un coltello, poi altri giovani asciugano [209] il sangue con una pezza di lana imbevuta di latte – e «bisogna che i giovani ridano dopo che il sangue è stato asciugato». Così scriveva Plutarco. Di quel sangue e di quel riso obbligato nessuno ha saputo rendere ragione. Quanto alle donne frustate sulle mani, non sempre il rito doveva limitarsi a questo. In un mosaico trovato in Tunisia si vede una donna sollevata da due giovani sotto le ascelle e le gambe, mentre un Luperco sta per frustarla sulla parte inferiore del corpo, denudata.

Frazer descriveva i Lupercalia con la stessa impassibilità con cui aveva descritto i riti sanguinosi di tante oscure tribù. E quelle descrizioni si giustapponevano agevolmente. Ma nel caso dei Lupercalia era d’obbligo riferirsi anche alla cronaca di Roma, e precisamente a ciò che era accaduto il 15 febbraio del 44 a.C., un mese prima dell’assassinio di Cesare e un anno prima della nascita di Ovidio. Ricordando che a Roma il 15 febbraio era un giorno speciale: «Una volta l’anno, per un giorno, l’equilibrio fra il mondo regolato, esplorato, diviso e il mondo selvaggio si rompeva: Fauno occupava tutto».

Quel giorno di febbraio del 44, su un trono d’oro Cesare, al picco della sua gloria, stava assistendo alla furiosa corsa dei Luperci. Fra i quali Marco Antonio, nudo e lucente d’olio. La folla si aprì davanti a lui quando si avvicinò a Cesare e gli offrì un diadema incastonato in una corona di alloro. Cesare fece un gesto di rifiuto e la folla applaudì. Antonio ripeté il gesto e Cesare rifiutò di nuovo. Cresceva il tumulto degli applausi. Cesare allora si alzò dal trono, si scostò la tunica dal collo e offrì la gola a chi volesse tagliarla. «Secondo Cicerone, che forse vide la scena, Antonio era nudo e ebbro quando tentò di incoronare Cesare re di Roma».

Ovidio scriveva i Fasti dopo anni di feroce guerra civile e quell’episodio, che fu inteso come «un primo abbozzo del culto imperiale», doveva essere ancora nella mente di molti. Secondo Plutarco, i Lupercalia ricordavano i riti del monte Liceo in Arcadia e perciò si connettevano a vicende di cannibalismo e metamorfosi. Frazer si contentava invece della sua parola passe-partout: fertilità. [210] Ma il rito rimaneva indecifrato e ominoso. Ovidio scelse, da accorto etnografo e freddo letterato, di eluderlo del tutto, perché forse significava troppo. E il modo migliore per distoglierne l’attenzione poteva essere per lui quello di tornare al suo ruolo di poeta dei giochi amorosi, talvolta turpi e spesso comici. Nulla poteva essere più distraente della storia oltraggiosa di Fauno, dove Eracle appariva come schiavo di una donna, vestito da donna e scambiato per una donna, seppure per poco. Storia presentata come un «mito colmo dell’antica giocosità». Così antico che soltanto Ovidio lo ricordava.

 

 

Con pari scrupolo, Ovidio scrisse un trattatello di cosmesi, dedicato al viso delle donne, e un poema «scavato dagli annali dei primordi», i Fasti. Entrambi in distici elegiaci. «Culta placent», «le cose raffinate piacciono»: poteva essere il suo motto, anche se lo offrì solo come primo consiglio per le belle.

A Roma, l’anno era punteggiato di tempi fasti e nefasti. I giorni e le ore. Fasti erano i giorni in cui il pretore poteva pronunciare tre parole: «Do, dico, addico», e così dava corso alla legge. Nefasti quelli in cui le tre parole «vengono taciute». Immensa, indominabile, in larga parte indecifrata: così si presentava la mole delle tradizioni rituali nella Roma di Augusto. Materia remota, aspra. Ma il princeps, come tutti i potenti, aveva il culto delle origini. E Ovidio mostrò acribia nell’improbo compito – solo a tratti lasciando trasparire una qualche impazienza.

L’anno si apriva con un fico, un dattero, miele in una ciotola bianca e una moneta con una nave su una faccia e Giano bifronte sull’altra. Da quel momento in poi, si inanellavano feste e celebrazioni disparate. Il 15 aprile, giorno dei Fordicidia, il Campidoglio era inondato dal sangue di vacche gravide e la più anziana delle Vestali bruciava i feti dei vitelli. Cenere preziosa, che sarebbe stata usata il 21 aprile per la festa della dea Pales.

Ovidio racconta che aveva tenuto nelle sue mani le [211] ceneri di quei vitelli. Durante un’altra festa, i Robigalia, aveva assistito al sacrificio di una cagna («abbiamo visto le turpi interiora di una oscena cagna»). Ne chiese il perché al flamen, il quale si riferì a Maira, la cagna di Erigone, che poi era diventata Sirio: «al posto del cane astrale si depone sull’altare questo cane, che viene fatto morire soltanto perché ha lo stesso nome». Freddo, tecnico, intimidente nominalismo sacerdotale. Per un altro rito, Ovidio racconta di essere saltato in mezzo a vari fuochi. Non tutto il suo tempo passava davanti alla porta delle puellae.

Molteplici e circoscritte erano le dee: Fornax per i forni; Robigo per la ruggine; Carna per i cardini delle porte. Ma venne anche introdotto un tempio per Mens, la mente, in conseguenza di una sconfitta subita dai Cartaginesi. Ovidio si muoveva con scioltezza in questa smisurata congerie di gesti, reliquie, etimologie, cronache. E a tratti confessava di sentirsi frastornato da una «torma di dubbi». Troppo numerose e incompatibili erano le interpretazioni. Una volta, quasi per sfida, ne elencò nove – e non ne volle scegliere una che ritenesse giusta. Attorno a lui, i Romani continuavano, senza flettere, a celebrare riti i cui significati sempre più ignoravano. Sapevano, con la loro sbrigativa lucidità, che sui riti la città si fondava.

Ai Fasti si potrebbero applicare le parole che vi commentavano un costume oscuro per cui si sguinzagliavano volpi con torce attaccate alle code: «factum abiit, monimenta manent», «il fatto si è dissolto, i memoriali rimangono». Fu la sorte di Ovidio testimoniare quanto di più remoto e catafratto del passato sopravvivesse nella Roma di Augusto e al tempo stesso il suo presente effimero come il trucco su un volto femminile.

 

 

Le Metamorfosi sono innanzitutto il ricordo di quell’èra remota del mondo durante la quale tutto si trasformava in tutto. Questo rendeva la vita impossibile per chiunque volesse avere un nome e una forma, senza ulteriori [212] mutamenti. Gli dèi posero fine a questo stato, in quanto ulteriormente lo trasformarono. E furono i primi ad avere un nome e una forma. Se gli uomini possono pretendere a tanto, è solo perché gli dèi lo hanno già raggiunto. Ma gli dèi nulla crearono – anzi l’idea stessa del creare appariva loro estranea e incongrua. Gli dèi furono soltanto maestri della trasformazione. Anche quando il mondo si acquietò, continuarono ad applicare la potenza primordiale della metamorfosi a singoli casi, a singole occasioni, perché la vita non perdesse la sua avventurosità. Così i profili indelebili che gli dèi ostentavano non cessarono mai di mescolarsi con il turbine di apparizioni da cui si erano distaccati.

 

 

Le Metamorfosi sono storie dentro storie, incastonate, autosufficienti. Nella loro immediatezza, tutte potrebbero fare a meno delle altre. Ma ciascuna è illuminata dalla sua cornice e solo dalla cornice trae un significato ulteriore. Afrodite dimentica i suoi santuari, ignora persino il cielo pur di seguire il giovane cacciatore Adone. Mentre il figlio Eros le stava dando un bacio, lo stelo di canna di una sua freccia aveva graffiato il seno di Afrodite. Tanto bastò perché la madre cadesse in una passione nuova, che presto avrebbe avvicinato Afrodite alla dea con cui meno aveva a che fare: Artemis, che appare e si dilegua nella macchia, sulle montagne. Anche se volenterosa, Afrodite presto si estenuava in quel «labor insolitus», fatica a cui non era avvezza. Cacciare le era indifferente, soltanto un pretesto per stare accanto a Adone.

Fu allora che lo mise in guardia e volle raccontargli la storia della donna più incompatibile con lei, la bionda Atalanta, che faceva morire chiunque aspirasse alle nozze. Quella storia ammonitrice non servì. Adone venne ucciso da un cinghiale, Atalanta venne trasformata in leonessa. Due belve predatrici. Ma che cosa collegava, più segretamente, Atalanta e Afrodite? L’irresistibile amore fisico. Una volta sconfitta nella corsa da Ippomene, [213] Atalanta era diventata una amante soggetta non meno di Afrodite alla «concubitus intempestiva cupido», alla voglia sessuale inopportuna e intemperante. Insieme a Ippomene, ormai suo sposo, vagavano un giorno nella foresta quando si trovarono davanti a un santuario di Cibele. Solitario, vuoto. Vicino al tempio, una piccola grotta, piena di statuette degli dèi in legno, molto antiche. Lì Ippomene fece stendere Atalanta. I simulacri distolsero gli occhi davanti al piacere degli amanti. Per quella colpa furono trasformati in una coppia di leoni che non potevano accoppiarsi.

Ovidio volle evocare la massima acuità del desiderio sessuale in due figure femminili: Afrodite, che lo propaga e protegge, e Artemis, che lo fugge e castiga. Atalanta, controfigura di Artemis, è la donna che Afrodite evoca poco prima che il suo amante Adone venga ucciso. È il legame più forte, che sfugge alle parole.

 

 

Poiché le Metamorfosi di Ovidio raccontano circa duecentocinquanta casi di metamorfosi in quindici libri e ogni metamorfosi è un miraculum, un «prodigio», la prima questione formale che si porrà nell’opera sarà questa: come passare da un prodigio all’altro, anche considerando che le storie accadono in ogni angolo della terra allora conosciuta e in un arco di tempo che va da subito prima del diluvio sino al regno di Augusto? In termini di retorica – e di composizione musicale – è la questione delle transizioni, il più arduo problema formale che Ovidio era chiamato a risolvere. E per uno scrittore nulla ha importanza paragonabile alle sfide della forma.

Più che nel libro I, ancora in parte occupato dalla descrizione di eventi cosmici (l’elaborarsi del caos, le quattro età del mondo, la Gigantomachia, il diluvio universale), è nel II che la narrazione si impiglia in un reticolo di storie – e perciò anche di transizioni dall’una all’altra. Questa è la sequenza: all’inizio la corsa di Fetonte, che non riesce a guidare i cavalli del Sole sulle piste del [214] cielo e va molto vicino a incendiare non solo la terra ma l’universo, prima di precipitare nell’Eridano. Molto più che nei versi sul caos e sul diluvio, qui Ovidio si rivela come stupefacente poeta cosmico. Ma ciò che viene narrato, pur nelle sue immani dimensioni, non cessa mai di essere – questa volta – la storia di un adolescente ossessionato da un cruccio: in quanto figlio illegittimo, esige da Helios un segno di amore incondizionato, che lo convinca per sempre di essere suo figlio. E Helios glielo dà, concedendogli ciò che neppure a Zeus permetterebbe: guidare per un giorno il suo carro. A partire da quel momento, seguiamo ciò che avviene come se fossimo prigionieri nella testa di Fetonte – e con lui ci inabissiamo. Ma, già venti versi dopo, Helios dovrà scuotersi dalla paralisi e riprendere le redini dei suoi cavalli, ancora «deliranti e frementi di terrore». In questa fase del mondo, le pause non vengono concesse, i lutti sono lancinanti e brevissimi. E subito ci si chiede: che cosa seguirà alla catastrofe?

La risposta: un’altra storia di insidie amorose. Come nel libro I alla narrazione del diluvio e all’uccisione di Pitone, ultimo sopravvissuto di un’epoca di mostri, segue la storia di Apollo e Dafne, così questa volta al disastro di Fetonte la storia di Zeus e Callisto. Improvvisamente il mondo si svuota e ciò che accade si concentra su un corpo di donna e un occhio che lo scruta. È l’epifania della bellezza artemidica, origine delle storie più crudeli. Lo schema si ripeterà molte volte (anzi, sarà il filo dorato e cruento, tanto spesso affiorante nell’opera), ma con la prima apparizione di Dafne tutte le sue peculiarità sono già presenti. C’è una cacciatrice, di straordinaria bellezza, che pensa solo alla caccia e corre nelle selve. I suoi capelli sono sciolti, la veste corta, le mani impugnano l’arco o un giavellotto. È questa la visione primordiale del desiderio: una figura che fugge davanti agli occhi e scompare come un’allucinazione (l’originaria passante di Baudelaire).

Ma perché Dafne dovrà essere la prima ad apparire – e non per esempio Siringa o Callisto, la cui storia Ovidio [215] narrerà poco dopo? Forse perché fu «il primo amore» di Apollo? O forse solo perché Apollo la incontrò sulla stessa montagna dove aveva appena trafitto Pitone? C’è un terzo motivo, più plausibile. La storia di Dafne sarà la capostipite di tutte le storie erotiche e metamorfiche perché è l’unica dove un dio abbia osato – per pochi istanti – mettere in dubbio la sovranità di Eros. Il quesito era: chi possiede la freccia più potente? Ancora gonfio di albagia per aver trafitto Pitone, Apollo schernisce Eros, «fanciullo lussurioso», che sta giocando con il suo arco. Il dio straparla. Il piccolo Eros gli risponde con un teorema da sommo teologo: «Febo, il tuo arco può trafiggere tutto, / il mio trafigge te», «Figat tuus omnia, Phoebe, / te meus arcus». E aggiunge un corollario: «quanto minori sono tutti i viventi / rispetto al dio, di tanto la tua gloria è minore della mia». Questa è aritmetica cosmica. Subito verificata, perché una freccia di Eros trafigge Apollo «fino al midollo», mentre Apollo non riesce a colpire Eros. Di fatto, ha già altro da pensare. Già ama Dafne, che lo fugge. Eros ha provveduto a trafiggere anche lei con una freccia dalla punta di piombo, che scaccia l’amore.

Essendo la storia di Dafne soltanto la prima fra molte di amori degli dèi, si potrebbe pensare che Eros frequentemente vi appaia. Ma Ovidio è teologo tanto più rigoroso quanto più dissimulato. Se non ama soffermarsi sulle storie, tanto più sui loro motivi celesti. Per lui la teologia deve dichiararsi solo in rari e proditori squarci. Altrimenti occorre ricostruirla di maglia in maglia della rete. La teologia è onnipresente, ma implicita nella forma. È ciò che accade per Eros. Pur così potente e pervasivo, apparirà solo in tre occasioni. Nel libro V, Afrodite chiede il suo aiuto perché trafigga il re dei morti, Ade. Anche questa volta è una questione di potenza. Afrodite si è accorta che nella tripartizione del mondo fra Zeus, Poseidone e Ade la parte di quest’ultimo sfugge ancora alle frecce di Eros: «Tu vinci e domi gli dèi del cielo e lo stesso Giove, tu vinci e domi le divinità del mare e anche colui che regna sulle divinità del mare. Perché allora [216] non il Tartaro? Perché non espandi l’impero tuo e di tua madre? Si tratta di un terzo del mondo». Quando Eros è in gioco, tutti parlano da teologi, persino Afrodite.

Poi di nuovo Eros scompare, per riapparire nel libro X. È come se le Metamorfosi esigessero la sua presenza ogni cinque libri. Di fatto era rimasta una lacuna. La madre, Afrodite, parlava avventatamente, come se i poteri suoi e del figlio coincidessero. Ma così non era. Lo scoprì la dea, quando il suo petto venne scalfito da una freccia di Eros. Sembrava una cosa da nulla, ma «la ferita era più profonda di quel che sembrava». Ovidio non dà respiro: già nel verso successivo Afrodite è persa in un delirio amoroso e trascura i suoi doveri di dea: «al cielo preferisce Adone», «caelo praefertur Adonis». Così si chiude il cerchio per Eros: non solo su Apollo e tutti gli Olimpi (libro I), non solo su Ade e il regno dei morti (libro V), ma perfino sulla madre Afrodite la sua supremazia è dichiarata, inconcussa (libro X). Ora le Metamorfosi possono procedere verso l’estuario del libro XV, mescolando sempre più le loro acque a quelle torbide e avvelenate della storia.

 

 

L’umiliazione di Ovidio (umiliazione della letteratura tutta): essere costretto a concludere le Metamorfosi con il catasterismo di Giulio Cesare e quello, annunciato, di Augusto. Da allora la letteratura vive sotto la minaccia di essere richiamata in servizio. Il finale delle Metamorfosi non può che stingere su tutto il resto, lo svilisce nell’ossequio. Se l’opera culmina nell’assunzione in cielo di Giulio Cesare e del suo figlio adottivo (che qui diventa figlio naturale: ultima, taciuta metamorfosi), anche le riunioni dell’Olimpo non potranno che somigliare alle assemblee del Senato, dove i senatori fingono di decidere e intanto sottoscrivono le volontà del sovrano. Se Augusto si innalzerà verso Zeus, ben di più Zeus si abbasserà verso Augusto. La distanza incommensurabile fra dèi e uomini, pur nati da «una stessa stirpe», come Pindaro scrisse, veniva a ridursi – e potenzialmente [217] a cancellarsi. L’epos del mondo metamorfico, scintillante in duecentocinquanta episodi, sfociava in una scena che implicava il suo definitivo tramonto.

 

 

Usando l’Olimpo come un mirador, Hera scrutava incessantemente ogni spicchio della terra. Sospettava che ovunque potessero compiersi le fraudolente incursioni erotiche del suo compagno di letto, fratello, consorte: Zeus. Un certo giorno, la visione venne impedita da una spessa caligine. Hera sapeva anche essere meteorologa. Indagò sulle ragioni di quel fenomeno, «stupita che rapide nuvole, in uno splendido giorno / avessero finto una notte; capì che non erano effetto / del fiume, e neppure le aveva emanate la terra bagnata». Capì poi che la caligine era un accorgimento di Zeus per nascondersi. Esperta dei «furta mariti», Hera intervenne d’urgenza, usando anche lei i suoi poteri cosmici. Dissipò la nebbia, ma nel frattempo – come in un Feydeau con porte e armadi che si aprono e si chiudono – Zeus aveva già trasformato Io, sacerdotessa nel santuario di Hera in Argo (e questo rendeva tanto più odiosa quell’impresa di seduzione, condotta nel più venerabile territorio della consorte divina), in una «splendida giovenca».

Allora cominciò una scena di trascendentale, sofisticata commedia, fra due consumati attori. Hera girava intorno alla giovenca. Fingeva interesse, ammirazione. «È proprio bellissima. Ma chi è il suo padrone?». Zeus tentava, come molte altre volte, di assumere l’espressione che meno gli si addiceva: quella dell’ignaro. «Non so. Deve essere nata dalla terra». «Allora me la regali» replicò Hera, senza lasciare respiro al consorte. Che si sentì trafitto: «crudele suos addicere amores», «è crudele consegnare il proprio amore». Ma sarebbe altamente sospetto «rifiutare un piccolo dono alla compagna di stirpe e di letto». Così Zeus cedette, in forza di un ragionamento stringente: «si ... vacca negaretur, poterat non vacca videri»: «se ... la vacca fosse stata negata, sarebbe potuta sembrare non vacca». Con la gravità di un giure [218] consulto romano, Zeus arrivò alla conclusione che era più opportuno regalare l’amante alla moglie. Ma tanto non bastava, per Hera, a dismettere i sospetti. La splendida vacca sarebbe stata sorvegliata, come una prigioniera altamente pericolosa, all’interno del recinto dove un tempo Io aveva officiato per Hera.

Fin qui aveva prevalso una formidabile comicità. Mai una lente di tale potenza si era avvicinata ai minimi moti nella commedia coniugale fra Zeus e Hera. Ora, con brusco scarto, si passava al pathos. Io, la bellissima sacerdotessa a cui Zeus aveva detto che sarebbe stata la fortuna di chiunque avesse accolto nel suo letto, era una giovenca solitaria, costretta a vagare nei luoghi della sua infanzia, senza che alcuno la riconoscesse. Suo padre era Inaco, il fiume che scorre vicino a quei pascoli. Io vi si accostò. Lambì l’acqua che era il padre. Si riflesse nelle sue onde e inorridì. Allora, con uno zoccolo, tracciò nella polvere le lettere che raccontavano la sua storia. Il padre le decifrò e capì. Abbracciò piangendo la figlia giovenca, ma presto Argo, lo sgherro incaricato da Hera di sorvegliarla, gliela strappò dalle braccia. Poi la ricondusse in pascoli solitari. Si accucciò su un’altura, ispezionando l’orizzonte con i suoi cento occhi.

 

 

Io viene trasformata da Zeus in giovenca; e da Zeus ritrasformata in donna. Suo figlio è Epafo, Contatto. Con lei il tocco di Zeus ha agito due volte: la metamorfosi non era ancora vincolata all’irreversibilità. Tutte le altre metamorfosi narrate da Ovidio sono irreversibili. L’irreversibile è l’umano, ferito dalla freccia del tempo.

Il gesto più delicato per far intendere agli dèi che cos’è l’irreversibile, piaga di tutti gli uomini, è la libagione: versare per terra un liquido nobile, perderlo per sempre. Era un gesto di omaggio: il riconoscimento della presenza e del privilegio di un invisibile. Ma si poteva anche intendere come un accenno di conversazione. Un modo per dire agli dèi: qualsiasi cosa facciamo, noi siamo questo liquido versato. Anche gli dèi talvolta si mostravano con le [219] coppe della libagione in mano. Quel gesto degli dèi traboccava di significati, che non si esauriscono. Ma certamente era anche un modo di riprendere la conversazione: un cenno di approvazione verso quello stesso gesto, che gli uomini compivano tanto spesso sotto lo sguardo degli dèi.

 

 

Al pari delle streghe, gli dèi non possono piangere («Non si possono macchiare di lacrime i volti divini»), ma emettono gemiti dal profondo di una fisiologia ignota. Così accadde ad Apollo, che aveva appena trafitto la sua amante traditrice Coronis e ora tentava vanamente di applicare su di lei le sue arti mediche. «Ora moriamo in due» gli sussurrò Coronis, morendo e rivelandogli che era incinta di Asclepio. Seguì allora il gemito di Apollo, più animale che umano o divino. Dice Ovidio che il dio non molto si distingueva dalla «giovenca che osserva come un martello / si sollevi sopra l’orecchio destro del vitellino di latte / per poi colpire il cavo della sua tempia con un suono secco», «haud aliter quam cum, spectante iuvenca, / lactentis vituli dextra libratus ab aure / tempora discussit claro cava malleus ictu».

È un paragone che può aiutare a capire la differenza ultima fra Ovidio e i poeti latini che lo avevano preceduto. Neppure Lucrezio, che ostentava la crudezza verso gli dèi come suo punto d’onore, era arrivato a nominare quel gesto, quel silenzio, quel suono. Era l’istante – l’unico istante – in cui ciò che avviene nel mattatoio e nel sacrificio coincidevano. E nulla somigliava alla fitta di sofferenza di Apollo più che il patimento muto sofferto da un animale che osservava quella scena. Ma non avrebbero detto un giorno Winckelmann e altri con lui che Apollo si situava al di là delle passioni, in una «nobile semplicità e quieta grandezza»?

Quell’istante era l’origine – infaticabilmente nascosta – di tutto il culto. Se non ci fosse stato quell’istante, non ci sarebbe stato bisogno della dottrina – essoterica ed esoterica – del sacrificio. E ora uno scrittore lo nominava, [220] usandolo come una similitudine qualunque incastonata in una delle innumerevoli avventure divine con le donne della terra. Come nessuno aveva osato prima definire un catasterismo «prezzo dello stupro» – e oltre tutto lasciando pronunciare quelle parole da una dea –, così Ovidio pochi versi dopo attribuiva alla sofferenza di un dio la massima affinità con quella di una giovenca che assiste all’uccisione di un suo vitellino durante un sacrificio. Ma non doveva il sacrificio essere un atto che mirava a compiacere gli dèi? E perché Apollo lo percepiva con gli occhi della vittima?

A questo non troveremo risposta in Ovidio, che procede nel turbine della sua narrazione senza guardarsi indietro. Ovidio è colui che vuole soltanto nominare ciò che accade. E, se possibile, tutto ciò che accade. Non solo i miracula, i «prodigi» che contrappuntano le Metamorfosi, ma innumerevoli passaggi intermedi su cui gli scrittori usavano passar sopra – e ora invece spiccavano, in poche, icastiche, indubitabili parole.

 

 

Nel mondo pagano, due sono stati gli atti d’accusa più duri contro la dieta carnea: la parte su Pitagora nel libro XV delle Metamorfosi di Ovidio e Sull’astinenza di Porfirio. In tutti e due i casi l’uccisione degli animali per cibarsi appariva come ciò che vi è di più vicino a un peccato originale. «Primusque animalia mensis / arguit imponi», «per primo contestò / che venissero serviti animali in tavola»: per Ovidio era questo il primo punto della dottrina pitagorica, non già la scoperta degli incommensurabili o la metempsicosi. E, quando Pitagora stesso prende la parola, un soffio di alta eloquenza pervade il verso. Le implicazioni speculative sono ramificate. Il primo colpevole, «non utilis auctor», veniva individuato in colui che «invidiò ai leoni le loro prede». Passaggio decisivo: qui si nomina l’imitazione del predatore come origine di ogni male. Quell’ignoto che l’attuò «fecit iter sceleri», «aprì la via al crimine». Non solo: l’intero sistema sacrificale veniva coinvolto nella colpa, con [221] l’aggravante di attribuirne l’istituzione agli dèi: «Nec satis est quod tale nefas committitur; ipsos / inscripsere deos sceleri numenque supernum / caede laboriferi credunt gaudere iuvenci», «E non basta che tale nefandezza [il sacrificio] venga commessa; ma agli stessi / dèi vien fatto risalire il crimine e si crede che le divinità celesti / godano per l’uccisione di un bue da lavoro». Maestro della concisione inequivocabile, con queste parole Ovidio mette in dubbio la giustificazione dell’atto sacrificale, che invece in tutte le altre storie delle Metamorfosi era il fulcro nei rapporti fra dèi e uomini. Rare vi sono le vicende che non abbiano al loro centro o comunque in una posizione strategica un sacrificio. E nessuno dei personaggi, eccetto Pitagora, che appare solo alla fine del poema, aveva osato confutarlo in sé.

Ovidio non solo offre, attraverso Pitagora, alcune formulazioni secche e perentorie che intaccano alla radice la teologia del sacrificio, ma insinua dubbi e dà nome a percezioni psicologiche sottili. Quanta è la distanza fra chi offre «orecchie indifferenti» ai gemiti degli animali toccati dal coltello sacrificale e chi è pronto a uccidere in genere? «Quantum est, quod desit in istis / ad plenum facinus? quo transitus inde paratur?». Dall’uccisione sacrificale si apre il passaggio – transitus – a qualsiasi altra uccisione, alla «pienezza del delitto». E le orecchie indifferenti alle vittime sgozzate sugli altari potranno rimanere tali anche dinanzi a chiunque altro sia toccato dal coltello.

L’esposizione della dottrina di Pitagora alla fine delle Metamorfosi è l’unica digressione metafisica nell’opera. La sua luce investe retrospettivamente le aggrovigliate storie che l’hanno preceduta nel corso dei quindici libri. E non è chiaro come un mondo interamente sacrificale possa convivere con quella argomentazione dirompente rispetto al sacrificio stesso. Il contrasto appare subito in evidenza: appena Pitagora ha concluso il suo discorso divinamente ispirato – «quoniam deus ora movet» – si passa a Numa, presentato come fedele discepolo di Pitagora stesso. Ma qual è il primo atto di Numa reggitore del popolo di Roma? «Sacrificos docuit ritus», «insegnò i riti [222] sacrificali», primo gesto civilizzatore. E addirittura quei riti erano l’artificio grazie a cui Numa «indusse alle arti della pace un popolo abituato alla ferocia della guerra». Con questo si direbbe che l’intera dottrina di Pitagora venga cancellata dal suo discepolo. D’altra parte, Ovidio lo aveva accennato: quelle del maestro erano state parole sapienti, «sed non et credita», «ma non credute».

 

 

Se Lucrezio obietta al sacrificio, è un’inevitabile conseguenza della sua opposizione al sistema olimpico. Ma Ovidio e Porfirio, ciascuno a suo modo (con le Metamorfosi Ovidio, con L’antro delle Ninfe Porfirio), celebravano nel suo variegato dispiegarsi l’ordine di Zeus. Come poteva questo accordarsi con il tentativo di scardinarlo dall’interno, affermando l’empietà del sacrificio? E Ovidio, con la sua impavida arte del dettaglio, si spingeva oltre, fissando nel momento culminante l’atto sacrificale stesso, visto dalla parte della vittima: «Victima labe carens et praestantissima forma / (nam placuisse nocet) vittis insignis et auro / sistitur ante aras auditque ignara precantem / imponique suae videt inter cornua fronti, / quas coluit, fruges percussaque sanguine cultros / inficit in liquida praevisos forsitan unda», «La vittima immacolata e di somma bellezza / (venir ammirata, infatti, è stata la sua rovina), ornata d’oro e di bende / viene condotta dinanzi all’altare, ascolta senza capirlo l’orante, / si vede porre tra le corna frutti della terra / che ha coltivato e, appena viene colpita, con il suo sangue / tinge i coltelli che forse un giorno aveva visto immersi nell’acqua trasparente». Nell’Iliade si poteva leggere la descrizione dello sfacelo che si compiva nei guerrieri achei o troiani quando venivano colpiti a morte, mai prima di Ovidio invece si era incontrata la descrizione di ciò che percepiva la vittima sacrificale un momento prima di essere abbattuta.

 

 

Immolare è diverso da uccidere. Soltanto perché qualcuno (un sacerdote, un potente, un uomo qualsiasi) ha [223] dichiarato che si tratta di un sacrificio? I Romani, ritualisti rigorosi, non pensavano così. Si immola ciò che è cosparso di mola salsa, un impasto di farro e sale che poteva essere preparato esclusivamente dalle Vestali. La mola salsa si spargeva sulla fronte della vittima, sull’altare e sul coltello sacrificale. Ma perché, in mancanza di quell’impasto, non era ammesso immolare? L’usanza e il divieto erano stati introdotti da Numa, l’unico fra i re di Roma che «passava la maggior parte del suo tempo a celebrare riti e a istruire i sacerdoti». Anche troppo in familiarità con il divino, si diceva, se era vero che Egeria, una Ninfa, non era soltanto sua consigliera, ma «coniuge». Numa era un esperto di sacrifici e di segreti. Insegnò ai Romani a venerare una Musa «che chiamava Tacita, la silenziosa o la muta».

A Numa si attribuisce di aver chiarito direttamente con Zeus come andavano celebrati i sacrifici espiatori. Era una storia che risaliva all’annalista Valerio Anziate. Plutarco la considerava «mitica e risibile». Tuttavia la riportò, da impeccabile antropologo qual era, perché «rivelava l’atteggiamento degli uomini di allora verso il divino». Lo stesso accadde con Ovidio nei Fasti.

Secondo Ovidio, Numa impose innanzitutto di «addolcire i Quiriti, troppo pronti alla guerra». Perché abbandonassero la loro «selvaggeria», feritas, li indusse a versare libagioni su altari cosparsi di mola salsa. Che fu perciò, sin dall’inizio, elemento indispensabile del sacrificio.

Ma un giorno Iuppiter si manifestò con una sequenza terrorizzante di folgori. Il popolo era nel panico. Gli usuali sacrifici non bastavano. Occorreva evocare Iuppiter stesso. Numa allora si dedicò alla prima operazione di teurgia, anche se la parola ancora non esisteva. Occorreva un luogo adatto ad accogliere il nume: una radura che si apriva in un folto bosco sull’Aventino. Occorreva il soccorso di due dèi silvestri, Fauno e Picus. Un aiuto che non si poteva ottenere «senza violenza», «sine vi» – una lezione per tutti i teurghi futuri. E finalmente Iuppiter accettò di farsi tirare giù dal cielo. Per questo lo [224] chiamarono Elicius. Quando calcò l’Aventino, tremarono le cime degli alberi e il suolo cominciò a cedere. Il dialogo che seguì fu un concentrato di brutalità e scaltrezza, una versione romana di quello fra Zeus e Prometeo a Sicione, quando Zeus volle lasciarsi ingannare. Occorre seguirlo come Ovidio lo ha trasmesso. Numa chiese «certa piamina fulminis», un modo sicuro per scongiurare la folgore. Iuppiter: «Caede caput», «Taglia una testa». Numa fa il finto tonto, confonde caput con cepa, «cipolla». Assicura che taglierà una testa di cipolla. «Di uomo» precisa Iuppiter, come al banco di un saloon. Numa finge che Iuppiter gli abbia chiesto i capelli e non la testa di un uomo. Iuppiter precisa ancora e «chiede a questo punto la vita». Questo è il nodo di tutto: agli dèi importa ottenere ciò che vive. Così il sacrificio dovrà togliere la vita a un uomo. Non si potrebbe essere più chiari. Ma Numa è ostinato. Ora fa finta che Iuppiter abbia parlato di pesci. A questo punto la tensione si rompe. Iuppiter ride. Ha apprezzato la commedia di quell’«uomo non inadatto a conversare con un dio». E anche capace di sventare un sacrificio umano.

Non fu così facile, né così rapido, nella storia. Solo novantasette anni prima della nascita di Gesù i sacrifici umani vennero aboliti con un senatoconsulto. I senatori romani avevano pensato a qualcosa di mitico o leggendario? Non era così. Erano sobri, duri e pragmatici. Non usavano i senatoconsulti per raccontare favole. Ricordavano che non molto più di un secolo prima, «per obbedire a oracoli dei Libri Sibillini, due Greci, un uomo e una donna, e due Galli erano stati seppelliti vivi nel Foro Boario». Quel giorno Iuppiter non aveva riso.

 

 

Un giorno la metamorfosi, che era stata il prodigio quotidiano, divenne un castigo intermedio fra l’esilio e la morte. Fu Afrodite ad annunciarlo: «Siquid medium est mortisque fugaeque / idque quid esse potest, nisi versae poena figurae?», «Se vi è qualcosa di intermedio fra la morte e l’esilio / che altro potrebbe essere se non il castigo del [225] cambiare aspetto?». Alla fine della sua vita, Ovidio diventava uno dei suoi personaggi.

 

 

Ancora per Pausania, un secolo dopo Cristo, che ci fosse stata un’èra della metamorfosi appariva come un’evidenza. E mai ne parlò così chiaramente come all’inizio del suo libro sull’Arcadia: «Gli uomini di allora erano ospiti e commensali degli dèi, per la loro giustizia e devozione. I buoni venivano con evidenza onorati dagli dèi e gli ingiusti ne subivano, con altrettanta evidenza, l’ira. Allora accadeva anche che certi esseri umani diventassero dèi, coloro che ancora oggi conservano questo dono, come Aristeo o Britomartis la Cretese o Eracle figlio di Alcmena o Anfiarao figlio di Ecle, e anche Castore e Polluce. Perciò era credibile anche che Licaone fosse trasformato in belva e che Niobe, la figlia di Tantalo, diventasse una pietra. Oggi però, quando la malvagità ha raggiunto il culmine e si è diffusa su tutta la terra e in tutte le città, nessun uomo diventa più un dio, eccetto nelle parole adulatrici verso il potente, e l’ira degli dèi si sospende fino a quando gli ingiusti hanno lasciato il mondo».

Durante il regno della metamorfosi si diventava ciò che si era. E il mutamento poteva risultare plausibile. Mentre più tardi un velo di opacità si era steso progressivamente sul mondo. Era venuto a cadere ogni rapporto visibile fra ciò che si era e come si appariva. I castighi venivano rinviati a un altro mondo. E non si poteva più aspirare a essere «ospiti» degli dèi. Tutte le storie di prodigi non potevano che suonare dubbie. E solo rimaneva una traccia – beffarda – di quell’altra età, quando qualcuno adulava i potenti trattandoli come esseri divini. Triste farsa, a cui nessuno credeva. A partire dai potenti stessi e dai loro adulatori.

 

 

Poros, Passaggio, era figlio di Metis, Sapienza, prima amante di Zeus e da lui inghiottita. Non c’era ancora [226] Dioniso, si ignorava il vino. Gli dèi si inebriarono di nettare. Apparve Penia, Miseria, vestita di stracci. Si aggirava sempre attorno alla festa. Poros si allontanò dal gruppo. Come un sonnambulo, entrò nel giardino di Zeus e si distese fra erbe morbide. Penia lo seguiva e si distese accanto a lui. Poros sentì la sua mano e il profilo del corpo di Penia. Si voltò su di lei e la penetrò, in silenzio. Così venne concepito Eros. Poros continuava a sognare, vaneggiando. Quando si svegliò era solo e non ricordava nulla di preciso della notte, se non la sensazione di qualcosa di fluido, umido, che lo aveva pervaso.

«Michtheîs’ en philótēti», «mescolandosi nell’amore»: è la formula più frequente, nel Catalogo delle donne, per nominare la copula. Usata soprattutto per Zeus. Due sostanze che si mescolano – e possono essere divine o umane, ma nel momento in cui si congiungono non si distinguono più: Eros è questa disposizione a perdersi, sciogliendosi in un composto che prima non esisteva.

Nell’eros il corpo secerne quegli umori che sono il suo sovrappiù sacrificale. La saliva è l’unico elemento in cui le due forme fondamentali del sacrificio – espulsione e comunione – convergono. Espulsa, nello sputo; assimilata ad altra sostanza affine, nel bacio. «Spuma fui» dice Afrodite a Poseidone. Per ricordargli che, se Poseidone è l’onda marina, lei è la sua schiuma. Poteva appellarsi ad altre parentele, ma Afrodite preferì rievocare il momento in cui era stata congiunta a Poseidone nella stessa materia. L’onda diventa schiuma come la liquidità diventa eros. Materia adatta alla fisica metamorfica di Ovidio, più che a quella atomistica di Lucrezio. C’è un’affinità nelle cose, che regge i loro mutamenti. Che non sono soltanto un aggregarsi e disperdersi di particelle.

 

 

Camminare fra more, girasoli, gelsi è già un camminare fra storie. E, quando cala la notte, le storie continuano, fra pipistrelli e rocce incombenti. La natura non è muta, ma ammutolita. Basta il precario incanto [227] della parola per rianimare quelle more, quei girasoli, quei gelsi, quei pipistrelli. La parola poetica, secondo Ovidio, «exit in inmensum», «si espande nell’immensità» e non si lascia ostruire la via da una qualsiasi «fedeltà storica», «historica fide». Difficile dire meglio – o più brevemente.

 

 

Un vecchio stava osservando il volo degli uccelli marini. Oziava lungo una spiaggia. Vide un alcione e una folaga che volavano e ricordò chi erano un tempo: Ceice e Alcione, sposi fedeli e disperati, ora riuniti nella loro esistenza di volatili. Ma un altro vecchio gli si avvicinò e additò un altro uccello che stava volando sul filo delle onde. Era uno smergo – e un tempo era stato Esaco, selvatico figlio di Priamo. Ceice e Alcione erano vissuti in Tessaglia, Esaco in Frigia. Terre lontane, separate da un vasto mare. E vissuti in epoche diverse. Un giorno si incrociarono come uccelli davanti allo sguardo di un vecchio, su una spiaggia ignota. Erano gli ultimi testimoni dell’èra della metamorfosi.