[287] Di nome greco, egizio di nascita, Plotino venne al mondo a Licopoli, la città dei lupi. Era stata chiamata così perché, «quando gli Etiopi stavano invadendo l’Egitto, numerosi branchi di lupi si raccolsero e li attaccarono, inseguendoli fin oltre Elefantina». Dell’infanzia di Plotino, il suo unico biografo – Porfirio – non riferisce nulla, se non che a sette anni, quando già andava a scuola, visitava la sua nutrice e le scopriva il seno «per la voglia di succhiarlo».
A trentanove anni, dopo undici alla scuola alessandrina di Ammonio, Plotino aveva chiesto di aggregarsi alla spedizione dell’imperatore Gordiano in Persia. «Desiderava ardentemente acquisire una conoscenza diretta sia della filosofia praticata dai Persiani sia di quella che fioriva in India» scrive Porfirio. Era come se Plotino presagisse che nelle Upaniṣad avrebbe incontrato la forma di pensiero più affine a ciò che sarebbero state le Enneadi. Ma Gordiano andò incontro al disastro militare in Mesopotamia e «Plotino a mala pena riuscì a fuggire e riparò ad Antiochia».
Henri-Charles Puech, esegeta altamente congeniale, per qualche tempo vagheggiò che nell’armata di Sapor, [288] contro cui muoveva Gordiano, fosse schierato Mani, «fondatore di una di quelle religioni nuove che si apprestavano a invadere l’Impero». Era un magnifico scenario, questo incontro, su fronti avversi, di Plotino e Mani, l’uno attratto dall’Oriente, l’altro dall’Occidente. Ma così, a quanto pare, non fu. Secondo Schaeder, la campagna di Sapor a cui Mani prese parte era quella del 260 contro Valeriano, sedici anni più tardi della spedizione di Gordiano.
Sette secoli dopo Platone, Plotino non pretendeva di portare alcuna novità speculativa. Ciò che da Platone era stato detto era vero – come era vero anche ciò che ancora prima aveva detto Parmenide, sebbene Platone pretendesse di aver confutato Parmenide. La tripartizione del tutto, le tre nature, il loro discendere l’una dall’altra: «Così Platone sapeva che dal bene è la mente, e dalla mente è l’anima». Non rimaneva che essere «gli esegeti di queste dottrine la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone». Eppure quella verità non si era allora offerta «dispiegatamente», doveva essere ancora più esplicitata. Soprattutto per ciò che riguardava l’ineffabile – il bene e l’uno –, molto rimaneva da dire. Così nacquero le Enneadi.
Nulla dà l’impressione netta di un mutamento d’epoca come ciò che avvenne nel cielo, intorno alla nascita di Gesù. Gli astri erano stati dèi, una specie particolare di dèi: «gli dèi visibili» diceva ancora l’Ateniese di Platone. Le loro figure e i loro movimenti, disegnati su una tela tenebrosa, erano il modello di ogni danza e di ogni ordine. Sulla terra tutto era irregolare, sporadico, subitaneo. In cielo tutto si muoveva con ordine, nobile lentezza, continuità. E sulla terra c’era anche chi si proponeva di imitare il cielo.
Ma a un certo punto – non accertabile, se non con vasta approssimazione nel tempo e nello spazio: qual [289] che decennio prima di Gesù e in una vasta regione che va dall’Iran alla Palestina – questa sensazione si incrinò, si svuotò e lasciò il posto a un’altra, del tutto diversa. Identici rimasero l’impalcatura dei cieli, il loro succedersi, le loro evoluzioni. Ma ora quelle sfere rotanti non emettevano una musica. Ora gravavano su chiunque come barriere, come cerchi metallici stretti intorno al collo. Erano sempre il luogo dove si annidavano le potenze. Ma si trattava di potenze funeste. Il desiderio più intenso era di sfuggire a quell’assedio, attraversando i cieli come altrettante stazioni di dogana. Con il terrore di rimanere rinchiuso in uno di essi, come in una «segreta» – mattaratā dicevano i Mandei.
Plotino sapeva che quella visione era diffusa, anche fra i suoi allievi. Eppure per lui, se guardava i cieli, tutto continuava ad apparire come era apparso a Platone. Ancora una volta, occorreva dire che il cosmo era divino. Ma intorno a Plotino, mondo era diventata parola spregiativa. Gli insinuanti cristiani lo nominavano come ciò che occorreva rifiutare, per seguire loro; e gli gnostici, nelle loro varie tribù, ne parlavano come di una galera da cui evadere. Nella sua ferma mitezza, Plotino disapprovava tutto questo. Ma non aveva inclinazione a trattarne. Preferiva parlare di quell’altro mondo, del mondo lassù, modello di tutto.
Se quel mondo non fosse la bellezza suprema, «che cosa ci sarebbe di più bello del mondo visibile?». Poi aggiungeva, come sussurrando: «Mondo che a torto viene biasimato da alcuni, se non in quanto non è quell’altro mondo».
«Una vita continua e evidente e molteplice e ubiqua»: così appariva a Plotino la vita degli astri. «Che siano nelle sfere inferiori o nel più alto dei cieli, perché mai non sarebbero dèi, in quanto si muovono regolarmente e ruotano tutt’intorno all’universo?». È questo che gli gnostici si rifiutavano tenacemente di capire, secondo Plotino. Per albagia, innanzitutto, perché con [290] fondevano la loro anima di singoli con l’anima del mondo. Errore fatale. È vero – concedeva Plotino – che «l’unione della nostra anima con il corpo non è quanto di meglio vi sia per l’anima». Ma come si può trasferire all’anima del mondo ciò che vale solo per l’anima del singolo? Sarebbe come «biasimare tutta una città ben governata considerando soltanto la categoria dei vasai o dei fabbri».
L’anima del singolo è avvolta dal corpo. Mentre l’anima del mondo avvolge e lega tutto il resto. Se l’anima del mondo non è percepita come qualcosa di più grande di tutto il mondo visibile, il pensiero è perduto. Questo era un errore capitale degli gnostici. E implicava il misconoscimento di una vasta parte del divino. Per quale aberrazione dovremmo considerare la sapienza umana come superiore alla sapienza degli astri? Oltre tutto, aggiunge Plotino, gli astri vivono sempre «nell’ozio». E perché allora non dovrebbero capire meglio di noi «il dio e tutti gli altri dèi intelligibili»?
Il riconoscimento della bellezza del mondo, di cui sarebbe tornata a parlare, solitaria, Simone Weil, era il presupposto non solo della Grecia in genere, ma della sua scienza. Era quello il legame che collegava numero e metafisica. Con gli gnostici quel legame finì di sfilacciarsi – e si spezzò. Plotino li accusava di cercare e predicare quella cesura: «Ma come potrebbe sussistere il mondo se lo si recidesse via da quello [dal mondo intelligibile]?». Ciò che segue è una accesa perorazione: «È addirittura insensato porre la questione. Deve proprio essere cieco, non avere alcuna percezione né intelligenza, e perciò essere ben lontano dal vedere il mondo intelligibile, chi non sa guardare a questo mondo».
Ma avrebbero vinto i settari, cristiani e non cristiani. Da allora il «legame», desmós, con cui l’anima del mondo teneva insieme il tutto non risultò più immediatamente percepibile. Mentre Plotino aveva alluso ad altro: a una sensazione che appartiene alla vita di tutti, finché dura e finché c’è qualcuno pronto a celebrarla.
Contro i detrattori e fustigatori del mondo – pagani e [291] cristiani –, Plotino ricorreva a un argomento che non concedeva repliche: il dio «sarà presente a tutti e starà in questo mondo, in qualsiasi maniera, sicché il mondo parteciperà di lui. Se è assente dal mondo, sarà assente anche da voi». Qui Plotino non intende scendere in dettagli analitici. La formulazione è asciutta, imperiosa. Occorreva salvare il mondo, innanzitutto dalla denigrazione religiosa. Altrimenti come sarebbe stato concepibile il tortuoso vagare dell’anima fino ai bordi estremi della mente – e da lì di nuovo nella selva dei corpi? Tutto si sarebbe irrigidito in uno scontro frontale, che non corrispondeva all’esperienza di chi si addestrava, come Plotino, a muoversi all’interno di se stesso.
Nessuno può dire dove la Gnosi sia nata. È come un vento che soffia dall’altopiano iranico fino alla Siria, all’Egitto, infine a Roma. Sempre più turbinoso dopo la rivelazione evangelica. Sempre commisto, come se per costituzione non potesse appartenere a una sola ascendenza. Fra gli gnostici c’è sempre un’aria di famiglia, anche se si ignorano o si avversano. Il vero gnostico, al pari dell’iniziato, non ama essere riconosciuto come tale. Non fornisce documenti. Coltiva l’anonimato. Visto da fuori, mostra passioni, emozioni, commozioni, come e più di chiunque altro. Ma conserva sempre una invincibile disaderenza a ciò che lo circonda. Difficile accertarla. Solo un altro iniziato sa percepirla.
Che sia cristiana o pagana, la Gnosi è innanzitutto conoscenza che si cerca, autosufficiente, straniera al mondo, indifferente ai meriti e alle virtù, tendenzialmente amorale, cosmopolita. Lo gnostico attraversa il mondo come se appena lo sfiorasse; o, al contrario, come se lo assorbisse nella sua totalità, così come il mare può accogliere in sé tutto, perché troppo vasto per essere contaminato, mentre trasforma, disperde, disgrega qualsiasi cosa si immerga nella sua immensità. Già diffusa per tutto il Mediterraneo orientale, la Gnosi divampò dopo che una setta ebraica pretese di espandere all’ecumene [292] la dottrina del suo maestro Gesù. L’elemento scatenante era la salvezza del singolo. Comunque la si potesse raggiungere, anche se per le vie più lontane e incompatibili, rimaneva il punto dirimente. Perché pensare, se chi pensa non può salvarsi? E che cos’è il mondo, se non una trappola a cui sottrarsi?
Plotino contemplava tutto questo dal suo osservatorio, a Roma, verso la metà del secolo terzo dell’èra nuova. In Egitto, dove era cresciuto, aveva già assistito al moltiplicarsi delle dottrine e delle sette, che ormai oscuravano il cielo e la sua luce platonica. Occorreva opporsi.
Plotino scrisse sugli gnostici di contraggenio e tentando di frenarsi («Basta così: ci è sufficiente aver detto questo di loro»). Ma tanto più si avvertiva in lui una furia compressa, una incompatibilità fisiologica. E insieme l’allarme e il disappunto, perché dagli gnostici si sentiva assediato. Si erano mescolati ai suoi allievi. Forse erano anche i più brillanti. Plotino disperava di riuscire a farli desistere: «Per quanto mi riguarda, ho un certo senso di vergogna davanti ad alcuni degli amici che avevano incontrato queste teorie prima di diventare nostri amici e persistono in esse, non so perché». Quel «non so perché» rivela la constatazione accorata, in Plotino, che il mondo si stava allontanando sempre più da lui. Rimaneva però l’obbligo di dirlo. Confutare le teorie non era il punto più importante – e Plotino lo affidò a Porfirio e a Amelio. Avrebbero saputo loro come smontare le fumose argomentazioni degli gnostici.
A sé Plotino riservò, a parte qualche fulminea stoccata metafisica, considerazioni che erano soprattutto psicologiche. Ciò che non sopportava era l’arroganza degli gnostici, la loro convinzione di essere i soli: «Bisogna provare a diventare migliori, ma perché credere di essere i soli a poterlo diventare?». Ciò che Plotino detestava era innanzitutto un certo Grand Guignol. Per motivi di gusto: «Che la smettano con quel tono da tragedia, [222] quando parlano dei pericoli che si incontrano, 293 loro, nelle sfere del cosmo, le quali non hanno altro che benevolenza per loro». Plotino coltivava tutt’altre maniere: «Non si devono insultare coloro che sono inferiori ai primi, ma accettare con dolcezza la natura di tutti, pur correndo verso le cose prime».
Il dialogo di Plotino con gli gnostici è un contrasto rovente, serrato: «Diranno: È l’anima che ha generato quando ha perso le ali. Ma l’anima del tutto non subisce questo. Diranno poi: Ha generato quando è caduta. Ma allora ci dicano qual è la causa della caduta. In quale momento è caduta? Se tale è da sempre, rimarrà caduta, come sostengono loro stessi. Se ha avuto un inizio, perché non da prima?». Indisponente, per Plotino, era in primo luogo il linguaggio degli gnostici. Come parlavano di una nuova terra, così pretendevano di introdurre «novità nelle parole». Si moltiplicavano le ipotesi, si affollavano nuovi termini. Si parlava di «esìli e impronte e conversioni». Parole «vuote di senso», per Plotino. Utili solo per convincersi di avere «una propria dottrina». Ma qui affiorava il sospetto più grave: forse questi nuovi teologi «non hanno più contatto con la grecità antica», che sapeva parlare «con chiarezza», saphôs. Non si trattava soltanto di una disputa speculativa. Plotino avvertiva che la Grecia stessa, lo stile greco nel presentare le cose con quella chiarezza terribile che culminava in Platone stavano per tramontare. Eppure gli gnostici rubavano parecchio a Platone, ma nel momento stesso in cui pretendevano a «una filosofia propria» finivano per trovarsi «fuori dalla verità».
All’interno del regno mentale, là dove abitano «gli intelligibili», tà noētá, Plotino esigeva che si applicasse il rasoio di Ockham: «Laggiù occorre ammettere il minor numero possibile di entità». E già questo lo separava per sempre dagli gnostici, instancabili nel moltiplicarle. Non era solo una esigenza speculativa, ma estetica. La geometrica trasparenza dell’intelligibile platonico veniva [294] invasa da «generazioni e corruzioni di ogni sorta», come se una possente migrazione dal basso minacciasse di oscurare per sempre il cielo delle idee.
Rimaneva scoperto il punto più difficile: il male. Il passo del pensiero ora diventava più rapido, incalzante, come in un’arringa accusatoria che si affretta a presentare la prova regina, con il tono di chi ha scoperto un complotto. Che questo si proponeva: far salire il male verso l’alto, sollevarlo dal mondo visibile verso l’invisibile, attribuire la causa del male all’anima stessa e, di là da essa, azzardarsi a situarlo ancora più in alto. Così l’intera architettura della mente e del mondo risultava sfigurata. Da un capo all’altro la attraversava una «inclinazione», neûsis, verso il male: «Se dicono che l’anima, inclinandosi, ha creato la materia, allora prima non vi era luogo verso cui inclinarsi e la causa dell’inclinazione non era la tenebra ma la natura stessa dell’anima». Così si svelava qual era la mira ultima degli gnostici: immettere il male all’interno dell’anima. Ed era solo il primo passo. Se il male era una necessità, doveva estendersi sino alla cuspide di ciò che è, sino alle «cose prime». Un’onda funesta si gonfiava, a partire dal basso, e finiva per riversarsi, sommergendola, sulla struttura verticale che reggeva il mondo secondo Plotino – e secondo Platone.
Ben diversa dalle vicissitudini clamorose inscenate dalla Gnosi, c’era anche in Plotino una drammaturgia cosmica di cui a tratti, come per barbagli, venivano raccontati alcuni episodi. «Noi – ma quali noi?». È il brusco inizio di uno di questi episodi. Dove eravamo prima di nascere? Eravamo nell’anima, che è «una e infinita»; eravamo una «mente congiunta all’intero essere». E «alcuni erano dèi» (nulla viene aggiunto per spiegarlo). Non eravamo «separati e tagliati via dalla mente». Ed è vero che ancora dalla mente non siamo del tutto separati.
[295] Ma qualcosa è accaduto: un «altro uomo» si è avvicinato a noi. Ci cercava e alla fine ci ha trovati. Infatti non eravamo «fuori dal tutto» (soltanto la testa sporgeva dai cieli). L’uomo era pedinato da un altro uomo di cui non si dice chi fosse né da dove venisse. E alla fine l’inseguitore è riuscito a unirsi «all’uomo che ciascuno di noi era allora». È un processo che si ripete per tutte le anime che nascono. Qualcosa di drammatico, tacito, inevitabile. Che cosa ne consegue? Si forma un nuovo essere, che Plotino chiama tò synámphō, «il biuno». Qualcosa di mostruoso, si direbbe. Ma è la normalità stessa. Un punto è certo: «Non siamo più ciò che eravamo» e talvolta «siamo colui che si era aggiunto a noi», mentre il primo essere scompare sul fondo, come se mai fosse stato.
Lo stile di Plotino non concede di ricorrere a nomi arcani né a scontri feroci. Si racconta un inseguimento silenzioso, su una scena spoglia, senza colori. Si pensa a certe tracce cifrate di racconti nei Diari di Kafka.
Devoto dell’uno, Plotino finì per descrivere un mondo disperso e discordante. E, quanto più tale, tanto più rispondente al lógos che lo reggeva. Da qui, senza transizione, passava alla psiche degli amanti: «Quanto maggiore è la presenza degli opposti, tanto più ciascuno ha desiderio di vivere e tanto più è attirato verso l’uno. Spesso gli amanti [ma Plotino usa il neutro, tà erônta] distruggono gli amati, quando sono caduchi, cercando il loro bene, mentre il desiderio della parte verso il tutto attrae a sé tutto ciò che può».
Subito dopo, era il teatro a offrire l’immagine onnicomprensiva: se «il buono e il cattivo hanno ciascuno il proprio ruolo, e più numerosi ne ha il cattivo», questo avviene soltanto perché un invisibile drammaturgo li ha disposti ciascuno nel luogo opportuno. «Come gli attori ricevono le loro maschere, i costumi, le vesti sontuose o gli stracci, l’anima riceve la sua sorte, non certo a caso». Dopodiché l’anima «pronuncia le sue azioni e le [296] altre cose che farà a suo modo, come fossero una melodia». E i suoni che si produrranno potranno anche essere stridenti, perché «il suono perfetto è quello prodotto da tutti i suoni». È una visione onniavvolgente, che accoglie in sé anche la figura del boia, anticipando Joseph de Maistre: «Nella bellezza del tutto anche il brutto suono ha il suo luogo e ciò che è contro natura è secondo natura nel tutto. Quel suono rimane senz’altro peggiore, ma non rende peggiore l’insieme nel momento in cui risuona, così come il malvagio boia non rende peggiore la città ben governata. C’è bisogno anche di lui nella città ed è bene che ci sia».
Indubbia era la vicinanza e l’affinità fra la gnôsis di cui Plotino scriveva e quella di cui parlavano gli gnostici. In entrambi i casi, era il perno intorno a cui tutto il resto ruotava. Ed era sempre una conoscenza che salvava, mira ultima del pensiero. Con gli gnostici le differenze erano innanzitutto nelle maniere: nulla di più incompatibile con Plotino di quelle mitologie abborracciate, tonitruanti, pletoriche, con quelle schiere di arconti malevoli e di ipostasi femminili che finivano invariabilmente in luoghi malfamati. Lo stile congeniale a Plotino era l’opposto: consisteva nel giocare sottilmente con i pronomi, nominando il meno possibile le poche entità di cui aveva senso parlare: l’anima, la natura, la mente (o intelletto), l’intelligibile, i simulacri, le cose prime, il bene, il principio. Ma inesauribili erano le combinazioni e i movimenti fra quelle poche entità. Talvolta sono parole di Plotino le più adatte a illuminare certi detti nei testi di Nag Hammadi. Mentre Ireneo o Ippolito si opponevano agli gnostici come ad avversari politici da debellare, Plotino li respingeva sapendo che cercavano qualcosa di molto simile a ciò che il suo stesso pensiero cercava. Ma gli gnostici lo facevano ostentando gestualità e pretese che nel profondo a Plotino ripugnavano.
[297] Lo scandalo degli gnostici consisteva anche – e forse innanzitutto – nel fatto che ignoravano totalmente la virtù. Plotino non poteva non additare questo punto: «Testimonia di loro anche questo, che non hanno sviluppato alcuna teoria della virtù. Hanno del tutto trascurato di scrivere su ciò, o di dire che cosa sia la virtù, quante forme ve ne siano, o quante definizioni variegate e belle ne siano state date nelle opere degli antichi. E neppure come si raggiunga e si possieda la virtù e come si curi l’anima e la si purifichi».
Era una grandiosa omissione, che bastava per far crollare – e implicitamente dileggiare – l’intero edificio del pensiero greco. Non solo platonici e aristotelici, ma stoici, cinici, epicurei – tutti si erano sentiti in dovere di argomentare sulla virtù, con teorie opposte ma convergenti nella convinzione che di virtù si dovesse parlare. E ora sopraggiungevano questi settari e ignoravano perfino la parola. Parlavano solo di conoscenza e, come se ne fosse una conseguenza, di salvezza.
Dove mai era già avvenuto qualcosa di simile? Nei Misteri. Plotino lo sapeva, ma non volle dirlo. Avrebbe potuto suonare come una lode. Mentre ciò che si intravedeva in quel rifiuto era la volontà di scardinare dall’interno l’intelaiatura che aveva tenuto insieme la compagine sociale, non solo in Grecia ma a Roma. La virtù degli Spartiati era ben diversa da quella degli Ateniesi, la virtù di Platone da quella di Crisippo, la virtù di Catone da quella di Lucrezio. Ma la parola stessa rimaneva – e implicava una regola di comportamento, qualunque fosse. Mentre ora gli gnostici, accantonandola, si concedevano ogni comportamento. L’abiezione dei carpocratici era solo l’avvisaglia più evidente di una inclinazione che era insita in ogni specie di Gnosi: la totale anomia. Così in Plotino, l’uomo più remoto da ogni zelo di funzionario sociale, risuonava con nettezza quell’allarme per la licenza che sarebbe poi diventato una costante del mondo occidentale, sempre più impaurito per il progressivo corrodersi delle leggi – e dei freni. La licenza erotica ne sarebbe stata il primo e prediletto segnale.
[298] Plotino deprecava che gli gnostici avessero accantonato non una, ma tutte le virtù. Al tempo stesso, non si può dire che Plotino seguisse la concezione che a lungo era stata dominante, secondo cui la aretḗ era qualcosa di sovrano e finale. Al contrario, la virtù serviva per lui come sostegno soltanto se l’uomo era già decaduto. Da che cosa? Dalla «contemplazione», théa. La vera debolezza degli umani sta nella loro incapacità di mantenere uno stato costante di contemplazione. Ed è allora che la virtù offre i suoi servigi. Una volta risvegliata, permetterà di ritrovare un certo ordine interno alla persona, renderà «più leggeri», orienterà «verso la mente» e, «attraverso la sapienza», verso «quello» – la perenne forma pronominale che per Plotino accenna a ciò che sta al di là dell’essere. È una funzione umile e preziosa, che viene affidata alla aretḗ: una sorta di addestramento e tenace esercizio per recuperare la condizione del contemplante. Giunti a quel punto, la virtù scompare. Comincia la «fuga del solo verso il solo». E su queste parole Porfirio volle che si concludessero le Enneadi. Non c’era altra espressione che offrisse con tale evidenza la peculiarità dell’insegnamento del suo maestro.
Il corteo delle virtù, quali sono praticate nella società, è l’immagine stessa dell’essoterico. Il sapiente si mimetizza in quel corteo, come se volesse soltanto comportarsi da uomo dabbene. Sarà temperante, giusto, coraggioso, prudente, a seconda dei momenti. Ma è forse questo il suo scopo? Certamente no, secondo Plotino. Chi ha còlto che cosa sono «i modelli nella mente, anteriori alla virtù», non vivrà più «la vita dell’uomo dabbene, quale lo considera la virtù sociale», anche se «occasionalmente gli accadrà di comportarsi in conformità a quelle virtù». Ma altro è il suo scopo: «Sceglierà un’altra vita, quella degli dèi, perché vuole diventare simile agli dèi e non agli uomini dabbene». Non si potrebbe dichiarare in modo più netto la volontà di disincagliarsi dalla morale. Il toû spoudaíou bíos, la «vita [299] dell’uomo serio» (spoudaîos, in Plotino, indica qualcuno che si esercita nella giusta direzione), non può che scindersi per sempre, a questo punto, dalla vita degli «uomini dabbene». Viste dall’esterno, potrebbero anche confondersi. Ma la distanza che le separa è abissale.
A dispetto di quanto sosteneva egli stesso, Plotino era di una sconvolgente novità, non solo rispetto a Platone ma rispetto a tutti coloro che lo avevano preceduto. E questo già si avvertiva nel suo modo di intendere la parola theōría, che per lui non significava «teoria», ma «contemplazione». Almeno una volta Plotino ha ammesso che il suo pensiero non poteva non suscitare sconcerto, essendo un invincibile «paradosso». E questo avvenne nelle righe iniziali dell’Enneade III, 8: «Se, prima di parlare seriamente, dicessimo per gioco che tutte le cose desiderano la contemplazione e mirano a questo fine, non solo le creature razionali ma quelle irrazionali e la natura nelle piante e la terra che le genera, e che tutte le cose conseguono la contemplazione in diversa maniera, le une raggiungendola veramente, altre attraverso l’imitazione e l’immagine, sarebbe tollerata la paradossalità di ciò che diciamo?». In una frase di otto righe, piena di volute e di riprese, ma abrupta in quanto nulla la precede, Plotino aveva indicato la sua irriducibile novità. E la enunciava «per gioco», come se volesse attenuarla. Mentre subito dopo ci si accorge che in quel modo l’aggravava. Così il discorso prosegue: «Ma, poiché siamo fra noi, non c’è pericolo se si parla per gioco delle cose nostre». Frase rivelatrice, quasi sfrontata nell’ammettere il carattere iniziatico di ciò che in quel momento veniva detto.
Quanto più Plotino insisteva sul gioco, tanto più il discorso si faceva grave: «Forse che noi, in questo momento, mentre giochiamo non stiamo contemplando? Non solo noi ma tutti quelli che giocano così fanno e giocano perché desiderano la contemplazione. In definitiva, qualsiasi bambino o adulto, che giochi o che sia [300] serio, si arrischia a giocare o a essere serio in vista della contemplazione, giocando o essendo serio, e ogni azione tende alla contemplazione». Si produce un vortice, dove il «giocare», paízein, che sembrava una attività minore e bisognosa di giustificazione, finisce per assorbire in sé ogni forma dell’«essere seri», spoudázein (verbo che spesso indica il pensare in genere). L’andamento dell’argomentare è travolgente e si conclude con una distinzione fra azioni volontarie e involontarie («obbligate», anankaía), che Plotino rinvia ad altra lezione («Ma di questo parleremo più in là»).
Altro urgeva: «Parliamo ora della terra e degli alberi e di tutte le piante, di quale sia in essi la contemplazione e in qual modo le cose prodotte e generate dalla terra possano essere ricondotte all’atto della contemplazione e in qual modo la natura, che si dice essere priva di immaginazione e di ragione, possieda in se stessa la contemplazione e faccia ciò che fa mediante la contemplazione, che non dovrebbe possedere». Ora il gioco è svelato: la contemplazione non è più un carattere umano, mescolato a molti altri, ma il carattere fondamentale dell’intera natura. Anzi, si può dire che la natura opera soltanto se contempla e perché contempla. Rispetto al tono di giocosa paradossalità dell’inizio si è giunti all’estremo opposto, a una visione cosmica, dove la parte dell’uomo non si distingue, nella sua essenza, da quella degli alberi e delle piante. E a questo punto l’ascoltatore e il lettore potrebbero sostare e concedersi una pausa, appunto per contemplare quanto questa visione si distacchi da tutto ciò che, prima e in seguito, è stato argomentato.
C’è un’ironia in Plotino, lieve e distruttiva. Aristotele aveva scritto, nell’Etica a Nicomaco, che secondo Eudosso il piacere era il bene supremo, «perché vediamo che tutti gli esseri lo desiderano, gli esseri ragionevoli come le bestie». Frase dietro cui si avverte la giaculatoria del buon senso. Plotino comincia il Perì theorías con una frase [301] che è il calco di quella aristotelica, ma dove al piacere viene sostituita la contemplazione, e agli animali ora si aggiungono le piante e la terra.
Che il mondo sia, da parte a parte, verticalmente attraversato dalla contemplazione; che esso sia non solo oggetto ma soggetto della contemplazione; che la mutevolezza di ciò che è sia dovuta al continuo trapasso dall’uno all’altro modo della contemplazione: sono tesi che bastano a formare una barriera di fuoco fra chi, per natura della sua anima, è spinto a seguirle e chi non può che considerarle un’infondata bizzarria, remota da ogni realtà. Per chiarire quelle tesi, Plotino volle far parlare la natura stessa, che pure non è usa a farlo. Era un’ulteriore ironia. La natura parlò così: «Non occorreva interrogarmi, ma capire e tacere, così come io taccio e non è mio costume parlare. Ma capire che cosa? Che ciò che viene generato è oggetto di contemplazione per me, nel mio silenzio, e tale è naturalmente: io stessa infatti sono nata dalla contemplazione e ho il gusto della contemplazione; e ciò che in me contempla crea una cosa da contemplare, così come i geometri contemplando disegnano; ma io non disegno, bensì contemplo, e le linee dei corpi si manifestano come uscendo da me. E io ho la stessa passione di mia madre e di coloro che mi hanno generata; e infatti anch’essi nascono dalla contemplazione e la mia nascita non consegue a una loro azione, ma poiché essi sono ragioni superiori a me e contemplano se stessi, io sono stata generata». Era una Sfinge salottiera e capricciosa, per lo stile: ma non concedeva nulla, fedele alla sua vocazione di accumulare enigmi, non di scioglierli. E ora veniva in aiuto Plotino, come un vecchio amico, a precisare quello che la natura voleva dire. Intanto: la natura è un’anima, e un’anima che discende da un’anima precedente e superiore. La sua forza è una «contemplazione silenziosa», che non guarda né in alto né in basso, non va in cerca di nulla, ma «porta a compimento l’oggetto della sua contemplazione, che ha splendore e grazia». Ma di quale specie è la contemplazione che la natura ha di ciò [302] che produce? «Silenziosa e indistinta». Eppure la vita si svolge fra esseri che hanno profili netti – e parlano. Come potrà avvenire il passaggio?
«La creazione si è svelata a noi essere contemplazione. Infatti è il compimento della contemplazione, che tale rimane e null’altro fa, ma crea in quanto è contemplazione». Mai come in queste parole si dichiara l’azzardo di Plotino, che consiste innanzitutto nell’eliminare la «creazione», poíēsis, come potenza primaria, riducendola a epifenomeno della contemplazione. Rovesciamento delle prospettive. La contemplazione, che presupponeva un antecedente processo creativo, ne diventa l’origine. Dal contemplante immobile, e che «null’altro fa», insiste Plotino, discende tutto ciò che appare. Anche per i più orientali fra i Greci, queste tesi non potevano che apparire sconcertanti. Mentre sarebbero apparse molto vicine al vero per i Saptarṣi vedici, che avrebbero solo aggiunto qualcosa sul tapas, quell’ardore che il veggente coltiva in sé e nutre la contemplazione stessa.
Se theōría è «contemplazione», theṓrēma è «oggetto di contemplazione» e non «teorema». Questo oggetto è di per sé splendido e pieno di grazia. Plotino aggiunge però subito che se la natura è dotata di sensazione e intelligenza, queste sussistono in essa come in un dormiente rispetto a qualcuno che è sveglio. L’oggetto della contemplazione, nel suo splendore, è perciò come una sequenza di figure che appaiono in sogno. Lo stesso sogno in cui la natura appare a se stessa. È una visione «silenziosa e indistinta». Che ne presuppone un’altra, «più netta». La natura, dunque, rimanda a una visione superiore, di cui può offrire soltanto una «immagine», eídōlon. In ciò simile agli uomini, perché «una contemplazione senza forza crea un oggetto della contemplazione senza forza». Qui di nuovo si insinua il poieîn, il «creare». Ma con inaspettate conseguenze, riguardo agli uomini. Ora Plotino giunge a dire perché gli uomini [303] agiscono: «Gli uomini, quando sono deboli nella contemplazione, creano l’azione [tḕn prâxin poioûntai] come un’ombra della contemplazione e del lógos». L’azione dipende da una «debolezza dell’anima», che rende impossibile raggiungere una «visione adeguata, che riesca a colmarli». Perciò gli uomini passano all’azione, perché «desiderano vedere ciò che con la mente non sono riusciti a vedere». Sembra quasi che Plotino abbia qui percepito, in lontananza, il rumoreggiare di Cieszkowski e Marx e di tutti gli altri numerosi e turbolenti fautori della prâxis, per opporgli da subito una teoria che è il loro antitipo. E, come se si rivolgesse a loro, ribadisce il punto: «Sempre constateremo che la creazione e l’azione sono un indebolimento o una conseguenza secondaria della contemplazione».
Plotino affermava e ripeteva che l’uno non pensa. Perciò non era «pensiero di pensiero», come voleva Aristotele. Ma qualcosa di simile a una fragranza, da cui promanava la mente. E la mente continuamente pensa. Dalla materia all’anima, da questa alla mente, dalla mente all’uno: c’era sempre qualcosa che si trasmetteva e trasponeva da una potenza – Plotino le chiamava «ipostasi» – all’altra. Non così quando giungeva all’uno, che rimaneva isolato, intangibile, avvolto in se stesso. Un grande vivente remoto, immobile, solitario, che non pensa, perché questo lo diminuirebbe, come ogni altro atto.
Tutta la catena di progressioni, emanazioni, imitazioni su cui il cosmo si reggeva dipendeva da quella cesura iniziale. La concatenazione universale presupponeva uno iato all’origine. «Altro è essere in altro e essere di per sé». Di colpo la «mente», noûs, e il noētón apparivano come qualcosa di successivo, distaccato da qualcosa che «non ha bisogno di pensare».
Chi avesse seguito l’argomentare di Plotino nei tortuosi collegamenti che aveva stabilito per passare dalla materia all’anima e da questa alla mente, culminando [304] nella visione della mente che contempla se stessa, avrebbe avuto un buon motivo di supporre che la conoscenza – e, come suo stadio supremo, la conoscenza di sé – fosse l’approdo ultimo. Ma, lì giunti, si scopriva che non era la fine. Anzi, si spalancava un baratro, di là dal quale si delineava un qualcosa che non si curava di conoscere alcunché, incluso se stesso. («Non è assurdo che non conosca se stesso: non ha niente da conoscere in sé, essendo uno»). Eppure, dal bordo opposto di quel baratro proveniva un dono: «Esso dà qualcosa che è migliore e più grande del conoscere, ed è il bene delle altre cose, o piuttosto delle cose che sono in esso, nella misura in cui riescono a toccarlo». Di là dal baratro c’era dunque la possibilità – non la sicurezza – di stabilire un contatto, per tutto ciò che accadeva nella mente, nella conoscenza e nella conoscenza di sé. Ma a questo punto l’essere avrebbe dovuto rinunciare a considerarsi in termini di conoscenza. Esisteva una non-conoscenza, al di sopra, anzi immensamente al di sopra della conoscenza. Così come la conoscenza poteva osservare, a una immensa distanza da sé, l’ignoranza dell’homme naturel da cui si era un giorno svincolata.
Guardando le cose del mondo, Plotino osservò che tutte, senza eccezione, dipendevano da qualcos’altro, che le abitava e a cui erano aggrappate. Chiamò questo qualcosa anima. Poi vide che anche l’anima aderiva necessariamente a qualcos’altro, che le dava articolazione e forma. Lo chiamò noûs, «mente». Ma con la mente era arrivato a qualcosa di autosufficiente, primo? No, prima della mente c’era l’uno. «Quello», ekeîno: così lo nominava, molto spesso. Era immobile, non aveva bisogno di nulla, non dipendeva da nulla. E non era la mente, ma qualcos’altro, senza di cui però la mente non poteva sussistere. Ma come aveva avuto origine la mente, da quella totale immobilità? Grazie a qualcosa che somigliava a un movimento, senza esserlo: una epistrophḗ, un «volgersi» dello sguardo dell’uno verso se stesso, [305] come di una pupilla che invece di guardare verso l’esterno si volga all’interno. In quel momento nasceva la mente. Era lo sguardo dell’uno rivolto a se stesso. Così l’autoriflessione si manifestava.
Per Plotino la «mente» – se così si traduce il suo noûs (e non si intravede parola più appropriata, anche se insufficiente) – non era soltanto quella modalità che esperisce qualsiasi essere sia cosciente. Noûs è anche un ordine, una articolazione di elementi. Anzi, è l’unico ordine a cui ci si deve riferire in rapporto all’essenziale, quindi a tò kalón, «il bello», e a tò díkaion, «il giusto». Ogni altro ordine, raggiunto attraverso l’uso del «ragionamento», logismós, viene deprezzato da Plotino. Non è quello il vero ordine, ma un faticoso tentativo di scoprire qualcosa che invece era già presente: così, anche «chi è in grado di usare il ragionamento nel modo migliore si stupirà perché il ragionamento non avrebbe saputo trovare nulla di diverso da creare (quale che sia l’oggetto della conoscenza, perfino nelle nature individuali) che in una realtà in perenne divenire sia più intelligibile di un ordinamento razionale». Certo, sussiste una differenza fra l’ordine della mente e l’ordine del mondo circostante: «Lassù ogni cosa è tutte le cose, quaggiù ciascuna cosa non è tutte le cose. E il singolo uomo, in quanto è una parte, non è tutto». Ciò che ineluttabilmente manca è la percezione della symplokḗ, dell’«intreccio» di tutto con tutto. Per questo ogni essere singolo non riesce a essere «perfetto». Ma quell’intreccio sta sul fondo di tutto ciò che appare.
La conoscenza suprema – quella che «è in ciò che è» (formula usata da Platone nel Fedro e sottintesa da Plotino) – non è fatta di parole articolate in proposizioni, ma soltanto di «belle immagini», ovvero «simulacri», «kalà agálmata». Questo è il discrimine che permette a Plotino di affermare la subordinazione del linguaggio [306] rispetto alle immagini. E da qui discende tutta la teoria dei geroglifici, fino a Kircher e ai pansofi seicenteschi. Se per «immagini» vanno intese non «quelle disegnate, ma quelle che sono». Ma che cosa sono le immagini «che sono»? Quelle che si trovano «nell’anima di un uomo sapiente». Immagini mentali. Questo è – quaggiù – ciò che più somiglia a ciò che lassù – dove risiedono gli dèi e gli esseri «strafelici», hypereudaímonas – è la conoscenza che non è «altra in altro», ma «è in ciò che è». Non solo: le «belle immagini», aggiunge Plotino, non si distinguono dalle «idee, di cui gli antichi dicevano che erano “esseri e sostanze [ónta kaì ousías]”». A questo punto la distanza immane e invalicabile che Platone aveva stabilito fra «le belle immagini» (sempre sospette di insinuare l’inganno) e «le idee» viene annullata e i kalà agálmata diventano l’elemento stesso della conoscenza suprema. Anche se Plotino aveva appena dichiarato che voleva dimostrarsi all’altezza del nome di platonico («se vogliamo essere degni di venire così chiamati»), qui la dottrina di Platone subiva una torsione nuovissima. Mai come in quel momento erano state glorificate le «belle immagini». Plotino anticipava Baudelaire.
Che cosa sia l’immagine in Plotino e che cosa quel processo di emanazione che sostituisce per lui la cruda opera artigianale del demiurgo, nessuno ha saputo dire con altrettanta eloquenza e precisione come Meister Eckhart: «Imago proprie est emanatio simplex, formalis transfusiva totius essentiae purae nudae ... Est emanatio ab intimis in silentio et exclusione omnis forinseci, vita quaedam, ac si imagineris rem ex se ipsa et in se ipsa intumescere et bullire in se ipsa», «L’immagine propriamente è una emanazione semplice, formale, trasfondente tutta l’essenza pura nuda ... È una emanazione dal profondo nel silenzio, escludendo qualsiasi esteriorità, è una certa vita, come se immaginassi una cosa che da sé e in se stessa si inturgidisce e bolle in se stessa». Permangono i termini fondamentali (emanazione, trasfondimento, profondità silenziosa, abolizione di ciò che è esterno, infine soprattutto «una [307] certa vita»), con una accensione ulteriore dello stile, in quell’«intumescere et bullire in se ipsa». Permaneva la dottrina.
Plotino non era – e non intendeva essere – un filosofo nel senso di Aristotele. I suoi scritti: una lunga, incontenibile glossa a Platone. Ma che cosa aggiungevano? Se mai ci fu un esempio di ciò che Tommaso avrebbe chiamato «cognitio dei experimentalis», «conoscenza sperimentale di Dio», tale fu Plotino. Ogni parola era per lui un tentativo di esplorazione di quel luogo senza confini di cui mai prima si era scritto in modo così diffuso e tenace in lingua greca, se non in qualche squarcio di Platone. Ma Plotino soltanto di quello si curava, perché «pánta eísō», «tutto è all’interno». Mentre Platone aveva sempre pensato anche ad altro. Persino a trattare con i potenti. Ben diverso era l’atteggiamento di Plotino: «Chi è serio [spoudaîos, qui non si dice neppure sophós, «sapiente»] non ritiene che i proprietari di molte cose o i potenti valgano più dei singoli privati, ma concede agli altri di prendere sul serio queste cose».
Non Platone, ma Plotino è il vero inventore dell’interiorità. La mistica cristiana, dal Cloud of Unknowing a Jean-Pierre de Caussade, applica, varia ed elabora ciò che Plotino aveva descritto e circoscritto: il territorio in cui il singolo si avventura nel divino. Quando la mistica cristiana si inaridì, le fece seguito la Innigkeit dei romantici tedeschi, diramandosi fino a Proust. Vicino a Plotino si incontra Schubert ben prima di Kant. Nel secolo dei moderni, dell’interiorità si perde il bandolo e la psiche viene invasa dal fluire delle associazioni. Da qui prese le mosse Freud.
Zōḗ, «vita»: parola che Plotino insinua in tutti gli snodi cruciali del pensiero e che finisce per assorbire il pensiero stesso, spingendosi oltre. Zōḗ non viene definita, ma definisce il resto. Intessuta in una delicata dimostrazione, [308] a sorpresa risuona questa frase: «Noi non cerchiamo che cosa mai è la vita». È un rimprovero? Non possiamo dirlo, perché subito il testo passa ad altro.
Zōḗ non è un termine d’obbligo del lessico speculativo, come ousía o eîdos o enérgeia. Tanto più è sorprendente quando appare. Nella Metafisica di Aristotele una volta sola, ma nel passo che forse, in tutta l’opera, è il più affine a Plotino. E già l’affermazione che introduce il passo sembra puro Plotino: «La contemplazione è la cosa più dolce e la migliore». A cui segue una frase che si azzarda a definire ciò che è «il dio», ho theós: «Se il dio è sempre in quel buono stato in cui noi siamo talvolta, è una meraviglia: e ancora più mirabile è se lo è in grado ancor maggiore. Così infatti è. E la vita [zōḗ] gli appartiene. La vita è l’atto della mente ed egli [il dio] è l’atto. L’atto è la vita di lui dipendente da se stessa, la migliore ed eterna. Diciamo perciò che il dio è un essere vivente, il migliore, eterno, in quanto la vita e la durata continua e eterna appartengono al dio. Questo infatti è il dio». Sono parole trafiggenti, di massima concisione e densità – e potrebbero fare da premessa non solo all’Enneade III, 8 sulla contemplazione, ma a tutti gli altri numerosi passi dove Plotino parla della «vita». Radicalmente diversa la strategia. Aristotele si lascia strappare la parola zōḗ una volta sola, in posizione culminante; Plotino la insinua ovunque, con discrezione e decisione – e come di sfuggita ricorda che «noi non cerchiamo che cosa mai è la vita».
La contemplazione non è uno stato privo di sviluppi, anzi i passaggi essenziali avvengono al suo interno: «dalla natura all’anima e da questa alla mente». Se è vero che «essere e pensiero sono lo stesso», secondo la tesi di Parmenide, si tratta di uno stato che deve essere raggiunto – e soltanto la contemplazione lo concede. E «pensiero», noeîn, in Plotino sarà piuttosto la vita della mente. Già in questo si avverte la peculiarità plotiniana, che subito si dichiara: «E ogni vita è un pensare, che [309] però è talvolta più talvolta meno oscuro, come la vita stessa». Ma, se la contemplazione ha compiuto i suoi passi, sia il pensare sia la vita saranno ora «più evidenti». Plotino li definisce allora «pensiero primo e vita prima». Questo implica che la vita abbia vari gradi – e di fatto subito dopo si parla di una «vita seconda» e di un «pensiero secondo», così come di una «vita ultima» e di un «pensiero ultimo». Esiste dunque una successione di gradini, nella vita e nel pensiero. E questi culminano nella «vita più vera», che «è la vita per il pensiero».
Per Platone era sufficiente la giustezza incrollabile del pensiero. Non così per Plotino, che misura il pensiero dalla sua corrispondenza con la «vita più vera». E tutto si riconduce alla contemplazione, che finalmente viene definita: «E la contemplazione e l’oggetto contemplato sono questo vivente e questa vita e i due sono parimenti uno». Nessuno aveva dedicato tanta attenzione alla parola «vita».
Ma che cosa viene chiamato «vita prima»? Non si dà mai il caso che Plotino abbandoni un’immagine. A poco a poco, con una successione di volute, là si torna. Ma ora sul terreno più difficile, quello che si apre «al di là» della mente, là dove non sussiste più la dualità irriducibile di noûs e noētón ma si scopre qualcosa che «non conoscerà se stesso». Zona di alto rischio. Come spaventato, Plotino si domanda: «Che cosa avrà, allora, di venerabile?». Si tratta di qualcosa a cui è difficile accedere. In paragone la mente è una realtà familiare. Eppure «qualcosa di esso è in noi». Ma come accoglierlo? È «come un suono che riempie uno spazio vuoto e gli uomini che stanno in ascolto in quello spazio lo colgono tutto o anche non tutto». Ora la mente deve compiere il suo sforzo supremo. Deve «ritirarsi» e, «se vuole vederlo, deve essere non del tutto mente». Per giungere a quell’essere che sta al di là, la mente di cui Plotino aveva appena detto che era «tutto» deve rinunciare – in quanta parte? – a se stessa. E riconoscere: «Questa è la vita prima, atto che attraversa tutte le cose». È la vita che possiede «tutto con precisione e non nei tratti generali». Alla mente non rimane [310] altro che volgersi verso il suo «principio», di cui si dice che è «anteriore a tutte le cose, se tutte le cose devono stare dopo di lui».
Che cosa sarà? «La potenza di tutto». Senza quella potenza non c’è neppure la vita prima. Qui ci si avvicina a qualcosa che è «al di sopra della vita e causa della vita». La vita stessa ne discende come da una «sorgente». E qui si incontra la difficoltà massima: è «una sorgente che non ha origine» e non si esaurisce. Questa è la prima immagine, perfettamente corrispondente alla «stanza della pienezza» della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad: tranquilla e sempre allo stesso livello, la sorgente si riversa in tutti i fiumi. E subito sopravviene un’altra immagine: un «albero immenso», la cui linfa irrora ogni ramo, ma non si dissipa e «rimane nella radice».
«Perché stupirsi?» aggiunge Plotino. Se così non fosse, nulla sarebbe. Quando si arriva a questo che è «semplicemente l’uno» non si deve chiedere di più, anche se di quell’uno nulla possiamo dire, perché «non è essere, non è sostanza, non è vita». Ora la vita prima è giunta davvero al di là di se stessa. La sorgente, l’albero immenso, il semplicemente uno: nomi di qualcosa che si chiama anche «il bene», tò agathón. La mente lo cerca, ma non deve commettere l’errore di pensarlo: «Enunciando il bene, non bisogna aggiungergli un pensiero; aggiungergli qualcosa, qualsiasi esso sia, significa diminuirlo». Alla mente, che ha attraversato tutto, ora spetta soltanto la mutezza. Anche il pensiero è inopportuno, perché «la mente ha bisogno del bene, ma il bene non ha bisogno della mente». Alla fine, la mente deve fare a meno di se stessa.
E qui Plotino ricorda ciò che la mente è stata, come se nel corso del suo viaggio l’avesse abbandonata: «Sì, la mente è bella, è l’essere più bello, nella luce pura e nello splendore puro avvolge la natura degli esseri». Guardarla provoca «sgomento» in «colui che la vede e penetra in essa». Eppure c’è qualcosa che sta oltre, «che non ha bisogno di niente e neppure di pensare». Ed è là che deve giungere il pensiero: ad abolirsi.
[311] Ágalma significava innanzitutto «statua», nella vita di ogni giorno. Ma lassù, in quel cielo dove gli dèi vivono? Plotino precisa: «Non bisogna credere che lassù gli dèi e i beati vedano delle proposizioni, ma tutte le cose che lì vengono dette sono bei simulacri [agálmata], quali ci si può immaginare che siano nell’anima dell’uomo sapiente, simulacri non disegnati, ma che sono». Nel cielo, i simulacri sono cose che vengono «dette», legoménōn, ma non in parole – e neppure attraverso una traccia «scritta». Linguaggio che si usa «lassù» – e di cui sulla terra giunge un’eco. Perciò Plotino aggiunge, subito dopo: «Mi sembra che sia questo ciò che hanno còlto i sapienti egizi, sia per una scienza precisa o per un sapere infuso: per designare le cose con sapienza non usano lettere scritte, che si articolano in discorsi e frasi, né si servono di ciò che imita i suoni e le espressioni delle proposizioni, ma incidono simulacri [agálmata] nei santuari, e ciascuno di essi è simulacro di una singola cosa, in ogni dettaglio, in modo che ciascun simulacro sia anche scienza e sapienza, che sussiste tutta insieme, e non un ragionamento o una deliberazione».
«Spesso, svegliatomi a me stesso dal corpo ed essendo al di fuori delle altre cose, ma all’interno di me stesso, e vedendo una bellezza quanto mai prodigiosa e confidando soprattutto allora di partecipare al migliore destino, poiché vivo la vita suprema e sono diventato una sola cosa con il divino ed essendo fondato in esso sono giunto a fondarmi su quell’attività che sta al di là di ogni altra entità mentale, dopo questo soggiorno nel divino scendo dalla mente al ragionamento e mi domando come mai allora e anche ora possa scendere e come mai allora l’anima sia potuta entrare nel corpo, essendo quale essa mi è apparsa, pur se ancora nel corpo».
Periodo ondoso, spezzato in tre nella traduzione di Hadot e in quattro in quella di Bréhier, immette chi lo legge nella continuità di un movimento: l’esperienza, [312] prima ancora che l’argomentazione, da cui sono scaturite le Enneadi.
Il punto di partenza in Platone: non è il mondo a contenere l’anima, ma l’anima a contenere il mondo. Nel Fedro si parla del «dorso del cielo», da cui si vede ciò che nel mondo non appare, perché sta al di là del suo guscio, avvolge il mondo e si manifesta come coscienza. A questa entità attinge senza saperlo tutto ciò che, dentro il mondo, è cosciente.
Se così non fosse, la coscienza non sarebbe altro che un’appendice del composto fisico-chimico di cui è fatto tutto ciò che è cosciente, e potrebbe al più comunicare con altri esseri entro l’ambito dell’empatia. Mentre la coscienza si mostra nella sua interezza quando trapassa il guscio del mondo e si immerge nell’elemento di cui è fatta ogni altra forma della coscienza stessa. All’interno del mondo, invece, la coscienza sottostà in tutto al composto fisico-chimico. È il vincolo della necessità che la stringe. Tanto basta a scacciare ogni sospetto di panpsichismo, facile errore che elude Ananke.
L’uomo è immerso nel cosmo, ma con la testa ne sta fuori. Questo è il dato fisiologico da cui deriva ogni dissidio col mondo e ogni distacco dal mondo, che è un ritorno alla testa. Il Timeo lo spiega nei termini di un naturalismo metafisico. La testa è la «radice» dell’uomo, va considerata come una pianta «celeste» e non «terrestre». L’uomo è perciò «sospeso», anakremannýn, dall’alto al cielo, come una marionetta.
La visione è ripresa puntualmente da Plotino: «La loro testa [delle anime degli uomini] è fissata al di sopra del cielo». Che la testa sia la radice ci aiuta anche a capire l’immagine dell’arbor inversa, l’«albero rovesciato» che si incontra in un punto capitale della Bhagavad Gītā. Ma qui il riferimento si trovava in Omero. Parlando degli uomini la cui testa svetta al di sopra del cielo, Plotino ricalcava – modificandoli – tre magnifici versi dell’Iliade dove si descrive Eris, Lite, «sorella e compagna [313] di Ares omicida, / che prima è piccola e poi fissa la fronte / nel cielo, mentre cammina sulla terra». In Omero, Eris, potenza terrifica e mutevole, volta a volta minuscola o immane, giunge a «fissare» la fronte alla sommità dei cieli, imponendo all’intero cosmo la sua presenza funesta; in Plotino le anime degli uomini hanno la testa «fissata al di sopra del cielo».
La condizione di Eris e dell’anima è divergente: Eris occupa l’intero cosmo, fino al suo ultimo limite – e vi sbatte contro con le sue ali. Nulla di ciò che è nel mondo può evitare di percepire il suo volteggiare funesto. Ma l’anima è l’opposto: se la sua testa sporge di là dal cosmo, questo implica che in una certa sua parte le potenze del cosmo non possono raggiungerla. E quella parte invulnerabile è addirittura la sua «radice». Come si legge nel Timeo: «L’anima egli la pose al centro e la distese attraverso tutto e anche al di fuori, avvolgendo il corpo con essa».
Ma perché Plotino ha voluto riallacciare all’immagine dell’anima che sfugge al mondo quella di Eris che sul mondo infuria? Tutta la sua sottigliezza si svela in questa allusione omerica: l’anima ha giusto motivo per sentirsi svincolata dal mondo, ma al tempo stesso il mondo, fino al più alto dei cieli, è invaso da Eris, urto invincibile e assassino che accompagna ogni evento.
Se il divino è qualcosa, non può che essere ciò che «avvolge l’intera natura», come si legge nella Metafisica di Aristotele, qui in accordo con la dottrina platonica. Il divino perciò può trovarsi dentro il mondo soltanto come qualcosa che vi filtra da fuori. Essenziale è che si riconosca quel fuori.
All’arte, per esempio a un dipinto, si può guardare in due modi: o come rappresentazione di qualcos’altro, che appartiene al mondo ed è percepibile allo stesso modo del dipinto; o come rappresentazione di qualcosa che appartiene a un invisibile, comunque lo si definisca. [314] E in entrambi i casi occorrerà trattare l’opera d’arte come un mímēma, una «imitazione», parola fatale.
Plotino distingueva con nettezza le due vie: se in un dipinto si riconosce «nel sensibile l’imitazione di qualcosa che sta nel pensiero [en noḗsei keiménou]», soltanto allora l’arte provoca un turbamento misto a stupore. Da qui nasce il páthos, l’«emozione» che si manifesta in un processo all’interno di chi guarda. E a questo punto Plotino lascia risuonare una formula che ricongiunge la metafisica al mito: «kinoûntai hoi érōtes», «si muovono gli Eros». Certo, aggiunge subito dopo, alcuni esseri sono così torpidi che non riconoscono neppure «tutte le bellezze in ciò che è sensibile» e non saranno mai capaci di provare un sentimento di «reverenza» verso il mondo che li circonda. Se così è, «null’altro li smuoverà» e passeranno anche vicino all’arte senza riconoscerla. Parole asciutte, definitive.
«Lassù la potenza possiede soltanto l’essere e l’essere soltanto la bellezza. Come si potrebbe infatti privare dell’essere la bellezza? E come si potrebbe sottrarre all’essere la bellezza? Se si perde il bello, si perde anche l’essere. Per questo l’essere è desiderabile, perché è lo stesso che il bello, e il bello è amabile per il fatto di essere. Perché indagare quale dei due sia la causa, se la loro natura è una sola?».
Perché Plotino giungesse a formulare queste domande erano dovute passare varie centinaia di anni per una civiltà che poneva l’aggettivo kalós in testa a ogni elenco di qualità e voleva che la bellezza si applicasse non solo a ciò che appare ma a qualsiasi atto umano. La voce di Plotino fu una delle ultime e la più limpida a dichiararlo. Quanto accadde dopo somiglia non più a una storia ma a un viluppo di storie, dove alla bellezza spettavano sempre ruoli in qualche misura sospetti e l’essere non sembrava più aver bisogno di quella dubbia compagnia per sussistere.
La difficoltà per Plotino non nasceva invece dal rapporto [315] fra il bello e l’essere, ma fra il bello e il bene. Per lui talmente intrecciati che sentì l’esigenza di distinguerli. Quale dei due aveva la precedenza? Il bene. Perché? Perché non aveva bisogno di essere percepito per esistere. Mentre il bello, per esistere, aveva bisogno di essere visto. E subito «genera dolori». Per vedere il bello, occorre essere svegli. Mentre il bene c’è anche per chi dorme. «Il bene non ha bisogno del bello, mentre il bello ha bisogno del bene»: questa è la differenza ultima. E diverso è il loro modo di agire: il bene è «dolce e mite e delicato», mentre il bello è sempre accompagnato da «sgomento e stupore e un piacere mescolato a sofferenza». Plotino aggiunge: il bello «attira chi non sa lontano dal bene, come ciò che è amato viene attirato lontano dal padre. Infatti è più giovane». Ogni volta che si avvicina ai realia, Plotino diventa improvvisamente laconico. Bréhier, magnifico traduttore che spesso non resisteva alle trappole della parafrasi e dell’esplicitazione, rende il passo così: il bello «ci attira a nostra insaputa fuori dal Bene, come l’amato attira la fidanzata fuori dalla casa di suo padre; poiché è più giovane del Bene». Si aprivano prospettive fiabesche di principesse o ragazze del villaggio rapite. Ma Plotino non le aveva nominate.
Ekeî, «lassù» o «laggiù», nel cielo o anche nell’Ade, è parola indispensabile per Plotino. È la parola che indica quell’altro luogo, senza il quale ogni luogo di quaggiù non può essere. Se non ci fosse quell’altro luogo, non avrebbe senso pensare. Talvolta, come in V, 8, 10, 19-23, in un periodo di quattro righe ekeî ricorre quattro volte. Si accennano drammaturgie: Zeus appare «da un qualche luogo invisibile» e abbaglia «quelli che stanno di sotto». Soltanto pochi riescono a tenere fisso lo sguardo su di lui – e lo seguono, come già facevano «altri dèi e demoni e anime che sono capaci di vedere queste cose». Lassù la bellezza è una luce che investe chiunque, come se camminasse su un’altura e fosse avvolto dal [316] «colore biondo della terra» che sta calcando. È la «bellezza dal profondo». Allora «chi ha la vista penetrante vede in se stesso ciò che viene visto». È questo il momento che permette di capire con esattezza che cos’è la possessione: «Così chi è posseduto da un dio, da Apollo o da qualche Musa, contempla il dio dentro se stesso, appena ha la forza di guardare il dio dentro se stesso». Non occorrono convulsioni né smanie. Non aiutano protocolli psichiatrici. Basta che uno abbia «la forza di guardare il dio dentro se stesso». Singolare corteo. Chi guarda non viene travolto e assorbito in qualcosa di esterno che lo sopraffà, ma accoglie in sé e riconosce come proprio qualcosa che è il dio stesso.
Ma è plausibile che la possessione duri e, soprattutto, sarebbe desiderabile? Non sarebbe un modo per rendere impossibile un altro movimento, che potrebbe essere prezioso? Plotino lo suggerisce. Non basta essere uniti al dio nel silenzio, occorre anche un movimento inverso, verso la scissione. Ma che vantaggio ne trarremo? «Cominceremo a renderci conto di noi stessi, nella misura in cui siamo un altro» rispetto a prima. Si crea un moto oscillatorio. Da una parte c’è la paura di perdere il contatto con il dio; dall’altra «il desiderio di vederlo come altro da sé, al di fuori di noi stessi». L’uomo è per costituzione incapace di essere uno. La sua natura è sempre per difetto o per eccesso. E così dev’essere. Da una parte gli uomini sono «quelli che vedono, dall’altra la visione che un altro vede». Senza l’autoriflessione non si dà pensiero – e non si dà contatto con il divino.
Lassù la vita è facile, tutto è trasparente, luce su luce. Non c’è resistenza. Infinito è lo splendore. Il sole è tutti gli astri – e ciascun astro è il sole. Ogni cosa spicca su tutto, eppure ogni cosa è tutto. Anche il movimento è puro, non si distingue da ciò che lo muove. Ogni cosa che appare ha un profilo che la differenzia da ogni altra, [317] ma guardandola a lungo ogni cosa è tutto. Non vi è alcun vuoto da colmare. Nulla si usura. L’insaziabilità non incita a disprezzare ciò che sazia. Chi guarda non può che guardare di più, perché vede l’infinito. D’altronde, la vita non è fatica per nessuno, quando è pura vita. Questa vita è una sapienza che non raggiungono i ragionamenti, perché è sempre intera e nulla le viene meno, che si debba poi cercare. Tutte le cose lassù sono statue che guardano se stesse. Visione felice. Noi non le vediamo, perché siamo gravati da un ammasso di proposizioni. E ancora oltre, che cosa c’è? Un grande animale remoto, immobile, solitario, che non pensa, perché ciò lo diminuirebbe, come ogni altro atto singolo, perché l’animale è già tutto l’atto.
Per avvicinarsi al dio, è comunque indispensabile una sequenza di atti preliminari: occorre purificarsi. «Bisogna poi dire fino a che punto può giungere la purificazione [kátharsis]; così infatti apparirà chiaro a chi ci rende simili e a quale dio ci rende identici». Per Plotino, la purificazione è un atto che può avere conseguenze estreme: l’assimilazione a un dio, fino all’identità. Tanto basta a togliere alla purificazione ogni sottinteso di moralità. Plotino lo precisa: «Lo sforzo non mira a rendere impeccabili, ma a essere un dio». Ma quale dio? Anche a questo Plotino risponde: «Uno di quelli che sono venuti da lassù»; e una volta giunti «qui, si sono insediati nella mente». Certi dèi hanno preso dimora nella mente, alla fine di un loro viaggio. Cominciato dove? Sono dèi che «fanno seguito a ciò che è primo» e quel primo non è un dio, ma qualcosa di anteriore. Questi esseri mobili potrebbero dunque risalire a ciò che li precede e immettersi nel primo; o altrimenti calarsi fino a un qui, che è la mente di chiunque. Forse per questo, nei miti, gli dèi sono spesso in viaggio.
Purificarsi, per Plotino, implica «l’eliminazione di tutto ciò che è estraneo». Che cosa rimane, allora? Forse il bene? Sarebbe un errore pensarlo. La natura (e l’anima [318] è natura), anche se ricondotta al suo stato illeso, non è mai il bene: «Si unirà [al bene] volgendosi [verso di esso]». Per la frase citata gli bastano tre parole: «Synéstai dè epistrapheîsa». Una volta compiuta la purificazione, l’anima deve solo orientarsi verso qualcosa di affine («Il bene, per essa, è congiungersi con ciò che le è affine»).
Ma come riconoscerlo? Per il fatto che l’anima contiene le «impronte», týpous, del bene. E a questo serve la contemplazione: «Ad accordare le impronte con le cose vere di cui sono l’impronta». Se la contemplazione non opera, le impronte rimangono come tracce inerti. È l’occhio contemplante a risvegliarle. Ma si presuppone che l’anima sia già predisposta a quell’atto contemplativo che per Plotino è l’unico atto efficace. Null’altro occorre.
C’è un punto capitale in cui Plotino diverge da Platone o comunque dal Timeo: la creazione. Plotino non sente bisogno del demiurgo. Anzi, lo presenta come una figura lievemente grottesca, che si affanna a comporre, pezzo su pezzo, il creato («ma da dove gli verrebbero cose che non ha mai visto?»). La visione di Plotino è opposta: «La creazione avviene senza fatica». Non si tratta di un processo graduale, ma istantaneo, totale e «privo di ostacoli». È l’idea stessa di creatore come compositore graduale che viene qui vanificata. Plotino rovescia i termini: «È come se nel sillogismo causale la conclusione precedesse la premessa». Basterebbe questa frase per sottrarre ogni fondamento a Aristotele – ma anche a Platone. Che cosa rimane allora, che possa rendere conto della creazione? «Rimane appunto che tutte le cose stanno in altro». Certo, «tutto ciò che è qui viene da lassù, e lassù era più bello». Se si elimina il demiurgo, non si può che considerare ogni elemento del tutto come una copia di qualcos’altro, che sta altrove e lì è più bello. Non è più l’uomo a produrre copie su copie, ma il mondo stesso, nella sua interezza, è una copia.
[319] Con Plotino, la teoria dell’imitazione, sempre divisa fra l’esaltazione e la condanna, compie una svolta. Per lui, l’imitazione non è una peculiarità che si sviluppa all’interno della vita, assumendo certi caratteri, che possono essere buoni o cattivi. Imitazione è la vita stessa, nella sua totalità. «La vita vera è là», in un altro luogo; là dove è il bene, anzi la causa del bene. Ciò che gli uomini vivono, «la vita del momento e senza il dio», è «una traccia della vita, che imita quell’altra vita».
Plotino segue, passo per passo, una via tracciata da Platone – ed è la sua via più audace, che conduce «al di là dell’essenza», come si dice nella Repubblica. Ma in un mondo fatto di copie e di copie di copie, quale era stato descritto da Platone, Plotino insinua l’«immagine originaria», archétypon, che si incontra alla «fine del viaggio». E tutto il viaggio non fa che ripetere la progressione dei Misteri: passaggio dai «simulacri», agálmata, che stanno nel vestibolo, all’ádyton, la nicchia segreta dove si svelano «la fonte della vita, la fonte della mente, il principio dell’essere, la causa del bene, la radice dell’anima» – e si scopre che sono una cosa sola. Passaggio dall’«immagine», eikṓn, all’archetipo, che è l’origine dell’immagine.
«Ciò che è causa di tutte le cose non è alcuna di esse. Non dovrebbe essere chiamato neppure bene, perché lo produce, ma al tempo stesso è il bene al di sopra di tutti i beni». Quell’origine senza nome, che non appartiene a nessun luogo e a nessun tempo e a nulla somiglia come al brahman vedico, è però qualcosa che si può toccare. Esattamente come nei Misteri, questo è il punto dirimente: una conoscenza che è un contatto – e per ciò stesso si distingue da ogni altra conoscenza: «Non è situato in un certo luogo, come se privasse di se stesso le altre cose, ma è presente per chi è in grado di toccarlo, assente per chi non è in grado di farlo».
Se ciò che è all’origine non può neppure essere definito come il bene, in quale altro modo lo si nominerà? Plotino parla allora di «natura prima», che incide le forme sull’anima. Perciò l’anima deve essere «senza qualità», [320] come la materia, che altrimenti non potrebbe accogliere le «impronte» di tutte le cose. Anche e soprattutto per questo Musil definì Ulrich come «l’uomo senza qualità».
Hēsychía, parola cardine in Plotino, è insieme «silenzio» e «quiete». Silenzio perché precede ed è superiore al linguaggio; quiete perché contempla ciò che accade da un centro immobile. Anzi, lo fa accadere. È la mente, noûs, che – «senza tremare e in quiete» – offre qualcosa alla materia: il lógos, «che scorre dalla mente». Questo fluire è l’atto incessante che regge il mondo. Atto silenzioso, non visibile. Qui non occorre un demiurgo che agisca, che plasmi una volta per tutte. Il flusso è ininterrotto, è il continuo stesso. Se tutto il pensiero è una ricerca del continuo, Plotino faceva cenno a come trovarlo, in ogni istante.
Plotino diffidava della teurgia, non intendeva affidarsi alle pratiche egizie che Giamblico avrebbe celebrato. Ma riconosceva un punto: l’anima ha bisogno di essere incantata (epōdḗ è il termine tecnico a cui ricorreva) per alleviare i suoi dolori, simili ai dolori del parto. La sua soluzione era però ben diversa dalla teurgia. Per lui, il sollievo poteva venire dalla ripetizione «delle cose già dette, se l’incanto opera più volte». Qui Plotino parla di se stesso e di ciò che un giorno sarebbe stata considerata la sua opera: quei corsi di lezioni che tornavano, irreprimibili, sugli stessi termini – noûs, psychḗ, agathón e pochi altri –, vagliandone i rapporti e illuminandoli, mutando ogni volta l’angolo di osservazione. In quanto opera, le Enneadi furono un’invenzione di Porfirio. Per Plotino, furono piuttosto un incantamento tenacemente ripreso, modulato, variato, per placare «il travaglio» dell’anima.
Erano passati seicento anni, ma le questioni platoniche rimanevano intatte, sospese. Per Plotino, si trattava di sbrogliare alcuni fili, riconnetterne altri. Infine, ricondurli [321] a punti diversi degli scritti di Platone. Reiterazioni, variazioni. Delucidazioni laboriose. Ogni tanto, uno squarcio. Il tono diventava improvvisamente intimo, imperioso: «Áphele pánta», «Togli via tutto». Erano le due parole finali del trattato Sulle ipostasi che conoscono. Ma che cos’era quel «tutto»? In primo luogo la società. Platone non aveva osato altrettanto. Anche le sue speculazioni più azzardate erano intessute a una politeía. Anzi, alcune di esse si trovavano appunto nella Repubblica. Con Plotino, invece, i legami con la società venivano recisi. Qualcosa di simile era avvenuto soltanto con i rinuncianti indiani, questi primi individui fuori del mondo, destinati a diventare una figura esemplare di ciò che agisce sul mondo.
Per nominare il sapiente, Plotino alterna alla parola sophós, che domina tutta la tradizione greca, il termine spoudaîos, che nell’uso comune significa chi è «serio», chi si sforza, chi si esercita. Da qui anche il significato di «grave», detto di cose o parole che hanno un peso. Convergenza con il sanscrito guru, che significa in primo luogo «pesante». E corrisponde a un certo modo di vivere. A questo punto è Plotino stesso a porsi una domanda che può sembrare provocatoria: «Che cosa ci sarà di dolce in una tale vita?».
La risposta era immediata. Quali saranno i piaceri per lo spoudaîos? Non le intemperanze né i piaceri del corpo e neppure le «gioie eccessive» (Plotino commenta fra parentesi: «a che pro?»). Gli unici piaceri, per lo spoudaîos, sono connessi alla presenza del bene. Ma il bene è sempre presente. E anche lo spoudaîos è sempre presente. Ne consegue che per lui «la dolcezza è costante». Ma come si riconosce questo stato? «Tò híleōn toûto»: «c’est la sérénité» traduce Bréhier – e Harder è sulla stessa linea («Heiter ist der Edle immerdar»). Ma la «serenità» è una tonalità psicologica. Tò híleōn ha invece un altro passato: è un termine tecnico del sacrificio. Discende da hiláskomai, verbo che usa chi vuole placare [322] il dio, renderlo propizio. Per Chantraine il suo senso primo è «“cercare di rendersi favorevole, di conciliarsi” (in Omero il complemento designa sempre un dio)». Grazie all’azione propiziatoria, che può essere anche un’offerta cruenta, la divinità offesa (il sottinteso è che la divinità sia sempre offesa, all’inizio) diventa benevola – e, per contagio, rende benevolo l’officiante. Da qui il significato, per híleōs, di «permesso dagli dèi». Da qui il senso di sollievo – e alla fine la serenità – per l’uomo. Da híleōs, infine, si passa a hilarós, «ilare», «di buon umore», che sopravvive con questo significato anche nel greco moderno. E il composto hilarotragoedia implica che la hilaritas abbia come basamento la tragoedia. Era questo il senso anche del titolo di Giorgio Manganelli.
Se lo spoudaîos di Plotino è «sereno», a ciò giunge dopo una lunga e taciuta vicenda di tentativi per rendersi la divinità favorevole. Una volta raggiunta, quella «disposizione», diáthesis, è uno stato incrollabile, che presuppone un passato tormentoso. Ma tanto basta per la felicità del sapiente: «Se si cerca un’altra immagine del piacere per la vita dello spoudaîos, vuol dire che non si cerca quella vita».
Non meraviglia, allora, se molti sono increduli, dinanzi alla felicità del sapiente: «Un tale essere non vive, dicono alcuni. Eppure vive, ma la sua felicità, come anche la sua vita, sfuggono». Ciò che irrita, nel sapiente, è che si faccia così poco notare. Anche la sua serenità è irritante: «[Il sapiente] vorrebbe senz’altro che tutti gli uomini stessero bene e che non gli accadesse alcun male; ma, se questo non accade, è ugualmente felice». Profonda ironia plotiniana. A cui segue, poco dopo – e quasi inavvertibile – l’unica precisazione sul rapporto fra il sapiente e il potere: «Attenuerà e lascerà perdere, per incuranza, le esuberanze del corpo; deporrà i poteri». Come se fosse cosa da nulla.
«La vita nel tutto, che è sovrabbondante, crea tutte le cose e le screzia nel vivere e non smette mai di creare g [323] iocattoli viventi, belli e attraenti»: fra i tanti giocattoli, gli uomini. Questa visione di Plotino era già in Platone. Ma, ancora una volta, Plotino spinge all’estremo. Che cosa sono le guerre? «Danze pirriche». Di conseguenza: «Come uno spettacolo teatrale, è così che occorre contemplare le uccisioni e tutte le morti e le devastazioni e le conquiste della città: sono cambiamenti di scena e di costumi e gemiti e lamenti degli attori». Difficile trovare qualcosa di altrettanto sfrontato nell’irrisione e vanificazione della sofferenza e della morte. Non solo: gli uomini comuni «prendono sul serio i giocattoli perché non sanno che cos’è serio e perché sono giocattoli essi stessi». Qui, più che mai prima, si dichiara la spaccatura fra lo spoudaîos e chiunque altro. Il resto dell’umanità è ricacciato fra i giocattoli e trattato come una schiera di marionette, pronte per uno spettacolo che può anche essere grazioso, ma rimane irrilevante. Non meno degli gnostici, ma con altro stile, Plotino bagatellizza la commedia umana. Ma subito dopo solleva contro se stesso obiezioni che rimarranno per sempre sospese ed efficaci, anche se Plotino prova a confutarle: «Come potremo dire che qualcosa è secondo natura o contro natura, se diciamo che tutto ciò che accade è secondo natura? E come sarà possibile che qualcuno sia empio verso il divino, se tale è ciò che viene creato, come se in un dramma l’autore avesse messo in scena un attore che insulta l’autore stesso del dramma?». Superbo esempio di un pensiero che sa parlare contro se stesso.
Plotino sa benissimo che, parlando di giocattoli e marionette, non ha risposto all’interrogativo sul male. E subito lo formula nel modo più immediato: «Perché ci sono degli infelici, se non commettono ingiustizie né hanno colpe?». Questa volta, però, Plotino annuncia una nuova risposta: «Diremo più chiaramente quale sia la ragione di questo e perché sia appropriata». Ma la maggiore chiarezza, per essere raggiunta, implica una maggiore difficoltà. E Plotino prosegue con un improvviso [324] a parte: «Questo è dunque il ragionamento – osiamolo; e forse riusciremo». In questa tarsia apparentemente superflua si avverte la peculiarità ultima di Plotino, la sua capacità di far percepire a chi lo segue il respiro del pensiero, il suo passo. E subito dopo si entra in un ordine di argomentazioni del tutto nuovo, come in un vortice. Innanzitutto: «Ogni vita è atto, anche la vita da poco. Un atto che non è come quello del fuoco, ma un movimento non casuale, anche se non sempre è percepito». Plotino aveva promesso qualcosa di più chiaro – e subito offre qualcosa di più oscuro, denso di pensiero. Il punto è capire la specificità di quell’atto che è la vita. Quell’atto contiene in sé un lógos che «muove la vita dandole forma». Ma a che cosa somiglierà un tale atto? «L’atto della vita è un’arte, come di chi si muovesse danzando: il danzatore è simile a questa vita secondo l’arte e l’arte lo muove così come fa la vita stessa». Per trovare una frase affine a questa bisogna precipitare in avanti fino a Nietzsche: «Il mondo come un’opera d’arte che si autogenera», «Die Welt als ein sich selbst gebärendes Kunstwerk». O altrimenti, di lato, fino a Śiva danzatore cosmico. Ma Plotino non si sofferma su questa visione. Gli preme spiegare che il lógos quale agisce nell’atto della vita «non si dà pienamente a ciascuna cosa», in quanto non ha l’integrità «della mente una e della vita una». Di conseguenza, «opponendo le parti fra loro e producendovi il conflitto e la guerra» ne risulta lacerato. Eppure continua a essere uno, «come un dramma, che è uno, contiene in sé molte battaglie». Il teatro, che nel passo sui giocattoli e le marionette poteva sembrare un’immagine minimizzante di ogni conflitto, si rivela qui essere intrinseco alla costituzione del mondo. Il quale ora appare come un «unico essere vivente», che è in accordo con se stesso anche se composto di parti confliggenti. E questo perché «il tutto segue il lógos». Ma il lógos ha bisogno, per essere, della differenza – «e la massima differenza è l’opposizione». Quindi sarà il lógos stesso che «spingerà all’estremo l’alterità e per necessità [325] creerà gli opposti e sarà perfetto non se avrà la mera differenza, ma se creerà anche gli opposti».
Il male è utile perché risveglia. «Rende deste la mente e l’intelligenza perché si oppongano alle vie della malvagità». Già questo è corroborante. Ma c’è anche un altro modo per usare il male: «Questo appartiene alla più grande potenza: far servire il male per il bene ed essere capaci di utilizzare ciò che è divenuto informe per farne altre forme». Dottrina non diversa, nel suo fondamento, da quella che era balenata a Baudelaire nel suo sogno del bordello-museo: la percezione della «utilità misteriosa» di un male che, «per opera di una meccanica spirituale», può anche «volgersi in bene». Essenziale è che il bene sappia trattare la sostanza del male. Non semplicemente perché la punizione del male è un esempio ammonitore. Questo basta per le menti più deboli. Mentre il male può anche essere materia preziosa da cui trarre nuove forme.
Alla «fine del viaggio», l’innominato viaggiatore si ritrova solo, di fronte a qualcos’altro che anche permane in solitudine e non ha forma alcuna, neppure «forma mentale». Ma chi è il viaggiatore? Chiunque, nella tradizione platonica, avrebbe risposto: il sapiente, ovvero l’anima che ha percorso fino all’ultima tappa la via del pensiero. Non così Plotino. Quando giunge a essere sola ad solum, l’anima «non dice più di essere altra cosa, non dice di essere uomo o animale o un’entità o il tutto». Non solo Platone, ma nessun altro nella sua tradizione avrebbe osato scrivere che l’anima, giunta alla massima vicinanza con ciò che sta «al di là dell’essenza», dismette ogni possibilità di dichiararsi «uomo o animale o un’entità o il tutto». Dove il fatto di poter essere un animale è altrettanto sorprendente quanto la possibilità di essere il tutto. E Plotino si guarda bene dal sottolineare la novità di ciò che dice. Gli bastava riportare ciò che accade alla «fine del viaggio».