Le sue origini erano oscure. Alcuni dicevano che fosse imparentata con i Romanov; altri che fosse stata una contadina ungherese, una spia russa, un’avventuriera tedesca, una novizia francese fuggita dal convento. Ma erano tutte congetture. A essere chiaro, quanto meno agli europei di Mayapore, era che per quanto potesse sembrare una santa donna non aveva il diritto di farsi chiamare sorella. La Chiesa cattolica e quella protestante non la riconoscevano, ma ne accettavano l’esistenza e ammettevano che era stata lei a vincere la Battaglia dell’Abito quando, molti anni prima, aveva ribadito al furibondo prete cattolico che si era presentato per proibire quel particolare abominio perché le vesti che indossava erano disegnate da lei stessa e perché, pur occupando una condizione superiore e avendo una posta in palio più importante a livello di vita eterna, una vera religiosa non deteneva certo l’esclusiva sul pudore personale né sulla vulnerabilità ai colpi di sole: da qui la lunga veste di cotone grigio leggero (disadorna di crocefisso o corda penitenziale e legata in vita con una semplice cintura di pelle acquistabile in qualsiasi bazar) e l’ampia cuffia di lino bianco inamidato che le riparava collo e spalle dal sole ed era chiaramente visibile anche nelle notti più buie.

«Però si fa chiamare sorella Ludmila», aveva protestato il prete.

«No, sono gli indiani a chiamarmi così. Se ha qualcosa da obiettare, lo faccia con loro. D’altra parte si dice che non ci si può prendere gioco di Dio».

A quei tempi (era il 1942), ogni mercoledì mattina sorella Ludmila lasciava il gruppo di vecchie costruzioni in cui dava da mangiare agli affamati, curava i malati e puliva e accudiva coloro che, se non fosse stato per le sue ronde notturne, sarebbero morti per strada, e si metteva in cammino.

Reggeva una borsa chiusa a chiave e incatenata alla cintura. Era seguita da un gagliardo giovane indiano armato di bastone. Era raro che lo stesso ragazzo durasse più di un mese o due. Mr Govindas, il direttore della filiale di Mayapore dell’Imperial Bank of India, che era la destinazione delle spedizioni del mercoledì mattina, le aveva chiesto un giorno: «Sorella Ludmila, da dove viene quel ragazzo?». «Suppongo sia piovuto dal cielo», aveva risposto lei. «E quello che l’accompagnava il mese scorso? Veniva anche lui dal cielo?». «No, lui veniva dalla galera e di recente ci è tornato». «È proprio su questo che volevo metterla in guardia», aveva detto Mr Govindas. «È pericoloso fidarsi di un giovane solo perché sembra abbastanza forte da poterla proteggere».

Sorella Ludmila si era limitata a sorridere e gli aveva consegnato il suo assegno circolare.

Ogni settimana si presentava da Mr Govindas per prelevare duecento rupie. Gli assegni erano emessi dalla Imperial Bank di Bombay. Ora la Imperial è ormai da tempo diventata la State Bank e Mr Govindas è in pensione. Ma la sua memoria è ancora fine. Sorella Ludmila non versava mai nulla e pagava tutti i suoi conti tramite assegni, e per questo si poteva solo supporre che possedesse un grosso patrimonio o che il denaro venisse accreditato sul suo conto da altre fonti. Nelle istruzioni di lunga data che da Bombay ne autorizzavano i prelievi a Mayapore era indicata come Mrs Ludmila Smith e gli assegni portavano quella firma. Chiedendo informazioni a un amico di Bombay, Mr Govindas era riuscito a scoprire che il denaro proveniva dal Tesoro di un piccolo principato e che poteva essere considerato come una sorta di pensione, poiché il marito di Mrs Smith, un ingegnere, era deceduto quando era ancora sul libro paga del principe. Sorella Ludmila prelevava le duecento rupie in questo modo: cinquanta banconote da cinque rupie, cento banconote da una rupia e cinquanta rupie in moneta. Mr Govindas immaginava che gran parte delle monete e un discreto numero di biglietti da una rupia venissero distribuiti ai poveri e che il resto servisse a pagare i suoi aiutanti e a fare acquisti al mercato. Sapeva che carne, grano e verdure venivano procurati mensilmente da fornitori locali, e che i medicinali venivano acquistati alla farmacia del dottor Gulab Singh Sahib a uno sconto-base del 12,5 per cento più un 5 per cento supplementare per la frequenza mensile dei pagamenti. Sapeva che ogni giorno sorella Ludmila consumava solo un bicchiere di spremuta d’arancia e una cena di riso o legumi e cagliata, eccetto che il venerdì, quando si concedeva un semplice curry di verdure e, nelle festività cristiane, del pesce. Il resto del cibo andava ai suoi aiutanti e agli affamati. Mr Govindas sapeva molte cose su di lei. Certe volte pensava che, se avesse preso nota di tutto quello che sapeva o sentiva dire, avrebbe riempito numerose pagine della carta protocollo della banca. Ma pur essendo al corrente di tutto ciò, riteneva ugualmente di non conoscere nulla di importante riguardo a sorella Ludmila. E nella Mayapore del 1942 non era solo Mr Govindas a pensarla così.

La sua età, per esempio. Quanti anni aveva? Sotto le pieghe degli abiti da suora e le ali inamidate della cuffia il suo volto, descritto da alcuni come imperscrutabile, viveva in una perpetua, asettica luce reverenziale. Le sue mani erano quelle di una donna che aveva sempre diretto il lavoro altrui. Un singolo cerchietto d’oro le adornava l’anulare. La gola era protetta dal collo alto di una pettorina bianca inamidata, che le copriva anche petto e spalle. I suoi occhi erano scuri e infossati, e sul viso c’era una traccia di zigomi prominenti, forse a riprova del suo sangue magiaro. Anche la voce era cupa e profonda come gli occhi. Parlava un ottimo inglese, anche se alquanto spezzato, e un terribile hindi da bazar. Mr Govindas aveva sentito dire da certi inglesi che il suo inglese aveva inflessioni germaniche. Si diceva anche che possedesse un passaporto francese e uno britannico. Si supponeva fosse intorno alla cinquantina, anno più anno meno.

Dopo avere prelevato le duecento rupie e averle depositate nella borsa di cuoio incatenata alla cintura, sorella Ludmila augurava buona giornata a Mr Govindas, lo ringraziava per averla accompagnata di persona dal suo ufficio privato all’interno fino alla porta e si rimetteva in cammino verso casa, assistita dal giovane del momento che aveva trascorso la decina di minuti da lei spesi in banca accovacciato in strada a chiacchierare con chiunque si trovasse lì ad aspettare o a perdere tempo. Tali conversazioni erano di solito volgari. Gli interlocutori di passaggio della guardia del corpo volevano sapere se fosse già stato invitato a condividere il letto della pazza bianca, o quando avesse in programma di scappare con i soldi che doveva proteggere e per la qual cosa lei lo pagava. Le scurrilità erano bonarie, ma in sottofondo si poteva sempre distinguere una nota di oscura incertezza. Le attività di sorella Ludmila sembravano troppo strettamente connesse alla morte perché un uomo in salute potesse sentirsi a proprio agio.

 

Dalla filiale di Mayapore dell’Imperial Bank, situata sotto i portici di Victoria Road, l’arteria commerciale dell’acquartieramento europeo, quel giorno sorella Ludmila attraversava il quartiere eurasiatico, superava la chiesa della missione, varcava il passaggio a livello di cui a volte (come Miss Crane, con cui scambiava un cenno di saluto ma mai una parola) doveva aspettare l’apertura prima di poter attraversare l’affollato ponte di Mandir Gate. Giunta sull’altra riva del fiume, sostava davanti al tempio di Tirupati e distribuiva i soldi ai mendicanti e al lebbroso che sedeva a gambe incrociate mostrando il busto segnato dalle chiazze rosacee del male e sollevando le braccia simili a rami mozzati. Su quel versante del fiume il sole sembrava più feroce e indiscriminato, come se all’ombra gli odori di povertà e lerciume andassero sprecati. I colori erano derubati dei vantaggi delle loro singolarità e sorprese. All’altezza del terreno, lo spettro si riduceva a una gamma di esausti grigi e gialli. Perfino il fiore scarlatto nei capelli intrecciati di una donna, privo della sobrietà smorzata del suo verde, si stemperava in un insipido marrone bruciato. Qui la cuffia bianca inamidata di sorella Ludmila sembrava un volatile preistorico miracolosamente risorto, visibile da lontano mentre aleggiava, si impennava e si abbassava in picchiata.

Oltre il tempio la strada si biforca. Al vertice del triangolo un albero sacro protegge un santuario, alcune mucche che ruminano, vecchi e donne con le dita al naso. All’imbocco della strada che procede verso destra il cinema Majestic annuncia un film epico tratto dal Ramayana (adesso come allora). La strada di sinistra è più stretta e buia e conduce al Chillianwallah Bazar passando davanti a una schiera di botteghe aperte sul davanti. È questa la strada che sorella Ludmila imboccò un giorno di molti anni fa, seguita dal ragazzo e accompagnata da una dozzina di bambini che le sgambettavano accanto e davanti nella speranza di ottenere un’anna. Lei procedeva impettita, reggendo la borsa chiusa a chiave davanti al petto, ignorando i richiami dei negozianti che la invitavano a comprare paan, tessuti, acqua di selz, meloni o gelsomini. Al termine del vicolo svoltò a sinistra ed entrò nel bazar attraverso l’arcata aperta nel muro di cemento che lo racchiude.

All’interno dell’area murata ci sono mercati del pesce e della carne, grandi magazzini aperti su un lato con pavimenti di cemento e tetti di lamiera ondulata sostenuti da colonne di calcestruzzo. All’aperto, lungo le mura di cinta, le donne dispongono gli arcobaleni di spezie e verdure su stuoie e vi si siedono al centro, reggendo le bilance vuote come tante, rannicchiate rappresentazioni di una giustizia mercantile dalla vista acuta e non bendata. Da una di loro sorella Ludmila comprò peperoni verdi; poi si rimise in cammino fino a raggiungere l’uscita del bazar, sul lato opposto della piazza murata. Qui, prima di varcarla, fece una piccola deviazione e salì una rampa di pericolanti gradini di legno fino al piano superiore di un edificio (con ogni evidenza un magazzino) la cui fiancata, in quel punto, fa parte del muro di cinta del bazar. Sulla facciata della costruzione una scritta a caratteri blu su uno sfondo bianco sporco annuncia: «ROMESH CHAND GUPTA SEN, FORNITORI». La sua guardia del corpo la aspettava accovacciato ai piedi della scala fumando un bidi, spazientito dall’insolita interruzione nel viaggio di ritorno. Dieci minuti più tardi, sorella Ludmila riemerse dal magazzino, scese la rampa di scale e fece di nuovo strada uscendo dal bazar attraverso un altro labirinto di stradine e vicoli di vecchie abitazioni musulmane con finestre chiuse al primo piano e porte chiuse al pianterreno, finché all’improvviso le case cedevano il passo a un terreno aperto in cui erano disseminate, ora come allora, le capanne e le baracche degli intoccabili. Al di là si trova un piccolo bacino di acqua stagnante sulla cui riva più lontana sono stesi ad asciugare i lunghi sari colorati e gli stracci grigi delle donne dalla pelle scura, dalle gambe nude e dai braccialetti ai polsi che si immergono nell’acqua fino a metà coscia per lavarsi insieme a ciò che indossano. Ci sono tre alberi, ma per il resto il luogo è deserto e desolato. I corvi gracchiano sbattendo le ali e volteggiando nel cielo, diretti verso il fiume che è invisibile dal tragitto di sorella Ludmila ma che si può fiutare e percepire, poiché al di là di un dosso il terreno sembra scomparire per poi riemergere in lontananza. Sulla riva opposta ci sono i magazzini e le installazioni delle ferrovie. Il sentiero imboccato da sorella Ludmila è più o meno parallelo al corso tortuoso del fiume e porta a un’apertura priva di cancello di un muro di cinta sbrecciato. All’interno del muro ci sono tre basse costruzioni a un piano, reliquie degli inizi del diciannovesimo secolo, recuperate dal loro stato di abbandono, imbiancate, quiete, silenziose, severe, funzionali e oggigiorno accompagnate da una quarta costruzione moderna. Questo era il Santuario, ora noto con un nuovo nome.

 

Sorella Ludmila? Sorella? (Un’esitazione). Non ricordo. No, ora rammento. Indossa le vesti della modestia, dice il Signore. E io avevo obbedito. Il prete che venne a protestare era furioso, ma io lo cacciai. Quando se ne fu andato, chiesi a Dio se avessi agito con saggezza. Con saggezza, sì, e hai fatto anche bene, disse Lui. E si fece una risata. Gli piace scherzare. Se Dio non è mai felice, come possiamo sperare di esserlo noi? Che musi lunghi e sofferenti facciamo quando preghiamo. Mai un sorriso. Come possiamo sopportare l’idea dell’Eterno, se in Paradiso non possiamo ridere? O, se è per questo, piangere? Non è forse la misura della nostra umanità, la capacità di ridere e di piangere? Ma non ha importanza. Non è per questo che lei è qui. Non l’ho ancora ringraziata, così lo faccio adesso. Ormai i visitatori sono pochi, e quelli che ci sono non posso vederli. È Lui a descrivermeli dopo che se ne sono andati. Mi dispiace per i tuoi occhi, mi ha detto, ma non c’è nulla che possa fare, a meno che tu non voglia un miracolo. No, grazie, ho risposto io, niente miracoli. Mi ci abituerò, e immagino che Tu mi aiuterai. E poi, quando hai vissuto così a lungo, sei ridotta a claudicare reggendoti a due bastoni ma poi passi quasi tutto il tempo a letto, gli occhi non ti servono a molto. Ce ne vorrebbero tre, di miracoli: uno per gli occhi, uno per le gambe e uno per togliermi vent’anni di età. Tre miracoli per una sola vecchia! Che spreco! E poi, ho proseguito, i miracoli sono fatti per convincere gli scettici. Per chi mi prendi, Signore? Per una miscredente?

Sarà interessante, dopo che lei se ne sarà andato, scoprire chi è e che aspetto ha. Dal Suo punto di vista, intendo. È quasi un sollievo, non avere una vista tutta mia. In questo modo mi sento più vicina a Dio. Negli ultimi tempi mi piace farmi descrivere la mia giornata prima da uno degli aiutanti di questo luogo e poi da Lui. Piove, mi dicono: non sente il picchiettio delle gocce sul tetto, sorella? Oggi è stata una giornata calda e asciutta, mi dice invece Lui dopo che se ne sono andati tutti e io l’ho evocato in preghiera. Lui risponde sempre alle mie invocazioni. Per quanto possa essere occupato, trova sempre il tempo di farmi visita prima che mi addormenti. Parla più che altro dei vecchi tempi. Oggi con questo caldo e questo secco sei andata in banca, ricordi?, mi dice. Di sicuro ricordi il sollievo che hai provato quando Mr Govindas ha accettato il tuo assegno, lo ha consegnato all’impiegato e questi è tornato con le duecento rupie. E ricordi di avermi ringraziato? Grazie a Dio, hai detto con una voce che solo io potevo udire, i fondi non sono stati bloccati; poi hai ripensato ai vecchi tempi in Europa e a tua madre che diceva: i fondi sono stati bloccati, sono forse destinata a fare la fame e a non vivere nello splendore? Amavo mia madre. Per me era bellissima. Nei momenti fortunati donava soldi alle Sorelle. Si vestono così, diceva per rispondere alla mia domanda, perché quelle sono le vesti della modestia che Dio ha ordinato loro di indossare.

Un giorno le Sorelle passarono davanti a casa nostra. Sorella, disse mia madre a una di loro, qui c’è qualcosa per la vostra cassetta. Ma loro proseguirono senza fermarsi. Mia madre cercò di richiamarle. Aveva appena avuto un grosso colpo di fortuna. Comprava guanti e carne rossa di qualità. Avrebbe voluto dare qualcosa alle Sorelle, ma loro non si fermarono. Non siamo tutte creature del caso?, gridò alle loro spalle. Forse una moneta è più corrotta delle altre?

Lei capisce...? Sì, capisce. Quello di cui le sto parlando accadeva a Bruxelles. Ricordo un bell’appartamento, poi uno più povero. Presto torneremo a San Pietroburgo, diceva mia madre, ma altre volte diceva che saremmo tornate a Berlino, e altre ancora a Parigi. Ma allora dove vivevamo davvero, mi chiedevo, dov’era casa nostra? C’era sempre un che di temporaneo nella nostra vita. Poteva percepirlo perfino una bambina di sei anni. E da allora l’ho sempre avvertito. Ho sei anni in più di questo secolo. Allora era il 1900. Ricordo mia madre che diceva: Oggi è il primo giorno del secolo nuovo. Era eccitante. Avevamo guanti, cappotti pesanti, scarpe robuste. Nelle strade aleggiava ancora la magia del Natale. Sui volti di tutti si leggeva la soddisfazione al pensiero del secolo nuovo. Questo sarà il nostro anno fortunato, disse mia madre. Ah, il tepore della stretta delle nostre mani guantate! Noi due insieme, riflesse nelle vetrine dei negozi, mia madre che si chinava per sussurrarmi una promessa o un desiderio, il suo dito guantato contro il vetro a indicare una confezione di gelatine di frutta in un nido di carta merlettata. Un gentiluomo con un cappotto dal colletto di pelliccia ci salutò levandosi il cappello. Mia madre fece un inchino. Proseguimmo a passeggiare sulla strada affollata. C’erano un parco, un laghetto ghiacciato, una bancarella che vendeva caldarroste. Ma forse quello era un altro inverno, un altro luogo. Tutti i bei ricordi della mia infanzia sembrano fondersi tra loro in un unico episodio, quel primo giorno del nostro fortunato nuovo secolo, il secolo nuovo e fortunato appena successivo a un Natale di tepore e abbondanza nel quale un gentiluomo che fumava il sigaro mi aveva regalato una bambola dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. I ricordi spiacevoli li faccio iniziare invece tutti dal giorno in cui le Sorelle rifiutarono la beneficenza di mia madre. A quel punto ero un po’ più grande, mi sembra. Forse era il periodo dell’appartamento povero? Con i soldi rifiutati dalle Sorelle, mia madre mi comprò caramelle all’orzo e mandorle zuccherate. La vidi consegnare le monete corrotte al garzone dell’emporio e prendere in cambio le bustine, reggendole nella mano guantata. Avevo paura di quei dolci, poiché erano stati pagati con i soldi che le Sorelle non avevano voluto, il che equivaleva a dire che erano stati rifiutati da Dio, poiché pensavo che le Sorelle comunicassero direttamente con Lui. Perché sono vestite in quel modo? Era stata questa la mia domanda. E mia madre mi aveva spiegato che quelle erano le vesti della modestia che Dio aveva loro ordinato di indossare. Tutto quello che le Sorelle facevano aveva il marchio speciale dell’approvazione divina. Non sapevo bene cosa significasse essere corrotti, ma se il denaro con cui mia madre aveva pagato quei dolci era corrotto, lo erano diventati anche i dolci e i guanti di mia madre. Doveva esserlo anche il mio guanto racchiuso nel suo, e la corruzione sarebbe filtrata sulla mia mano attraverso la pelle. Ma la cosa peggiore era il pensiero che Dio non volesse avere a che fare con noi. Le Sorelle erano i suoi strumenti speciali, e Lui le aveva usate per voltarci le spalle.

Ah, ma poi a un tratto vidi la verità! Come potevo essere stata tanto cieca? Dio doveva essere infuriato con loro, per avere rifiutato l’offerta di mia madre! Non conoscevo bene il significato di modestia, ma se c’era stato un momento in cui il Signore aveva dovuto imporre alle Sorelle di indossare le sue vesti, non era indice piuttosto di una punizione che di una grazia? Le loro vesti non erano anche penitenziali? Che cosa avevano fatto per essere obbligate a indossarle? Quali altri orribili indumenti avrebbero dovuto portare per comando divino e ulteriore punizione? Avevano rifiutato un’offerta di denaro. Il denaro serviva ad aiutare coloro che Dio ti invitava ad aiutare, i poveri e gli affamati. E quanta fame dovevano avere, se erano ancora più poveri di noi! E le Sorelle, percorrendo le strade con vesti che rivelavano chissà quali precedenti vergogne, li avevano condannati a una povertà ancora più estrema e a una fame ancora più lancinante. Che cosa avrebbe fatto Lui a questo punto? Avrebbe sfregiato di rosso le loro fronti, così che i poveri potessero scansarsi al loro passaggio? O le avrebbe costrette a indossare vesti con cui loro non avrebbero mai osato farsi vedere, nel timore di essere schernite o lapidate? Mi aggrappai alla mano di mia madre. «Mamma, come le punirà?», domandai. Mia madre mi guardò senza capire. «Che cosa farà? Cosa farà il Signore alle Sorelle?». Lei non disse nulla ma riprese a camminare, stringendomi la mano nella sua. Passammo davanti a una mendicante, e io rallentai. Dobbiamo darle qualche caramella, dissi. Mia madre rise, ma poi mi diede una moneta. La posai nella lurida mano della vecchia. Che Dio ti benedica, disse lei. Ero spaventata, ma quella sera avevamo scarpe robuste, guanti e cappotti caldi e la benedizione divina, e avevamo bilanciato la cattiva azione delle Sorelle. A casa il focolare sarebbe stato acceso, e avevamo ancora le caramelle all’orzo e le mandorle zuccherate da gustare. «È questo il nostro anno fortunato?», chiesi a mia madre. Era la prima volta che capivo cosa intendesse dire con fortuna. Era una sensazione di tepore al cuore. Senza rendertene conto ti ritrovavi a sorridere e non riuscivi a ricordare perché. L’avevo visto spesso, quel sorriso sulle labbra di mia madre.

 

Il Santuario? Sì, è cambiato. Adesso è un orfanotrofio. C’è un nuovo fabbricato e un organo direttivo di indiani caritatevoli. Sono in pochi a ricordarne il vecchio nome, il Santuario. Per grazia di Dio mi è permesso di restare e trascorrere i miei ultimi giorni in questa stanza. A volte i bambini si avvicinano alla finestra e mi guardano, per metà spaventati e per metà divertiti dalla vecchia costretta a letto. Li sento bisbigliare, e mi immagino il modo in cui le loro mani guizzano verso l’alto a coprire una risata. Li sento chiamare da uno degli aiutanti, poi correre a piedi nudi sul terreno e gridare in lontananza, il che mi fa capire che hanno già dimenticato la visione che fino a poco prima avevano trovato così affascinante e spassosa. Una di loro mi porta le calendule dal profumo agrodolce, i cui gambi e le cui foglie sono leggermente appiccicosi. I suoi genitori sono morti di fame a Tanpur. Lei non li ricorda. Le racconto storie del Ramayana e di Hans Andersen, e avverto il suo sguardo fisso e pieno di meraviglia che mi trapassa e penetra nel mondo di leggenda e fantasia, nella realtà oltre l’illusione. Che dono del cielo è la cecità per i vecchi. Ora ringrazio Dio, ma ci fu un tempo in cui piansi, poiché avevo sempre amato guardare il mondo; anche se, quando Lui venne a dirmi che gli dispiaceva, mi asciugai gli occhi e decisi di non disturbarlo. Buona fortuna, gli dissi, il mondo che Tu hai creato è una meraviglia. E il Paradiso com’è? Ebbene, sorella Ludmila, rispose Lui, è uguale a qui. Si è abituato a chiamarmi in questo modo in omaggio ai tempi andati, e forse anche a Se stesso. Sono perdonata?, gli chiesi. Per cosa?, volle sapere. Per essermi fatta chiamare sorella, per avere indossato le vesti della modestia, risposi. Ma che assurdità vai dicendo?, esclamò lui. Ascolta, immagina che oggi sia un mercoledì. Il tempo è caldo e secco, e Mr Govindas ha cambiato il tuo assegno. Perché, secondo te, avrebbe dovuto farlo? Dopo tutto, lui è un uomo di mondo.

Ma lei non è qui per parlare di questo. Mi perdoni. Conceda tuttavia un’osservazione a una vecchia cieca. La sua voce è quella di un uomo per il quale la parola Bibighar non è fine a se stessa, né riferita a un caso che può venire aperto a una certa ora e chiuso un certo giorno. E mi permette un’ulteriore considerazione? E cioè che in base alle prove concrete in lei vive anche la consapevolezza che non esiste uno specifico evento storico che abbia un inizio preciso e una fine soddisfacente? Che è come se il tempo si deformasse? È il termine giusto? Come se il tempo si deformasse e lo spazio si ripiegasse su se stesso? Come se i fatti di Bibighar non fossero ancora successi e al tempo stesso fossero già accaduti, così da poter contenere passato, presente e futuro nel palmo di una mano. La strada che lei ha fatto per venire qui, il varco da cui è entrato, i fabbricati che ha visto qui al Santuario... malgrado la presenza del quarto, quello nuovo, per me sono la strada che io stessa feci, le stesse costruzioni alle quali tornai trasportando al Santuario il corpo esanime del giovane Mr Coomer. Harry Coomer. A volte è scritto Kumar. E Harry scritto Hari. Era un ragazzo dai capelli neri e dalla pelle bruna, una creatura del buio. Bello. Che muscoli aveva. Lo vidi a torso nudo, mentre si lavava alla pompa. La vecchia pompa dell’acqua che adesso non c’è più. Riesce a immaginarsela, sotto le fondamenta del nuovo fabbricato che mi viene descritto come una fantasia di Le Corbusier?

...Ma a quei tempi, prima di Le Corbusier, c’erano solo la pompa e il giovane Kumar che vi si lavava il mattino dopo che l’avevamo trovato come morto sul terreno abbandonato nei paraggi del fiume e l’avevamo trasportato al Santuario in barella. Ci portavamo sempre dietro la barella, in quelle missioni notturne. Quando rientrammo, Mr de Souza lo visitò. E scoppiò a ridere. «Questo è solo sbronzo, sorella», disse. «In tutti gli anni che ho lavorato per lei mi sono sempre detto: prima o poi caricheremo e porteremo al Santuario l’inutile carcassa di un ubriaco». De Souza. Il nome le giunge nuovo? Veniva da Goa. In lui c’era sangue portoghese, ma doveva risalire al lontano passato. A Goa, una famiglia su due si chiama de Souza. Era scuro di pelle, più scuro del giovane Kumar. Lei preferisce che lo pronunci Kumar, e perché no? Sentendolo parlare l’avresti chiamato Coomer; ma vedendolo... be’, Coomer diventava impossibile. E il nome giusto, ovviamente, era Kumar. Un giorno mi disse che era diventato invisibile ai bianchi. Ma io vedevo le donne bianche, vedevo come lo guardavano di sottecchi. Aveva una bellezza occidentale, nonostante la pelle scura.

Era lo stesso con il poliziotto. Anche il poliziotto lo vedeva. Mi aveva sempre insospettito, il poliziotto. Biondo, anche lui attraente, anche lui muscoloso, aveva braccia arrossate e coperte da una fine peluria chiara e occhi azzurri, l’azzurro pallido di una bambola; l’aspetto era quello giusto, ma non il suo odore. Per me, che avevo visto il mondo, emanava un olezzo sbagliato. «E quello chi è?», mi chiese. «Un altro dei suoi aiutanti? Il ragazzo laggiù, quello che si sta lavando alla pompa dell’acqua?». Quella mattina, sei mesi prima degli eventi di Bibighar, il poliziotto si era presentato al Santuario. Stavano cercando un uomo. Non mi chieda di ricordare chi fosse o cosa dicevano avesse fatto. Pubblicato uno scritto sedizioso, incitato i lavoratori allo sciopero o alla rivolta, resistito all’arresto, fuggito di prigione, non lo so. Il Raj britannico poteva fare qualsiasi cosa. Il Ministero del Congresso si era sciolto, e la provincia era tornata sotto il comando del governatore britannico. Il viceré aveva dichiarato guerra, ma il Congresso aveva detto no, noi non vogliamo la guerra, ed era uscito dal ministero. Tutto quello che poteva offendere era un’offesa. Un uomo poteva essere imprigionato senza un processo. I commercianti potevano addirittura essere puniti per avere chiuso le loro botteghe a orari non prestabiliti. A sentire ora queste cose, a leggerle e a rifletterci adesso, subentra un elemento di incredulità. Ma allora non era così. Non è mai così.

E dunque eccolo lì, Merrick il poliziotto, con le sue braccia arrossate e pelose e i suoi occhi azzurro chiaro, che osserva Kumar alla pompa dell’acqua allo stesso modo in cui in seguito sarebbe stato osservato da altre persone. Non mi resi bene conto di cosa stava succedendo. E anche se me ne fossi resa conto, che cosa avrei potuto fare? Prevedere il futuro? Intervenire? Sistemare le cose così da evitare ciò che sei mesi dopo sarebbe accaduto a Bibighar?

Per me Bibighar ebbe inizio la notte in cui trovammo il giovane Kumar nel terreno abbandonato accanto al fiume, privo di sensi e come morto. A una certa distanza c’erano le capanne e le baracche dei paria, ma era tardi e non brillavano luci. Fu per caso che lo trovammo mentre rientravamo dalla nostra perlustrazione serale del bazar, passando davanti al tempio di Tirupati e percorrendo la riva del fiume e il lato opposto del bacino in cui le donne intoccabili lavano i loro indumenti, come avrà visto al suo arrivo. Può immaginarsi la nostra squadra sempre uguale, Mr de Souza in testa con la torcia, io che lo seguivo e in coda il ragazzo con la barella arrotolata sulla spalla e un grosso bastone nella mano libera. Una sola volta ci era capitato di essere aggrediti, ma i malintenzionati erano fuggiti non appena il ragazzo aveva scaraventato a terra il bastone e si era lanciato contro di loro, mulinando la barella arrotolata sopra la testa come se fosse priva di peso. Ma quello era un bravo ragazzo. Dopo un mese il tipo di giovane di cui avevo bisogno per reggere gran parte del peso della barella si stufava, e a quel punto i suoi pensieri prendevano una brutta strada. A nessuno di loro promettevo mai più di quattro o cinque settimane di lavoro. Verso la fine di ciascun periodo cominciavo a guardarmi in giro al bazar in cerca di un nuovo, robusto giovanotto appena arrivato dal suo villaggio o da un distretto vicino e in cerca di impiego in un luogo in cui era convinto di poter fare fortuna. A volte era lui a presentarsi, avendo saputo che c’erano soldi facili da guadagnare lavorando per la pazza bianca che girava di notte in cerca di morti e morenti. A volte il ragazzo precedente era geloso del nuovo arrivato e inventava maldicenze su di lui, ma in generale era lieto di andarsene con in tasca un premio speciale e una raccomandazione che lodava la sua onestà e disponibilità. Vedendo i soldati in caserma, alcuni di questi ragazzi si arruolavano; altri diventavano servitori degli ufficiali; uno finì in prigione, un altro si trasferì nella capitale della provincia e diventò agente di polizia. La polizia passava spesso dal Santuario. Il ragazzo che divenne poliziotto ne aveva ammirato le uniformi e l’aria di autorità. Nei villaggi, la polizia è formata da uomini del posto. Per un giovane non ha lo stesso fascino di quella di città. Alcuni ragazzi mi scrivevano per dirmi come se la cavavano. Le loro lettere mi commuovevano sempre, poiché erano tutti analfabeti e per inviarmi quelle poche righe dovevano aver assoldato un copista, pagandolo caro. Solo uno di loro tornò al Santuario per mendicare.

Avanzavamo nel buio. «Laggiù», dissi a Mr de Souza. «Punti la torcia in quel fossato». A quei tempi la mia vista era più acuta di quella di chiunque altro. Conoscevo ogni centimetro del terreno, sapevo dove avrei trovato una gobba o un’ombra e dove non avrei dovuto vedere né l’una né l’altra. Ci sono immagini che ti restano impresse nella mente anche a distanza di molti anni: immagini associate a quello che provasti in quel momento. E a volte sai che quell’immagine particolare è stata scelta per restare tra le centinaia che incontri ogni giorno. Ah, pensi, questa la ricorderò. Ma no, non è del tutto vero. In realtà non lo pensi. È una sensazione, non un pensiero, una sensazione come quella che registra un mutamento inspiegabile nella temperatura, e solo qualche tempo dopo, dimenticata ormai la sensazione, pensi: questo credo che lo ricorderò sempre. Fu così che andò, la prima volta che vidi il giovane Kumar. La sua faccia alla luce della torcia; io e Mr de Souza inginocchiati nel fossato. Sopra di noi il ragazzo con la barella di traverso sulle spalle, un giovane gigante, una sagoma scura sullo sfondo stellato. A un certo punto dovevo avere sollevato gli occhi verso di lui per dirgli di preparare la barella. Il tanfo del fiume era fortissimo. Nelle notti senza vento, quando la terra si è raffreddata, l’acqua resta tiepida e l’odore lungo le rive è molto intenso. Quando c’è vento, l’olezzo arriva fino al Santuario. Il tratto del fiume riservato ai fuori casta si trova a valle del tempio. Entrandovi in quel punto, essi non inquinano le acque in cui si bagnano gli indù di casta, ma ciò non tiene conto della contaminazione che avviene nei centri abitati a monte di Mayapore. Nel terreno abbandonato in cui eravamo inginocchiati, nel fossato, l’odore del fiume si mescola a quello dei liquami. È lì che all’alba gli intoccabili vanno a defecare. Senza la benedizione divina, è un luogo terribile in cui ritrovarsi. Povero Kumar. Disteso in un simile luogo di umana degradazione. L’India è una terra in cui la gente moriva, e muore ancora, all’aperto, per mancanza di assistenza, di riparo, di rispetto per la dignità della morte.

Chi è, Mr de Souza?, chiesi. Era la domanda di rito. Lui aveva molte conoscenze. Era un primo passo nel percorso di identificazione. A volte era lui a riconoscere qualcuno, altre volte io, in altri casi ancora il ragazzo. Per esempio, potevamo identificare un uomo che sapevamo affamato o condannato dalla malattia, un uomo che non voleva andare all’ospedale o presentarsi volontariamente al Santuario, un uomo i cui parenti erano morti o dispersi, che non aveva alcuna speranza al mondo oltre a quella di una reincarnazione più felice o di un’eternità di oblio. Ma di solito sapevamo dove trovare quel genere di uomini, e anche di donne, e giungeva sempre la notte in cui si lasciavano caricare sulla barella, ormai al di là di qualsiasi protesta, al di là della sconfitta, e trasportare al Santuario. Dietro compenso, i sacerdoti bramini si assicuravano che dopo la morte qualcuno si occupasse dei corpi. Gli indù ritiravano i loro morti, i maomettani i loro, lo Stato i suoi. I morti dello Stato erano quelli che noi trovavamo già in fin di vita e privi di identificazione. Venivano portati all’obitorio e, se nessuno li riconosceva, dopo tre giorni venivano consegnati agli studenti di medicina negli ospedali. Ogni mattina al Santuario si presentavano donne i cui mariti, figli e a volte immagino amanti non erano rientrati a casa la sera prima. E spesso c’era anche la polizia. Ma erano cose che non mi riguardavano e che lasciavo sbrigare a Mr de Souza. A riguardarmi erano i morenti, non i morti. Per i morti non c’era nulla che potessi fare. Per i morenti c’era quel poco che né io né le Sorelle eravamo riuscite a fare per mia madre: un letto pulito, una mano da stringere, una parola in grado di penetrare gli strati di incoscienza e riscaldare il cuore sempre più freddo di un’anima in procinto di andarsene.

«Chi è?», domandai. Mr de Souza era un uomo di gran cuore e di talento, un cattolico non osservante che al Santuario non chiedeva niente tranne il vitto, l’alloggio e gli indumenti. «Non lo so», rispose. Rovesciò il giovane Kumar sul ventre per controllare che non vi fossero ferite alla schiena. Lo avevamo trovato disteso parzialmente su un fianco, che non era la posizione tipica di un ubriaco. Qualcuno, capisce, ci aveva preceduti e gli aveva svuotato le tasche; doveva averlo visto barcollare in riva al fiume dalle baracche degli intoccabili e ora, rientrato col suo portafogli, aveva spento la luce e fingeva di dormire. Tra le baracche regnava un silenzio vigile e innaturale.

Poi tornammo a girare il giovane Kumar sulla schiena, illuminandogli di nuovo la faccia con la torcia. E questo è ciò che ricordo. Questa è l’immagine. L’espressione del volto non era mutata malgrado il corpo fosse stato mosso non una, ma due volte. Gli occhi erano chiusi, i capelli neri tracciavano un’onda sulla fronte, che anche in quello stato di incoscienza sembrava aggrottata per la collera. Oh, che determinazione al rifiuto! Era un’espressione che a quei tempi si vedeva spesso sui volti della gioventù indiana. Ma in Kumar aveva una forza insolita. Lo caricammo sulla barella e io feci strada per il Santuario. Fu in questa stessa stanza, dove ora giaccio e lei siede, che lo portammo. Ai tempi era lo studio di Mr de Souza. Io avevo una stanza nel fabbricato accanto, che in passato ospitava l’ambulatorio e ora l’infermeria dei bambini. E fu qui, in questa stanza, che Mr de Souza si chinò sul giovane Kumar e a un tratto scoppiò a ridere. «Questo è solo sbronzo, sorella», disse. «In tutti gli anni che ho lavorato per lei mi sono sempre detto: prima o poi caricheremo e porteremo al Santuario l’inutile carcassa di un ubriaco».

«Questo», lo corressi io, «non è che un ragazzo. Se è ubriaco, vuol dire che è anche infelice. Lasciamolo riposare».

E così fu. Prima di coricarmi pregai per lui. Ogni notte portavo con me nel sonno il ricordo del volto di uno di loro, e quella sera mi fece quasi piacere che tanto per cambiare fosse quello di un giovane che non stava né morendo né soffrendo per qualche ferita. Sa, noi ci recavamo in luoghi dove la polizia non si spingeva nel timore di subire aggressioni, ed è per questo che a volte rientravamo con feriti e sofferenti. A quel punto informavamo la polizia. Altre volte venivano di loro iniziativa, come il mattino dopo che avevamo ricoverato il giovane Kumar. Ma il sovrintentente del distretto non era mai venuto di persona. Se fosse passato il giorno prima o quello dopo, forse i fatti di Bibighar non sarebbero mai avvenuti. In quel caso, sentendole nominare Bibighar non mi sarebbe venuto in mente niente di più inquietante di una vaga immagine di qualche rovina e di un giardino. Invece venne proprio quel giorno, Merrick, con una camicia a maniche corte che metteva in vista le braccia arrossate e un’espressione di lucidità negli occhi azzurri, una determinazione a non lasciarsi sfuggire nulla, una follia, una volontà di trovare qualche prova. Ma prova di cosa? «Voglio parlare», disse, «con la donna che si fa chiamare sorella Ludmila».

«Siamo noi a chiamarla così», ribatté Mr de Souza, che non aveva paura di nessuno. Io ero nella stanzetta accanto, quella che adesso è il ripostiglio degli indumenti dei bambini, dei libri, degli oggetti di cartoleria, dei giochi, delle palle di gomma e delle mazze da cricket ma che allora era il luogo in cui conservavamo sotto chiave i medicinali speciali provenienti dalla farmacia del dottor Gulab Singh Sahib e in cui tenevamo la cassaforte dove era custodito il denaro che ogni settimana ritiravo alla filiale di Mayapore dell’Imperial Bank, della quale lo stesso Mr de Souza possedeva una chiave. Lui dormiva proprio qui dove ora sono io, e la sua scrivania era lì, dove ora siede lei, e il tavolo era laggiù accanto alla finestra alla quale si affacciano i bambini per guardarmi, sotto la lampadina che di sera non mi fa più strizzare gli occhi. Era sul tavolo che sistemavamo la barella quando rientravamo. Certe volte facevamo più di un viaggio. Era lì che si parò Merrick quel mercoledì mattina presto. Io stavo aprendo la cassaforte per prendere la borsa e il libretto degli assegni, e attraverso la porta aperta lo sentii dire: «Voglio parlare con la donna che si fa chiamare sorella Ludmila».

«Siamo noi a chiamarla così», rispose Mr de Souza. «Al momento è occupata. Posso esserle d’aiuto?». Merrick ribatté: «E lei chi è?». De Souza sorrise, lo capii dal suo tono di voce. «Non sono nessuno. A malapena degno della sua considerazione». In quello che chiamano un rapporto di polizia, le sue parole potrebbero sembrare servili. A me invece parvero provocatorie. E così uscii dallo stanzino e chiesi: «Va tutto bene, Mr de Souza?», e vidi Merrick lì in piedi, con una verga in mano, in pantaloni corti e camicia a mezze maniche, con in vita un cinturone completo di fondina e pistola e gli occhi azzurri che ci esaminavano. «Mrs Ludmila Smith?», chiese. Chinai la testa in segno di assenso. «Mi chiamo Merrick», riprese lui. «Sono il sovrintendente di polizia del distretto». Cosa che già sapevo, avendolo visto a cavallo mentre guidava i poliziotti che soprintendevano all’ordine pubblico durante le celebrazioni delle festività e al volante della camionetta sul ponte del Mandir Gate. Con lui c’era Rajendra Singh, il viceispettore di zona che prendeva mazzette e rubava gli orologi agli arrestati. In quel momento ne sfoggiava uno al polso. Era più lussuoso di quello di Mr Merrick, ma forse meno pratico. Gli indiani hanno sempre avuto una predilezione per il pacchiano, laddove gli inglesi preferiscono le cose apparentemente regolari e funzionali. Ma in Mr Merrick non c’era niente di regolare. Lui funzionava nel modo sbagliato, come un orologio che si caricasse al contrario, e coloro che capivano vedevano che a mezzogiorno segnava la mezzanotte. Forse nessuno avrebbe potuto ingannare il destino così da evitare che Kumar e Merrick si incontrassero. Ma mi dispiace che sia accaduto proprio qui, anche se forse questo luogo era predestinato fin dall’inizio, fin dalla prima volta che vi ero arrivata, avevo visto i suoi muri sbrecciati e capito che avrebbe fatto al caso mio.

«In cosa posso aiutarla?», gli chiesi, e congedai Mr de Souza, sapendo che il gesto sarebbe piaciuto a Merrick. Ma anche che avrebbe confermato che ero io a comandare. Con la mia cuffia bianca e le mie vesti della modestia a misurarsi con la sua uniforme. Serve a qualcosa, vivere nel mondo degli affari. Se ne imparano le regole, le leggi non scritte, le piccole scappatoie dai labirinti del protocollo. Gli offrii la sedia di Mr de Souza, ma lui preferì restare in piedi. Disse che intendeva effettuare una perquisizione. Diedi di nuovo il mio assenso con un semplice cenno, o almeno indicai di essere consapevole che non mi conveniva opporre resistenza a una simile richiesta, che l’unico disturbo era l’azione stessa della perquisizione e che era lui, Merrick, a scomodarsi e perdere il suo tempo. Non gli chiesi nemmeno chi o cosa stessero cercando. Sono molte, le cose che una persona può dire in circostanze simili. Avessi avuto meno esperienza in fatto di ingerenze delle autorità, forse le avrei dette tutte. E lui era perspicace. Mi guardava, e con la sola espressione dei suoi occhi mi mostrava di avere istintivamente capito i motivi della mia docilità. Intuiva che non stavo nascondendo nulla di mia volontà, ma anche che ero una donna che spesso era stata più fortunata che assennata e che questo poteva anche cambiare.

«Bene, dove cominciamo?», disse. Dove volete, gli risposi. Quando uscimmo vidi la sua camionetta all’ingresso dell’area recintata e un agente di guardia; poi, dopo che lui ebbe perquisito le prime due costruzioni, eravamo diretti verso la terza quando scorsi il giovane Kumar a torso nudo che metteva la testa sotto il getto d’acqua della pompa. Eravamo a un centinaio di metri da lui quando si raddrizzò e si voltò. E Merrick si arrestò sui suoi passi, fissandolo. «E quello chi è?», chiese. «Un altro dei suoi aiutanti?». Lo osservava da lontano. Chiamai Mr de Souza, che ci stava seguendo. «Ha passato la notte da noi», spiegai a Mr Merrick. «Forse Mr de Souza sa come si chiama». Lei capisce, a quel punto non avevo ancora rivolto la parola a Kumar, ma de Souza mi aveva detto che il ragazzo stava bene, a parte i postumi della sbornia, anche se non era particolarmente comunicativo né granché grato di essere stato portato al Santuario e finora non aveva voluto dirci il suo nome. Forse, pensavo, mentre Mr Merrick svolgeva la sua perquisizione de Souza era tornato dal ragazzo, l’aveva avvertito dell’arrivo della polizia e se l’era fatto dire.

«Mr de Souza», chiesi, «il giovane che ha passato la notte con noi...?». «Come vede», rispose lui disinvolto, «ora sta bene e si sta preparando a togliere il disturbo». «Temo che nessuno se ne possa andare finché non sarò io a dirlo», dichiarò Merrick, non a me ma al suo viceispettore, evitando così qualsiasi confronto diretto. «Siamo tutti in arresto?», domandai, ma poi risi e con un cenno gli feci capire che, in arresto o no, intendevo accompagnarlo al terzo fabbricato. Lui sorrise e rispose che stavano cercando qualcuno, come già dovevo avere intuito, e si incamminò con me e Mr de Souza, lasciando il viceispettore sul posto dopo avergli indicato, con un cenno, di trattenersi e tenere d’occhio Kumar. Quando giungemmo al terzo fabbricato, si fermò sui gradini della veranda e si voltò. Io feci lo stesso. Il ragazzo aveva ripreso a lavarsi sotto il getto della pompa. Il viceispettore era fermo dove lo avevamo lasciato, con le gambe divaricate e le mani dietro la schiena. Guardai Merrick e vidi che stava osservando il giovane. Formavano un triangolo, Merrick, Kumar e Rajendra Singh, a uguale distanza l’uno dall’altro. Si era formata una sorta di configurazione, una pericolosa figura geometrica di personalità. «La costruzione in cui ci troviamo», disse senza guardarmi, continuando a fissare Kumar, «è quella che viene chiamata la casa della morte?». Risi e risposi che sì, mi sembrava che a volte fosse definita così da coloro che non erano mai stati al Santuario. «Ci sono morti, stamattina?», domandò. «No, non oggi. È da parecchi giorni che non ce ne sono». «Vagabondi?». «No, non ospito i senza casa». «Affamati?». «Chi fa la fame conosce i giorni in cui diamo il riso. Oggi non è uno di quei giorni». «Malati?». «L’ambulatorio riceve esclusivamente di sera. Da noi viene solo chi non può permettersi di perdere un solo mattino o un solo giorno di lavoro». «E le sue qualifiche mediche?». «Il direttore dell’ambulatorio è Mr de Souza, che ha abbandonato la sua pratica privata per lavorare qui a titolo gratuito. Ogni tanto riceviamo una visita delle autorità sanitarie municipali e otteniamo sempre la loro approvazione. Ma nella sua carica di sovrintendente di polizia del distretto lo saprà di certo». «E i morenti?». «Abbiamo la collaborazione volontaria del dottor Krishnamurti e della dottoressa Anna Klaus dell’ospedale segregato. E naturalmente può controllare i miei titoli di proprietà del terreno e dei fabbricati».

«È una strana organizzazione», osservò Mr Merrick.

«Questo è uno strano paese».

Entrammo nel terzo fabbricato. C’erano sei letti in una stanza e quattro in un’altra. Durante l’anno della carestia erano rimasti sempre occupati, così come nell’anno del colera. In quel momento non c’era una grave carestia, né erano sorti nuovi focolai di colera. Ma se di norma non passava settimana senza che due o tre dei letti fossero in uso, quel mattino erano tutti vuoti. Le lenzuola erano di un bianco splendente. Merrick non disse nulla, ma parve sbalordito. Che pulizia. Che comodità. E tutto per cosa? Per dei morenti? Per dei morenti luridi e affamati? Che spreco! Una semplice visita di qualche ora al bazar avrebbe potuto riempire tutti quei letti di pazienti che avrebbero potuto trarne beneficio e guarire. Il mondo ha un interesse acquisito in chi può essere rimesso in salute. Per un istante Merrick si voltò verso di me come per dire qualcosa, ma poi ci ripensò. Il Santuario era al di là della sua comprensione. Non aveva ancora capito che in questa civiltà così efficientemente organizzata c’era solo un servizio che io potevo dare, un servizio per fornire il quale in un paese come l’India non era rimasto ufficialmente più tempo o energia. Un servizio che una donna come me poteva offrire grazie al denaro che non voleva, che non meritava, che non aveva guadagnato. Perché in questa vita, nel vivere, non c’è dignità, se non forse nella risata. Quando il mondo ha dato il suo peggio per un uomo, e un uomo ha dato il suo peggio per il mondo, che almeno possa godere di un po’ di dignità. Che se ne possa andare nella pulizia, e con quella misura di pace che pulizia e comodità gli possono arrecare. Il che è ben poca cosa.

Forse, nel profondo dell’anima, Merrick era consapevole del significato della stanza in cui si trovava, coi suoi pantaloni corti, la sua camicia a mezze maniche, il suo cinturone e la sua fondina. Guardò il pavimento lucidato e poi, con una sorta di infantile insolenza, le mie mani. Sì, sono sempre state lisce e bianche. «Chi svolge il lavoro?», domandò. «Chiunque abbia bisogno di guadagnare qualche rupia», risposi. Perché avrei dovuto farlo io, quando avevo soldi immeritati e non guadagnati che avrebbero aiutato a riempire la pentola di una di quelle intoccabili che lei stesso ha visto al suo arrivo, intente a lavarsi nel bacino di acqua stagnante? «E oggi dove sono i suoi aiutanti?», chiese Merrick. Lo condussi fuori nell’area dietro il fabbricato, dove si trovavano gli alloggiamenti del personale. E forse lì la vide anche lui, la differenza tra i luoghi dei vivi e quelli dei morti: la fumante cucina all’aperto, il fango e la paglia e gli uomini e le donne che lavoravano e vivevano in quella che tra i vivi passava per pulizia ma che in confronto alle stanze dei morenti era lerciume. Li fece uscire tutti dalle loro baracche, li fece schierare fuori e penetrò nei loro tuguri, entrandovi da solo e uscendo a mani vuote dopo una ricerca infruttuosa.

Indicò il gruppo con la sua verga. «Questi sono i suoi aiutanti regolari?», chiese, e io risposi che al Santuario non c’era nessuno di regolare, che io assoldavo e licenziavo senza alcun rimorso con l’intento di distribuire il più possibile i benefici che ero in grado di offrire. «Nemmeno Mr de Souza è regolare?», domandò lui. «Lui lo è», risposi, «perché il Santuario gli appartiene tanto quanto a me. Perché ne vede lo scopo. Questa gente è solo interessata alle rupie».

«Nella vita le rupie sono tenute in grande considerazione», osservò Merrick mantenendo il suo sorriso. Ma il sorriso di un uomo armato di cinturone e fondina è sempre un sorriso speciale. Era stato nella Grande Guerra che avevo notato per la prima volta che un uomo armato sorride in un modo che ti esclude dai suoi pensieri. Con Merrick era lo stesso. «Dunque ci resta solo il vostro visitatore notturno», disse quando si fu sincerato che la casa della morte non celava segreti, e fece ritorno alla veranda sul davanti e a quella pericolosa disposizione geometrica, fermandosi in cima ai gradini e guardando prima il viceispettore e poi Kumar, che era ancora accanto alla pompa e si stava abbottonando la camicia. Sorrideva, Merrick, sorrideva e guardava. «Grazie, sorella Ludmila, non le farò perdere altro tempo», disse, mi salutò toccando la visiera del berretto con la punta della verga, ignorò Mr de Souza che aspettava dietro di noi e scese i gradini. L’istante in cui s’incamminò sulla terra battuta si mosse anche il viceispettore, convergendo sul giovane Kumar, ancora intento ad abbottonarsi la camicia e ad allacciarsi i polsini. Lui li aspettò al varco. Li aveva visti, ma non fece alcun tentativo di evitarli. Senza muovermi, mi rivolsi sottovoce a Mr de Souza. «Chi è quel ragazzo?». «Si chiama Coomer». «Coomer?». «Kumar, in realtà. Nipote acquisito, mi sembra di aver capito, di Romesh Chand Gupta Sen». «Oh», dissi, ricordando di averne sentito parlare. Ma dove? Quando? «Perché Coomer?», chiesi. «Giusto, perché?», ripeté Mr de Souza. «Sarebbe interessante raggiungerli, anche se forse è poco indicato». E così scendemmo anche noi i gradini, tenendoci a qualche metro di distanza da Mr Merrick, e in questo modo, avvicinandoci, udimmo le prime parole, le prime parole nella vicenda che avrebbe portato a Bibighar. La voce chiara e scandita di Merrick, come se si stesse rivolgendo a un servitore. Quel tono. Quella lingua. L’urdu di un inglese. Tumara na¯m kya hai? Qual è il tuo nome? Usando la costruzione informale in luogo di quella formale. E Kumar che lo guardava sorpreso. Fingendo una sorpresa che non provava, ma arrendendosi ai suoi obblighi. Perché si trovava in un luogo pubblico.

«Come?», rispose, parlando per la prima volta in mia presenza. In un inglese perfetto. Con un accento migliore di quello di Merrick. «Temo di non parlare l’indiano». Quella faccia. Così scura, così bella. Anche da un punto di vista occidentale, era molto più attraente di Merrick. Poi il viceispettore Rajendra Singh cominciò a sbraitare in hindi, dicendogli di non fare l’insolente, che il sahib che gli stava rivolgendo quelle domande era il sovrintendente distrettuale di polizia e che gli conveniva scattare e rispondere quando gli si rivolgeva la parola. Quando ebbe finito, Kumar tornò a rivolgersi a Merrick e disse: «Ma non ha capito, questo? È inutile che mi parli in indiano». «Sorella Ludmila», disse Merrick senza distogliere gli occhi da Kumar, «c’è una stanza in cui possiamo interrogare quest’uomo?». «Interrogare? E perché?», chiese Kumar. «Mr Kumar», intervenni, «la polizia sta cercando qualcuno. Ha il dovere di interrogare chiunque si trovi qui senza che io possa farci niente. La notte scorsa l’abbiamo portata qui dopo averla trovata privo di sensi in un fossato, temendo che fosse malato o ferito ma scoprendo che in realtà era soltanto ubriaco. Ora, cosa c’è di tanto terribile in questo? Tranne il doposbornia, ovviamente». Cercavo di appianare le cose, capisce, di suscitare una risata o almeno un sorriso diverso da quello di Mr Merrick. «Venite», soggiunsi, «andiamo in ufficio», e mi mossi per fare strada, ma a quel punto la vicenda di Bibighar si era già messa in moto ed era già troppo tardi. Era cominciato tutto in quei pochi istanti, e non poteva più fermarsi a causa di quello che era Merrick e di quello che era Kumar. Ah, se solo non si fossero mai incontrati! Se solo il giovane Kumar non si fosse ubriacato, o se noi non l’avessimo portato al Santuario; se solo non ci fosse mai stata quella processione notturna di noi quattro, io in prima fila con la torcia, Mr de Souza e il ragazzo a reggere Kumar in barella, Kumar che ora si era ripreso e fronteggiava Merrick accanto alla pompa in cortile.

«È questo il suo nome, Kumar?», domandò Merrick, e Kumar rispose: «No, ma va bene lo stesso». E Merrick, di nuovo sorridente: «Capisco. E il suo indirizzo?».

Kumar spostò il suo sguardo da Merrick a me, fingendosi di nuovo sorpreso. «Che significa tutto questo?», disse. «Può fare irruzione chiunque, in questo posto?».

«Venite in ufficio», ripetei allora. «Basta con queste sciocchezze».

«Credo che non le faremo perdere altro tempo», disse Mr Merrick. «Grazie per la sua collaborazione». A un suo cenno, Rajendra Singh fece un passo avanti e allungò la mano per afferrare Kumar, ma questi liberò il braccio. Non con un gesto violento, piuttosto con una scrollata di spalle per evitare un contatto sgradevole. A quel punto, forse, Merrick sarebbe potuto intervenire. Però non lo fece. E quando aveva il sostegno di Mr Merrick, Rajendra Singh non era il tipo da accettare un simile affronto. Ed era più grosso di Kumar. Lo colpì al volto con il dorso della mano. Uno schiaffetto di striscio, sferrato più per insultare che per fare male. Ma mi fece infuriare. «Adesso basta», gridai. Loro si fermarono, e Kumar fu risparmiato dal gesto fatale della ritorsione. «Siete nella mia proprietà», dissi, «e qui comportamenti simili non sono tollerati». Quel viceispettore era un codardo. A un tratto temette di avere passato il segno. Lasciò la presa sul braccio di Kumar, che aveva afferrato quando lo aveva schiaffeggiato. «E lei non sia sciocco», dissi a Kumar. «Questa è la polizia. Risponda alle loro domande. Se non ha niente da nascondere, non ha nulla da temere. Venite», ripetei, accennando di nuovo a condurli verso l’ufficio. Ma Merrick no, non aveva intenzione di seguire la via più semplice. Aveva già scelto quella tragica e tortuosa. «A quanto pare abbiamo superato lo stadio in cui una chiacchierata nel suo ufficio sarebbe stata un preliminare soddisfacente. Quest’uomo è in arresto».

«Con quale accusa?», chiese Kumar.

«Nessuna. La camionetta è in attesa. Raccolga le sue cose».

«Sono io a voler formulare un’accusa», protestò Kumar.

«Potrà farlo alla kotwali».

«Accuso questo energumeno barbuto di aggressione».

«Anche l’intralcio a pubblico servizio e la resistenza a pubblico ufficiale sono reati», disse Mr Merrick. Poi si rivolse a me. «Sorella Ludmila, quest’uomo aveva oggetti personali che dovrebbero essergli restituiti?». Guardai Kumar, che si portò la mano alla tasca posteriore dei calzoni. Gli era venuto in mente solo ora di controllare se avesse ancora il portafogli. «Non abbiamo trovato niente», gli dissi. «Rovesciamo sempre le tasche, capisce, a scopo di identificazione». Kumar non disse nulla. Forse, mi dissi, pensa che siamo stati noi a derubarlo. Era stato solo poco prima, vedendo il modo in cui si era portato la mano ai calzoni, che avevo avuto la conferma che la sera prima era stato derubato mentre giaceva ubriaco in quel fosso lungo il fiume. In ogni caso, un uomo meno integerrimo avrebbe gridato: «Il mio portafogli!», o magari: «Non c’è più niente! I miei soldi! Era tutto quello che avevo!», nel tentativo di sviare l’attenzione. Ma anche se non avesse voluto creare un diversivo, un uomo meno integerrimo avrebbe esclamato qualcosa del genere in preda alla piccola agonia di una perdita improvvisa che a un indiano, quanto meno a quei tempi, appariva sempre come la fine del suo ristretto, piccolo mondo. E Kumar era un indiano. Ma non gridò nulla. Lasciò invece cadere la mano e disse a Merrick: «No, non ho niente. Eccetto una cosa».

«E sarebbe?», chiese Merrick, continuando a sorridere come se già lo sapesse.

«Una dichiarazione. Vi seguo, ma sotto protesta».

E sempre in un inglese molto più puro di quello di Merrick. Il che, dal punto di vista di Merrick, era un punto a suo sfavore. Poiché la voce di Merrick aveva un tono differente, regolato dalla diligenza e dall’ambizione più che dall’istruzione. Che enigma affascinante! Specialmente per me, una straniera che aveva conosciuto un uomo inglese più simile a Merrick che a Kumar, e che spesso lo aveva udito inveire contro gli accenti secchi e asciutti del privilegio e del potere. E qui, nonostante il rovesciamento insito nel colore della pelle, quei vecchi risentimenti erano ancora all’opera, complicando ulteriormente il conflitto. Kumar si incamminò di sua iniziativa verso l’uscita e la camionetta in attesa, ma Merrick non si mostrò preoccupato, poiché a trottare dietro all’arrestato c’era il viceispettore. Un altro indiano. Ottenuto quel­l’accoppiamento di pelli scure, Merrick si toccò di nuovo la visiera del berretto con la verga e mi ringraziò per i miei servigi, tenendomi occupata in una conversazione mentre osservavo quello che stava accadendo tra Kumar e il viceispettore a mano a mano che si allontanavano: una rincorsa, uno spingersi e strattonarsi a vicenda e alla fine quello che sembrava un violento incontro tra Rajendra Singh, Kumar, l’agente di guardia e la parte posteriore della camionetta, su cui Kumar venne fatto montare a forza di spintoni e forse anche di pugni, tanto che alla fine invece di salirvi vi cadde dentro. Seguito dall’agente, mentre il viceispettore restava fuori in attesa di Merrick. «Perché lascia che lo trattino in quel modo?», domandai. Non ero sorpresa; ero solo addolorata. Poiché quelli erano tempi violenti e difficili. Ma Merrick mi aveva già dato le spalle, diretto verso la camionetta, e finse di non udirmi. Quando raggiunse il veicolo disse qualcosa al viceispettore, che salì sul retro. E questo fu tutto. Cose del genere succedevano ogni giorno. E allora, lei capisce, non potevo sapere di cosa fosse sospettato Kumar, men che meno giudicare di cosa potesse essere colpevole. Ma avevo visto il suo lato oscuro, e avevo visto il lato oscuro del bianco, di Merrick. Scontrandosi, due oscurità come quelle possono originare un bagliore accecante, per ripararsi dal quale i semplici mortali sono costretti a coprirsi gli occhi.

 

È stato gentile a tornare così presto. Ha visitato Bibighar? Le rovine della casa e i giardini ormai incolti, come piace a gran parte degli indiani? Mi dicono che non è cambiata, che ancora oggi certe famiglie indiane la usano per i loro picnic, che vi giocano ancora i bambini. Gli europei ci andavano di rado, se non per guardare con scherno e ricordare l’altra Bibighar, quella di Cawnpore. E la sera era sempre deserta. Si diceva che fosse infestata dai fantasmi e che non fosse un posto raccomandabile, nemmeno per gli amanti. La casa era stata costruita da un principe e abbattuta da un inglese. Chiedo scusa, ha ragione a correggermi. Uno scozzese. Mi perdoni la dimenticanza passeggera. Sono distinzioni così sottili.

Bibighar. Significa la ‘casa delle donne’. Lui vi teneva le sue cortigiane. Mi riferisco al principe. Ha visto l’ospedale segregato in città, in quella che un tempo veniva chiamata la città dei neri? Oltre Chillianwallah? Ora è circondato dalle case, ed è cambiato. Ma era un palazzo, ai tempi in cui Mayapore era la residenza del sovrano locale, quando l’unico appiglio che gli inglesi possedevano qui si fondava sul commercio, sui bisogni, sull’avarizia, sull’intenzione di aprire il mondo che Dio aveva loro donato come un’ostrica sospettata di contenere una perla. Qui tutte le perle erano nere. Rare. Oh, infinitamente desiderabili. Ma per coltivarle bisognava avere coraggio, oltre che cupidigia. Entri nel vecchio palazzo, nel­l’ospedale segregato, e guardi cosa resta del fabbricato di un tempo, lo stretto corridoio di anguste camerette prive d’aria, il genere di stanze in cui quei mercanti inglesi dovevano entrare per fare affari, e si farà un’impressione, causata dalle loro stesse dimensioni, di crudeltà, di un che di spietato. A Bibighar doveva essere lo stesso. Non possiamo esserne certi, visto che ne sono rimaste solo le fondamenta, e prima che lo scozzese lo distruggesse il palazzo non era mai stato dipinto da nessuno. Il ponte di Bibighar era stato costruito in seguito, sicché per visitare le sue donne il principe doveva percorrere il ponte di Mandir Gate oppure spostarsi in palanchino e in barca, come doveva aver fatto suo padre per visitare l’altra casa che aveva costruito su quella riva del fiume, quella che lo scozzese aveva ricostruito e ribattezzato col suo nome. Certo, proprio quella in cui lei alloggia. Prima che lo scozzese la ricostruisse e la rinominasse MacGregor House, era anch’essa un dedalo di minuscole stanze e cunicoli bassi e bui? Oppure alla cantante erano stati concessi spazi inusitati in cui far propagare la voce ed espandere la mente?

Ci vada, all’ospedale segregato. Lady Chatterjee l’accompagnerà. Chieda di visitare la stanza in cima alla vecchia torre. Da lì la vista spazia sopra i tetti della città dei neri, attraversa il fiume e si può distinguere il tetto della MacGregor House. Chissà quante volte il principe innamorato della cantante era salito in cima alla torre per guardarlo? E chissà se vi era salito anche suo figlio per osservare Bibighar sulla riva opposta del fiume? A quei tempi, la casa della cantante si vedeva anche da Bibighar. Distavano solo un chilometro e mezzo. Non molto, ma abbastanza lontani tra loro per una ragazza che corre a perdifiato nella notte.

Ai tempi in cui Mayapore era un regno, su quel versante del fiume non c’erano altre costruzioni, e quelle due case erano punti di riferimento del paesaggio, monumenti all’amore, quello del padre per la cantante e quello del figlio per le cortigiane, quello stesso figlio che disprezzava il padre per un legame che, a quanto si narra, non era mai stato consumato. Ogni giorno, forse, il figlio saliva in cima alla torre del palazzo o raggiungeva il piano più alto di Bibighar per osservare l’altro palazzo, la residenza della cantante, godendo della sua decadenza, e pensava: Questo è il destino dell’amore che non si manifesta. E ogni sera gozzovigliava a Bibighar, il suo bordello personale, consapevole della rovina che sgretolava una pietra dopo l’altra a poco più di un chilometro di distanza. Ora è Bibighar a essere ridotta in niente e la casa della cantante a resistere ancora, una distrutta e l’altra ricostruita sempre dallo stesso uomo, quel MacGregor.

Lasci che le spieghi una cosa. Nel 1942, l’anno di Bibighar, malgrado mi trovassi a Mayapore da più di sette anni sapevo ben poco di Bibighar e MacGregor. E questo valeva per la maggior parte di noi. Bibighar. MacGregor. Per noi non erano altro che nomi. Attraversi il ponte di Bibighar, dicevamo, passi davanti ai giardini di Bibighar, svolti in MacGregor Road, la percorri fino a giungere alla MacGregor House, all’incrocio tra MacGregor Road e Curzon Road, e a quel punto procedi dritto su Curzon Road fino a Victoria Road e al bazar dell’acquartieramento.

Era questo il tragitto più veloce per la banca: da qui al ponte di Bibighar la distanza è breve. Ma di solito io facevo l’altra strada, attraversando il Chillianwallah Bazar e superando il tempio di Tirupati. La vera vita di Mayapore si trova sul versante del ponte di Mandir Gate. Superavo il ponte, passavo davanti alla chiesa della missione e alla scuola femminile, attraversavo il quartiere eurasiatico, prendevo Station Road, Railway Cuttings e Hastings Avenue, e arrivavo in Victoria Road da quella parte.

Ma dopo quel giorno dell’agosto 1942, i nomi Bibighar e MacGregor diventarono speciali. Entrarono a far parte della nostra lingua con nuovi significati. Che cos’è questa Bibighar?, chiedevamo. Chi era MacGregor?, volevamo sapere. E a un tratto sembrava esserci un’abbondanza di persone in grado di spiegarcelo. Prenda MacGregor. Si diceva che fosse un uomo timorato di Dio, che prediligesse le moschee e i musulmani e avesse terrore dei templi, e che avesse bruciato Bibighar giudicandola un abominio, che l’avesse bruciata e rasa al suolo lasciando solo le fondamenta, i giardini e il muro di cinta. Si diceva anche che avesse fatto tutto ciò in seguito all’avvelenamento di un inglese alla corte del principe locale, evento usato come scusa per l’annessione dello Stato da parte del governo britannico, allora rappresentato dalla vecchia Compagnia britannica delle Indie Orientali. Ma MacGregor non bruciò Bibighar così presto. Le prime tracce della sua presenza a Mayapore risalgono al 1853, solo quattro anni prima dei Moti ma quasi trenta dopo l’annessione. Nel 1853, Mayapore non era il quartier generale del distretto. E MacGregor non era un pubblico ufficiale. Era un mercante privato, del genere che cominciò a prosperare dopo che la vecchia Compagnia britannica delle Indie Orientali cessò le attività commerciali mantenendo solo quelle governative. Si era arricchito con le spezie, il grano, i tessuti e le mazzette. La sua vecchia fabbrica e il magazzino si trovavano dove ora c’è lo scalo ferroviario, e ancora oggi c’è un binario di raccordo che porta il suo nome, il binario MacGregor. La ferrovia arrivò a Mayapore solo dieci anni dopo la sua morte, sicché a quanto pare la sua influenza si faceva ancora sentire, e il suo ricordo era fresco. Può immaginarsi i suoi carri strapieni di merci in partenza su quella che poi divenne la Grand Trunk Road e dipingersi Mayapore a quei tempi, prima della strada ferrata. Su quel versante del fiume vi erano ancora poche costruzioni: non c’erano né caserme né quartieri residenziali. C’era, mi sembra, una cappella dove ora sorge la chiesa di St. Mary, e una residenza per impiegati governativi al posto dell’attuale Palazzo di Giustizia. Allora l’ufficiale distrettuale viveva a Dibrapur. Alloggiava nella residenza quando veniva a Mayapore per esaminare petizioni, giudicare casi e raccogliere le entrate. Mi chiedo quante volte avesse dovuto ascoltare velate lamentele che alla fine si rivelavano reclami ai danni di MacGregor. Mi dipingo MacGregor come un tipo rubizzo, le guance devastate dai capillari rotti, e come il padrone virtuale di Mayapore: lo vedo schioccare le dita alle autorità, terrorizzare impiegati, mercanti, proprietari terrieri, ufficiali distrettuali e civili di poco conto; corrotto, violento, eppure in grado, nel giro di pochi anni, di risollevare Mayapore dall’apatia in cui era sprofondata dopo l’annessione, che avrebbe dovuto trasformarla da zona depressa e feudale a fiorente comunità moderna, sicura e felice sotto il governo del Raj. Penso che fosse il genere d’uomo apprezzato dai mercanti e i proprietari terrieri con cui trattava. Si diceva che parlasse il linguaggio delle mazzette, che è per sua natura internazionale. Credo che con MacGregor tutti sapessero sempre come stavano le cose. A differenza che con l’austero, incorruttibile, perfetto, inglesissimo ufficiale distrettuale.

Capisce ora come questi elementi non corrispondano all’immagine di un MacGregor che brucia Bibighar perché la giudica un abominio? D’altra parte, questa era la versione europea della storia. Forse è anche quella che MacGregor raccontò alla moglie, che sposò e portò a Mayapore solo dopo essersi arricchito, avere ricostruito la casa della cantante e averle dato il proprio nome. A quel punto aveva già bruciato Bibighar, non, secondo la versione indiana, perché fosse un abominio ai suoi occhi e a quelli del Signore, un abominio già disabitato da venti o trent’anni, ma perché aveva perso la testa per una ragazza indiana che gli era stata strappata da un giovane del suo stesso colore. Ci sono due varianti, nella versione indiana dell’incendio di Bibighar. Secondo la prima, MacGregor aveva scoperto che la ragazza e il suo amante si incontravano a Bibighar e aveva distrutto il palazzo in un accesso di gelosia. Nella seconda aveva detto alla ragazza che non poteva più vivere nella MacGregor House e doveva trasferirsi a Bibighar. L’aveva accompagnata nel palazzo, le aveva mostrato le riparazioni che aveva effettuato, i mobili e gli indumenti che aveva comprato per lei. Quando lei gli aveva chiesto il motivo per cui avrebbe dovuto lasciare la MacGregor House, lui le aveva risposto: Perché mi sto recando a Calcutta, da dove tornerò con una moglie inglese. E così quella notte la ragazza era fuggita col suo vero amore. E quando MacGregor l’aveva saputo, aveva ordinato che Bibighar venisse bruciata e rasa al suolo.

Queste versioni sembrano più veritiere, giusto? Più di quella secondo la quale MacGregor avrebbe bruciato Bibighar perché era un abominio. Povero MacGregor! Lo vedo solo come un uomo dalle passioni violente e dalle emozioni grossolane. Se non avesse bruciato Bibighar come un bambino che distrugge un giocattolo che gli è stato proibito, mi domando: sarebbe sopravvissuto ai Moti? I sepoy ribelli avevano ucciso i loro ufficiali a Dibrapur e poi avevano preso a battere le campagne, puntando su Mayapore con l’idea di arrivare fino a Delhi o unirsi a distaccamenti più nutriti di ammutinati. A quanto pare non si sa dove MacGregor fosse stato ucciso, forse sui gradini di casa sua, o insieme al servitore musulmano Akbar Hossain, il cui corpo era stato trovato al cancello. L’impressione lasciata alla Storia è che nulla avrebbe potuto salvarlo, poiché i sepoy sapevano che aveva bruciato Bibighar e si diceva che la sua concubina indiana e il suo amante fossero morti nelle fiamme. Mi chiedo: Janet era al corrente di questi racconti? Era felice con MacGregor, oppure la sua vita a Mayapore era un continuo tormento? È solo per cercare il figlio morto che appare il suo fantasma? O forse per avvertire gli individui di pelle bianca che la MacGregor House non fa al caso loro?

È curioso, ma c’è sempre stata questa speciale relazione tra la casa della cantante e quella delle cortigiane. Tra la MacGregor House e Bibighar. È come se in quel chilometro e mezzo che le separa fossero passate, anche dopo la distruzione di Bibighar, le oscure correnti di un conflitto umano, correnti la cui direzione potrebbe risultare evidente seguendo la fuga notturna della giovane donna dall’una all’altra. Correnti. Lo scorrere di un fiume invisibile, attraverso il quale nessun ponte è mai stato teso o ha mai retto. Capisce cosa le sto dicendo? Che la MacGregor House e Bibighar sono i luoghi del bianco e del nero? Che per andare dall’uno all’altro non potevi percorrere un ponte, ma dovevi prendere il coraggio a due mani, immergerti nella corrente e lasciarti trasportare, qualunque fosse la sua destinazione? Questo era il tipo di coraggio che Miss Manners possedeva.

Penso che non si fosse innamorata subito di Kumar. Attratta a livello fisico, sì, il che è sempre qualcosa di potente. Ma vedevo anche altre donne bianche, il modo in cui lo guardavano. Per loro era abbastanza facile resistere alla tentazione, poiché lo vedevano come se fosse sulla riva sbagliata di una distesa d’acqua in cui perfino l’idea di infilare la punta dei piedi le faceva inorridire. Forse c’erano momenti in cui anche lei avvertiva quel ribrezzo, ma lo combatteva sapendo che contraddiceva quello che aveva provato la prima volta che lo aveva visto. Poi arrivò a respingere l’idea stessa di ribrezzo, rendendosi conto che la cosa da fare non era aspettare che venisse teso un ponte bensì immergersi nella corrente, incontrarvisi e lasciarsi entrambi trasportare. Fu come se si fosse detta: Ebbene, la vita non si riduce al fatto di starsene all’asciutto sulla terraferma e bagnarsi i piedi di tanto in tanto. Il fatto che alcuni di noi si trovino su una riva e altri su quella opposta è solo un’illusione. Stando fermi in quelle posizioni non stiamo vivendo, ma solo sognando. Dobbiamo entrare, tuffarci e lasciarci risvegliare dallo shock. Anche se finiremo per annegare, se non altro per un momento o due prima di morire saremo completamente svegli e vivi.

Miss Manners veniva spesso al Santuario insieme a lui. Insieme a Kumar. Un giorno doveva avergli chiesto (o almeno immagino che l’avesse fatto): Sai qualcosa di questa donna, di questa donna che si fa chiamare sorella Ludmila? Ripetendo qualcosa che le aveva detto Mr Merrick. O Lady Chatterjee. E probabilmente il giovane Kumar le aveva sorriso e risposto di sì, che addirittura lo avevo trovato una notte, lo avevo creduto morto malgrado fosse solo sbronzo e lo avevo trasportato in barella al Santuario. A meno che non avesse deciso di nascondere l’episodio, il che è probabile. In ogni caso, venivano insieme. E osservavano ogni cosa, camminando mano nella mano. Per lei era diventato naturale, ma forse non per lui. Con questo intendo dire che sembrava consapevole dell’effetto che un gesto simile poteva avere su chi lo notava. Lei invece non sembrava badarvi. Veniva spesso anche da sola, portando frutta e offrendo il suo aiuto. Voleva dare un contributo. Una volta mi offrì dei soldi. Sua madre era morta l’anno prima della guerra che aveva ucciso il padre e il fratello. Aveva ereditato qualcosa, ma alla scomparsa della zia avrebbe ottenuto tutto, l’intera fortuna di Lady Manners. No, risposi, non ho bisogno di soldi, a meno che non smettano di arrivare. Se mai succederà glieli chiederò, dissi. In che altro modo posso aiutare?, chiese lei, e io le domandai per quale motivo volesse farlo. Ci sarà un’infinità di altre giuste cause da sostenere, dissi. Ricordo ancora l’occhiata che mi rivolse a quel punto. Quando eravamo sole portava spesso gli occhiali. Non credo che lui glieli avesse mai visti addosso. Non portarli in sua presenza era una sua vanità. «Non ragionavo in termini di giuste cause», disse. Risposi con un sorriso, pur non avendola capita del tutto. Ci arrivai solo più tardi. Sì, penso che la compresi solo dopo. Lei non divideva la condotta in compartimenti. Puntava sempre all’interezza. E quando c’è l’interezza non ci sono cause. C’è solo il vivere. Il contributo di un’intera vita, delle nostre intere risorse personali, al mondo esterno. Così come il coraggio di tuffarsi nella corrente, anche questa interezza io non l’ho mai avuta.

Lei conoscerà di sicuro l’immagine di Shiva danzante. Il dio con due gambe e quattro braccia che danza nel cerchio del fuoco cosmico, un piede sollevato e l’altro piantato sull’ignoranza e sul male per tenerli a bada? Lo può vedere appeso al muro alle sue spalle, il mio Shiva danzante intagliato nel legno. La danza della creazione, della conservazione e della distruzione. Un ciclo completo. Un’interezza. È un concetto difficile. Un’idea a cui relazionarsi con il cuore, non con l’intelletto. Anche Miss Manners guardava il mio piccolo Shiva intagliato. Lo studiava, inforcando gli occhiali. Era una ragazzona, più alta di me. Con quell’ossatura robusta tipica dei nordici. Non la definirei graziosa, ma aveva una sua grazia. E una sua gioia. Malgrado una certa goffaggine. Aveva continui piccoli incidenti. Un giorno mandò in frantumi una scatola intera di medicinali. Si incontravano spesso qui, lei e il giovane Kumar. Lei arrivava dall’ospedale e mentre lo aspettava dava una mano in ambulatorio. Una sera lui era in ritardo, e lo aspettammo nella mia stanza dopo il giro di visite in ambulatorio. Percepii che Kumar aveva deciso di non venire, ma poi aveva cambiato idea, e così li lasciai soli. E quell’altra sera, la sera di Bibighar, lui non si presentò affatto. Lei se ne andò da sola al crepuscolo. La accompagnai fino all’uscita. Lei salì sulla bicicletta e si allontanò sulla strada del ponte di Bibighar. La pregai di fare attenzione. La città era ancora tranquilla, ma non le campagne circostanti. Era il giorno, ricorda, il giorno delle prime sommosse a Dibrapur e Tanpur. In ospedale lei aveva visto la donna della missione che era stata trovata sul ciglio della strada, mentre reggeva la mano dell’uomo morto. Era venuta al Santuario subito dopo quella visita, di sicuro con l’intenzione di incontrare il giovane Kumar. Ma lui non si presentò. Sedute nella mia stanza, lei mi parlò della donna della missione che si era ammalata di polmonite restando seduta sotto la pioggia sul ciglio della strada con la mano del morto nella sua. Crane. Si chiamava Crane. Miss Crane. Pioveva anche quel pomeriggio mentre parlavamo, aspettando invano Kumar, ma al tramonto la pioggia cessò e tornò il sole. Ricordo come illuminava il volto di Miss Manners. Sembrava molto stanca. Quando cominciò a far sera, disse che avrebbe fatto meglio a tornare a casa. Poi prese la bicicletta e partì in direzione di Bibighar. La stessa bicicletta. La stessa che poi venne trovata nel fossato di Chillianwallah Bagh, nei pressi dell’abitazione di Mrs Gupta Sen, dove viveva Hari Kumar. Da Merrick. Trovata da Merrick. O così si diceva. Ma se Hari era stato uno dei violentatori, perché le avrebbe rubato la bicicletta per poi lasciarla accanto a casa sua, una prova incriminante?

E vede, quando lei se ne andò, spingendo la bicicletta oltre il cancello, voltandosi a salutarmi e poi montandovi sopra e pedalando verso il crepuscolo, avvertii che si stava allontanando dal mio aiuto, e rammentai il giovane Kumar quando, solo pochi mesi prima, era stato portato via sulla camionetta di Merrick, diretto anche lui verso un luogo in cui sarebbe stato solo e senza alcun aiuto. Il giorno in cui Merrick lo aveva fermato per interrogarlo avevo chiesto a Mr de Souza: Kumar? Kumar? Il nipote di Romesh Chand Gupta Sen? Crede che sia lui? Poi eravamo rientrati in ufficio per terminare le faccende che Merrick aveva interrotto, vale a dire, essendo un mercoledì, quelle riguardanti il mio appuntamento in banca con Mr Govindas, pregando Dio che al mio arrivo il direttore non mi traesse da parte con aria imbarazzata dicendo: «Sorella Ludmila, questa settimana i soldi non sono arrivati, Bombay ci ha fatto sapere di aver cancellato le sue agevolazioni».

Ma quando arrivai in banca e lasciai il ragazzo fuori ad aspettarmi, Mr Govindas uscì dal suo ufficio privato sorridendo come sempre e mi fece accomodare mentre alla cassa mi cambiavano l’assegno da duecento rupie. «Sorella Ludmila», disse, «il ragazzo che l’aspetta fuori da dove viene?». Era uno scambio di battute ricorrente tra noi, e così risposi: «Be’, immagino sia piovuto dal cielo». «E il precedente? Veniva anche lui dal cielo?». «Lui no», dissi. «Lui era uscito di prigione, e di recente ci è rientrato». «È proprio quello su cui volevo metterla in guardia. Non si fidi di un giovane solo perché sembra abbastanza forte da proteggerla».

Ma questo già lo sapevo. Sapevo che nel giro di una settimana o due quello stesso giovane avrebbe cominciato a stufarsi, e che quando ciò fosse accaduto i suoi pensieri avrebbero preso una brutta piega. Il ragazzo che mi aspettava fuori quel giorno era già stufo. Quando uscii dalla banca con le duecento rupie e la borsa chiusa a chiave e incatenata alla cintura, stava spettegolando con alcuni scansafatiche e li lasciò di malavoglia. Ma alla fine mi seguì. Sapeva qual era il suo dovere. E così ci incamminammo sulla via del ritorno, attraversando il quartiere eurasiatico, superando la chiesa della missione e poi il ponte di Mandir Gate fino al tempio di Tirupati. Non ci sono mai entrata, nel tempio. Il dio a cui è dedicato è il Signore Venkataswara, una delle incarnazioni di Vishnu. Nel cortile c’è un altare con un’immagine del Vishnu dormiente. E fu proprio del Vishnu dormiente che Miss Manners e io parlammo la sera di Bibighar. Kumar ve l’aveva portata due o tre settimane prima. Anche se lui non credeva in quelle cose. Ma lei desiderava vedere il tempio, e così lo zio di Kumar aveva organizzato la visita con il sacerdote bramino. C’erano andati insieme, e quella sera lei ne parlò con me, che non c’ero mai stata. Smise di piovere e riapparve il sole. Le illuminò il volto, la sua stanchezza, la sua stessa voglia di dormire. Potevo visualizzare quello che mi diceva proprio grazie alla stanchezza che aveva dipinta in volto, ma anche perché avevo visto un’immagine del Vishnu dormiente nel tempio di un luogo chiamato Mahabalipuram, un tempio in riva al mare, al Sud, non lontano da Madras. Al Sud c’è anche un famosissimo tempio chiamato Tirupati, lo sa? In cima a una collina. Il tempio qui a Mayapore ha preso il nome da quello. Si dice che originariamente la gente di Mayapore provenisse dal Sud, che un maragià di Mayapore avesse sposato una fanciulla dell’India Meridionale ed eretto il tempio in suo onore e in onore del suo dio. C’è stata una tale integrazione che ormai è impossibile separare e distinguere.

Ma a Mayapore c’è il tempio di Tirupati. Mandir significa tempio. È un termine del Nord. E così Nord e Sud si incontrano. Il tempio di Tirupati, il Mandir Gate. Nei tempi antichi la città era protetta da mura. E di notte la porta era chiusa. Mandir Gate, la porta di Mandir, allora dava sulla gradinata. Venendo da nord dovevi attraversare il fiume in barca e salire la gradinata del Mandir Gate. Solo più avanti venne costruito il ponte. I gradini rimasero, ma divennero semplicemente quelli che conducono al tempio. A sud c’erano altre porte, ma una porta di Bibighar non è mai esistita. Credo che quando Bibighar venne costruito le mura non ci fossero già più. Il ponte di Bibighar venne realizzato successivamente, ai tempi di MacGregor. Che miscuglio! MacGregor, Bibighar, Mandir e Tirupati.

Quel giorno, tornando dalla banca seguita dal ragazzo armato di bastone, passai attraverso il quartiere eurasiatico e davanti alla chiesa della missione, il luogo di culto degli eurasiatici. Una chiesa anglicana in miniatura. Il passaggio a livello era chiuso e dovetti attendere il transito di un treno. Poi ripartii insieme al resto della folla che attraversava il ponte di Mandir Gate e feci una sosta sulla riva opposta per distribuire qualche soldo ai mendicanti e al lebbroso che era seduto sempre lì con le sue membra mozzate come i rami di un cespuglio potato per farlo rifiorire. Poi proseguii a sinistra alla biforcazione dell’albero sacro, passando davanti alle botteghe aperte sul davanti e fingendo di non sentire le offerte di paan, tessuti, acqua di seltz, meloni e gelsomini, varcai l’arcata aperta nelle mura del Chillianwallah Bazar, mi fermai a comprare i peperoncini che piacevano tanto a Mr de Souza e proseguii fino al lato opposto della piazza, oltre i chiassosi macellai e i puzzolenti pescivendoli e le figure chine delle donne coi loro bilancini a riposo come rettili metallici assopiti, e salii le scale degli uffici di Romesh Chand Gupta Sen, la vedova del cui fratello, Mrs Gupta Sen, abitava in una di quelle case di cemento costruite nell’area bonificata di Chillianwallah chiamata Chillianwallah Bagh.

«Arrestato!», esclamò lo zio acquisito di Kumar, Romesh Chand. «Quel ragazzo», proseguì, «quel ragazzo mi farà morire. Chi si crede di essere? Perché non riesce a imparare i modi dell’onore e dell’obbedienza, i modi che si addicono a un giovane indiano?». Poi fece tintinnare un campanellino di ottone come se il suo ufficio fosse un tempio, per farmi capire meglio la disobbedienza del giovane Kumar, riportandomene alla mente la voce, il vigore nordico, la bellezza, il suo retaggio inglese. Capisce? Capisce quanto gli era estraneo quel retroterra, quella conigliera di piccole, luride stanzette sopra i magazzini dell’impresa? Estraneo a lui, a Kumar? Che parlava inglese con quello che si sarebbe potuto definire un accento da scuola privata? Che era stato portato in Inghilterra dal padre quando era troppo piccolo per ricordare il luogo in cui era nato, e vi aveva vissuto, in Inghilterra, fino ai diciott’anni? Ma il cui zio indiano era un bania, seduto a una scrivania con addosso il suo achkan, la giacca col collo alto, circondato dai suoi impiegati nei cubicoli pieni di sudice scartoffie, uno addirittura con alcune banconote infilate tra le dita dei piedi? Per un certo periodo, dopo la morte del padre e il suo ritorno in India, il giovane Kumar era stato messo a lavorare in quell’ufficio. Ma poi si era ribellato, e adesso collaborava con la «Mayapore Gazette». Questo fu ciò che venni a sapere, ma non feci domande. Ero lì solo per informare lo zio del gesto di Mr Merrick. Così che si potessero prendere provvedimenti. Quali, non sapevo. Ma lui suonò il campanellino per chiamare il suo capufficio e lo spedì dall’avvocato con un messaggio, una convocazione urgente. Non c’era un telefono, in quell’ufficio. Si capiva che Romesh Chand era un uomo che non credeva nel telefono, nella necessità di un telefono o in qualsiasi tipo di comportamento che potesse essere considerato “moderno” o forestiero. Ma credeva nel proprio potere e nella propria importanza. Mi chiese per quale motivo suo nipote si trovasse al Santuario, e io non gli dissi l’intera verità. Risposi solo che Kumar vi aveva passato la notte, che quel mattino la polizia si era presentata in cerca di qualcuno e aveva portato via Kumar con l’intenzione di interrogarlo per il solo fatto che era l’unico sconosciuto presente sulla scena. «È stata gentile a prendersi il disturbo di informarmi», disse Romesh Chand. Io risposi che non era stato un disturbo e me ne andai. Ma per tutto il giorno non riuscii a togliermi dalla mente il giovane Kumar. Nel pomeriggio mandai Mr de Souza al bazar per cercare di scoprire qualcosa e io stessa mi recai all’ospedale segregato per parlare con Anna Klaus, la dottoressa berlinese che si era rifugiata in India per sfuggire a Hitler e di cui ero diventata buona amica. Quando finii di dirle cosa pensavo del giovane Kumar, Anna telefonò a Lady Chatterjee, che faceva parte della commissione ospedaliera. «È tutto quello che posso fare», disse quando ebbe riagganciato. «Lady Chatterjee parlerà col giudice Menen o col vicecommissario. Forse. E il suo Mr Merrick dovrà rispondere a qualche domanda. Il che va bene, per quello che può contare. Ma tutto dipende un po’ dal giovane Mr Kumar, giusto? Da quello che ha fatto, o che è sospettato di aver fatto. Se anche fosse qualcosa di vagamente sovversivo, potrebbero rinchiuderlo senza chiedere il permesso a nessuno». Cosa che già sapevo. Rientrata al Santuario, scoprii che Mr de Souza era più informato di me. «Va tutto bene», disse, «la polizia lo ha trattenuto solo un paio d’ore. Quando l’avvocato di Romesh Chand è arrivato alla stazione di polizia, Kumar era già stato rilasciato». Gli chiesi come l’avesse saputo. Lui disse di aver parlato col capoufficio di Romesh Chand, il quale in teoria non avrebbe dovuto esserne al corrente ma l’aveva scoperto spettegolando col segretario dell’avvocato. Dunque è tutto a posto, disse Mr de Souza, possiamo dimenticare Mr Kumar. Sì, risposi, è tutto a posto. Lo dissi anche alla dottoressa Klaus quando passò da noi quella sera. «Bene, allora, il caso è chiuso», disse lei. Io annuii di nuovo, ma in realtà non lo pensavo. Quella notte, quando uscimmo con la barella, non riuscivo a scacciare il pensiero che in realtà non era affatto tutto a posto, che non era finita lì. Ho sbagliato, mi chiesi, ad avvertire Romesh Chand? A fare in modo, tramite la dottoressa Klaus, che persone importanti ponessero delle domande? Il giovane Kumar era stato interrogato e rilasciato. Poi, dopo che se n’era andato, era arrivato l’avvocato di suo zio. Merrick lo aveva probabilmente saputo, ma non vi aveva fatto caso. Un avvocato indiano non contava nulla. Ma più tardi quello stesso giorno, quando forse per quanto lo riguardava il caso del giovane Kumar era ormai risolto e dimenticato, Merrick doveva avere ricevuto la telefonata del giudice o del vicecommissario, o di qualcuno che chiamava per conto loro. Chi è questo Kumar che ha fermato e interrogato?, dovevano avergli chiesto. È già stato rilasciato, perché me lo domanda?, doveva avere risposto Merrick. E all’altro capo del filo dovevano avere commentato: Probabilmente è meglio così. Ci sono stati chiesti chiarimenti. A quanto pare, il suo giovane sospettato ha conoscenze influenti.

Il fatto che gli esponenti delle autorità chiedessero di lui avrebbe potuto vanificare tutti i punti che Kumar poteva aver guadagnato rispondendo in modo esauriente alle domande della polizia e avrebbe giocato a suo sfavore agli occhi di Merrick, che già lo aveva etichettato come uno che parlava un inglese migliore del suo e che ora lo avrebbe disprezzato perché aveva amici in grado di appellarsi al giudice Menen o al vicecommissario come se lui fosse un bianco e non un ragazzo di colore. Che per di più lo aveva guardato con arroganza, chiedendo: Ma non capisce, questo, che è inutile che mi si parli in indiano?

E che in seguito, sì, in seguito e in pubblico, qui al Santuario, davanti agli occhi di tutti quelli a cui poteva interessare, avrebbe passeggiato mano nella mano con la ragazza bianca, Miss Manners. E forse l’avrebbe fatto anche altrove, dove Merrick ne sarebbe stato messo al corrente o li avrebbe visti lui stesso. Quando venni a sapere che anche Merrick conosceva Miss Manners era già troppo tardi. Tutti gli europei si conoscevano, ma a quanto pareva la loro conoscenza, quella tra Merrick e Miss Manners, era speciale. E la sera di Bibighar capii quanto. Merrick arrivò che era già buio. Al volante della sua camionetta. Da solo. «Lei conosce una ragazza di nome Daphne Manners, giusto?», chiese. «Vengo dalla MacGregor House. Non è ancora rientrata a casa. Lei l’ha vista?». «Sì», risposi, «è stata qui. Ma se n’è andata prima che facesse buio». Non pensavo che le sue domande celassero un interesse personale. C’erano disordini nel distretto, e lui era un poliziotto. In quel momento pensavo solo alla ragazza. A cosa poteva esserle successo. Immaginavo che, non vedendo rientrare Miss Manners, fosse stata Lady Chatterjee a chiamare la polizia.

«Per quale motivo era qui?», chiese Merrick. Gli dissi che a volte Miss Manners ci aiutava all’ambulatorio. Lui parve sorpreso. «Non lo sapevo», disse. «Sapevo che era stata qui una volta, perché me l’aveva detto. Quanto spesso viene?». «Molto di rado», risposi, improvvisamente sul chi vive. E lui domandò se di solito venisse da sola, se quel pomeriggio fosse stata sola e se sapessi dove aveva in programma di andare dopo la sua visita. Sì, dissi, è sempre sola, era sola quel pomeriggio, e per quanto ne sapevo era diretta a casa, alla MacGregor House. Che strada aveva preso? «Be’, da qui la più breve è quella di Bibighar», dissi. «Non l’ha percorsa anche lei, venendo dalla MacGregor House?». Ma a quanto pareva non era arrivato da quella parte: dalla MacGregor House si era prima recato nella kotwali sul lato del ponte di Mandir Gate, poi si era ricordato che Miss Manners gli aveva parlato di una visita al Santuario ed era venuto da lì. «Probabilmente l’ha mancata di poco», osservai, e lui obiettò: «Ma lei ha detto che è partita da qui al crepuscolo. Alla MacGregor House mi sono trattenuto per più di un’ora dopo il tramonto, fin quasi alle nove, ma lei non è mai arrivata».

Fu allora, poiché ero in pensiero per lei e mi ero momentaneamente scordata di Merrick e Kumar, che dissi qualcosa senza volerlo, qualcosa che non avrebbe potuto evitare di fargli venire in mente Kumar. «Forse è passata a trovare Mrs Gupta Sen», dissi. E nel vedere la sua faccia me ne pentii all’istante. Era come se menzionando Mrs Gupta Sen avessi pronunciato direttamente il nome di Kumar. «Capisco», disse lui. Dietro i suoi occhi aleggiava un sorriso. E a un tratto mi si chiarì tutto, e tutto si ridispose in quella pericolosa figura geometrica che avevo già intravisto, con Merrick e Kumar ai due vertici di un triangolo e con il terzo vertice formato non più da Rajendra Singh bensì da Miss Manners. Ebbi quella sensazione che a volte proviamo tutti, quella di ritrovarsi in una situazione che è già stata risolta in una precedente occasione, di essere di nuovo prigionieri di una tragica linea di condotta senza avere imparato nulla dalle altre volte in cui Merrick e io potevamo esserci fronteggiati in quel modo, in questa stessa stanza in cui ora sono costretta a letto e lei mi fa le sue domande, con in mente il nome di Kumar e quello di una ragazza che mancava all’appello e doveva essere trovata. La rivelazione che Merrick era coinvolto non solo in quanto poliziotto e che avessi tradito quel ragazzo, Kumar, quando avevo nominato la casa di Chillianwallah Bagh e Mrs Gupta Sen: quelle erano le molle che dovevano essere toccate ogni volta che le nostre esistenze completavano una rivoluzione e giungevano di nuovo al punto in cui Merrick e io ci fronteggiavamo in questa stanza. E ogni volta le molle venivano toccate, con la stessa inevitabilità con cui la notte segue il giorno, venivano toccate prima di essere riconosciute per quello che erano. Avrei dovuto saperlo, che Merrick conosceva quella ragazza. Ero stata stupida. Era il prezzo che pagavo per la mia dedizione agli interessi dei morti invece che a quelli dei vivi. Non avrei dovuto dare per scontato che, poiché Miss Manners era amica di Hari Kumar, non potesse esserlo anche di Mr Merrick. Se non fossi stata tanto stupida in quell’occasione, forse ci saremmo potuti sottrarre al ciclo di inevitabilità e Merrick non se ne sarebbe andato, come invece fece, già convinto che solo Kumar avrebbe potuto risolvere il mistero della scomparsa di Miss Manners.

Ma ignoravo che la conoscesse, o che nel suo strano modo le volesse bene. Lo intuii solo allora, dopo aver detto che forse era andata a trovare Mrs Gupta Sen, e scorsi l’eccitazione dietro i suoi occhi azzurro chiaro, così inespressivi e al tempo stesso così rivelatori. Poiché Merrick aveva già da tempo scelto Hari Kumar come vittima, dopo averlo guardato mentre si lavava alla pompa dell’acqua e averlo condotto via per interrogarlo e osservarne più da vicino l’oscurità che attirava quella che lui celava in se stesso. Un’oscurità di tipo diverso, ma comunque un’oscurità. In Kumar era una cupezza dell’anima, in Merrick era una tenebra della mente, del cuore e della carne. E di nuovo, ma in un contesto innaturale, l’attrazione del bianco nei confronti del nero, l’attrazione per l’opposto, questa volta di qualcuno che forse non si era mai tuffato nelle profondità delle sue stesse private pulsioni, men che meno in quelle della vita e del mondo circostante, ma che era rimasto rigido sulle aride rive, nascosto dal fitto fogliame della sua segretezza e del pregiudizio imparato nel suo ruolo di uomo bianco al governo di un paese di neri.

Merrick sapeva da tempo dei rapporti tra Miss Manners e Kumar. Mi rendo conto che questi dovesse già figurare nei suoi pensieri come qualcuno che poteva sapere dov’era la ragazza. Ma c’è qualcos’altro che forse lei ancora non sa. Qualcosa che avevo parzialmente intuito durante la visita pomeridiana di Miss Manners, quando Kumar non si era presentato, e di cui ebbi conferma solo in seguito, quando lei venne a salutarmi prima di partire per il Nord, dove sarebbe rimasta da sua zia, Lady Manners, finché non avesse portato a termine quella vicenda. Era incinta, e non ne fece segreto. Per un po’ parlammo del più e del meno. La sua tranquillità mi colpì profondamente. Ricordo di avere pensato: È la tranquillità di una bella donna. Anche se lei non era bella, come ben sa, come le avranno detto tutti quelli con cui ha parlato, come avrà visto lei stesso dalla fotografia. Finché a un certo punto tra noi scese il silenzio. Ma non era il silenzio di due persone che non sanno più cosa dirsi. Era il silenzio di due persone che provavano comprensione e affetto, e la cui unica incertezza era fino a che punto, in quel momento, potessero contare sulla loro reciproca amicizia. Fui io a prendere la decisione. Quella di nominare Kumar. «Sa dove si trova?», domandai, intendendo dov’era incarcerato. Non ebbi nemmeno bisogno di pronunciare il suo nome. Lei mi guardò e l’espressione del suo volto mi disse due cose: che non lo sapeva ma che aveva sperato, per un istante o due prima che la speranza si dileguasse, che fossi io a saperlo. Poi scosse il capo. Lo aveva chiesto alle autorità, ma nessuno le aveva risposto. Era anche andata alla casa di Chillianwallah Bagh, nella speranza che la zia di lui lo sapesse. Ma Mrs Gupta Sen non era neanche uscita dalla sua stanza per riceverla. Di più non aveva osato fare, credo per il timore di danneggiarlo. Lui era stato arrestato, la notte di Bibighar, insieme ad altri giovani. Quello stesso giorno, ricorderà, erano stati effettuati numerosi altri arresti per motivi politici. Si diceva che fossero stati rinchiusi in vagoni ferroviari blindati e portati via, nessuno sapeva dove. Si diceva anche che fosse stato l’arresto notturno di quei cinque o sei giovani a causare la rivolta in città. Ma senza dubbio era già stata pianificata. Forse gli incidenti erano stati esacerbati dalle voci sulle cose terribili che erano state fatte ai ragazzi arrestati quella notte. O forse erano sembrati più gravi poiché dopo Bibighar tra gli inglesi si era diffusa la convinzione che le loro donne non fossero più al sicuro. Si diceva che fosse stato proprio a causa di Bibighar che il vicecommissario si era convinto che la situazione fosse perduta e aveva richiesto l’intervento dell’esercito prima che fosse davvero necessario. Forse non conosceremo mai la verità su queste cose. Prima che Miss Manners venisse a dirmi addio, avevo pensato che nei suoi pensieri potesse gravare l’idea di essere stata involontariamente al centro di tutti quei problemi. Ma quando infine si presentò aveva una calma, una concentrazione, l’aspetto che credo abbiano tutte le donne che sono per la prima volta in attesa di un figlio e scoprono che il mondo intorno a loro è diventato relativamente poco importante. Posai la mano sulla sua e chiesi: «La porterà a termine?». «Perché me lo chiede?», ribatté lei, e poi sorrise, per farmi capire che sì, l’avrebbe fatto. «Hanno cercato di dissuaderla?», domandai. Lei annuì. Sì, ci avevano provato. «La fanno sembrare una cosa semplicissima. Come un dovere».

Ma ovviamente non era affatto semplice. Per loro sì, forse lo sarebbe stato. Sarebbe stato addirittura un obbligo. Sbarazzarsene. Abortire. Strappare via dal ventre quel disgustoso embrione e gettarlo in pasto ai cani randagi. Era quello che avevo sentito dire da una donna. Una donna bianca. È vero?, aveva chiesto a un’altra. «È vero che quella Manners è rimasta incinta ed è andata nel Kashmir a partorire?». Erano nella farmacia di Gulab Singh e stavano comprando cosmetici. A quel punto le cose si erano ormai normalizzate. E quando l’altra le aveva risposto che sembrava tutto vero, la donna aveva detto: «E allora cosa dovremmo concludere? Che le è piaciuto?». Povera Miss Manners. Aveva impiegato ben poco a diventare “quella Manners”. Forse la chiamavano così già prima di Bibighar. Ma subito dopo il suo nome veniva pronunciato dagli europei con la riverenza di solito riservata a santi e martiri. Adesso, invece, “quella Manners”. E quell’orribile commento: «Forse le è piaciuto». Poi la donna aveva sorriso e aggiunto ad alta voce: «Personalmente, se fosse successo a me avrei abortito pubblicamente davanti al loro maledetto tempio e gettato il lurido grumo ai cani randagi. O magari li avrei costretti a farlo ingoiare ai loro sacerdoti». Aveva ripreso la selezione di ciprie e unguenti per la sua pelle bianca ed era riuscita, come sempre facevano e fanno le donne come lei, a farsi servire dal commesso senza mai guardarlo in faccia o avvicinare le mani alle sue. Come una delle donne, forse, che mesi prima avevo visto guardare il giovane Kumar quando lui mi aveva accompagnato in farmacia dopo che ci eravamo incontrati per strada e ci eravamo scambiati qualche parola e lui, vedendo che quel giorno non avevo il mio ragazzo di scorta, si era offerto di portare le medicine che stavo per comprare. Eravamo diventati amici. Questo, quanto meno, era quello che sentivo, malgrado lui fosse ancora convinto di non avere amici al mondo. Uscendo dalla farmacia disse: «Come vede, sono diventato invisibile ai bianchi». Forse non si era accorto di come le donne bianche lo guardavano. Forse si era limitato a notare il modo in cui gli passavano davanti, o gli voltavano la schiena, o chiamavano il commesso con cui lui stava già parlando. Era per questo che odiava frequentare i negozi dell’acquartieramento. Eppure sapevo che doveva provare un tremendo desiderio di entrarci, di esserne di nuovo parte, perché erano inglesi, perché l’Inghilterra era il solo mondo che conosceva e perché detestava la città dei neri su quel versante del fiume quanto l’avrebbe odiata qualsiasi bianco appena arrivato dall’Inghilterra. Se non di più, poiché per lui la città dei neri era il luogo in cui doveva vivere, non quello da cui passava di tanto in tanto tenendosi il fazzoletto davanti al naso per fare ritorno al quartiere residenziale e al mondo del circolo frequentato dai bianchi.

Ma Kumar è un’altra storia, giusto? Una storia a cui lei deve ancora arrivare. Le farò un nome che potrebbe aiutarla, che forse nessuno ha sentito tranne me, o che tutti hanno ormai dimenticato da tempo. Colin. Colin Lindsey. Kumar mi parlò di Colin la seconda volta che lo vidi ubriaco. Era stato Colin Lindsey la causa della sua prima sbornia, la notte in cui lo avevamo trovato e portato al Santuario. In Inghilterra, Colin Lindsey era stato il suo migliore amico. Frequentavano la stessa scuola. Colin aveva provato a convincere i suoi genitori a prendersi cura di Hari quando il padre di questi era morto e lui era stato costretto a tornare in India. A diciott’anni non ancora compiuti. Con quel suo retaggio inglese. Con quella sua voce inglese, quei suoi modi inglesi e quel suo nome inglese, Harry Coomer. Senza conoscere alcuna lingua indiana. Un inglese dalla pelle scura che a Mayapore era diventato, sosteneva lui, invisibile ai bianchi.

Ma non alle donne in farmacia. O a Miss Manners. O a Merrick. Ma prima avevo cominciato a dirle una cosa, riguardo a Merrick e a quello che sapeva dei rapporti tra la ragazza e Kumar. Il giorno che lei venne a dirmi addio le dissi: «Miss Manners, ho una confessione da farle. Qualcosa che mi pesa sulla coscienza». E le raccontai della visita di Merrick al Santuario la sera di Bibighar. Le spiegai che allora ignoravo che lei e Merrick si conoscessero più a fondo di quanto potessero conoscersi due bianchi residenti nella stessa guarnigione civile e militare. E che mi ero resa conto che l’interesse di lui nei suoi riguardi andava oltre quello di un poliziotto a cui fosse stata segnalata la scomparsa di una giovane bianca. Ma che poi, in preda alla preoccupazione per quello che poteva esserle accaduto, mi ero dimenticata che era pericoloso menzionare Kumar davanti a lui e avevo capito troppo tardi che era ancora più pericoloso nominarlo riferendosi a lei, sebbene in modo indiretto. E mi ero lasciata sfuggire: «Forse è passata a trovare Mrs Gupta Sen».

«Perché si tormenta in questo modo?», chiese lei. «Per quale motivo le grava sulla coscienza? So che Mr Merrick passò di qui e che subito dopo andò a casa di Hari». Ma poi ci tornò, ribattei. Ripartì da qui, si recò all’abitazione di Chillianwallah Bagh, chiese di Hari e seppe che non era in casa. A quel punto tornò alla MacGregor House e la trovò lì. Nello stato in cui era. Convocò immediatamente i suoi uomini, li divise in squadre, fece circondare l’intera area di Bibighar e arrestò i primi cinque giovani che trovò nei paraggi. Dopodiché fece ritorno alla casa di Chillianwallah Bagh. Salì al primo piano con i suoi agenti e vi trovò Hari. Con il volto segnato, a quanto dicono, e intento a lavarsi per dissimulare le prove. E fuori, nel fossato, la sua bicicletta.

Sì, disse lei. È vero. Come fa a saperlo?

L’ho saputo da Mr de Souza, risposi. Lui ha molti amici, e riesce a scoprire molte cose. Alcune sono vere, altre sono solo dicerie. Ma questa naturalmente è vera. E mi pesa sulla coscienza. Il fatto che, se non avessi nominato la casa di Chillianwallah Bagh, Mr Merrick non vi si sarebbe recato in cerca di Hari Kumar. Perché lei non aveva detto nulla. Sappiamo tutti che lei non aveva detto niente. Che aveva riferito di non avere visto in faccia i suoi aggressori. Sappiamo che non ha mai implicato nessuno. Lo sappiamo dal racconto di Lady Chatterjee. Io lo so da Anna Klaus. Sappiamo che rifiutò addirittura di identificare gli altri giovani arrestati, insistendo che non li aveva visti bene al buio. Ma c’è un interrogativo che mi ronza in mente. Se Mr Merrick non fosse tornato alla MacGregor House e non l’avesse trovata nello stato in cui era, avrebbe mai rivelato l’accaduto?

Rimase in silenzio un secondo o due, poi rispose: «Perché avrei dovuto nasconderlo? Era stato commesso un crimine. Erano in cinque o in sei, e quattro di loro mi avevano aggredita. Che cosa sta cercando di dirmi? Pensa anche lei che Hari fosse uno di loro?».

No, risposi. Non sto dicendo questo. Sto solo cercando di alleviarmi la coscienza. Le sto chiedendo di aiutarmi ad alleggerirla. Perché vede, c’è un’altra cosa che ricordo della sera di Bibighar, di quando venne al Santuario ad aspettare Kumar. Nell’attesa lei mi raccontò della vostra visita al tempio, e sentendola parlare ebbi un’impressione. L’impressione che da allora non vi foste più visti. Che non vi vedeste da due settimane o più. Che il giorno della visita al tempio aveste avuto un diverbio. Che aveste litigato. E che per questo il fatto che al crepuscolo lui non fosse ancora arrivato al Santuario, costringendola a ripartire da sola, fosse per lei una delusione ma non una sorpresa. Guardandola allontanarsi, mi feci l’idea che prima di rientrare a casa sarebbe passata da lui. Per rimediare a quello che era accaduto tra voi, qualunque cosa fosse. Per questo alle domande di Merrick risposi che forse lei era passata dalla casa di Chillianwallah Bagh. Il che gli fece immediatamente pensare a Kumar, poiché conosceva il suo indirizzo. Doveva ricordarlo bene dal giorno in cui lo aveva fermato per interrogarlo. In quel momento, quella sera, mentre Merrick si trovava in questa stanza, non fui in grado di tradurre tutto questo in un pensiero coerente. Ma le parole erano lì, in attesa. E giunsero più tardi, quando seppi che Kumar era tra gli arrestati, tra i giovani che erano stati condotti via, e in quello stesso momento rammentai il modo in cui l’espressione di Merrick era mutata nel sentirmi dire che lei poteva essersi recata a casa di Mrs Gupta Sen. Si era guardato intorno nella stanza, come se intuisse che lei e Kumar l’avevate occupata, che vi eravate incontrati qui, che quello stesso pomeriggio lei vi aveva atteso l’arrivo di Kumar. Come se finalmente avesse scoperto uno dei luoghi in cui vi vedevate. Mi accorsi che per lui era una rivelazione importante e che in quel momento non era un semplice poliziotto che si stava informando sulla scomparsa di una giovane donna. Me n’ero già accorta qualche istante prima, quando era rimasto sorpreso nel sapere che lei veniva ad aiutarci all’ambulatorio. Era la sorpresa di un uomo che sentiva di avere il diritto di sapere tutto sui suoi movimenti, non è vero?

Sì, disse lei. Sembrava convinto di averne il diritto.

E sapeva di lei e Kumar?

Lo sapevano tutti su quella riva del fiume, disse. Mr Merrick mi aveva messa in guardia.

E fu dopo quell’avvertimento, forse, che lei e Kumar litigaste, il giorno della visita al tempio? E smetteste di vedervi? Tanto che Mr Merrick si convinse che lei aveva preso a cuore le sue parole?

Sì, suppongo che sia andata così. Che lui possa averlo pensato.

E così, vede, Miss Manners non poté alleviarmi la coscienza. Dalla colpa, dal rimorso di averla tradita dicendo a Merrick che forse era passata da Mrs Gupta Sen. Di essere stata determinante nel risvegliare in lui l’eccitante sospetto che Miss Manners e il giovane Kumar si incontrassero in segreto qui al Santuario. Di avergli offerto il modo di punire Kumar, che aveva già scelto come vittima predestinata. Poiché Merrick era incapace di amare. Sapeva solo punire. Sento che è vero nel profondo del cuore. Era Kumar quello che Merrick desiderava, non Miss Manners. E probabilmente era stato il rapporto tra lei e Kumar ad attirare la sua attenzione su di lei. Io la vedo così. E c’è un’altra cosa che vedo.

Questa.

Il giovane Kumar quella sera era a Bibighar. Quella sera o un’altra. Perché il figlio che lei aspettava doveva essere suo. Quale altro motivo poteva esserci per lo stato di grazia che lei tradiva nel portarlo in grembo? Quale altro motivo poteva avere per rifiutarsi di sbarazzarsene, di abortire, di gettare il disgustoso embrione ai cani randagi? Quale, eccetto quello che, dopo essersi tuffata, avesse accettato la logica della sua azione e tutte le sue conseguenze, compresa l’aggressione notturna di una banda di furfanti? E che pensasse, dopo una simile violenza, di portare nel ventre l’India stessa? Ma questo corrispondeva all’immagine che vedevo davanti a me, quella di una donna tranquilla, concentrata, già intenta a nutrire il bambino nella sua immaginazione, sentendo che finché l’avesse avuto non avrebbe perso del tutto il suo innamorato?

C’era una domanda che avrei tanto voluto farle. Se non gliela feci fu in parte perché credevo di conoscerne già la risposta e in parte perché pensavo che si sarebbe rifiutata di rispondere. Per amore di Kumar. Ci sono diversi modi in cui una persona può imporre a un’altra il proprio stesso silenzio, non è vero? E lei aveva circondato se stessa, e il ricordo di Kumar, con quel tipo di silenzio. Per questo la odiavano. Gli europei, intendo. Allo stesso modo in cui criticavano la donna della missione, Miss Crane, perché non era stata in grado di descrivere gli assassini dell’insegnante. Ma nel caso di Daphne Manners la situazione era anche peggiore, poiché per un certo lasso di tempo successivo allo stupro l’avevano vista come un’innocente ragazza bianca violata e devastata dai barbari neri e solo gradualmente avevano capito che non avrebbero potuto godere di una pubblica vendetta. Perché nemmeno lei intendeva identificare i sospettati. Perché a un certo punto sembrava avesse affermato che, per quanto ne sapeva, potevano essere stati dei soldati inglesi dai volti anneriti come quelli dei corpi d’assalto. Perché aveva chiesto se i giovani arrestati fossero tutti indù, e quando le era stato risposto che lo erano aveva osservato che qualcosa non quadrava, poiché almeno uno dei suoi stupratori era circonciso, il che significava che era probabilmente musulmano. Sapeva che era circonciso, aveva proseguito, e se proprio desideravano avrebbe spiegato perché. Questa era stata la sua deposizione in presenza di testimoni all’udienza privata che si era svolta alla MacGregor House. L’udienza era stata indetta perché i bianchi bramavano un processo. Ma che processo sarebbe stato, quando sembrava che la vittima stessa fosse pronta a far ricadere i sospetti sui loro stessi soldati? E fosse apertamente disposta a parlare di dettagli scandalosi come la circoncisione maschile? E così non avevano ottenuto il loro processo. Ma in realtà non ce n’era bisogno. Non era necessario che i giovani arrestati venissero giudicati colpevoli; bastava rinchiuderli e spedirli lontano, Dio sa dove, insieme a chissà quanti altri. E Kumar con loro.

Poi, naturalmente, le si erano rivoltati tutti contro. Oh, non pubblicamente. Non di persona. Tra di loro. Non sarebbe stato il caso di rivelare ciò che pensavano agli indiani. Ma per la prima volta tra gli inglesi cominciarono a circolare gli interrogativi che gli indiani si erano posti fin dall’inizio. Perché quella sera Miss Manners si trovava nei giardini di Bibighar? Doveva esserci andata di sua volontà, perché nessuno aveva mai detto che fosse stata trascinata giù dalla sua bicicletta mentre ci passava davanti. Se fosse andata così, non avrebbe avuto modo di vedere in faccia almeno uno dei suoi aggressori? Non c’era un lampione stradale, di fronte a Bibighar? E meno di cento metri più in là, all’imbocco del ponte, non c’erano il passaggio a livello e la baracca in cui vivevano il guardiano e la sua famiglia, i quali si diceva avessero giurato di non avere visto o sentito nulla prima che gli uomini di Mr Merrick facessero irruzione e li schierassero in fila per interrogarli?

Le riferirò la storia che alla fine si diffuse e venne accettata come una verità indigesta da tutti i pettegoli della Mayapore britannica. Non dovrà cercare a lungo, se vorrà risalirne alla fonte. Non più in là, credo, di Mr Merrick. Miss Manners, si raccontava, era andata a Bibighar perché glielo aveva chiesto Kumar. Chiunque poteva vedere che tipo di giovane fosse quel Kumar. La peggior risma di nero istruito. Vanaglorioso, arrogante, borioso. La sua vanità poteva essere soddisfatta solo da una donna bianca. E solo una ragazza semplice come Miss Manners poteva essere irretita in una simile relazione. Kumar era così certo che lei avrebbe fatto tutto ciò che le avrebbe chiesto che a volte aveva addirittura l’impudenza di sparire per giorni o settimane, l’arroganza di darle appuntamento per poi non presentarsi, di litigare in pubblico con lei, di umiliarla. Dopodiché le concedeva il piacere di trascorrere un’ora o due insieme a lui. E nel frattempo programmava la peggiore umiliazione di tutte, facendola coincidere, molto probabilmente in modo volontario, con il momento scelto da certi indiani per mostrare agli inglesi chi comandava. Per giorni, prima della rivolta pianificata, si era tenuto a distanza da lei, portandola al parossismo del desiderio e dandole finalmente appuntamento a Bibighar. Lei vi si era precipitata e vi aveva trovato non solo Kumar, ma anche una banda di energumeni che avevano proceduto sistematicamente a stuprarla, uno dopo l’altro. Era stata la sua stessa vergogna, la sua umiliazione a causarne il silenzio. Quale ragazza inglese avrebbe voluto ammettere una simile verità? Ma il giovane Kumar era meno furbo di quanto pensava. Non lo erano mai, gli indiani cosiddetti istruiti come lui. Nella sua stupida arroganza, aveva rubato la bicicletta di Miss Manners e non aveva avuto nemmeno il buonsenso di abbandonarla a una certa distanza da casa. Forse pensava che non avesse importanza, aspettandosi che la mattina dopo gli inglesi sarebbero stati troppo occupati a salvarsi la pelle. Perché una cosa era certa: un giovane vanaglorioso come lui, malgrado i suoi cosiddetti modi inglesi, era quasi sicuramente e proditoriamente coinvolto nella rivolta. Ah no, non sprecate la vostra pietà sul giovane Kumar. Qualunque cosa abbia subito mentre si trovava nelle mani della polizia, se la meritava. E non sprecate la vostra pietà nemmeno su di lei. Anche lei ha avuto quello che meritava.

Questo era ciò che dicevano gli inglesi. Ne parlai con Anna Klaus, che era affezionata a Miss Manners. Era stata lei a medicarla dopo l’aggressione. Non le chiesi se fosse vera l’altra storia che girava. E cioè che avesse detto al vicecommissario che a suo giudizio Miss Manners non era intacta prima della violenza. Che cosa avrebbe provato una simile notizia, nella vicenda di Bibighar? Senza dubbio il vicecommissario aveva avuto i suoi motivi per sentirsi in dovere di fare una simile domanda alla dottoressa Klaus. Sempre che gliel’avesse fatta. Vede, quando tutto fu finito e gli inglesi ebbero ripreso il controllo, per un certo periodo, prima che venisse scalzato da altri pettegolezzi, a Mayapore regnò il desiderio di distruggere Miss Manners, la sua reputazione e la sua memoria.

E forse ci sarebbero anche riusciti, se non fosse stato per un dettaglio. E cioè che Mayapore è una città indiana. E che anche dopo un certo periodo, anche dopo che gli animi si erano raffreddati e gli inglesi avevano ormai scordato i ventun giorni di portento dei fatti di Bibighar, gli indiani ricordavano ancora. E non capivano. Forse avrebbero preferito dimenticarsene anche loro, visto quello che si diceva delle punizioni che erano state comminate. Ma da tutta quella storia, da tutti i suoi misteri, ai loro occhi sembrava emergere almeno un elemento, forse non con chiarezza ma con insistenza, come una vecchia ferita rimarginata che continuava a dolere. Il fatto che Daphne Manners li avesse amati. E che non li avesse traditi, anche quando sembrava che loro avessero tradito lei. Pochi di loro dubitavano che fosse stata violentata da uomini della loro stessa razza. Ma non credevano che tra i giovani arrestati ci fosse anche un solo colpevole. E questa era una convinzione che sentivano di condividere con lei. E così, a posteriori, le rendevano onore per ciò che si diceva avesse dichiarato e che al momento li aveva turbati allo stesso modo in cui aveva sconvolto gli inglesi. E in particolare ricordavano queste sue parole: Per quanto ne sappia, potrebbero anche essere stati dei soldati inglesi coi volti anneriti.

Che coraggio c’era voluto, per dire una cosa simile! E in quei giorni! Quando l’acquartieramento pullulava di soldati bianchi, i giapponesi erano alle porte giù in Birmania e i britannici tendevano a etichettare come tradimento qualsiasi cosa che non si potesse definire patriottica. Non deve dimenticarlo, che quelli erano tempi speciali. Che gli animi erano esacerbati perché le coscienze erano vulnerabili. Quale sorta di potenza imperiale bianca poteva farsi cacciare dalla Malesia e inseguire per tutta la Birmania da un’armata di uomini gialli? Era una domanda, questa, che gli indiani ponevano apertamente. I britannici se lo chiedevano solo nel silenzio dei loro stessi cuori. E imploravano che si concedesse loro tempo, stabilità e fedeltà, cose che di solito non si potevano cogliere senza prima averle seminate.

Ma forse le vostre preghiere sono state esaudite. Perché siete un popolo curioso. Nel complesso profondamente consapevole, mentre camminate nel sole, di quanto siano lunghe o corte le ombre che proiettate.