Daphne Manners (Diario destinato a Lady Manners)

Kashmir, aprile 1943

 

Mi dispiace, zia, per tutti i problemi e l’imbarazzo che ti ho causato. Ho provato a chiederti scusa già una volta, lo scorso ottobre, quando zia Lili mi ha riaccompagnata a Rawalpindi, ma tu non hai voluto ascoltarmi. E così lo faccio ora, non per quello che ho fatto ma per le conseguenze che ha avuto su di te, che non avevi fatto nulla per meritare questo esilio. Ma voglio anche ringraziarti per esserti presa amorevolmente cura di me e per non averlo mai fatto sembrare un peso, anche se so che doveva esserlo e che ora, in questo luogo in cui non vedi quasi più nessuno, lo è alla stessa stregua di quanto lo era a Pindi, dove molti dei tuoi vecchi amici ti avevano abbandonata. A volte provo a mettermi nei tuoi panni e a immaginare cosa significhi essere la zia di “quella Manners”. So che è questo che la gente dice e pensa di me, e so che si riflette anche su di te. E che tutte le cose meravigliose che tu e lo zio Henry avete fatto per gli inglesi in India vengono dimenticate. È questo che intendo, in realtà, chiedendoti scusa. Scusa per aver concesso l’ultima parola a quelli che criticavano te e lo zio Henry, per aver fornito loro la prova apparente che tutto ciò che voi rappresentavate fosse sbagliato.

La cosa terribile è che se mai leggerai queste righe io non ci sarò e non potrò sorridere e rendere queste scuse più umane e dirette. Se riuscirò a superare quello che mi trovo ad affrontare, probabilmente proseguiremo nello stato in cui viviamo adesso, parlando il meno possibile di ciò che potrebbe ricordarci il vero motivo per cui mi trovo qui. In tal caso non leggerai tutto questo, poiché lo sto scrivendo solo come garanzia contro il silenzio definitivo. Lo scrivo solo perché temo di non sopravvivere, e non vorrei tirare il calzino sapendo di non aver provato a mettere in chiaro le cose e rompere il silenzio che a quanto pare abbiamo entrambe deciso sia meglio per i vivi, anche se forse non per i morti. Perdonami gli accenti morbosi! Non mi sento di essere morbosa, ma solo preparata. Forse è qualcosa che provo da sempre, fin da quando a Londra il dottore mi disse di andarci piano e non guidare più l’ambulanza durante il blackout. E forse il sospetto di dover vivere il più possibile nel minor tempo possibile spiega certe azioni che potrebbero essere giudicate affrettate e sconsiderate da chi può godersi il comodo trantran dei classici settant’anni di vita.

Se ho ragione, e se i miei presentimenti non sono solo macabre fantasie, sarebbe strano, non credi?, che una persona all’apparenza così sana e robusta possa essere in realtà un ammasso di somme fisiologiche sbagliate. Dopo la morte di mamma, per un po’ ebbi paura di ammalarmi di cancro. È da allora che temo di avere un tumore al cervello, per via dei problemi agli occhi e delle mie periodiche emicranie. Tutti questi mali sofisticati affliggono anche i contadini indiani, ma loro sono soltanto dati nelle statistiche sulle aspettative di vita. Spesso vorrei sentirmi altrettanto anonima, colpita (se proprio devo esserlo) da Dio e non da qualcosa di cui i medici sanno tutto e su cui possono prepararti.

Ma lasciami dire una cosa: dal punto di vista clinico penso di avere un solo vero “problema”, e penso che lo sia soltanto perché non sono stata assemblata nel modo giusto. Così come il medico a Pindi, anche il dottor Krishnamurti insiste per un cesareo. Io ho detto che non lo voglio. Forse sono solo testarda, ma non puoi immaginare quanto sia importante per me cercare di portare a termine questa cosa nel modo giusto. Non voglio essere aperta in due da un bisturi, non voglio che il bambino venga estratto in quel modo. Voglio essere io a metterlo al mondo. Voglio dargli la vita, non voglio che la sua vita, o la mia, o quelle di entrambi, vengano salvate da abili medici. Voglio fare del mio meglio per concludere con la coscienza a posto quello che con la coscienza a posto ho iniziato. Penso che il dottor Krishnamurti arrivi quasi a capirlo, viste le strane occhiate che mi rivolge. E questa è un’altra cosa di cui ti sono profondamente grata, il fatto che non ti sia mai venuto in mente di fare distinzioni tra medici inglesi e indiani e di conseguenza non ti sia opposta alla mia volontà di consultare un indiano. Tanto tempo fa (o almeno così sembra, anche se deve essere passato poco più di un anno) ti scrissi da Mayapore per dirti quanto mi reputavo fortunata di avere vissuto con te invece che con gente come gli Swinson (che ricordo sempre come “i miei primi coloniali” e che mi avevano profondamente scioccata). Se fossi stata la loro nipote, anche se non mi avessero nascosta chissà dove non mi avrebbero mai lasciata avvicinare da un dottore che non fosse bianco. Ma forse, se fossi stata nipote degli Swinson io stessa me la sarei data a gambe levate piuttosto che farmi visitare dal dottor Krishnamurti. O non mi sarei mai cacciata in quello che gli Swinson chiamano senza dubbio “questo pasticcio”.

È curioso, ma c’era un dottor Krishnamurti anche a Mayapore, un collega di Anna Klaus. Ho chiesto al nostro Krishnamurti se per caso fosse un suo parente, e lui ha risposto che immaginava di sì, se fossimo risaliti abbastanza indietro nell’albero genealogico. Gli ho detto che sono lieta che si chiami così, poiché stabilisce un legame con Mayapore. Lui è parso imbarazzato e sorpreso. Non sono sicura che non sia rimasto scioccato dalla noncuranza con cui ho pronunciato quella parola, Mayapore. Aveva superato l’imbarazzo di dovermi toccare, ma non quello di ciò che sembro rappresentare, tanto per gli indiani quanto per i britannici. Qualunque cosa io rappresenti, è ormai passata da un livello puramente nozionale a uno acutamente fisico. Già a Pindi mi ero accorta di come i pochi che venivano a trovarci (o meglio a trovare te mio malgrado) non riuscissero a staccare gli occhi dal mio girovita. Adesso, naturalmente, l’aberrazione causata dal bambino sconosciuto (sconosciuto, indesiderato, amato a quanto pare solo da me) è il mio aspetto più evidente. Se mi recassi al bazar, invece di restare confinata in questa casa e in questo giardino, forse sentirei di dovermi munire di un campanellino come una lebbrosa, così da permettere a tutti di trovare riparo al mio passaggio. Se fossi stata aggredita da uomini della mia stessa razza, sarei stata oggetto di pietà. I più religiosi mi avrebbero probabilmente ammirata per il mio rifiuto di abortire. Ma a farlo non sono stati uomini della mia razza. E così a Pindi anche gli indiani che incrociavo nell’acquartieramento distoglievano lo sguardo, quasi temessero che potessi colpirli con chissà quale tremenda punizione.

Perfino tu, zia, di questi tempi sembri evitare di abbassare lo sguardo al di sotto dei miei occhi.

 

Certo che non ero vergine. Anna Klaus mi disse che gliel’avevano chiesto e che lei aveva dato la sua risposta. Voleva farmi sapere che l’interrogativo era sorto ed era stato affrontato. Non mi chiese di parlarne, e io non lo feci. Ma a te voglio dirlo, zia, per mettere le cose in chiaro. Il primo con cui feci l’amore fu un amico di mio fratello David. Il secondo fu un uomo che conobbi a Londra durante la guerra, nel periodo in cui guidavo l’ambulanza. Due amanti, ma senza amore, capisci. Facevamo l’amore ma non eravamo innamorati, anche se del primo per un certo periodo avevo creduto di esserlo.

Nella mia vita ho amato solo Hari. Vorrei tanto parlarti di lui, lo desidero quasi più di qualsiasi altra cosa al mondo, anche solo per dire «Ah, sì, me lo disse anche Hari», o magari «Lo vidi un giorno che ero con Hari». Solo per nominarlo a un’altra persona, per riportarlo nell’universo della mia vita normale. Ma non posso farlo. So che la tua espressione diventerebbe vuota, ed è una cosa che non potrei sopportare, vederlo escluso anche da te. Lo è già stato a sufficienza. Se piango, e a volte lo faccio, è perché so di averlo allontanato io stessa. È vero, mi chiedo a volte, che tu sai dove si trova? Spesso penso che tu lo sappia, che molti di quelli che considero amici lo sappiano e non me lo dicano. Ma non te ne faccio una colpa. Tu mantieni il silenzio per quello che pensi sia il mio bene, e io lo faccio per quello che penso sia il bene di Hari. Certo, sono esistite relazioni tra persone del colore di Hari e del mio, e perfino matrimoni, e figli, e gioie allo stesso modo che tristezze. Ma in qualche modo, la nostra storia non ha mai avuto una possibilità. Ormai non nutro più alcuna speranza di rivederlo.

E questo è il motivo principale per cui il bambino che porto nel ventre è così importante per me. Anche se non posso avere la certezza che sia suo. Ma penso, credo che lo sia. E anche se non lo fosse, è comunque un bambino. La sua pelle potrà essere scura come quella di Hari, o chiara come la mia, o una via di mezzo. Ma qualunque sia il suo colore, lui o lei è sangue del mio sangue, la mia tipica, maldestra offerta al futuro.

 

Un paio di giorni che non scrivevo su questo quaderno. Lo faccio più che altro di sera, avvolta nel tuo montone, mentre davanti a me il fuoco di legna si affievolisce. Stasera a Mayapore farà un caldo terribile. Lì sarei seduta sotto il ventilatore a pale con le finestre spalancate, ma qui, se andassi davanti alla finestrella a graticcio e guardassi fuori attraverso le tende di cretonne, vedrei la neve sulle montagne. Ciò malgrado, tra qualche settimana la valle verrà invasa dai villeggianti, i laghi si riempiranno di bagnanti e i fiumi pulluleranno di shikara. Credi che a quel punto dovremmo trasferirci a Srinagar in una di quelle case galleggianti, riempiendola di fiori e facendoci predire il futuro?

 

Calendule. Come si arrabbiava Bhalu quando usurpavo il suo ruolo e uscivo a coglierle la mattina presto, sistemandole sul vassoio della colazione di Lili! La prima volta che Hari si presentò alla MacGregor House ero appena finita sul libro nero di Bhalu per aver calpestato una delle sue aiuole e tagliato le calendule. Non avendoti mai parlato di Hari, non ho idea di quanto ti abbia detto la zia Lili. Fatto sta che poco dopo il mio arrivo a Mayapore le era stato chiesto da qualcuno, guarda caso proprio da Anna Klaus, se conoscesse un certo Mr Kumar, o Coomer come veniva scritto a volte, e se potesse chiedere al giudice Menen cosa aveva fatto Mr Kumar per essere sequestrato dalla polizia, schiaffeggiato da un viceispettore alla presenza di testimoni e fermato “a scopo di interrogatorio”. Lili non mi disse molto, ma capii che si stava interessando di un giovane indiano che si trovava nei guai soltanto perché aveva risposto a tono a qualcuno, o qualcosa di simile. Il fatto che non me ne avesse parlato era una componente di quel suo atteggiamento che entrambe conosciamo molto bene. Come quando a Lahore, durante il nostro viaggio in treno per Mayapore, era rimasta seduta, perfettamente impassibile, facendo finta di niente mentre quelle due inglesi la stavano praticamente accusando di avere rubato uno dei loro stupidi bagagli. Come sai bene, zia, è sempre difficile far parlare Lili di quello che gli indiani devono sopportare, ma ciò non significa che non ne sia dispiaciuta, o che avendo la possibilità di aiutare chi si trova nei pasticci, come Hari in quelle circostanze, si tiri indietro senza fare nulla.

In realtà non ebbi modo di sentire l’intera storia dell’”arresto” di Hari finché non me la raccontò lui stesso, molto tempo dopo, la sera in cui visitammo il tempio di Tirupati. Fino ad allora non sapevo neanche che a fermarlo e interrogarlo fosse stato Ronald Merrick. E la cosa mi infastidì molto. Sentivo che tutti me l’avevano tenuto deliberatamente nascosto: zia Lili, Anna Klaus, il giudice Menen, perfino sorella Ludmila. Specialmente sorella Ludmila, visto che, a quanto pareva, era successo nel Santuario, davanti ai suoi occhi. Mi infastidiva perché ero uscita sia con Ronald che con Hari, e sembrava che tutti coloro a cui volevo bene e di cui mi fidavo si fossero semplicemente messi comodi ad aspettare di vedere cosa sarebbe accaduto. Col passare del tempo, però, mi sono resa conto che non era così. Era semplicemente successo quello che penso che in India sia sempre successo quando individui di una razza o dell’altra provano a stare insieme al di fuori delle loro cerchie ristrette. All’interno di quelle cerchie i pettegolezzi non cessano mai, e tutti sono a conoscenza delle faccende altrui. Ma al di fuori è come se il terreno fosse così sconosciuto che è già abbastanza reggersi in piedi. Meglio dimenticare i malintesi o le ingiustizie di ieri. Meglio imparare la lezione ma tenerla per sé, sperando che l’abbia imparata anche l’altra persona. L’importante è occupare lo spazio, e quando cominci a parlare di qualsiasi cosa che non sia l’oggi non fai che accrescere il pericolo sempre presente, quello che l’altra persona se la dia a gambe e torni a rifugiarsi nella sua tana, dove sa di poter parlare quanto vuole perché lì tutti devono fingere di pensarla allo stesso modo.

Ma quando venni a sapere da Hari che era stato Ronald Merrick ad arrestarlo e interrogarlo, e che era rimasto a guardare mentre un viceispettore lo schiaffeggiava, sentii di essere lo zimbello del paese. Avevo sempre immaginato che Ronald si considerasse troppo importante per farsi coinvolgere in prima persona in una faccenda di poco conto come l’arresto e l’interrogatorio di un “sospettato”. Ero furiosa con lui per avermi messo in guardia riguardo alla mia relazione con Hari, come aveva fatto pochi giorni prima della visita al tempio, senza prendersi il disturbo di dirmi che lo aveva personalmente arrestato e interrogato. Ero infuriata con tutti, ma probabilmente soprattutto con me stessa. Purtroppo, però, ciò che dissi a Hari quella sera gli fece pensare che ce l’avessi soltanto con lui e che lo stessi addirittura accusando di disonestà, che a quanto pare per la cara, vecchia, imperturbabile inglese media è un difetto tipico degli indiani. Suppongo che a Hari anche la mia reazione parve tipica, tipica della mem britannica pronta a calpestare i diritti altrui. Dopo che ci fummo lasciati avrei voluto dirne quattro anche a zia Lili, però lei rientrò a casa tardi e alla fine mi ritirai in camera. Ma rimasi sveglia a lungo, ripensando alle visite di Ronald Merrick alla MacGregor House e a quelle di Hari (mai avvenute nelle stesse occasioni). Calcolai che la sera in cui Ronald era venuto a cena dopo che mi ero stabilita da zia Lili (ricordo che nella mia prima lettera da Mayapore ti scrissi che quella sera era stato invitato il sovrintendente distrettuale di polizia e che mi sarei dovuta mettere in ghingheri) dovevano essere trascorsi solo un giorno o due da quando Anna Klaus aveva chiamato Lili chiedendole di informarsi su “Mr Kumar o Coomer” col giudice Menen, poiché sapevo che il fatto era avvenuto quando ero appena arrivata alla MacGregor House. Forse se allora fossi stata meno disorientata avrei fatto qualche domanda in più su Hari, su chi era e cosa gli era successo. Ma non le avevo fatte. La sera che Lili aveva invitato Ronald a cena, insieme ad altri ospiti, doveva sapere che era stato lui ad arrestare Hari, e forse anche che non aveva mosso un dito quando Hari era stato schiaffeggiato dal viceispettore. Eppure non gli aveva detto niente, né allora né in seguito, per quanto ne sapessi. E allo stesso modo non ne aveva parlato con Hari nelle rare occasioni in cui lui era venuto da noi, quanto meno non di fronte a me.

Mi chiedevo perché. E per quale motivo non mi avesse mai rivelato l’intera vicenda. Ma riflettendoci, mi resi conto che nessuno di coloro che ne erano al corrente mi aveva detto nulla. Sapevo solo che, dopo la prima visita di Hari, Lili aveva dimostrato una certa ritrosia nei suoi confronti. E avvertivo il fatto che non le piacesse fino in fondo. Tutto ciò mi aveva causato una certa titubanza a parlarle di quella che Ronald aveva definito “la mia relazione con Mr Kumar”. A un tratto compresi l’entità del silenzio che aveva circondato quei rapporti e il modo in cui vi avevo inconsapevolmente contribuito. Avevo anche nascosto (a tutti tranne che a te) la “proposta di matrimonio” di Ronald, ed era lo stesso tipo di silenzio.

Fu in quel momento che mi resi conto di amare davvero Hari e di volerlo sempre al mio fianco, e fu anche allora che cominciai a temere per lui. Sembrava esserci stata una congiura, tra tutti coloro che potevo dire di conoscere, tesa a non dire nulla e aspettare, trattenendo quasi il fiato, magari accettando che Hari mi piacesse come uomo ma temendone le conseguenze e temendo l’altro lato della medaglia, che cioè fossi attratta dalla semplice idea di fare qualcosa di anticonvenzionale, cosa che peraltro avrebbe nuociuto più a lui che a me. Ma era una congiura che sembrava avere radici nell’amore oltre che nella paura. Era come se tutti vedessero la mia relazione con Hari come la conseguenza logica ma terrificante dei loro stessi tentativi di liberarsi delle rispettive cerchie e imparare a convivere: terrificante perché nemmeno loro riuscivano ad affrontare con serenità la violazione della legge più fondamentale di tutte, e cioè che, se un uomo bianco poteva fare l’amore con una ragazza di colore, l’unione tra un uomo di colore e una ragazza bianca era ancora un tabù.

A quel punto, la mia determinazione a chiarire le cose con Lili il mattino successivo era ormai compromessa. In parte perché in realtà non c’era niente da “chiarire”, ma in parte anche perché avevo paura. Non vedevo come sarei riuscita a parlare di quella faccenda con Lili, perché parlarne avrebbe significato rivelarle aspetti dei miei “rapporti” con Hari che non avevano nulla a che fare con quello che provavo per lui. Ma pensando a ciò che provavo, e guardandomi allo specchio prima di andare a letto, mi chiesi: d’accordo, ma lui mi ama? Chi sono io? Solo una ragazzona bianca accusata a ragione dalla madre di essere maldestra e trattata dal padre e dal fratello con la gentilezza che gli uomini di casa riservano sempre a una figlia e sorella che è una brava ragazza ma non molto altro.

Perdonami, zia. Non sto cercando di ingraziarmi le tue premure. Sto solo dicendo la verità e cercando di spiegare gli orribili dubbi che avevo, il sospetto che forse quello che diceva la gente era vero, che un uomo di colore che va con una ragazza bianca lo fa solo per ragioni particolari.

 

Quando lo conobbi mi sembrò terribilmente suscettibile. Sarebbe dovuto venire con sua zia Shalini, ma si presentò da solo e si trovò subito a disagio. In seguito zia Lili disse di non essere sorpresa che fosse venuto solo lui, poiché sua zia Shalini doveva essere una di quelle donnine indiane di una timidezza imbarazzante che non andavano mai da nessuna parte e quando lo facevano rovinavano l’atmosfera. Da parte mia, avevo dimenticato quasi del tutto quello che Lili mi aveva detto di “Mr Kumar”, qualunque cosa fosse. Era marzo, e per quella sera aveva organizzato un aperitivo in giardino. Mentre stendeva la lista degli invitati aveva detto: «Faremo venire anche il giovane Mr Kumar e vedremo che aspetto ha». «Chi è Mr Kumar?», avevo domandato, e lei aveva risposto: «Non ricordi? È il giovane per cui mi è stato chiesto di intercedere col giudice Menen perché era stato arrestato per errore». E subito dopo aveva aggiunto: «Ma per l’amor del cielo, non dirgli niente di quella faccenda!». Be’, zia, tu mi conosci! Ho sempre avuto la tendenza a fare gaffe dicendo le cose come stanno. Una volta ero anche peggio, poiché, essendo timidissima e sapendo di essere maldestra, l’unica cosa che mi veniva in mente di fare per non sembrare goffa era blaterare con chiunque e dire la prima cosa che mi passava per la testa, che spesso era quella sbagliata.

Non ricordo più la maggior parte degli altri invitati all’aperitivo. C’era la dottoressa Anna Klaus, questo lo so perché fu in quell’occasione che la conobbi, anche se l’avevo già vista parlare col dottor Mayhew quando lui passava dall’ospedale di Mayapore per un consulto. E c’era anche la capoinfermiera. E Vassi (l’avvocato, Mr Srinivasan, che era amico di Lili ma anche della zia e dello “zio” di Hari). Era stato invitato anche il direttore di Hari alla «Mayapore Gazette», Mr Laxminarayan, ma non era venuto, probabilmente perché aveva saputo che ci sarebbe stato anche Hari e il fatto che lui e un suo subalterno partecipassero alla stessa serata sarebbe stato uno sgarro all’etichetta. Questo, quanto meno, fu ciò che Hari mi disse in seguito. I White fecero un salto, trattenendosi non più di mezz’ora, e c’erano anche alcuni insegnanti delle superiori e del Technical College.

Hari arrivò tardi. Sulle prime non sarebbe voluto venire, ma poi aveva deciso di affrontare la serata. Si vergognava di com’era vestito. Non conosceva nessuno tranne Vassi, e nemmeno tra loro c’era una gran simpatia. Ma in realtà non è vero che non ci conoscesse. Di vista conosceva molta gente, come dettava il suo lavoro di giornalista alla «Gazette». Si lasciò sfuggire con zia Lili che si erano già incontrati, e che lei aveva risposto a una sua domanda dopo che le sue rose avevano vinto il secondo premio al concorso floreale. Quando Hari glielo rivelò, io ero in piedi accanto a lei. Lo disse come se lei avrebbe dovuto ricordarsi di avergli rivolto la parola. Lili fece mostra di riconoscerlo, ma mi resi conto che non apprezzava di essere stata costretta a fingere e di averlo fatto solo perché aveva capito che lui era rimasto ferito dal fatto di non essere stato riconosciuto. Lui a sua volta intuì che stava fingendo e, come ho detto, si offese all’istante.

E io feci la mia gaffe. Sentendo la sua parlata britannica sbottai: «Dove ha imparato a parlare così bene l’inglese?». Lui mi guardò e disse solo: «In Inghilterra». Ragion per cui, naturalmente, mi feci prendere dal panico e proseguii a blaterare, esprimendo stupore e interesse, facendo di tutto per mostrarmi cordiale e riuscendo solo a essere indiscreta. A quel punto Lili mi condusse via e mi fece parlare con qualcun altro, e quando lo rividi Hari era praticamente solo, ai margini di un gruppetto di insegnanti. Mi avvicinai e gli dissi: «Lasci che le mostri il giardino». Stava calando il buio e noi eravamo già in giardino, sicché quello che avevo detto era una vera scemenza. Ma fu allora che notai davvero quanto fosse attraente. E alto. Mi ritrovavo spesso a sovrastare di tre o quattro centimetri gli indiani con cui parlavo, cosa che di solito contribuiva al mio nervosismo in una situazione sociale in cui già mi sentivo intimidita e a disagio.

Ma lui lasciò che gli mostrassi il giardino, ed è per questo che ricordo che quel mattino ero stata rimbrottata da Bhalu. Gli indicai l’aiuola che avevo calpestato per arrivare alle calendule. Gli chiesi se a casa sua in Inghilterra avesse un bel giardino, e lui rispose che probabilmente era così, ma che non vi aveva mai prestato molta attenzione. «Ma le manca, l’Inghilterra?», domandai, e lui rispose all’istante: «Ora non più». Poi si allontanò leggermente, dicendo che doveva andare. Tornammo nel cuore del trattenimento, che era comunque agli sgoccioli. Hari ringraziò Lili con un tono un po’ brusco e si limitò a rivolgermi un cenno di saluto con il capo. E ricordo, quando ormai lui se n’era andato e un paio di invitati, tutti indiani, si erano trattenuti a cena, la forza con cui venni colpita dall’idea che, se non per il colore della pelle, lui era tutt’altro che indiano, quanto meno nel senso che vi attribuivo io.

Quando tutti se ne furono andati, mentre bevevamo l’ultimo bicchierino prima di ritirarci per la notte, Lili mi chiese: «Allora, che ne pensi del giovane Mr Coomer?».

«Penso che sia un uomo molto triste», risposi. Era la prima cosa che mi era venuta in mente, eppure non mi sembrava di averci mai pensato prima. E Lili non ribatté nulla, limitandosi a dire qualcosa come: «Beviamo un altro bicchiere e andiamo a letto».

 

Sono contenta di scrivere tutto questo, perché anche se tu non dovessi mai leggerlo mi sta aiutando a capire meglio ogni cosa. Temo di aver serbato rancore a Lili per aver preso Hari in antipatia. No, voglio essere sincera. Non temo di aver serbato rancore a Lili, so di averlo fatto. E penso di avere sbagliato. Rivivendo quel primo incontro con Hari, capisco che Lili, a cui tu mi avevi affidata, aveva probabilmente notato il modo in cui ci eravamo allontanati dal gruppo di invitati per esplorare il giardino e, senza arrivare a fraintendere ciò che stava accadendo, aveva reagito al campanello d’allarme che nel corso della sua vita doveva avere imparato a non ignorare mai. Rammentando tutte le meravigliose qualità di Lili, non posso pensare che fosse risentita con Hari per l’atteggiamento critico che lui le aveva mostrato nei pochi, insignificanti momenti del loro primo incontro. E anche Lili, dopo tutto, è una donna. Non poteva essere rimasta del tutto indifferente alla prestanza di Hari. E nemmeno, quando ci aveva visti allontanarci insieme (ma solo per dieci minuti!) alla mia possibile reazione.

Allora credevo che l’avesse apparentemente “scaricato”, dopo quel primo, benintenzionato tentativo di accoglierlo in quello che veniva chiamato il “giro della MacGregor House”, soltanto per l’irritazione causata dalla sua suscettibilità, o anche semplicemente per la stupefacente rigidità con cui a volte Lili reagisce quando qualcuno non mostra quelle che lei considera “buone maniere”. E sapendo che si era esposta di persona per aiutarlo quando era ancora un perfetto sconosciuto, pensavo fosse offesa perché lui non le aveva mostrato il minimo segno di gratitudine, non dicendo nemmeno, al momento dei saluti, quello che sarebbe stato perfettamente in grado di dire, essendo padrone del linguaggio, dell’idioma e delle sue inflessioni: «Grazie della serata, e di tutto».

Forse era stata l’apparente arroganza di Hari a contribuire alle riserve di Lili, ma giunta a questo punto sono certa che se io e lui ci fossimo limitati a scambiarci un sorriso distaccato e avessimo proseguito per le rispettive strade, la prima cosa che lei avrebbe detto a fine serata sarebbe stata più o meno questa: «Il povero Mr Kumar ha bisogno di una mano per uscire dal guscio. Dobbiamo fargli dimenticare tutto quell’astio che cova dentro. Dopo tutto, non è colpa sua se lo prova». Invece aveva visto che tutto quell’astio era insignificante, paragonato ai possibili pericoli in agguato per me, e anche per lui, se quella goffa passeggiata in giardino fosse sbocciata nel genere di intimità che Lili, da donna di mondo qual era, aveva subito giudicato tutt’altro che improbabile.

 

Fu allora che tornarono i sogni? Ricordi, zia? Quei sogni di cui ti scrissi? Quelli che facevo appena arrivata in India e che si erano ripresentati quando ero partita da Pindi per Mayapore? Sogni di volti, di facce sconosciute? Sognate, immaginate, costruite dal nulla, ma con una precisione spaventosa nel suo realismo? Facce di estranei che dovevo portare con me perfino nei sogni perché mi pareva di essere circondata da estranei anche nei momenti di veglia?

Le prime due o tre settimane a Mayapore, quando ogni cosa mi era nuova e stavo cominciando a conoscere ciò che mi circondava, quei sogni non erano tornati. Ma come ti scrissi in quella lettera, a quel primo periodo ne seguì un secondo nel quale la sensazione di novità era ormai svanita e in cui tutto cominciò a essermi odioso per il semplice motivo che tutto mi faceva paura. Mi pare che quell’aperitivo in giardino avesse segnato l’inizio di quella fase. Avrei voluto fare i bagagli e tornare a Pindi... il che era interessante, poiché quando avevo sofferto di quella stessa nostalgia a Pindi avrei voluto fare i bagagli e tornare in Inghilterra. E così come a Pindi tu avevi parzialmente intuito quello che stavo passando, credo che l’avesse percepito anche Lili. Ma quanta di quell’irrequietezza che cercavo in tutti i modi di nascondere veniva da lei attribuita ai miei pensieri su Mr Kumar? Quanta, in effetti, era dovuta a quei pensieri?

Fu in quel periodo che infransi il mio voto, quello di non frequentare il circolo per il semplice motivo che Lili non vi era ammessa. Le mie colleghe infermiere continuavano a insistere che ci andassi. E parlare con loro era così facile. Ricordo il sollievo che provavo a uscire dalla MacGregor House, montare in bicicletta e pedalare fino all’ospedale, e quando vi arrivavo dire quello che volevo come volevo, magari lasciandomi cadere in poltrona e lamentandomi del caldo, usando tutti i piccoli trucchi espressivi e gestuali sapendo in partenza che sarebbero stati capiti senza bisogno di pensarci troppo. Il lusso, l’opportunità di essere completamente naturali. Di rispondere per le rime se qualcuna era suscettibile o cattiva. Di essere suscettibile o cattiva tu stessa. Di scaricarti, come una valvola di sicurezza.

E così cominciai ad andare al circolo con alcune di loro, per bere qualcosa prima di rientrare a casa. Di solito, intorno alle cinque e mezza venivano a prenderci i giovani sottufficiali dell’esercito. Non c’erano legami seri, solo ragazzi e ragazze che trascorrevano insieme il tempo libero e magari, se capitava, passavano la notte insieme da qualche parte. Per andare al circolo prendevamo le tonga, o salivamo sulle camionette dell’esercito quando i ragazzi riuscivano a “procurarsi il mezzo”, come dicevano loro. Al circolo facevamo gruppo in sala bar, in sala fumatori o in terrazza. O magari si liberava una sala da gioco in cui c’erano un giradischi portatile e una quantità di vecchia musica da ballo, Victor Silvester o Henry Hall, e di novità come Dinah Shore, Vera Lynn e gli Ink Spots. Di solito me ne andavo intorno alle sei e mezza e prendevo una tonga fino a casa. Mi sentivo terribilmente in colpa, poiché a Lili avevo giurato che al circolo non sarei mai andata. «Non essere sciocca, certo che ci devi andare», non faceva che ripetere lei. E quando cominciai a farlo glielo confessai subito, anche se la prima sera tornando a casa avevo pensato a una quantità di scuse per giustificare il ritardo. Ma una volta che ebbi ammesso di esserci stata, tornarci fu molto più facile. Cominciai a sentirmi sempre meno in colpa e sempre più a mio agio. Certe volte mi trattenevo a cena al circolo e avvertivo zia Lili solo all’ultimo.

Finché un bel giorno uno dei ragazzi, leggermente brillo, insistette ad accompagnarmi al telefono e disse: «Non è veramente tua zia, giusto?». «No, perché?», risposi. «Be’, non sembri avere neanche un po’ di sangue nero nelle vene. Ci ho fatto una scommessa». E a un tratto una quantità di piccoli episodi mi divenne chiara; non tanto a proposito di ciò che potevano aver detto i ragazzi o le ragazze del gruppo, quanto riguardo a cose dette, o meglio non dette, dalle donne del circolo. Il modo in cui mi guardavano quando dicevo che abitavo alla MacGregor House. Il modo in cui alcuni dei loro mariti si erano intromessi nella conversazione facendo domande su di te e sullo zio Henry, come se, mi resi conto, cercassero di capire se fossi davvero la nipote di un ex governatore e non un semplice sottoprodotto della famiglia di Lili Chatterjee.

Ma questo è il punto, zia: penso che una cosa del genere non mi avrebbe fatto né caldo né freddo se sotto il piacere superficiale creato dalla frequentazione di quei ragazzi e quelle ragazze non ci fosse stata una sorta di noia strisciante, simile a una paralisi. Fondamentalmente, detestavo il fatto che dopo qualche bicchiere tutto quello che veniva detto fosse venato di puerili, sconci doppi sensi. Dopo un po’ cominciai a capire che quel tipo di spontanea amicizia era tutt’altro che naturale, poiché quando si arrivava a conoscersi bene, e ad ammettere di non avere niente in comune a eccezione di quello che le circostanze imponevano, l’amicizia stessa appariva forzata. Ne eravamo tutti prigionieri, e probabilmente la odiavamo, ma non osavamo staccarci. Arrivai al punto di pensare, mentre me ne stavo lì ad ascoltare le cose che venivano dette: “No, questo è sbagliato. E io non posso perdere il mio tempo così. Non ho tempo da sprecare”.

La prima volta che ammisi tutto questo a me stessa fu la sera che andai al circolo dopo aver visitato l’esposizione della Settimana della Guerra sul maidan. Era solo una coincidenza il fatto che quel pomeriggio avessi rivisto Hari per la prima volta dopo l’aperitivo in giardino? Suppongo di no. Le due cose erano collegate: il secondo incontro con Hari e quel mio guardarmi intorno al circolo, ascoltando le conversazioni e dicendomi: “Non ho tempo per questo”. E naturalmente al circolo c’era anche quell’altro. Ronald Merrick, intendo. E forse nemmeno questa era una coincidenza.

 

All’esposizione della Settimana della Guerra ci andai quel sabato pomeriggio intorno alle quattro, con tre o quattro ragazze dell’ospedale e due o tre sottufficiali dei Berkshire. Volevamo assistere alla parata e all’esibizione della banda militare, il gran finale della settimana. C’erano anche le finali di pugilato e lotta libera. I concorrenti del torneo di pugilato erano quasi tutti ragazzi inglesi, ma gli incontri di lotta libera si svolgevano tra i soldati di uno dei reggimenti indiani. «Oh no, non potrei mai assistere a una cosa simile», disse una delle ragazze, e così andammo al torneo di pugilato e guardammo i giovani soldati scambiarsi colpi fino a farsi colare il sangue dal naso. Poi ci spostammo nel padiglione del tè. La parata era programmata per le cinque e mezza. In tutta la mia vita non ho mai visto niente di paragonabile a quel padiglione. Fiori ovunque. Lunghi tavoli su cavalletti coperti da tovaglie di un bianco abbacinante. Bollitori placcati in argento. Torte glassate, dolci alla crema, gelatine, marzapane. Uno dei ragazzi del nostro gruppetto fece un fischio e disse che «un muso nero di fornitore» aveva deciso di «mettere su uno spettacolo e guadagnarci una fortuna». E probabilmente era anche vero, e ti faceva scordare il pensiero che a guadagnarci fossero solo gli inglesi, anche se non riusciva a far dimenticare l’immagine dei poveretti che in Inghilterra andavano a fare la spesa con le loro povere, tristi tessere annonarie. Né cancellava il pensiero di tutti coloro a cui era vietato l’accesso al padiglione, non perché non potessero permettersi il costo del buono per il tè, ma perché quello era il padiglione riservato a “Ufficiali e Invitati”. Qualche donna indiana c’era, le mogli degli ufficiali nativi. Ma la massa era composta da facce bianche, tranne dietro i tavoli, dove i camerieri correvano su e giù cercando di servire tutti contemporaneamente. E in realtà “ufficiali” era solo un modo garbato di dire “europei”, poiché c’era un’abbondanza di civili con le rispettive mogli, ma erano tutti civili bianchi, come il vicecommissario e diversi insegnanti e dirigenti della British-Indian Electrical che avevo già visto alle serate di Lili.

Il vicecommissario stava parlando col comandante di brigata e al nostro passaggio disse: «Buongiorno, Miss Manners. Lei conosce già il brigadiere Reid, mi pare». Per quale motivo mi fece tanto piacere? Perché a un tratto i ragazzi con cui ero venuta scattarono praticamente sull’attenti e le ragazze assunsero espressioni da gattemorte. A quanto pareva, in precedenza il brigadiere era di stanza a Pindi e ci eravamo conosciuti a una serata, ma entrambi ne avevamo solo un vago ricordo. Mi chiese di te, e il vicecommissario domandò: «E Lili come sta?», e io risposi che stava bene e mi sentii in qualche modo riscattata, non più la strana ragazza che viveva con “quell’indiana”. Perché, anche se Lili era “quell’indiana”, il vicecommissario l’aveva chiamata “Lili”. Ciò malgrado, più tardi avrei provato anche fastidio, perché White non mi aveva chiesto dov’era Lily. Perché sapeva, senza nemmeno doverci pensare, che era improbabile che si trovasse in quel padiglione e che per questo non sarebbe nemmeno stata sul maidan, visto che nell’”altro padiglione” non sarebbe mai andata.

Sia come sia, presentai ragazzi e ragazze, cosa che li fece alquanto felici ma che aiutò anche me più tardi, quando, mentre attraversavamo il maidan verso la parata, vidi Hari, lo raggiunsi e mi trattenni cinque minuti a parlare con lui, e gli altri, che avevo piantato in asso, rimasero ad attendermi senza protestare, non potendo sapere, visto che ero in confidenza col vicecommissario e il brigadiere, chi fosse in realtà Hari. Quando li raggiunsi, uno dei sottufficiali chiese: «Chi era quello?», e io risposi: «Oh, un ex studente di Chillingborough», come se lo avessi conosciuto lì e fosse un vecchio amico di mio fratello o di qualche altro mio parente maschio. E questo li mise a tacere, visto che nessuno di loro aveva studiato in un posto così di classe. Ero davvero spudorata. Nel mio snobismo, intendo. Perché quella era la loro arma, non la mia. Nel senso che lo era lì, a Mayapore, anche se in patria non lo sarebbe mai stata. Ma la sensazione passeggera di aver mandato sottosopra il loro mondo mi riempì di piacere.

 

Hari si trovava all’esposizione della Settimana della Guerra per conto della «Gazette». In un primo momento non lo avevo riconosciuto, in parte perché senza occhiali non vedo bene le persone, ma anche perché aveva un aspetto diverso. Mi ci sarebbero voluti altri incontri per rendermi conto che dalla sera dell’aperitivo in giardino aveva speso un po’ di soldi per del nuovo vestiario: pantaloni di taglio più aderente e non di quel tipico bianco da babu. Malgrado il disagio che aveva provato alla nostra serata, penso che si fosse aspettato altri inviti e avesse fatto spese che non poteva permettersi per non sentirsi più così fuori posto. Durante uno dei nostri incontri successivi dissi: «Ma sono sicura che un tempo fumava. All’aperitivo aveva una sigaretta accesa». Lui lo ammise, ma disse di avere smesso. Ma non feci subito il collegamento tra i nuovi vestiti e i soldi risparmiati rinunciando al fumo, né ne capii il significato in relazione alle speranze che l’invito di Lili gli aveva suscitato.

Aveva sempre vissuto in Inghilterra, o almeno fin dall’età di due anni, quando il padre aveva venduto le sue terre nelle Province Unite ed era emigrato lì. Sua madre era morta mettendolo al mondo, e in Inghilterra il padre aveva troncato i rapporti con l’intera famiglia a eccezione di una sorella, zia Shalini, che a sedici anni era stata data in moglie a un Gupta Sen, il fratello di un ricco bania di Mayapore. In Inghilterra il padre di Hari aveva guadagnato molti soldi, ma poi li aveva persi, e alla sua morte aveva lasciato Hari senza un centesimo o una casa. Era all’ultimo anno di scuola a Chillingborough e si era ritrovato completamente solo. Sua zia Shalini aveva chiesto un prestito al cognato ricco per pagargli il ritorno in India. Per un po’ Hari aveva lavorato negli uffici dello zio nel bazar, ma poi era riuscito a trovare un impiego al giornale grazie alla sua conoscenza dell’inglese. Queste cose le sapevo in parte da zia Lili, a cui le aveva raccontate Vassi, ma per un bel po’ avevo dato per scontato che, vista la ricchezza del cognato di sua zia, il denaro per lui non fosse un problema, e avevo creduto che il lavoro al giornale fosse una scelta, non una necessità. Impiegai del tempo anche a capire che tutti i programmi che suo padre aveva fatto per lui erano finiti in niente, poiché suo “zio” Romesh si era rifiutato di spendere un solo centesimo per fargli proseguire gli studi, mettendolo subito al lavoro nella ditta, e sua zia Shalini non aveva praticamente soldi propri. In più, naturalmente, mi ci volle un po’ per rendermi conto che in India la formazione inglese di Hari non contava un bel niente, visto che viveva in una delle case di Chillianwallah Bagh, sulla riva sbagliata del fiume.

Quel giorno, quando mi avvicinai a lui sul maidan, gli dissi: «Mr Kumar, giusto?», cosa di cui i bianchi intorno a noi presero ovviamente nota. Fraintesi il motivo del suo silenzio e della riluttanza con cui mi diede la mano e soggiunsi: «Sono Daphne Manners, ci siamo conosciuti da Lili Chatterjee». Sì, rispose lui, se ne ricordava, e poi si informò sulla nostra salute. Proseguimmo a chiacchierare per qualche minuto, anche se a parlare fui soprattutto io, sentendomi sempre più come la figlia del signorotto di campagna che si degna di rivolgersi al figlio di uno dei fittavoli, perché sembrava proprio che fosse così che lui voleva farmi sentire, per chissà quale motivo. Finalmente conclusi dicendo: «Faccia un salto da noi, una di queste sere. La porta è sempre aperta». Lui mi ringraziò, ma la sua espressione diceva che non si sarebbe mai sognato di farlo a meno che non avesse ricevuto un invito formale, e forse neanche allora, poiché avrebbe visto l’invito come un mero atto di cortesia.

E così me ne andai, raggiunsi il gruppo e per un’ora rimasi seduta a guardare la parata e ascoltare la banda. E quella sera restai a cena al circolo, dove parlammo della marcia e degli esercizi. I ragazzi erano fieri del loro pugilato e della precisione di movimenti dei Berkshire. Era tutto un gran sventolio di bandiere. Ronald Merrick arrivò e venne dritto da me, cosa molto insolita. Dalla cena a casa di zia Lili, dove non ci eravamo trovati particolarmente in sintonia, quando ci eravamo incrociati al circolo avevamo scambiato a malapena qualche parola e bevuto un bicchiere o due, giusto per rispettare la forma. Lui sembrava sempre occupatissimo e teso, a suo agio soprattutto quando parlava e discuteva con gli altri uomini in sala fumatori. Aveva la reputazione di essere un attaccabrighe e, a eccezione di qualche ragazza nubile che gli correva dietro, non era particolarmente simpatico a nessuno. Ma quella sera puntò dritto su di me e mi chiese: «Le è piaciuta la parata? L’ho vista sul maidan». Poi si sedette a bere con noi, e a un certo punto mi rivolse un vago invito ad andare da lui a sentire i suoi dischi di Sousa, cosa per la quale, quando se ne fu andato, le ragazze mi presero in giro senza pietà, tirando fuori le classiche battute sulla collezione di farfalle e sul fatto che non bisognasse mai fidarsi di un poliziotto. «A quanto pare, Daphne ha gli attributi giusti per Mr Merrick. Era un pezzo che cercavo di prenderlo all’amo, quello lì». Uno dei ragazzi fece una battuta su cosa intendesse con attributi, segno che si era tornati ai soliti argomenti. Essendo sabato c’era anche gente che ballava, e in piscina c’era il solito parapiglia. E fuori in terrazza lo sventolio delle bandiere non era una sensazione, ma una realtà: schiere di bandierine appese tra le luminarie. Il messaggio era: “Gliela faremo vedere”. A un certo punto, il ragazzo con cui stavo ballando disse che la Settimana della Guerra aveva dato da riflettere ai maledetti indiani. Poi cominciò ad allungare le mani, costringendomi ad allontanarlo. Lo piantai in asso e andai in bagno, mi sedetti sul gabinetto, ascoltai le chiacchiere scurrili al di là della porta della cabina e pensai: “No, è tutto sbagliato, sbagliato”. E più tardi, tornata in sala bar, assordata dallo strimpellio del gruppo musicale, mi dissi: “Non posso sprecare il mio tempo così. Non ho tempo da perdere”.

Avevo la sensazione che il circolo fosse un transatlantico in viaggio, un Titanic con tutte le luci accese e le orchestre che suonavano mentre era diretto verso il buio con nessuno sul ponte di comando.

 

Zia, promettimi una cosa: che se il bambino sopravvivrà ma tu non potrai sopportarne la presenza, farai in modo che il denaro che lascio venga usato per garantirgli una base dignitosa nella vita. Mi guardo intorno, cercando di pensare a dove potrebbe andare nell’eventualità che mi sopravviva. Non ho l’ardire di pensare che il tuo affetto per me si possa estendere a una creatura che è sangue del mio sangue solo a metà e che per l’altra metà appartiene a qualcuno che tu non conosci e che forse non conosco neanch’io, qualcuno di losco. Mi sono volutamente abituata all’idea che tu non la vorrai sotto il tuo tetto, e per questo ti prego di non preoccuparti. È inevitabile che un figlio così mal concepito debba soffrire per le mie colpe. E in ogni caso, siamo onesti: probabilmente non vivrai abbastanza a lungo da soddisfare i bisogni di un bambino giunto a un’età in cui è in grado di pensare e ricordare mentre si trova ancora sotto il tuo tetto. Mi viene in mente Lili. Ma mi domando anche questo: forse, crescendo, il bambino comincerà a mostrare una qualche somiglianza con Hari. Lo spero tanto, poiché segnerebbe il mio riscatto. Il mio incubo è che cresca senza somigliare a nessuno, nero di pelle e al di là di qualsiasi redenzione, una creatura del buio, un piccolo specchio vivente di quell’orribile notte. Eppure, anche così sarà un bambino. Una creatura di Dio, sempre che un dio esista, e, anche se non esistesse, un essere che merita tutto quello che possiamo concedergli del nostro quoziente di grazia.

Immagino che il piccolo, se io non sarò più qui per crescerlo, dovrà andare in un orfanotrofio. Non potrebbe, in un certo senso, essere nel contempo casa mia? C’è quella donna che chiamano sorella Ludmila. Un giorno le chiesi se avesse bisogno di soldi. Lei disse di no, ma promise che se ne avesse avuto bisogno me l’avrebbe detto. Forse nella sua vecchiaia (anche se non so quanti anni abbia) dedicherà un pensiero anche ai neonati oltre che ai morenti. È una progressione logica.

Con “base dignitosa” non sto parlando di retroterra o istruzione, ma di cose più semplici come il calore e l’agio di un focolare, una quantità di cibo sufficiente, affetto e gentilezza. Ah, quante cose sono state sperperate in me.

Se è un maschio, ti prego di chiamarlo Harry, o Hari se la sua pelle è abbastanza scura da rendere onore a quella grafia. Se è una femmina... non lo so. Ma ti prego, non chiamarla Daphne. È la fanciulla che fuggì da Apollo e venne trasformata in un cespuglio di alloro! Per me è stato un po’ il contrario, non trovi? Maldestramente radicata a terra ma convinta di poter correre libera all’inseguimento del dio sole. Quand’ero ancora adolescente, un giorno mia madre esclamò: «Per l’amor del cielo, non essere così goffa!». Io ne rimasi dapprima confusa e poi ferita: alta com’ero, mi ero fatta l’idea di essere una sorta di Diana, aggraziata, longilinea e dalle gambe lunghe, tesa come un arco e guizzante nella foresta. Povera mamma! Era terribilmente brava a elargire docce fredde. Fu David a insegnarmi che lo faceva perché non sapeva mai bene cosa voleva, e per questo le sembrava che le andasse sempre tutto male e doveva prendersela con il colpevole più vicino, di solito con papà ma spesso con me. Ma adorava David, ed è probabilmente per questo che lui la sapeva decifrare meglio di papà, ed era in grado di spiegarmela. Con lui mamma non era mai sulla difensiva. Suppongo che fu proprio il modo in cui lei parlava dell’India, anche dopo anni di comoda esistenza in Inghilterra, come qualcosa da cui era appena fuggita, a portarmi prima a provare solidarietà e poi amare l’India in sé, e non solo in onore di papà. Fin da quando ero stata abbastanza grande da capirle, lui mi aveva mostrato immagini e fotografie della mia “terra di nascita”, raccontandomi storie che mi parevano meravigliose, tanto che quando tornai qui l’India che cercavo era quella che credevo di conoscere per averla vista nella mia immaginazione, una sorta di miraggio che tremolava all’orizzonte, con brezze calde e profumate che giungevano delle colline lontane...

 

È curioso che, malgrado tutto quello che si sa delle piogge, ancora prima di venire in India la si veda sempre e solo come una terra perennemente riarsa e bruciata dal sole, un vasto, desertico regno dei Moghul disseminato di città fortificate dove tutte le costruzioni sembrano moschee dalle arcate di pietra traforata. E ogni tanto, dal finestrino di un treno (quello che presi per Pindi al mio arrivo in questa terra), vedi passare immagini sfuggenti del paese che hai sognato. Sono contenta di essere arrivata qui prima della stagione delle piogge. La cosa migliore da fare per scoprire la gioia dei temporali, delle piogge sferzanti e dei primi diluvi che pervadono tutto di verde è sopportare lo sfinimento di quel caldo, la calura di aprile e maggio che fa sbocciare i fiori scarlatti dei gol mohur, le “fiamme della foresta” (un albero che prima della fioritura sembra morto, secco, privo di vita). È questa la mia India. L’India delle piogge.

 

C’è un altro nome, a parte quello di Hari, che non facciamo mai. Bibighar. E così, anche se tu sei stata a Mayapore e potresti aver visitato i giardini, non so se ne hai conservata un’immagine mentale. In quel luogo, il verde regna sovrano. Lo si sente anche nei mesi più caldi, prima delle piogge, un po’ impallidito e stanco ma sempre verde: selvatico e invadente, un terreno cintato pieno di alberi e arbusti, con sentieri e improvvisi spazi aperti laddove un centinaio di anni fa si trovava probabilmente un giardino ordinato o una fontana. Si possono ancora vedere le fondamenta dell’antica reggia, Bibighar. A un certo punto c’è un pavimento a mosaico a cui si arriva salendo alcuni gradini, come se un tempo fosse stato l’ingresso. Il mosaico è circondato da colonne e coperto da un tetto, trasformato in una fase successiva in una sorta di padiglione o pensilina. Una o due volte all’anno passano gli addetti ai lavori pubblici per regolare cespugli e rampicanti. Lungo il lato posteriore, i muri di cinta sono in rovina e si affacciano su un terreno abbandonato. Sul davanti c’è un’arcata che dà sulla strada, ma non c’è alcun cancello, sicché i giardini non sono mai chiusi. Ma sono in pochi ad andarci. I bambini credono che siano infestati dai fantasmi. I più coraggiosi tra loro, maschi e femmine, vi giocano di mattina, e nella stagione asciutta a volte le famiglie indiane più abbienti vi organizzano un picnic. Ma per la maggior parte del tempo non ci va nessuno. La reggia era stata costruita da un principe, così mi ha detto Lili, e abbattuta da quel MacGregor che poi ha dato il proprio nome alla casa, la cui veranda si dice sia infestata dal fantasma della moglie Janet che tiene in braccio il suo neonato morto. Fu Lili a portarmi per la prima volta a Bibighar. Hari ne aveva sentito parlare ma non ci era mai stato, né si era reso conto che il lungo muro che percorreva Bibighar Road fosse proprio quello dei giardini fino al giorno in cui glielo mostrai. La prima volta che vi andai insieme a Lili c’era qualche bambino, ma fuggirono tutti non appena ci videro. Probabilmente ci scambiarono per fantasmi, malgrado fosse giorno. E in seguito non vi avrei mai più visto nessuno.

 

Hari e io cominciammo ad andare a Bibighar, sedendoci nel padiglione, poiché era l’unico posto in tutta Mayapore in cui potevamo stare insieme sentendoci completamente a nostro agio. E anche allora avevamo la sensazione di doverci nascondere dai curiosi, dai divertiti e dagli stigmatizzatori. Quando entravamo da quell’arcata e quando ci rialzavamo in piedi per tornare all’acquartieramento: erano quelli i momenti in cui la sensazione di entrare o uscire da un nascondiglio era più forte. E anche mentre eravamo lì sentivamo di doverci tenere sempre pronti nel caso qualcuno fosse entrato e ci avesse visti, anche se non facevamo altro che starcene seduti fianco a fianco sul bordo della “piattaforma” a mosaico, facendo penzolare i piedi come due bambini seduti su un muretto. Ma se non altro eravamo abbastanza sicuri che a entrare nei giardini non sarebbe stato un bianco, uomo o donna che fosse. I bianchi non passavano mai da Bibighar. I giardini sembravano avere una connotazione puramente indiana, allo stesso modo in cui quella del maidan era puramente inglese.

Forse dirai: ma il fatto che tu volessi stare con Hari, e che lui volesse stare con te, non era certo un crimine, e di sicuro c’era una quantità di posti in cui potevate andare ed essere felici, giusto? Sì, ma quali? La MacGregor House? Casa sua a Chillianwallah Bagh? Certo. Ma dove altro potevamo andare? Dove, zia? Senza che la gente ci fissasse e noi ci sentissimo in imbarazzo, preparandoci a un insulto o a una scenata? Il circolo era fuori questione. C’era l’altro circolo, quello che chiamavano il Club Indiano, ma Hari non mi ci voleva portare perché lì sarei stata io a essere fissata da quelli che definiva bania coi piedi sulle sedie. Il caffè inglese era improponibile. Il ristorante cinese anche, dopo la volta in cui a Hari venne impedito di seguirmi al primo piano. Ci ero stata in precedenza con un ufficiale inglese, e senza pensarci avevo imboccato le scale. Ma alla fine dovemmo sederci al pianterreno, e io dovetti sopportare i sussurri di quelli che salivano al primo piano e le occhiate curiose e imbarazzate degli ufficiali britannici privi di nomina regia seduti al piano inferiore insieme a noi. Perfino il povero, pulcioso cinemino dell’acquartieramento era fuori gioco, perché io non avrei mai avuto il sangue freddo di far salire Hari nella sacrosanta galleria e lui non mi avrebbe mai fatta sedere su una panca di legno in platea. Né mi avrebbe mai portata nel cinema indiano di fronte al tempio di Tirupati, malgrado glielo avessi chiesto. «Per poi dover sopportare le quattro ore del Ramayana, tappandoci il naso, riempiendoci di cimici e sudando come fontane?», aveva ribattuto.

Zia, a Mayapore non c’era un solo posto in cui avremmo potuto farci vedere insieme senza esserci preparati o averci riflettuto. Qualche serata la passammo alla MacGregor House, quando zia Lili usciva per il suo bridge, e un paio di volte con la dolce zia Shalini, ma un’amicizia tra due persone non può avere queste limitazioni, non trovi? Non si può evitare di essere condizionati dal fatto che è un duro impegno per entrambi.

 

E naturalmente era un’amicizia che per me era cominciata in modo consapevole. Naturalmente lui, come ben sapevo, non fece mai “un salto” da noi come gli avevo suggerito. A Lili dissi che lo avevo rivisto sul maidan e lo avevo invitato a passare quando voleva. Ripensandoci ora, la sua reazione mi pare quella di una persona inconsciamente contenta ma timorosa delle conseguenze che la cosa avrebbe potuto avere su di me, o se non proprio timorosa, piena di riserve. Mi disse altre cose su di lui. Forse cercava di mettermi in guardia, ma in realtà non fece altro che alimentare il mio zelo riformatore. Doveva avermi detto di Chillingborough prima dell’incontro sul maidan, poiché sono certa che all’aperitivo Hari non me ne aveva fatto cenno. Per il resto, tuttavia, non ho più ben chiaro il modo in cui mi costruii un suo ritratto mentale. Tutto quello che so, che ammetto, è che durante il nostro incontro sul maidan ero consapevole di compiere una buona azione. E ora a pensarlo mi viene il voltastomaco. Non sopporto il ricordo di avere trattato con superiorità, seppure senza volerlo, l’uomo di cui mi sarei innamorata.

Trascorsero un paio di settimane senza che lui si facesse vedere, gli scrissi un biglietto. Il suo indirizzo me lo diede zia Lili, che l’aveva in rubrica. Come sai bene, a bridge sono sempre stata un disastro, e quella sera Lili era stata invitata dai White per fare coppia col giudice Menen, la cui moglie era ricoverata a Greenlawns. Significava che quel sabato sera sarei stata sola. Dopo tutti gli sbandieramenti della Settimana della Guerra, non avevo voglia di andare al circolo. Non sapevo cosa avessi voglia di fare. Pensavo a Hari. Negli ultimi giorni pensavo spesso a lui. Quella mattina gli scrissi un biglietto e glielo feci recapitare a Chillianwallah Bagh da uno dei domestici. Questi tornò dicendo che Kumar Sahib non era in casa, ma che aveva lasciato il mio biglietto. Dunque non sapevo se quella sera Hari sarebbe venuto oppure no, il che non faceva che aumentare l’effetto delle critiche silenziose di Lili e di conseguenza la mia determinazione ad avere tutto pronto. Dissi alla cuoca di preparare una cena per due: pollo pulao con una montagna di riso allo zafferano e cipolle in salamoia e un’abbondanza di chapati caldi, e litri di birra ghiacciata, e per dolce quello che io chiamavo Mango Melba. Controllai il mobile bar e mandai il garzone in bottiglieria a comprare dell’altro gin Carew’s. Poi mi recai io stessa all’acquartieramento, andai allo Sports Emporium e presi un assortimento di dischi appena arrivati e una scatola di puntine, perché Lili non le cambiava mai, usava sempre le stesse e mescolava le nuove con le usate. Avevamo un Decca portatile che lei stessa aveva comprato l’ultima volta che era stata a Cal. Poi, al mio ritorno, feci ammattire Bhalu calpestando le sue aiuole e raccogliendo mucchi di fiori. Mi sentivo un po’ come Cho Cho San che si preparava per Pinkerton. Lili andò dai White intorno alle sei e mezza, mentre io ero ancora nella vasca da bagno. Entrò in camera mia e gridò: «Daphne, sto per andare, sarò di ritorno intorno a mezzanotte. Buon divertimento!». «Grazie», risposi. «Salutami tutti». «Spero che ti faccia la cortesia di venire», aggiunse lei, e io ribattei: «Certo che verrà. In caso contrario avrebbe mandato un biglietto di scuse». Povera Lili. Pensava davvero che non si sarebbe presentato. E lo pensavo anch’io. Indossai quell’orribile vestito blu elettrico che alla luce artificiale diventa verde spento: sentivo che il mio aspetto non aveva importanza. Sapevo che non sarei mai potuta sembrare diversa da quella che ero; e una volta tanto c’era gioia in quella noncuranza, nell’essere semplicemente me stessa.

E lui venne, alle 7,30 precise, in una tonga a cavallo. Per prenderla doveva essere andato alla stazione, poiché di solito sull’altra riva del fiume si trovano solo tonga a pedali. O magari proveniva dal bazar dell’acquartieramento, dal negozio di Darwaza Chand, dove aveva atteso che finissero di preparargli la nuova camicia che indossava e che lo faceva profumare di cotone fresco non ancora lavato.

 

Nel biglietto avevo un po’ imbrogliato, non mettendo bene in chiaro che sarei stata sola. Per quanto ne sapevo, Hari poteva essere il genere di giovane indiano che considerava sbagliato cenare da solo con una donna; o magari per lui non sarebbe stato un problema, ma sapendo che Lili non c’era sua zia avrebbe potuto proibirgli di venire. Mi resi conto che all’inizio lui era sulle spine, aspettandosi di veder comparire Lili da un momento all’altro. Eravamo in veranda, e Raju ci stava servendo da bere. Forse fu allora che Hari declinò l’offerta di una sigaretta e disse di avere smesso. Ma la mancanza del fumo aumentava la sua tensione, e a un tratto divenni tesa anch’io, rendendomi conto di essermi ficcata in trappola da sola. Probabilmente lui avrebbe pensato che Lili era uscita perché disapprovava che lui venisse a cena da noi, o magari che io l’avessi segretamente invitato mentre lei era fuori casa ben sapendo che Lili avrebbe disapprovato. E così, prima che la situazione mi sfuggisse di mano, gli dissi la verità, e cioè che il sabato era una delle serate in cui Lili giocava a bridge, che io detestavo il bridge, che desideravo solo una tranquilla cenetta in compagnia di qualcuno con cui poter parlare dell’Inghilterra, ma che nel mio invito avevo barato nell’eventualità che lui o sua zia trovassero strano che una ragazza sola invitasse a cena un ragazzo.

In un primo momento lui parve confuso. Dovevano essere passati più o meno quattro anni dall’ultima volta che una persona inglese gli si rivolgeva in un modo al quale in Inghilterra sarebbe stato abituato e non avrebbe fatto neanche caso. Odiavo l’idea di essere consapevole anche di questo semplice fatto, ma lo ero, ed è inutile fingere il contrario.

Già quella prima sera dovemmo impegnarci per trovare una base di normale scambio umano, anche se forse fu la sola occasione in cui ci incontrammo senza avvertire immediatamente le pressioni e la disapprovazione del mondo esterno. Una volta resosi conto che Lili non c’era, nel giro di un minuto o due Hari cominciò visibilmente a rilassarsi, a lasciarsi andare e a guardare e considerare me. Dopo due o tre gin fizz rientrammo in casa per cenare, sedendoci fianco a fianco a un’estremità del tavolo. Avrei preferito dire a Raju di portare il cibo e lasciare che fossi io a servirlo, ma avevo deciso che per il morale di Hari sarebbe stato meglio se entrambi fossimo stati serviti e riveriti. Raju, naturalmente, cercò di metterlo al suo posto rivolgendoglisi in hindi, ma si arrese quasi subito nel rendersi conto che Hari non lo parlava meglio di me. E dopo che ci fummo scambiati una battuta sulla sua incapacità linguistica, fui lieta di vederlo rilassarsi e avventarsi sul cibo. Cosa che feci anch’io. Ci lanciammo entrambi sulle pietanze come due bambini. Alle serate di Lili avevo notato il modo in cui gli uomini indiani sembravano come trattenersi, quasi che mangiare con gusto in una compagnia mista fosse qualcosa di indelicato. Quella sera, invece, continuavo a far servire chapati caldi da Raju, che Hari divorava senza farsi problemi. In seguito, quando venni invitata a cena da sua zia Shalini, mi resi conto della differenza tra il nostro cibo e il loro e compresi meglio il motivo per cui quella sera Hari aveva mangiato come se fosse stato il primo vero pasto che consumava da settimane. Non ho mai sopportato il cibo cucinato col ghi, che ha un immediato effetto negativo sul mio dotto biliare, e quella sera in alcuni dei piatti preparati da Mrs Gupta Sen c’era del ghi.

Ma sto andando troppo in fretta. Dopo aver reso onore alle pietanze, ci spaparanzammo in salotto, dove Raju servì brandy e caffè, e Hari fece gli onori di casa al grammofono. Per l’intera cena non avevamo fatto che parlare di “casa”. Avevamo quasi esattamente la stessa età, ragione per cui conservavamo i medesimi ricordi relativi alle fasi corrispondenti delle nostre vite, come ad esempio il primo, goffo passaggio in cielo del dirigibile R101. Aeroplani e Jim Mollison e Amy Johnson, Amelia Earhart scomparsa nel Mar di Timor, film come Pioggia e Mata Hari. E poi cose come il cricket e Jack Hobbs, Wimbledon e Bunny Austin e Betty Nuthall, le corse automobilistiche e Sir Malcolm Campbell, l’Arsenal e Alex James, i balli scolastici alla povera, vecchia Queen’s Hall ormai bombardata... anche se Hari non c’era mai stato, poiché a lui piacevano solo il jazz e lo swing.

Quando cominciò a suonare i dischi, il piacere che provava si vedeva a occhio nudo, ma anche il ritorno improvviso delle sue insicurezze. Dopo che ne ebbe suonati due e messo su il terzo, un brano di Victor Silvester, prese coraggio e disse: «Ho quasi scordato come si fa e non sono mai stato un fenomeno, ma le andrebbe di ballare?». Risposi che io stessa ero stata definita un elefante con gli zoccoli ai piedi ma che magari insieme ci saremmo migliorati a vicenda, e così ci alzammo, giungemmo una mano e posammo l’altra sulle rispettive schiene. Sulle prime lui mi teneva troppo a distanza perché la cosa potesse funzionare, e non facevamo che guardarci i piedi a vicenda, chiedere scusa e prendere il tutto terribilmente sul serio, e probabilmente alla fine della canzone lui si aspettava che mi rimettessi a sedere o suggerissi di tornare in veranda, non solo perché non aveva funzionato ma perché sospettava che potessi avere accettato di ballare con lui solo per nascondere la ripugnanza suscitata in me dal tocco di un indiano. Io invece gli chiesi di cercare un disco particolare, In the Mood, che come probabilmente tu non sai è facile e veloce, di una naturalezza assoluta, e lo attesi, lo costrinsi a riprovarci, e questa volta non ci guardammo più i piedi ma lasciammo vagare lo sguardo dietro le spalle l’uno dell’altra, e ballammo più vicini, e ciascuno sentì scivolare l’altro in una sorta di ritmo naturale.

 

Se leggerai mai queste righe, io non ci sarò più e non potrò sentirmi sminuita dalle tue critiche. Posso illudermi di rivivere tutto questo per la sola persona che sa quanto un racconto simile possa essere distante da una ricostruzione perfetta. Forse oltre a essere un’assicurazione contro il silenzio definitivo è anche un premio di consolazione per me, la possibilità di riaverlo in una forma più solida del ricordo libero, sebbene sempre inconsistente. Ma la seconda cosa migliore è meglio della terza, vale a dire i pensieri sparsi e non fissati sulla carta. Oh, con questa vecchia penna scricchiolante potrei evocarlo in una forma che potrebbe darti più soddisfazione, ma tradendo quello che lui era veramente. Potrei farlo se ignorassi l’incertezza che provavo, la goffaggine che condividevamo; se fingessi che dal momento in cui ci trovammo l’una nelle braccia dell’altro provammo la semplice magia di una chiara attrazione fisica. Ma tra noi due non ci fu mai nulla di semplice. A meno che non si sostenga che le nostre opposte complicazioni si cancellassero a vicenda: da parte sua la complicazione della consapevolezza che il possesso di una ragazza bianca poteva essere un’infusione di fiducia, da parte mia la complicazione della strana, quasi eccitante paura del suo colore. Come altro spiegare il fatto che al secondo ballo ciascuno dei due tenne lo sguardo ben fisso dietro le spalle dell’altro, quasi avessimo paura di guardarci negli occhi?

Non facemmo un terzo ballo, ma quando tornammo a sederci non c’era alcuna sensazione di rifiuto fisico, come ci sarebbe stata se non avessi accettato di ballare o se mi fossi seduta dopo quel primo, goffo, impersonale tentativo. La separazione, quando ci sedemmo ciascuno sulla sua poltrona, era una reciproca ritirata da un terreno pericoloso, per ciascuno di noi ma anche per l’altro, poiché nessuno dei due poteva avere la certezza che l’altro riconoscesse il pericolo o capisse il ruolo che poteva essere svolto dall’attrazione suscitata dal pericolo di quello che provavamo l’uno per l’altra.

E fu così che ci trovò Lili al suo ritorno, tranquillamente seduti a conclusione di una serata che ci era risultata palesemente piacevole, visto che stavamo ancora conversando in libertà, con le rispettive tensioni così ben nascoste che non potevamo nemmeno essere certi che quella che l’altro provava fosse davvero tensione.

Dopo che Lili fu rientrata, lui non si trattenne più di dieci minuti; eppure in quel breve lasso di tempo, mentre lei gli parlava, potei vedere la sua armatura che si riformava strato dopo strato, e Lili passare da una vaga freddezza iniziale all’affabilità e poi di nuovo alla freddezza, come se nell’istante precedente alla chiusura definitiva della corazza avesse intravisto in lui la vulnerabilità che temeva e per questo avesse chiuso le sue stesse saracinesche, non per chiuderlo fuori ma per chiudere dentro me, tenendoci separati per il bene di tutti.

Di solito non siamo così sensibili all’effetto che le persone suscitano l’una sull’altra, a meno che una di loro non sia qualcuno che amiamo. E in questo caso, suppongo, a quel punto io li amavo entrambi.

 

La Settimana della Guerra si era svolta verso la fine di aprile, sicché Hari doveva essere venuto a cena alla MacGregor House all’inizio di maggio. Quel mese alcune ragazze dell’ospedale presero le ferie e andarono in posti come Darjeeling. A Mayapore faceva un caldo terribile. La luna aveva quella curiosa forma sghemba che proprio tu, mi sembra, mi avevi spiegato che è causata dalle particelle di polvere nell’atmosfera. In realtà le ferie a nostra disposizione non erano molte, per via di tutte le crisi politiche che continuavano a scoppiare, rientrare e poi riesplodere. La capoinfermiera disse che mi sarei potuta prendere un paio di settimane, e penso che a Lili sarebbe piaciuto andare in collina per un po’, ma all’ospedale eravamo a corto di personale, e ritenevo di non avere il diritto di andarmene lavorandoci da così poco. A Lili suggerii di partire da sola e lasciarmi lì, ma lei non ne volle sapere. E così ce ne restammo a sudare a Mayapore, come d’altra parte quasi tutti, dal vicecommissario in giù. Diventò addirittura troppo caldo per dare ricevimenti: qualche uscita a cena e qualche invito fu più o meno tutto quello che facemmo.

Il giorno dopo la nostra serata Hari mi fece recapitare un biglietto di ringraziamento formale, e qualche giorno dopo Mrs Gupta Sen mi invitò a cena per quel sabato nella sua casa di Chillianwallah Bagh. Era stata invitata anche Lili, ma disse che era solo per rispettare l’etichetta e che in ogni caso quella sera non poteva perché aveva di nuovo il suo bridge. Dopo avere accettato ricevetti un altro biglietto di Hari in cui diceva che poiché la casa era difficile da trovare (i numeri erano assegnati a casaccio, e Chillianwallah Bagh non era un’unica strada bensì un sistema di vie), se mi andava bene sarebbe venuto a prendermi con una tonga intorno alle sette e un quarto. Sperava che non avrei trovato la serata troppo noiosa, visto che in casa non avevano grammofoni o cose simili. Chiesi a Lili se, secondo lei, mi stesse suggerendo di portare il nostro insieme a qualche disco, ma lei rispose che sarebbe stato sbagliato, che non si poteva portare un grammofono poiché non solo Mrs Gupta Sen avrebbe potuto non essere d’accordo (visto peraltro che i dischi erano tutti di musica europea, e probabilmente le avrebbero dato fastidio alle orecchie), ma avrebbe potuto addirittura considerarlo un insulto, una critica alla sua ospitalità. E così mi fidai dell’opinione di Lili, e penso che avesse ragione.

Zia Shalini era dolce e parlava molto bene l’inglese. Disse che glielo aveva insegnato il padre di Hari da bambina e che era felice di avere Hari in casa per rinfrescarlo e migliorarne l’accento. Mi mostrò fotografie di Hari scattate in Inghilterra che suo fratello Duleep, il padre di Hari, soleva inviarle di tanto in tanto. Ce n’erano diverse fatte in un giardino nelle quali si vedeva la loro casa nel Berkshire, che a me parve un piccolo castello. E ce n’erano altre di Hari con una famiglia di amici inglesi, i Lindsey.

Le aspettative per la serata mi avevano messa un po’ in apprensione, e il fatto che Hari fosse arrivato in ritardo con la tonga e che io fossi rimasta sola ad aspettarlo nella veranda della MacGregor House non aveva contribuito a tranquillizzarmi. A quel punto Lili era già uscita per il suo bridge. Mi aveva consigliato di bere almeno un paio di drink prima dell’arrivo di Hari, nell’eventualità che Mrs Gupta Sen fosse contraria agli alcolici, e nella ventina di minuti in più che avevo dovuto aspettare avevo bevuto più del necessario. Hari era imbarazzatissimo per il ritardo, forse pensando che lo vedessi come un tipico difetto indiano. Spiegò che aveva fatto fatica a trovare una tonga, poiché a quanto pareva erano tutte occupate a trasportare la gente all’apertura del cinema. Salimmo sulla tonga, e fui sollevata nel riconoscere, in un sacchetto di carta posato sul sedile, una bottiglia di gin ancora incartata e una di succo di lime o limone. Quando attraversammo il ponte di Bibighar era ormai quasi buio, e l’oscurità era completa quando, percorrendo il muro di Bibighar, chiesi a Hari cosa pensasse dei giardini. Venne fuori che non sapeva di preciso cosa fossero, e ci ridemmo sopra. «Sono a Mayapore da pochi mesi e la conosco meglio di lei, che vive qui da quattro anni», dissi. «D’altra parte, è come vivere a Londra e non andare mai a visitare la Torre».

Abbandonammo l’estensione stradale di Chillianwallah Bagh. Le strade erano male illuminate e dal fiume proveniva un tanfo terribile. Mi chiesi in cosa diamine mi fossi cacciata, e devo confessare che mi sentii mancare il cuore. Ripresi leggermente fiducia nel vedere le case del quartiere in cui eravamo entrati: incollate l’una all’altra ma di aspetto moderno e civilizzato, tutte angoli retti. Ero divertita dalle frasi che Hari rivolgeva al conducente in un hindi abborracciato come il mio: «Dahne ki taraf aure k dam sidhe ki rasta». Lo presi un po’ in giro, e gradualmente lo vidi rilassarsi.

Ma non appena arrivammo davanti alla casa si irrigidì di nuovo nel vedere che uno dei domestici aveva chiuso il cancello. Provò a chiamare ma nessuno venne ad aprire, e il conducente della tonga non sembrava disposto a scendere e farlo lui. Alla fine dovette pensarci Hari. Dal cancello all’area davanti al portico, che era illuminato da una nuda lampadina, c’erano solo pochi passi; avremmo potuto proseguire a piedi, e sarebbe stato anche meglio, poiché il tonga-wallah cominciò a protestare per il poco spazio di manovra che avrebbe avuto per invertire la direzione, e io dovetti lasciare che se ne occupasse Hari. Potevo seguire il dialogo grazie al fatto che il suo hindi era maldestro quanto il mio, e alla fine capii che dovette offrire una mancia al conducente per convincerlo a tornare a “gyarah baje”, ma che si rifiutava di pagarlo in anticipo.

Improvvisamente stufa della posizione in cui un tonga-wallah testardo stava mettendo Hari, ero sul punto di sbottare: «Insomma, digli che preferisco tornare a casa a piedi piuttosto che recargli disturbo!». Ma mi frenai appena in tempo, poiché avrebbe significato assumere il controllo della situazione e avrebbe solo peggiorato le cose. Quando Hari ebbe finalmente la meglio e l’uomo accettò a malincuore di tornare alle undici mi limitai a dire: «Quante complicazioni creano», come se ci fossi abituata, cosa che Hari probabilmente sapeva non essere vera e che mi fece sembrare una mem in visita nei bassifondi che si stava vagamente divertendo alle sue spalle. Nel rendermi conto di ciò, avrei solo voluto risalire sulla tonga, tornare a casa e scolarmi un drink gigantesco.

Invece entrammo, d’un tratto avvolti dal buio, da una sorta di tremebonda aspettativa di disgrazia, o, se non proprio di disgrazia, di una noia tremenda, di disagio, di inquietudine. Sia ringraziata zia Shalini, che uscì nel minuscolo atrio come una principessa Rajput in miniatura, magnificamente e quasi impercettibilmente truccata, avvolta in un sobrio sari lilla pallido di semplice cotone che le dava un’aria di meravigliosa freschezza. Mi strinse la mano, facendomi vergognare del mio fiacco, imbarazzato namasté. «Venite, beviamo qualcosa», disse conducendoci in salotto, piccolo ma elegantemente spoglio, con solo un paio di tappeti, un divano e una minuscola ma comodissima poltrona di vimini in cui mi fece sedere mentre, disse, Hari «faceva gli onori di casa» davanti al mobile bar, un vassoio di ottone di Benares posato su un tavolinetto di ebano intagliato e intarsiato di madreperla sul quale si trovavano esattamente tre bicchieri e le bottiglie che Hari stesso aveva furtivamente sfilato dal sacchetto. Mentre zia Shalini mi parlava, malgrado fosse piccolina riconobbi la somiglianza fisica tra lei e Hari. Al suo cospetto mi sentivo un po’ goffa, grande e grossa, con abiti inadeguati che lasciavano scoperta troppa pelle. Hari indossava un completo di cotone grigio, ma presto dovette togliersi la giacca poiché i ventilatori a soffitto funzionavano solo a metà potenza.

Dopo un solo drink (e a quel punto sentivo di avere davvero bisogno di un rabbocco) lei disse: «Vogliamo cenare?», si alzò e ci condusse nella stanza accanto, una minuscola sala da pranzo squadrata come una scatola. Chiamò il domestico dicendogli di accendere i ventilatori e cominciammo a mangiare.

Aveva preparato la tavola con grande cura per farmi sentire a mio agio. Al centro c’era una ciotola colma d’acqua in cui galleggiavano fiori di frangipane. Ai tre posti c’erano altrettante tovagliette di pizzo fatte a mano. Zia Shalini descrisse ogni piatto, ma i nomi li ho quasi tutti dimenticati, e alcuni faticai a mangiarli. «Non abbiamo della birra ghiacciata?», disse all’arrivo del pollo tandoori, il piatto principale, e Hari si alzò, scomparve per qualche minuto e tornò con le bottiglie, seguito da un domestico con i bicchieri su un vassoio. «Non abbiamo una caraffa, Hari?», chiese lei, e lui mandò il domestico a prenderla e poi lo seguì con le bottiglie. Il domestico riportò la caraffa piena di birra. Il resto della servitù osservava la scena dagli usci e dalle finestrelle sbarrate che davano sulle stanze accanto. Zia Shalini non bevve nulla, neppure un goccio d’acqua, sicché la birra la dividemmo Hari e io. Il mio bicchiere era un vecchio tumbler decorato con un motivo a greche, il suo era più piccolo e di vetro più spesso. Lo vedevo consapevole, fin troppo consapevole, dei mille piccoli modi in cui quella tavola si rivelava inferiore a ciò a cui un tempo era abituato e pensava io considerassi essenziale; ma verso la fine della cena, mentre lo osservavo senza rendermi conto di farlo, incrociò il mio sguardo e penso che comprese che tutte le “mancanze” che potevo notare non facevano che contribuire alla sensazione di essere “a casa”, alla percezione che lui e sua zia mi stavano facendo un onore esprimendo la confusa speranza che un giorno le nostre diverse usanze non avrebbero contato nulla, non avrebbero avuto più significato di quanto quella sera ne avessero per me.

Fu dopo cena che zia Shalini mi mostrò le foto. Avevo una gran voglia di fumare, ma non osavo aprire la borsa. E a un tratto lei disse: «Hari, non abbiamo un pacchetto di sigarette Virginia per Miss Manners?». Com’era sensibile a ogni piccolo mutamento di umore nei suoi ospiti! Com’era tollerante verso gusti che lei trovava sgradevoli, come il fumo e l’alcol! Penso che lo stesso Hari fosse sbalordito dalla magnifica abilità che sua zia mostrava nell’intrattenere una giovane donna inglese, il primo ospite inglese della sua vita, come poi avrei scoperto. Quello che trovai ammirevole in Hari fu il modo in cui non fece alcuna pressione su di lei riguardo a cose come l’alcol o le sigarette, lasciandole il controllo della propria casa, cosa che un giovane insensibile, spavaldo e voglioso di dimostrare il proprio retaggio inglese probabilmente non avrebbe fatto. L’altra gentilezza che mostrò fu quella di fumare una sigaretta o due insieme a me per non farmi sentire come se fossi la sola ad avere un vizio, anche se poi vidi che in realtà le sigarette le lasciava bruciare senza davvero fumarle. Temeva che gli tornasse la voglia di riprendere.

L’unica cosa che andò leggermente storta fu la faccenda del bagno. Quando ci alzammo da tavola, Hari scomparve per un po’. Penso che avesse detto a sua zia di darmi l’opportunità di usare il gabinetto, ma che al momento decisivo lei non avesse avuto il coraggio di dirmelo. Alla mia seconda visita l’imbarazzo era stato ormai superato, ma quella prima sera temo che la scoperta che non fossi “andata” rovinò leggermente la serata al povero Hari. E verso le dieci e mezza cominciò a rovinare anche la mia. Cominciai a chiedermi se ce l’avessero, un gabinetto che avrebbero potuto invitarmi a usare. Alla fine avrei scoperto che ce n’era uno al pianterreno, oltre a quello che poteva esserci di sopra. Niente water, ma zia Shalini era stata così riguardosa da sistemare un vaso da notte su un piccolo sgabello, che non ebbi il coraggio di usare, una ciotola e una caraffa piena d’acqua su un tavolino che aveva l’aria di non essere stato sempre lì, del sapone, qualche asciugamano e uno specchietto. Ci andai quando udimmo che il tonga-wallah era tornato e dopo che Hari uscì a parlargli. Mi alzai e chiesi: «Dove posso incipriarmi il naso?». Zia Shalini mi condusse in un corridoio accanto alla cucina, aprì la porta e accese la luce dicendo: «Prego, ogni volta che viene è qui per lei». Vidi un paio di scarafaggi zampettare avanti e indietro, ma non vi badai. Lili strilla come una matta appena ne scorge uno, ma a me non danno più fastidio, anche se al mio arrivo in India il pensiero che condividessero bagni e water con me mi inorridiva.

Quando giunse il momento dei saluti avrei voluto abbassarmi e baciare zia Shalini, ma non lo feci temendo che si potesse offendere. Hari pretese di riaccompagnarmi a casa, ma poi non volle entrare a bere un ultimo goccio. Credo che stesse cercando di evitare qualunque cosa che potesse trasmettere un messaggio come: Bene, adesso che è finita possiamo finalmente rilassarci. E così, dopo che si fu allontanato sulla tonga, mi sedetti in veranda a sorseggiare un nimbo fresco attendendo il ritorno di Lili.

 

Il giorno dopo mandai uno dei domestici a casa di zia Shalini con un enorme mazzo di fiori colti in una delle mie scorrerie in giardino e un biglietto di ringraziamenti. Bhalu era arrabbiatissimo, e così gli diedi dieci monete pregandolo di non dire nulla alla Signora, e il vecchio marpione mi fece un gran sorriso. Dopo quell’episodio ero nelle sue mani. Ma forse anche lui era nelle mie e in realtà eravamo complici, perché quando ospitava qualcuno Lili aumentava la paga della servitù, e la regola era che gli ospiti non dessero mance. Lui non protestò più con Lili per i suoi fiori, ma il primo di ogni mese, il giorno di paga, mi girava intorno salutandomi e sorridendo finché non gli davo qualche moneta. Con i primi soldi che gli diedi si comprò un paio di chappal nuovi, e ciabattando sulla ghiaia con quegli enormi sandali alla militare e le gambe nude, nodose e scure che sbucavano dai pantaloni corti color cachi era alquanto elegante, anche se ancora più simile di prima a una testuggine. Si capiva che avrebbe preferito girare scalzo, ma i chappal erano un simbolo di importanza. Bhalu era stato il giardiniere di un certo colonnello James a Madras, e da allora la casa del colonnello aveva rappresentato il suo standard di vita pukka, anche se credo si renda conto che il giardino della MacGregor House è enormemente superiore a qualunque altro giardino in cui abbia mai lavorato, il che potrebbe essere il motivo per cui deve sentirlo come qualcosa di suo, qualcosa che sta curando per l’onore e la gloria di James Sahib più che per quelli di Lili.

 

Mi sto perdendo in chiacchiere, vero, zia? Sto rinviando il momento in cui dovrò scrivere di quello che davvero vuoi sapere. Eppure queste non sono solo chiacchiere, perché le cose belle e felici non si possono isolare da quelle brutte e tristi. E io, capisci, allora provavo una crescente sensazione di gioia, qualunque cosa sentissero quelli che stavano a guardare in attesa.

Fu allora che per me Mayapore parve cambiare. Non era più la casa, la strada per il bazar dell’acquartieramento, quella per l’ospedale, l’ospedale, il maidan, il circolo. Ora si estendeva sull’altra riva del fiume e di conseguenza in ogni direzione, attraverso quella vasta pianura che un tempo osservavo dal balcone della mia camera da letto, mettendomi e togliendomi gli occhiali per eseguire quelli che Lili chiamava i miei esercizi per gli occhi. Mi sembrava che Mayapore si fosse ingrandita e che di contro mi avesse resa più piccola, che avesse come diviso la mia esistenza in tre parti. C’era la mia vita all’ospedale, che comprendeva anche il circolo, i ragazzi e le ragazze e tutti i divertimenti che in realtà non lo erano, che erano soltanto il modo più facile e meno impegnativo di passare il tempo, se però ignoravi il fatto che lo erano unicamente per la parte meno ammirevole della tua natura. C’era la mia vita alla MacGregor House, dove abitavo con zia Lili e frequentavo indiani e inglesi, quelli di loro che si sforzavano di collaborare. Ma era una frequentazione artificiale come la segregazione. Quello del circolo era un mondo chiassoso e convinto di sé. Quello della MacGregor House era silenzioso e deciso a mantenersi neutrale. Con Hari avevo cominciato ad avvertire finalmente un terreno solo mio, dove avrei potuto imparare a usare una voce tutta mia. Forse era per questo che mi pareva che Mayapore fosse diventata più grande e io più piccola: perché il mio rapporto con Hari (l’unica cosa che stava cominciando a farmi sentire di nuovo una persona) era vincolato, ristretto, compresso fino al punto in cui soltanto diventando minuscolo potevi infilartici dentro e rimetterti in piedi, imprigionato ma libero, sminuito da tutto ciò che incombeva da fuori ma non da dentro; ed è per questo che parlo di gioia.

In certi momenti, consapevole dello sforzo che bisognava fare per infilarsi in quello spazio minuscolo, ristretto e pericoloso, ne avevo paura, come la sera in cui Ronald Merrick si “dichiarò” e poi mi riaccompagnò alla MacGregor House, quando per un attimo, temendo di vedere lo spettro di Janet MacGregor, avrei voluto lanciarmi giù dalle scale e richiamarlo. Quella sera, la sera in cui lui mi propose di sposarlo e in cui rientrando a casa venni presa dal panico, era a metà giugno, e le piogge tardavano ad arrivare. Eravamo tutti esausti, sia nel fisico che nella mente. E questo probabilmente spiega le mie paure. E anche la sensazione che Ronald rappresentasse qualcosa che non capivo fino in fondo, ma di cui probabilmente mi sarei dovuta fidare. C’è ancora un peso terribile, nella mia mente, riguardo a Ronald. Mi sembra che allo stesso modo in cui tu e gli altri potreste sapere dove si trova Hari, ci siano cose su Ronald di cui nessuno è disposto a parlare di fronte a me. Penso molto spesso a lui. È come un’ombra scura al margine della mia esistenza.

Ha fatto qualcosa di particolarmente orribile a Hari, zia? Temo di sì. Ma nessuno lo dice, quanto meno non a me. E io non oso insistere troppo con le domande. Fui anch’io parte attiva della congiura per tenermi prigioniera nella MacGregor House dopo quella sera a Bibighar. Ne uscii solo due volte, la prima per fare visita a zia Shalini, che non mi volle ricevere, e la seconda il giorno prima che zia Lili mi conducesse a Pindi, quando tornai al Santuario per dire addio a sorella Ludmila. Anche lei aveva Ronald Merrick sulla coscienza. A quanto pare, non si era resa conto che io e lui ci conoscessimo più che di sfuggita, né che io potessi ignorare che era stato Ronald ad arrestare Hari il giorno in cui lo aveva trovato al Santuario. Ma allora io avevo troppa paura per approfondire la questione. Non mi fidavo di nessuno. Solo del mio silenzio, e di quello di Hari. Ma ricordavo che dopo Bibighar, nell’unica occasione in cui ci eravamo ritrovati brevemente uno di fronte all’altra, Ronald non era riuscito a guardarmi in faccia. Era accaduto quando il vicecommissario si era presentato con il giudice Menen e un giovane funzionario inglese di sottodivisione e insieme avevano svolto una sorta d’“inchiesta”, nella quale Ronald aveva testimoniato e le mie risposte avevano suscitato l’imbarazzo o forse addirittura la rabbia di tutti.

Prima di raccontarti cosa accadde davvero a Bibighar devo dire qualcosa su Ronald e anche su sorella Ludmila. Credo che Ronald mi notò davvero per la prima volta quel giorno sul maidan, durante l’esposizione della Settimana della Guerra; e che mi notò, come peraltro fecero molti altri inglesi, perché vide che mi avvicinavo a Hari e gli parlavo. Se aveva già messo gli occhi su Hari, sospettandolo di essere un potenziale sovversivo (nulla di più lontano dalla verità, ma anche lui aveva il suo lavoro da fare), probabilmente nel vedermi parlare con lui ragionò come un poliziotto, ma anche come un inglese che non voleva che una ragazza inglese si intrattenesse con il tipo “sbagliato” di indiano. Questo spiegherebbe il fatto che quella sera al circolo, appena mi vide, puntò dritto su di me e mi rivolse la parola, chiedendomi se mi fosse piaciuta la parata e dicendomi di avermi vista sul maidan, quando di norma ci scambiavamo solo un cenno di saluto, o al massimo lui mi offriva da bere se le circostanze glielo imponevano.

Probabilmente aveva pensato che sarebbe stato gentile avvertirmi, ma da poliziotto qual era non si sarebbe fatto scrupolo di vedermi come una possibile fonte di informazioni su Hari: ricordi la lettera in cui ti scrissi che Ronald non mi sembrava mai davvero sincero con nessuno? Prendeva molto sul serio il suo lavoro, e credo che sentisse di dover costantemente dimostrare il proprio valore, ragion per cui il risultato era che non faceva mai nulla in modo naturale, o spontaneo, o rilassato, o gioioso.

Mi chiedo fino a che punto, una volta compiuta la mossa di mostrarsi amichevole, di mettermi in guardia per il mio bene, avesse provato un’autentica, inaspettata attrazione per me come persona. Di sicuro, da quel giorno cominciò a rivolgermi le sue attenzioni. E sebbene al momento non lo gradissi, ora capisco che Ronald era diventato il mio nuovo punto di contatto col genere di mondo che rappresentava, quel piccolo mondo sciovinista, anche se nel suo caso le cifre distintive erano più sottili, erano gli Henry Moore e i Debussy. Se le sole costanti della mia vita erano Lili e la MacGregor House, le variabili erano Hari da una parte e Ronald dall’altra. Sembravano così distanti tra loro che non credo di aver mai nominato uno in presenza dell’altro. Ma in realtà non lo erano affatto. Per questo mi infuriai tanto, e mi sentii profondamente stupida, quando scoprii la verità, e cioè che erano stati, cosa, nemici?, fin da quel giorno al Santuario, quando Hari era stato schiaffeggiato e trascinato via sotto gli occhi di sorella Ludmila.

 

Vestiva come una di quelle suore della misericordia, con le cuffie di lino dalle enormi ali bianche. L’avevo vista una o due volte nel bazar dell’acquartieramento mentre camminava davanti a un ragazzo armato di bastone, reggendo una borsa di cuoio fissata con una catenella alla cintura. «E quella chi è?», avevo chiesto alla collega infermiera con cui mi trovavo. «È la russa pazza che raccoglie i morti», aveva risposto lei. «Si veste da suora, ma non lo è». Ma il mio era soltanto un interesse passeggero, non solo perché l’India ha un’abbondanza di eccentrici di entrambi i colori, ma anche perché era proprio in quel periodo che stavo passando la mia fase di infelicità, nella quale nulla di ciò che mi circondava mi piaceva. Qualche settimana dopo la rividi, e ne parlai con zia Lili. «Non fa male a nessuno», disse lei, «e Anna Klaus la stima e ogni tanto l’aiuta, ma a me fa venire i brividi, con quel suo continuo girare in cerca di gente in fin di vita».

La zia Lili detesta tutto ciò che è macabro o squallido, non è vero? Mi ha raccontato che da piccola, la prima volta che andò a Bombay e vide i quartieri poveri si mise a piangere. Penso che gli indiani ricchi e privilegiati come Lili provino una sorta di radicato senso di colpa, che nascondono sotto diversi strati di quella che può sembrare indifferenza poiché c’è davvero poco che possano fare individualmente per combattere orrore e povertà. Si iscrivono a opere di carità e fanno volontariato, ma probabilmente pensano che sia come cercare di fermare il corso di un fiume con una manciata di ramoscelli. E nel caso di Lili credo ci sia anche l’orrore della morte. Un giorno mi raccontò di quando a Parigi aveva visitato l’obitorio insieme a uno studente di medicina e dei brutti sogni che aveva continuato a fare, incubi in cui i cadaveri si drizzavano a sedere, tornavano a sdraiarsi e poi si rialzavano di nuovo: era questa la ragione per cui detestava quando Nello faceva partire i suoi orologi a cucù nella stanza dei cimeli della MacGregor House. La stanza in cui lui aveva messo sottovetro la vecchia pipa di radica che lo zio Henry gli aveva regalato per migliorare le sue imitazioni.

La feci visitare anche a Hari, la stanza dei cimeli, più o meno nel periodo in cui avevamo cominciato a capire che stavamo bene insieme e che quindi dovevamo accettare di non avere praticamente un posto in cui andare, a eccezione di casa sua e di quella di Lili. Bibighar era ancora di là da venire. La volta in cui lo portai nella stanza dei cimeli scherzavamo su tutto, ma era già presente anche la sensazione di dover imbrogliare, di doverci nascondere, di poter ottenere tempo e intimità solo a spese del nostro orgoglio comune. “Anche Hari e io siamo oggetti da esposizione”, pensai guardandomi intorno. “Potremmo benissimo essere qui, completi di piedistallo e targa con la scritta: ‘ESEMPLARI DI OPPOSTI INDO-BRITANNICI, CIRCA 1942. SI PREGA DI NON TOCCARE’”. A quel punto tutti quelli che ci guardavano nell’acquartieramento, per poi distogliere gli occhi non appena incrociavano i nostri, avrebbero potuto osservarci a piacimento. Credo che Hari stesse pensando più o meno la stessa cosa. Non saremmo mai più tornati in quella stanza. «Vieni, Hari», dissi. «Qui c’è odore di muffa e di morte». Allungai la mano senza pensarci, e a un tratto mi resi conto che, a eccezione di quando avevamo ballato e delle normali circostanze in cui magari salivamo o scendevamo da una tonga, non avevamo mai avuto alcun contatto fisico, né a livello amichevole né tanto meno in quanto uomo e donna. Per poco non ritrassi la mano, poiché più la tenevo tesa nel vuoto e più lui esitava a prenderla, più il gesto si caricava di significati. Non era inteso in quel senso: era solo un gesto naturale, affettuoso, amichevole. Finalmente lui la prese, e a quel punto avrei voluto che mi baciasse. Baciarmi sarebbe stato il solo modo di rendere giusto quel tenerci per mano. Tenerci per mano senza baciarci sembrava sbagliato perché era incompleto. Ma non lo sarebbe stato se lui avesse preso la mia mano l’istante in cui io gliel’avevo tesa. Poi uscimmo dalla stanza, e lui lasciò subito la presa. Mi sentii abbandonata, colta in fallo, lasciata sola ad affrontare qualcosa, come quella volta che a scuola avevo confessato una sciocchezza di cui diverse di noi erano colpevoli, ero stata l’unica a farlo e invece di uscirne come un’eroina avevo fatto la figura della stupida. Erano questi momenti con Hari, queste continue esperienze in cui mi ritrovavo emozionalmente appesa a un filo, che sommandosi tra loro a volte mi facevano pensare, come accadde sulle scale di casa la sera della proposta di Ronald Merrick, che forse il mio rapporto con Hari Kumar era tutto sbagliato... voglio dire, che me lo facevano pensare prima ancora che Ronald lo dicesse chiaro e tondo. E che andavano a formare quell’altra somma incompiuta che si traduceva nella domanda: “Ma lui cosa prova davvero per me? Per una ragazzona bianca in favore della quale non c’era molto da dire?”.

 

Poi arrivarono le piogge. Giunsero fresche e pulite, scatenate, indiscriminate. E cambiarono il giardino, Mayapore, l’intero paesaggio. Quell’orribile, funesta assenza di colori venne lavata via dal cielo. Mi svegliavo in piena notte, rabbrividendo per il calo della temperatura, e mi mettevo ad ascoltare il modo in cui la pioggia sferzava gli alberi, i meravigliosi brontolii e botti dei tuoni, guardando la stanza che veniva illuminata come da un’esplosione, con i mobili che a un tratto proiettavano ombre barocche, forme nere danzanti colte nel bel mezzo di un complesso movimento, un dettaglio delle segrete arti diaboliche a cui tornavano non appena la luce inaspettata si spegneva, per poi essere colte di nuovo sul fatto qualche istante dopo.

L’ultima sera della stagione secca ero a cena a Chillianwallah Bagh. Erano già due notti che il cielo lampeggiava e i tuoni rimbombavano in lontananza. Era la fine di giugno, una settimana o poco meno dopo la mia cena con Ronald Merrick, quando lui, sui gradini della MacGregor House, aveva detto: «A certe idee ci si deve abituare». Seduta con zia Shalini e Hari, quella sera vedevo quanto irreale fosse diventata la mia vita, poiché davanti a me non sembrava esserci alcun futuro che desiderassi e volessi fare mio. Perché? Allungavo una mano davanti a me, brancolando, e al tempo stesso tendevo l’altra indietro, aggrappandomi alle sicurezze di ciò che conoscevo e mi aspettavo. Sempre in tensione. Fingendo che la terra di mezzo fosse occupata, quando in realtà non lo era mai stata.

La tonga arrivò alle undici, e sulla via del ritorno la scorgemmo, illuminata dai lampi: le ampie ali bianche della cuffia, un uomo davanti a lei e uno dietro che reggeva quella che sembrava una pertica ma che in realtà era una barella arrotolata. Poiché non volevo che la serata finisse lì avevo suggerito di passare dal bazar e davanti al tempio, e Hari aveva acconsentito, facendomi sentire in colpa al pensiero delle rupie in più che il ragazzo avrebbe preteso; poiché a quel punto avevo inquadrato Hari e sapevo che non aveva soldi da gettare al vento. D’altro canto, non avrei osato offrirgli anche una sola anna. La sera che eravamo andati al ristorante cinese avevo detto senza riflettere: «Ordiniamo un chop suey e dividiamo il conto», e a un tratto la sua espressione si era chiusa come quella di Ronald Merrick al mio rifiuto. Il ristorante cinese era stata un’esperienza tutt’altro che piacevole, tra l’apparente insulto che avevo recato a Hari suggerendo di dividere il conto e quello che il proprietario aveva recato a entrambi quando gli aveva impedito di seguirmi al primo piano.

«È la pazza russa che raccoglie cadaveri, giusto?», dissi guardandola svoltare in una strada laterale e allontanarsi. Hari rispose che non era pazza e che non gli sembrava fosse russa. «Noi la chiamiamo sorella Ludmila», aggiunse. Aveva scritto un articolo sul Santuario per la «Gazette», ma il suo direttore non aveva voluto pubblicarlo poiché suggeriva che gli inglesi lasciassero morire la gente per strada. E così Hari aveva modificato il pezzo, poiché non era quello che aveva voluto dire. Lo aveva modificato in modo da mettere in chiaro che la morte di quella gente non importava a nessuno, nemmeno a quelli che stavano morendo, se non a sorella Ludmila. Ma il direttore non lo aveva pubblicato comunque. Secondo lui, sorella Ludmila era un personaggio ridicolo. Chiesi a Hari se potessi visitare il Santuario. Lui disse che mi ci avrebbe portato, se davvero lo volevo, ma che non me la sarei dovuta prendere se lei mi avesse trattato come una semplice ficcanaso. Viveva in una solitudine quasi totale, ed era davvero interessata solo a coloro che erano in fin di vita e non avevano un letto in cui morire, ma gestiva anche un ambulatorio serale per quelli che non potevano permettersi di lasciare il lavoro per recarsi nei centri diurni e certi giorni della settimana distribuiva gratuitamente ciotole di riso, soprattutto a madri e bambini. Gli chiesi come l’avesse conosciuta e lui rispose semplicemente: «Per caso».

 

Sorella Ludmila aveva un’immagine intagliata nel legno di Shiva che danza in un cerchio di fuoco cosmico e un passo biblico incorniciato: «Colui che semina poco raccoglierà poco, e chi semina in abbondanza raccoglierà in abbondanza. Ciascuno dia quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, poiché Dio ama chi dona con gioia». Sembrava esserci un collegamento tra il testo cristiano e l’immagine indù, perché quello Shiva sorrideva. E la posa dinoccolata, il modo in cui allarga le braccia e piega le gambe danno anch’essi un’idea di gioia, giusto? L’unica cosa immobile è il piede destro, poiché perfino la gamba destra è piegata e sembra pronta al balzo. È il piede destro a fare pressione sulla piccola figura del demone acquattato, ed è questo il motivo per cui deve restare immobile e ben saldo. La gamba sinistra è sollevata, la prima coppia di braccia sta gesticolando in modo cauto ma allettante e la seconda regge il cerchio di fiamme, tenendolo a distanza ma facendo sì che continui a bruciare. E naturalmente il dio è alato, il che dà all’immagine un aspetto aereo e leggero, come se potessi tuffarti nel buio insieme a lui senza che ti accada nulla di male.

Quelle due decorazioni, Shiva e il passo biblico, erano le uniche a spezzare il bianco della sua “cella”. Al nostro ultimo incontro mi donò la frase, dicendo che la conosceva comunque a memoria. Ma ho provato sempre troppo imbarazzo per mostrartela, e in ogni caso non penso di meritarla. È nella mia valigia grande, quella con le cinghie.

Era una donna straordinaria. Quando scende la sera me la dipingo mentre si prepara per una di quelle sue spedizioni notturne nei vicoli, nelle tenebre delle strade senza uscita, nel terreno abbandonato tra il tempio e il ponte di Bibighar. Cominciai a recarmi al Santuario una sera alla settimana, dopo il turno all’ospedale, e non solo perché era un altro luogo in cui Hari e io potevamo incontrarci, ma anche per dare una mano all’ambulatorio. Una volta le chiesi di accompagnarla in una delle sue missioni notturne. Lei rise e disse: «No, quelle sono soltanto per coloro che non hanno altro da offrire». Credetti che si stesse riferendo ai miei soldi, ma lei rispose che di soldi ne aveva a sufficienza, più che a sufficienza, ma promise che, se fosse giunto il momento in cui non ne aveva più e io avessi ancora voluto aiutarla, avrei potuto farlo.

Ci affezionammo a vicenda. Forse il primo motivo per cui provai simpatia per lei era che voleva bene a Hari e non vedeva niente di male nei nostri incontri al Santuario. Ci lasciava sedere in ufficio o in camera sua. Appena calava il buio tornavamo insieme in bicicletta fino alla MacGregor House, ma in quelle occasioni era raro che Hari accettasse di entrare. Quando sapevo che sarei andata al Santuario, mi recavo all’ospedale in bicicletta e uscivo prima per evitare l’auto o la camionetta che Mr Merrick insisteva a mandare per me. Lo stesso succedeva di sera dopo il lavoro. Lasciavo un messaggio per l’autista, dicendo che ero uscita o che mi sarei trattenuta fino a tardi. Ma a volte gli concedevo di accompagnarmi a casa, dopodiché prendevo la bicicletta e andavo al Santuario. Non volevo che in ospedale si sapesse che davo una mano all’ambulatorio di sorella Ludmila. Non lo facevo così spesso, ma immagino che fosse contro le regole o qualcosa di simile. Una sera vi incontrai Anna Klaus e le dissi: «Non faccia la spia!». Lei rise e disse che probabilmente lo si sapeva già, perché in un posto come Mayapore era quasi impossibile tenere segreto qualcosa.

Ma non tutti quelli a cui sarebbe piaciuto saperlo ne erano al corrente. Mi riferisco a quelli sulla nostra sponda del fiume, come ad esempio Ronald Merrick. A lui lo nascosi perché era la parte della mia vita che non condividevo volentieri con nessuno. Ronald faceva parte di un’altra vita. Lili di un’altra ancora. Non sapevo di avere diviso la mia esistenza in tutti quei compartimenti stagni; non a livello conscio, quanto meno. Inconsciamente sì, lo avvertivo, e mi rendevo conto dei sotterfugi che ciò comportava, ma non al punto da usare la parola sotterfugi, quanto meno fino alla sera in cui visitai il tempio insieme a Hari, scoprii la parte che aveva avuto Ronald nel suo arresto, sentendo di essere stata ingannata da tutti, e poi mi resi conto che anch’io, a mia volta, avevo ingannato tutti, e a un tratto ebbi paura, e riconobbi di averla sempre avuta, la paura comune a chiunque di esporsi troppo e rischiare di essere tagliati fuori... il che era ironico, non trovi?, poiché mi ero sempre illusa che fosse quello che avremmo dovuto fare tutti e che io stessa lo stessi facendo. Ma se una parte di me si era esposta, l’altra era rimasta saldamente protetta.

Probabilmente pensavo che tutto ciò che facevo fosse una sorta di avventura. Una serata alla MacGregor House con Lili e amici “assortiti”, una al circolo con Ronald, i ragazzi e le ragazze, un’oretta o due all’ambulatorio di sorella Ludmila, una domenica mattina a passeggio con Hari nei giardini di Bibighar. Ma avventure lo erano, giusto?, poiché ciascuna avveniva, involontariamente ma a tutti gli effetti, a dispetto delle altre. Stavo infrangendo ogni regola esistente. La cosa curiosa è che la gente non poteva essere certa di quale fosse la regola che avevo infranto, in quale modo l’avessi fatto e quando, poiché era talmente prigioniera delle proprie, di regole, da potermi seguire solo fino al punto di vedere che ne avevo violata una e poi me n’ero andata, ero diventata momentaneamente invisibile, in modo che quando poi tornavo a quel particolare ovile non si sapeva abbastanza di cosa avessi fatto o dove fossi stata da muovermi specifiche accuse, al di là di quella generale di essere... di essere cosa? Instabile? In cerca di guai? Non allineata? Il che era già abbastanza grave, naturalmente, ma alla gente piace poter definire l’instabilità e il dissenso, e quando non ci riesce la sua stessa paura di ciò che tu potresti rappresentare la spinge a compiere un ulteriore sforzo per assicurarsi la tua fedeltà.

Per farsi respingere, che è probabilmente uno dei modi più facili di lasciare il segno, bisogna uscirsene con qualcosa che la gente possa considerare direttamente e violentemente opposto a quello in cui pensa di credere. Per farsi accettare bisogna dare l’impressione di sostenerlo. Ma probabilmente essere né l’una né l’altra cosa è imperdonabile.

Ma capisci, zia, per me era onestamente difficile. Provavo una sincera simpatia per molti dei ragazzi e delle ragazze che frequentavo al circolo. E anche per Ronald, quando arrivava vicino, per quanto gli fosse possibile, a comportarsi in modo spontaneo e naturale. E perfino quando diventava rigido e “ufficiale”, poiché credevo di capire i motivi di quei suoi atteggiamenti. E volevo bene a Lili, anche nei suoi momenti più altezzosi, quando veniva fuori la vecchia principessa Rajput e sembrava che si chiudesse il mantello davanti al petto. Il sari, mi correggo. Mi piaceva ridere con gli inglesi finché i loro lazzi non diventavano maldestri, volgari e aggressivi, e mi piaceva il modo semplice, quasi infantile di scherzare degli indiani, e la loro serietà finché non diventava affettata e scontrosa, un’imitazione dei malumori europei. A Hari non posso associare un’espressione come “mi piaceva”, poiché era irreparabilmente gravata dall’effetto fisico che aveva su di me, che trasformava “piacere” in “amare” ma non mi impediva per questo di accorgermi della sua testardaggine e della sua suscettibilità. Tutto questo sulla carta mi fa sembrare un paradigma di virtuosa apertura mentale, finché non si ricorda l’orribile disastro che alla fine ho combinato.

 

Odio l’impressione automatica che ci facciamo di una cosa, un luogo o una persona e che ci fa dire, ad esempio, «Questo è indiano, questo è inglese». La prima volta che vidi Bibighar pensai: “Com’è indiano!”. Non come avrei giudicato indiano un luogo prima di arrivare qui, ma come mi pareva allora. Ma quando dici una cosa simile, in un momento simile, penso che tu stia rispondendo all’attrattiva di un luogo che vedi come estraneo in superficie ma di cui nel profondo riconosci qualcosa di generale e universale. Vorrei trovare le parole giuste per esprimere quello che intendo. Il Taj Mahal è “tipicamente indiano”, giusto? Qualcosa di perfettamente riconducibile all’Impero moghul. Ma a suscitare il tuo trasporto emotivo è la percezione dell’adorazione di un uomo per sua moglie, che non è né indiana né non-indiana, ma semplicemente un’emozione umana espressa in questo caso in modo “indiano”. Ecco, questa era la sensazione che provavo a Bibighar. Era un luogo in cui avvertivi che qualcosa a un certo punto era andato storto, qualcosa che non era stato ancora raddrizzato ma che, sapendo come, si sarebbe potuto risolvere. È il genere di cosa che si potrebbe immaginare di qualsiasi luogo, ma immaginandola lì, e sentendola ancora viva, mi dissi “Com’è indiano!” perché era il primo posto che a Mayapore mi colpiva a quel modo, e la sorpresa di esserne colpita mi faceva pensare di aver trovato qualcosa di tipico, quando in realtà non era tipico di nulla se non delle azioni e dei desideri umani che lasciano il segno nel modo più inaspettato e a volte agghiacciante.

Di solito Hari e io ci andavamo la domenica mattina, ma un tardo pomeriggio vi cercammo riparo dalla pioggia, svoltando in bicicletta dalla strada, salendo di corsa i gradini che separavano un livello del vecchio giardino dall’altro e raggiungendo il “padiglione”, il mosaico coperto dalla tettoia. Restammo lì ad aspettare, e io fumai una sigaretta. Era sabato, e stavamo andando da zia Shalini per il tè. Mi ero presa una mezza giornata libera dall’ospedale ed ero passata dal bazar dell’acquartieramento per vedere se Subhas Chand, l’omino che gestiva una cabina fotografica nella farmacia di Gulab Singh, avesse sviluppato le terribili fotografie che mi ero fatta fare per il tuo compleanno. Avevo visto Hari uscire dagli uffici della «Gazette» e l’avevo chiamato. «Aiutami a scegliere una foto per la zia Ethel», gli avevo detto. «Se sono decenti, potrai tenerne una anche tu». E così eravamo andati insieme da Subhas Chand e avevamo visto i provini. «Oddio», avevo esclamato, ma Hari le aveva trovate discrete e mi aveva aiutata a scegliere quella da stampare per te. Usciti da lì, mi ero fatta accompagnare nel negozio di Darwaza Chand per decidere la lunghezza del vestito. A quell’ora c’era pochissima gente in giro per i negozi, ma quelli che c’erano ci rivolgevano le solite occhiate sgradevoli. A un certo punto avevo controllato l’ora e, vedendo che erano le quattro, avevo invitato Hari a bere un tè alla MacGregor House, ma lui aveva rilanciato: «No, vieni a salutare zia Shalini». Era dalla sera prima dell’arrivo delle piogge che non andavo a casa sua. Mi piacerebbe, avevo risposto, ma prima dovrei cambiarmi. «Perché mai?», aveva chiesto lui. «A meno che tu non voglia aggiornare Lady Chatterjee sui tuoi movimenti». Ma Lili era alla riunione del comitato dell’ospedale segregato, e non c’era alcun bisogno di informare Raju, e così eravamo ripartiti verso Chillianwallah Bagh lungo la strada del ponte di Bibighar. A Hari non piaceva prendere il ponte di Mandir Gate, perché in quel modo avremmo dovuto attraversare il bazar. E così la pioggia ci aveva sorpresi proprio mentre passavamo da Bibighar. Veniva giù a dirotto, come è solita fare, e ci eravamo rifugiati sotto la tettoia sperando che non durasse più di una ventina di minuti. Invece si era trasformata in una vera tempesta e non voleva saperne di smettere.

Gli rivelai le mie sensazioni riguardo a quel luogo. Era strano, stare seduti su quel pavimento a mosaico, gridando per farci sentire e poi sprofondando nel silenzio in attesa che calasse il frastuono del temporale. Gli proposi di farsi fotografare anche lui, ma rispose che veniva malissimo. «Non dire sciocchezze», ribattei. «E le foto che mi ha mostrato zia Shalini?». «A quei tempi ero più giovane!», protestò. Gli chiesi se fosse ancora in contatto con quei suoi amici inglesi, i Lindsey, ma lui non rispose, limitandosi a scrollare le spalle. Aveva sempre reagito male ogni volta che zia Shalini li nominava. Pensavo che avessero smesso di scrivergli e lui ne fosse rimasto ferito, ma poi qualcosa che sorella Ludmila mi disse l’ultima volta che la vidi mi diede l’impressione che ci fosse sotto dell’altro e che questo riguardasse il giovane Lindsey, che zia Shalini descriveva sempre come il miglior amico di Hari “in patria”.

Ma tornando a noi, eravamo bloccati a Bibighar e stava cominciando a fare buio. Era ormai tardi per il tè, e sapevo di dover ritornare a casa per potermi cambiare, perché zia Lili aveva invitato a cena il giudice e sua moglie per festeggiare le dimissioni di Mrs Menen dalla casa di cura. Avevo i brividi, e temevo di essermi presa un raffreddore. Avrei voluto che lui mi riscaldasse. Un ragazzo inglese al suo posto mi avrebbe abbracciata, suppongo, e noi invece eravamo seduti ad almeno mezzo metro di distanza uno dall’altra. Ero inquieta. Avrei voluto prendergli la mano e portarmela al viso.

Quando ce ne andammo, quella sera, era come se avessimo litigato, se avessimo avuto un bisticcio amoroso. Ma non eravamo amanti, e non c’era stato alcun bisticcio. E di nuovo pensai: “È sbagliato, sbagliato perché così non funziona”. Hari mi accompagnò a casa, e malgrado il giorno dopo fosse domenica nessuno dei due propose di incontrarci. Rientrai alla MacGregor House pochi minuti prima di zia Lili, ed ero immersa nella vasca quando la sentii chiamare Raju dall’ingresso. Fu come udire un suono familiare dopo una lunga assenza. Per più di una settimana non rividi Hari. Passai una serata o due al circolo, una con Ronald e un’altra coi ragazzi e le ragazze, e il resto del tempo con Lili. Ma non facevo che pensare a lui. Avrei voluto vederlo, ma non facevo nulla perché accadesse. Era come quando da bambina siedi sulla spiaggia guardando il mare, con una gran voglia di entrare in acqua ma senza il coraggio di farlo. Sì, prometti a te stessa, quando questa nuvola sarà passata e il sole sarà tornato fuori, lo farò. Ma poi la nube passa, il sole è caldo e accogliente, ma il mare sembra gelido.

Mi dicevo che il problema era che non avevamo più luoghi in cui andare dove il rischio di essere guardati male e provocare scenate potesse essere minimizzato. Al circolo, di sicuro, le donne erano diventate glaciali. E fu proprio quell’arrancare alla ricerca di nuovi luoghi d’incontro che mi fece pensare al tempio di Tirupati.

Chiesi a zia Lili se gli inglesi vi fossero ammessi. Disse che non ne aveva idea, ma immaginava che nessuno lo avesse mai chiesto, visto che Mayapore non era una meta turistica e il tempio non era famoso; ne avrebbe però parlato con uno degli insegnanti delle superiori o del Technical College, poiché la cosa più probabile era che, nel caso un inglese l’avesse mai visitato, fosse stato un professore o qualcuno interessato all’arte e alla cultura. Tuttavia, proseguì, non era sicura che una ragazza inglese ci potesse entrare. Le dissi di non preoccuparsi, che l’avrei chiesto a Hari. «Sì, suppongo che potresti fare così», rispose lei, ma vedendo che sembrava sul punto di obiettare qualcosa su Hari sviai il discorso sulla mia giornata all’ospedale. Poi scrissi un biglietto a Hari, dicendo soltanto: «Mi piacerebbe visitare l’interno del tempio di Tirupati. Possiamo farlo insieme? Meglio di sera, perché al buio è più emozionante».

Un paio di giorni dopo Hari mi chiamò dagli uffici della «Gazette», visto che a casa di zia Shalini non c’era il telefono. Stavo quasi per uscire e recarmi all’ospedale. Mi disse che, se davvero desideravo visitare il tempio, l’avrebbe chiesto a suo zio. Suo zio era il genere di persona che dava una quantità di soldi ai sacerdoti nella speranza di comprarsi i meriti che non aveva tempo di acquisire in un altro modo. O così almeno lo descriveva Hari. Risposi che lo desideravo molto, e che se fosse riuscito a organizzare la visita per sabato sera avremmo potuto cenare insieme alla MacGregor House, andare al tempio e poi tornare a casa e ascoltare qualche disco. Sentendolo un po’ freddo, mi venne in mente che magari avevo sbagliato a chiedergli di portarmi in un tempio. Ma alla fine ci mettemmo d’accordo per quel sabato, previa conferma da parte sua, poiché sapevo che quella sera Lili sarebbe andata a giocare a bridge. Nessuno dei due accennò alla possibilità di vederci prima, anche se immaginavo che martedì si sarebbe fatto vedere al Santuario. Invece non venne, e fino a venerdì sera non ebbi più sue notizie.

Al circolo però vidi Ronald e mi trattenni a cena con lui. A fine serata mi accompagnò in auto, e quando fummo davanti alla MacGregor House mi chiese se quel sabato sera volessi cenare con lui. Risposi che non potevo, perché speravo di visitare il tempio. Sul portico di casa non c’era alcun segno di Raju, ma Ronald non scese dall’auto per aprirmi la portiera. «Con chi ci andrà?», domandò invece. «Con Mr Kumar?». Dopo che ebbi ammesso di sì restò in silenzio per qualche istante, poi venne fuori con quello che, disse, aveva intenzione di dirmi già da tempo, e cioè che la gente aveva cominciato a parlare del fatto che frequentavo un indiano, il che era sempre rischioso specialmente di questi tempi, soprattutto quando l’individuo in questione «non aveva una buona reputazione» e «cercava di approfittare del fatto di avere vissuto per qualche tempo in Inghilterra», cosa che sembrava credere lo avesse «trasformato in un inglese».

«Sa cosa provo per lei», soggiunse a quel punto. «È per questo motivo che non le ho detto nulla finora. Ma è mio dovere metterla in guardia contro questa relazione con Mr Kumar».

Fu allora che gli risi in faccia e dissi: «Oh, la smetta di comportarsi da poliziotto».

«Be’, in parte riguarda anche la polizia», disse lui. «Mr Kumar è stato un sospettato, e lo è tuttora, ma ovviamente questo lo sa già».

Ribattei che non sapevo nulla e che non ero interessata a saperlo, perché Hari l’avevo conosciuto a una serata alla MacGregor House, e se Lili lo considerava degno di essere invitato a casa sua, questo mi bastava. Dissi che mi sarebbe piaciuto se la gente avesse smesso di dirmi chi potevo o non potevo considerare mio amico, e che personalmente non mi interessava di che colore fosse una persona, e che era evidente che fosse soltanto il colore della pelle di Hari, il fatto che fosse un indiano, a infastidire la gente.

«È il trucco più vecchio del mondo, dire che il colore non ha importanza», obiettò Ronald. «Importa eccome. È una questione basilare».

Feci per scendere dall’auto. Lui cercò di fermarmi e mi prese la mano. «Mi sono espresso male», disse. «Ma non posso farci niente. Al solo pensiero mi viene il voltastomaco».

Non so perché mi facesse pena. Forse per la sua onestà. Era come quella di un bambino, la tipica egocentrica sincerità infantile. Noi la chiamiamo innocenza. Ma è anche ignoranza e crudeltà. «Non si preoccupi, Ronald», dissi. «La capisco».

Lui lasciò la presa come se il mio braccio l’avesse scottato. Chiusi la portiera e lo ringraziai per la cena e il passaggio, ma a quanto pare era la cosa sbagliata da dire. In realtà non esisteva una cosa giusta da dire. Lui ripartì e io entrai in casa.

 

Venerdì sera Hari mi fece recapitare un biglietto in cui diceva che la nostra visita al tempio era prevista per la sera dopo tra le nove e mezza e le dieci e mezza. Rimandai indietro il ragazzo con la risposta, invitandolo per le sette e mezza, con l’idea di cenare alle otto.

Sabato sera si presentò puntualissimo, come per farsi perdonare gli errori del passato. Arrivò in una tonga a pedali, il che spiegava la puntualità ma probabilmente voleva anche sottolineare la differenza tra la sua vita e la mia. E in qualche modo, quella differenza divenne il tema della serata. Hari stava cercando deliberatamente di allontanarmi, ne sono certa. Tanto per cominciare, aveva ripreso a fumare, sigarette indiane diverse dai bidi ma puzzolenti e alla lunga fastidiose. Ne provai una ma non mi piacque per niente, e così proseguimmo fumando ciascuno le sue. Hari aveva anche portato un paio di dischi, un regalo per me. Avrei voluto suonarli subito ma lui non volle; lo faremo al ritorno dal tempio, disse controllando l’ora. Malgrado fossero solo le sette e tre quarti, suggerì di cenare. «Non vuoi un altro drink?», gli chiesi. Lui rispose di no ma disse che mi avrebbe aspettato, il che significava che in realtà non voleva, ragione per cui dissi a Raju di avvertire la cuoca che avremmo cenato subito e ci spostammo in sala da pranzo. Appena entrati, Hari si lamentò perché i ventilatori facevano troppa aria. Dissi a Raju di metterli a metà regime, e presto cominciò a fare un gran caldo. Quando arrivò il cibo Hari ignorò le posate e prese a raccoglierlo dal piatto con pezzi di chapati, e io lo imitai. A un certo punto gridò a Raju: «Ragazzo, porta l’acqua», e io scoppiai a ridere poiché mi rammentò di quella volta a Delhi in cui tu e io ci eravamo sedute accanto a una famiglia di indiani ricchi e io ero rimasta sconvolta dal modo apparentemente sgarbato in cui il capofamiglia si rivolgeva al cameriere, «Ragazzo porta questo, ragazzo, porta quello», ma tu mi avevi fatto notare che era la traduzione letterale del classico «pani lao» rivolto ai camerieri dai pukka sahib. Credevo che Hari si stesse divertendo alle spalle dei borghesi indiani che parlavano inglese, e mi domandai se avesse bevuto prima di venire. Al termine della cena, le nostre bocche e le nostre dita erano luride. Raju, che si era accorto di quello che stava accadendo anche se non ne capiva il senso, portò tovaglioli e ciotole piene d’acqua tiepida per pulirci. Mi aspettavo quasi che Hari ruttasse e chiedesse uno stuzzicadenti. A suo modo era un’imitazione perfetta. Di solito sorrideva a Raju, ma quella sera, a parte quando gli ordinava qualcosa, si comportava come se non esistesse. Cominciai a chiedermi se questo gli indiani lo avessero imparato dagli inglesi, o se invece risalisse ai tempi in cui la servitù era trattata malissimo ovunque e fosse stato tramandato fino all’impero da sahib e memsahib e indiani moderni che volevano fare i signori.

L’altra cosa che Hari stava facendo, naturalmente, era comportarsi come un indiano di quel tipo, molto educato in superficie ma egoista e aggressivo appena sotto, sempre pronto a ordinare che tutto venisse organizzato a suo piacimento ma non necessariamente a quello altrui: vedi l’interruzione dell’aperitivo e l’anticipo della cena, e ora anche l’anticipo della visita al tempio, che alla fine si trasformò in un posticipo, dato che all’ultimo momento Hari cambiò idea e disse che forse avremmo fatto meglio ad ascoltare i dischi che aveva comprato per entrare nello spirito giusto, un curioso riferimento a In the Mood che mi rese improvvisamente guardinga, consapevole che il suo mood era decisamente più rabbioso che divertito.

E anche l’ascolto di quei dischi divenne a causa sua una sorta di tipica farsa indiana moderna. Disse a Raju di portare il grammofono, ma poi lo spinse via quando si trattò di caricarlo, spedendolo a cercare le puntine, che in realtà erano già nel loro apposito scomparto. Poi graffiò deliberatamente il primo disco fingendosi maldestro e fece mostra di non notare il terribile clac clac che la puntina faceva ogni volta che passava sul solco. In più aveva scelto una musica indiana terribilmente difficile, un raga della sera che andava avanti all’infinito. Ma quello che non aveva previsto era che mi sarebbe istintivamente piaciuto. Quando se ne accorse, cambiò il disco prima che arrivasse alla fine e ne mise su un altro, che mi emozionò e mi commosse ancora più del primo. La cosa strana era che si capiva che questo lo faceva imbufalire, e nel vedere ciò mi resi conto che l’idea che fosse tutto uno scherzo alle mie spalle cominciò a fare acqua da tutte le parti. A un tratto mi sentii smarrita, poiché compresi che a modo suo stava cercando di scoraggiarmi come desiderava Ronald e chiunque altro, e che mi voleva abbastanza bene da credere che ciò che lui detestava (la musica, il fatto di cenare con le mani) l’avrei odiato anch’io. La scoperta che non lo odiavo affatto, ma che anzi mi piaceva, o quanto meno non mi dispiaceva, apriva un altro abisso tra noi, un abisso per cui non c’era spiegazione, poiché io ero bianca e lui nero, e il mio apprezzamento per tutto ciò che lui odiava, o che non aveva mai avuto la pazienza o la voglia di imparare o reimparare ad amare, faceva sembrare falso anche il colore della sua pelle, come il trucco di un attore.

Lasciò finire il secondo disco, e a quel punto fui io ad assumere il controllo. «Ci conviene andare», dissi; poi chiamai Raju e mi feci portare il foulard. Mi ero fatta l’idea che per entrare nel tempio mi sarei dovuta coprire il capo. Hari si era munito di ombrello nell’eventualità che si fosse messo a piovere mentre eravamo allo scoperto. Durante il tragitto fino al tempio, a bordo della tonga a pedali, ci scambiammo a malapena qualche parola. Era la prima volta che salivo su una tonga a pedali. Per trasportare due persone, il povero ragazzo doveva pedalare in piedi, caricando il peso prima su un pedale e poi sull’altro. Ma mi piaceva più delle tonga a cavallo, poiché almeno eravamo rivolti nella direzione di marcia. Ogni volta che prendo una tonga a cavallo, essere rivolta all’indietro (suppongo lo si faccia per non sentire il tanfo dei peti del cavallo) mi fa sempre pensare a un desiderio di trattenersi, di non volere che le cose scompaiano. Su quella tonga a pedali provavo la sensazione opposta, quella di affrontare la strada davanti a me, di conoscerla meglio, di non avere paura di uscire.

 

All’ingresso del tempio c’era un uomo in attesa, un servitore che conosceva qualche parola di inglese. Ci togliemmo le scarpe sotto l’arcata dell’ingresso principale, e Hari consegnò il denaro che suo zio gli aveva dato da versare. Non riuscii a vedere quant’era, ma a giudicare dalle attenzioni che ricevemmo doveva essere una cifra notevole, più di quanto Hari avesse mai ottenuto da suo zio.

Be’, ne hai visitati anche tu, di templi. Non è strano che, anche con tutto il frastuono che c’è all’esterno, entrarvi sia come ritrovarsi tagliati fuori dal mondo, non in un luogo di quiete ma in un angolo isolato, riservato a un’attività umana che non ha bisogno di altre attività umane per funzionare? Le chiese possiedono lo stesso silenzio, ma di solito è perché sono vuote. Il tempio non era né silenzioso né vuoto. Ma era isolato da tutto. Una volta che passavi sotto quell’arcata, entravi nell’idea di solitudine. Ero lieta di avere accanto Hari, poiché ero intimorita a fior di pelle, anche se dentro di me non avevo paura. Rimasi sbalordita alla vista degli uomini e delle donne accovacciati sotto gli alberi in cortile nella tipica posizione dei contadini indiani, in equilibrio sulle cosce con entrambe le braccia tese in avanti e appoggiate sulle ginocchia piegate e il sedere a sfiorare il terreno. Vidi che stavano chiacchierando, e in un primo momento ne rimasi sconcertata; ma poi ricordai che il vero tempio era il santuario al centro del cortile, e che la parte esterna era uguale a quella di una chiesa, dove la domenica mattina i fedeli si ritrovano a conversare dopo la messa.

Lungo le mura del cortile c’erano i sacrari dedicati ai vari aspetti delle divinità indù. Alcune erano deste e illuminate, altre dormivano al buio. In quelle figure simili a bambole c’è un’ombra di quella che i puritani chiamano la pacchianeria cattolica, non trovi? Le figure del tempio sembravano rifletterla, ma in modo consapevole, quasi stessero sottolineando una morale: l’assurdità del bisogno che i poveri e gli ignoranti hanno delle immagini. «La guida vuole sapere se vogliamo fare puja al Signore Venkataswara», disse Hari.

Il sancta sanctorum! Ero emozionata. Non avevo previsto di esservi ammessa, ed ero profondamente consapevole della straordinarietà di quella concessione. Di tanto in tanto, il suono di una campanella all’ingresso del santuario centrale ti faceva sobbalzare. C’erano uomini e donne in attesa di entrare. La nostra guida si fece strada con la forza per farci passare avanti, cosa che non mi piacque affatto. Parlò con un sacerdote, che rimase immobile a guardarci, poi si avvicinò a noi e disse qualcosa di lungo e complicato a Hari, il quale, con mia sorpresa, parve capirlo. Quando lo sentii rispondere, mi resi conto che aveva imparato la lingua molto meglio di quanto volesse dare a intendere e che soltanto lì nel tempio non potesse continuare a fingere. Si voltò verso di me e disse: «Devo suonare la campanella per avvertire il dio che siamo qui. Quando l’avrò fatto, fingi di pregare. Lo sa il cielo in cosa ci stiamo imbarcando».

Mi coprii la testa col foulard. Il sacerdote continuava a guardarci. La campanella pendeva da una catena fissata al tetto del santuario in cima ai gradini. Potevo scorgere l’interno del tempio, uno stretto passaggio che conduceva a una grotta illuminata e a un idolo dalla faccia nera con vesti dorate e ornamenti argentati. Hari tese il braccio verso l’alto e tirò la cordicella del batacchio, poi giunse le mani. Io lo imitai, chiusi gli occhi e attesi finché lo udii dire: «Entriamo».

Mi precedette all’interno. Nel passaggio c’era una barricata formata da comuni tubi di acciaio. Ci accomodammo insieme ad altri come davanti alla balaustra della comunione, con la differenza che non ci inginocchiammo e che le sbarre formavano un rettangolo con noi all’esterno e all’interno lo spazio in cui il sacerdote sarebbe disceso dalla piccola grotta. Mentre noi ci sistemavamo lui rimase in piedi accanto alla grotta, poi si avvicinò con un calice dorato. Noi tendemmo le mani come per ricevere l’ostia, e lui vi versò sopra quella che sembrava acqua. Lo fece prima con gli indiani, per assicurarsi che sapessimo cosa fare. Ci portammo il liquido alle labbra. Aveva un sapore dolceamaro e bruciava leggermente. Forse perché avevamo le labbra secche. Dopo aver portato le mani alla bocca dovemmo passarcele sopra la testa, quasi ci stessimo facendo il segno della croce. A quel punto il sacerdote tornò con una coppa d’oro, una sorta di bacinella, e reggendocela sopra il capo intonò una preghiera per ciascuno di noi. Quando ebbe finito posò la bacinella su un vassoio dorato che aveva con sé. Lungo il bordo del vassoio c’erano alcuni mucchietti di polvere colorata e dei petali. Il sacerdote immerse il dito nella polvere e tracciò un segno sulla fronte a ognuno di noi. Poi prese i petali, che erano di rosa e formavano una piccola collana, e me li mise al collo. L’intera cerimonia non sembrò durare più di un paio di secondi. Uscendo, Hari mise altri soldi su un vassoio retto da un altro sacerdote sulla soglia del tempio.

Durante la puja non avevo provato niente. Ma all’uscita le labbra mi bruciavano ancora e mi sembrava che quell’odore dolceamaro fosse dappertutto. Sospettavo che ci avessero fatto bere urina di mucca. Ci fissavano tutti. Ma mi sentivo protetta dalla loro ostilità, sempre che fosse ostilità e non semplice curiosità, protetta dal segno sulla fronte e dalla collanina di petali rossi. Li ho ancora con me, zia. Sono in valigia, in una busta di carta bianca, insieme alla frase biblica di sorella Ludmila. Ormai sono diventati secchi e marroni. Il più piccolo alito di vento li ridurrebbe in frammenti.

C’era un’ultima cosa da fare, o meglio da vedere: l’immagine del Vishnu dormiente. Il Signore Venkataswara, la divinità del tempio, è una manifestazione di Vishnu, anche se la figura nera, dorata e argentata mi era parsa lontana da quella di un protettore. Il Vishnu dormiente aveva una grotta tutta per sé, dietro il santuario principale. Era stata scavata nel muro esterno. Bisognava entrarci e girare un angolo prima di trovare il dio addormentato sul suo letto di pietra. L’ingresso era consentito solo a quattro o cinque visitatori per volta. L’interno della grotta era fresco, illuminato da lampade a olio, e la statua del dio era scioccante. Ti aspettavi qualcosa di minuscolo, una miniatura come le altre, e invece ti si parava davanti una figura distesa più grande del naturale, che ti soggiogava con la sensazione che nel sonno avesse più potere che da sveglio. E che bei sogni stava facendo! Sogni che lo facevano sorridere.

Avrei potuto continuare a guardarlo in eterno, ma Hari mi diede di gomito e bisbigliò che c’erano altri in attesa di entrare. Dovemmo farci largo a forza per tornare nel cortile. Ci dirigemmo verso l’altra porta, quella che dava sulla gradinata che scendeva fino al fiume. Dopo la puja ci si dovrebbe immergere in acqua, ma al momento c’era solo un uomo che lo stava facendo. Lo si scorgeva appena; si era calato nel fiume fino alla vita e aveva il cranio rasato. Lì accanto c’erano il capanno e la piattaforma dei barbieri del tempio, dove i devoti donavano i loro capelli al dio.

«Andiamo a riprendere le scarpe?», disse Hari. Ne aveva avuto abbastanza, e forse anch’io, perché non mi sentivo parte di quei rituali. Mi sentivo un’intrusa. E così riattraversammo il cortile e riprendemmo le scarpe. Ci fu un altro passaggio di denaro. Suppongo che finisca tutto nelle tasche dei sacerdoti. All’uscita fummo presi d’assalto dai mendicanti. Il ragazzo della tonga ci vide prima che noi vedessimo lui e partì verso di noi, suonando il campanello e gridando nel timore che un concorrente lo precedesse e ci portasse via. Eravamo di nuovo nel frastuono e nella sporcizia. Da un caffè lungo la strada proveniva una musica. Ora che avevo di nuovo le scarpe ai piedi, mi sembravano piene di terriccio. Avevo deliberatamente tralasciato di mettermi le calze.

 

Tornati alla MacGregor House, ci sedemmo in veranda. Chiesi a Hari di dire al conducente della tonga di andare sul retro della casa e farsi dare qualcosa da mangiare. Non sembrava avere più di diciassette anni o giù di lì, ed era un ragazzo allegro e piacevole, palesemente convinto che quel lungo ingaggio serale fosse un gran colpo di fortuna. Rimasta sola per un momento, andai io stessa sul retro e dissi a Raju di chiamare il ragazzo. Lui apparve dal nulla, come se mi stesse aspettando. Gli diedi dieci monete, una fortuna. Ma se le era meritate. Ed era parte della mia puja. Temo che Raju mi disapprovasse. Forse pretese una percentuale, o forse gli diede poco cibo, o addirittura niente. Alla fine non riesci più a sopportarla, l’indifferenza reciproca degli indiani, e preferisci non saperne nulla.

Cominciò a piovere, e dovemmo abbandonare la veranda e rientrare. Il malumore di Hari si era dileguato. Ora sembrava solo esausto, come se avesse fallito, e non solo in ciò che si era prefisso quella sera, ma in qualsiasi cosa avesse mai desiderato. Avrei voluto chiarire le cose, ma era difficile capire da dove cominciare. E quando cominciammo lo facemmo col piede sbagliato, poiché gli dissi: «Stavi cercando di scoraggiarmi, non è vero?».

Lui finse di non capire. «Scoraggiarti?», ripeté. «In che senso, scoraggiarti?». Il che mi infastidì al punto che sbottai, come in un impeto di collera: «Oh, scoraggiarmi, dissuadermi, allontanarmi da te, come stanno cercando di fare tutti gli altri».

Lui domandò chi fossero «tutti gli altri».

«Tutti», risposi. «Persone come Mr Merrick, per esempio. Ti considera un tipo inaffidabile».

«Be’, suppongo che se ne intenda», disse lui.

Ribattei che era un’affermazione ridicola, perché solo lui poteva sapere che tipo era. «Ma perché ne stiamo parlando?», fece lui. «Cosa significa, affidabile o inaffidabile? Cosa sono, un cavallo da corsa o qualcosa del genere? Un’azione o un’obbligazione che la gente tiene d’occhio per vedere se vale la pena investirci sopra?».

Non l’avevo mai visto arrabbiarsi. Né lui aveva visto me. Perdemmo le staffe, ed è per questo che non ricordo cosa di preciso mi condusse ad accusarlo di criticare un uomo che probabilmente non conosceva, e subito dopo a rendermi conto che era tutto un fraintendimento per il semplice motivo che nessuno mi aveva mai detto che era stato Ronald ad arrestarlo e ad assistere senza muovere un dito mentre un suo subalterno lo schiaffeggiava. Ricordo di aver detto qualcosa come: «Stai dicendo che fu Ronald in persona a farlo?», e riesco ancora a vedere la sorpresa sul suo volto quando si rese finalmente conto che ero sempre stata all’oscuro di tutto.

Se solo in quel momento avessi trattenuto la mia collera. Ci provai, perché non ero infuriata con lui ma con Ronald, con gli altri, e specialmente con me stessa. «E dov’è successo?», chiesi, e di nuovo lui si mostrò sorpreso. «Ma al Santuario, naturalmente», rispose, e quello fu un altro brutto colpo. Gli chiesi di raccontarmi tutto.

Si era ubriacato. Non volle dirmi perché. Aveva cominciato a vagare qua e là, sbronzo fradicio, finché era svenuto in un fossato in quell’orribile campo abbandonato lungo il fiume, e lì era stato raccolto da sorella Ludmila e dai suoi aiutanti, convinti che avesse subito un’aggressione, che fosse malato o in fin di vita, e trasportato al Santuario. Vi aveva trascorso la notte, e la mattina dopo Ronald si era presentato lì con alcuni agenti, in cerca di un detenuto che era evaso dal carcere e si pensava fosse tornato a Mayapore, dove un tempo viveva. Il fuggiasco non era lì, ma al suo posto c’era Hari. Be’, immaginerai anche tu come possa avere reagito Hari alle prepotenze di un uomo come Ronald. Dopodiché era stato schiaffeggiato dal viceispettore di Ronald per non avere risposto “all’istante”, e alla fine lo avevano condotto via, prendendolo a pugni e calci mentre lo caricavano sul retro della camionetta.

Uno dei problemi era che Hari conosceva l’uomo che la polizia stava cercando. Questo era venuto fuori durante l’interrogatorio che Ronald aveva condotto alla kotwali in presenza del viceispettore. Ma lo conosceva solo perché in passato aveva lavorato nel magazzino di suo zio. Un altro problema era che aveva fatto di tutto per confondere i poliziotti riguardo al suo nome. Coomer, Kumar: «Vanno bene entrambi», aveva detto. Alla fine Ronald aveva fatto uscire il viceispettore e aveva proseguito a parlare da solo con Hari, o meglio ci aveva provato, e doveva essere stata un’impresa visto che Hari l’aveva preso in antipatia. Non so perché Hari si fosse ubriacato quella sera. Forse per un accumulo di mazzate che alla fine l’aveva portato a pensare che non ci fosse più nulla che aveva importanza e niente in cui credere. A me disse di essere convinto che prima o poi sarebbe comunque finito al fresco e che per questo aveva smesso di tenere a freno la lingua. Dal modo in cui mi raccontò la vicenda, penso che stesse cercando di trovare giustificazioni per Ronald che lui stesso non trovava. Ronald gli aveva chiesto perché e dove si fosse ubriacato. Lui non aveva voluto rivelargli dove, perché pensava, e glielo aveva detto, che non fossero affari suoi, ma era stato più che felice di spiegargli perché. Gli aveva spiegato che si era sbronzato perché odiava quel maledetto paese, quelli che ci vivevano e quelli che lo governavano. «E questo vale anche per lei, Merrick», aveva addirittura aggiunto. Sapeva come si chiamava perché da giornalista aveva assiduamente frequentato il tribunale. Mi raccontò che quando gli aveva detto che valeva anche per lui, Merrick si era limitato a sorridere; dopodiché lo aveva informato che poteva andare e si era addirittura scusato, in modo ovviamente sarcastico, per averlo “incomodato”. Tornato a casa, Hari aveva scoperto che sorella Ludmila aveva mobilitato certi personaggi influenti spingendoli a informarsi sul suo “arresto”, ma la cosa non aveva fatto altro che divertirlo, se “divertire” è la parola giusta da usare quando in realtà quella che provava era amarezza. Mi disse che era rimasto divertito quando Lili lo aveva invitato a una serata, e anche quando aveva visto Merrick che osservava la scena mentre io andavo a parlargli sul maidan. Da parte mia, non sapevo ancora che Ronald mi avesse vista, ma quadrava con tutto il resto. Hari credeva che fossi al corrente dell’intera storia e che quel giorno, allontanandomi dal gruppo di sottufficiali bianchi e infermiere bianche per gettargli una briciola di conforto, avessi agito per pura e semplice condiscendenza.

«Sicché anche uscire con me ti ha divertito?», gli chiesi.

«Sì, si potrebbe dire così», rispose lui. «Ma tu sei stata molto gentile, e te ne sono grato».

«Non l’ho fatto per gentilezza», ribattei alzandomi. Lui fece lo stesso. Gli sarebbe bastato toccarmi per mettere fine a tutte quelle sciocchezze, ma non lo fece. Ne aveva paura. Era troppo consapevole del peso che avrebbe trasformato quel tocco in una sfida alla regola che qualche sera prima Ronald aveva definito «basilare», e non aveva quel tipo di coraggio; e a causa di ciò io stessa mi sentivo privata del mio. La sfida doveva originare da lui per essere umana, per essere giusta.

«Buonanotte, Hari», dissi. E anche in quel «buonanotte» c’era ancora una porta aperta, che un «addio» avrebbe chiuso. Ma non devo fargliene una colpa. Aveva degli ottimi motivi per essere spaventato. Li elencai a me stessa dopo essere salita in camera, attendendo di affrontare Lili al suo ritorno. Ma quando udii la tonga a pedali che si allontanava sul vialetto sentii che la mia determinazione la seguiva, e a un tratto ero solo preoccupata, in pensiero per lui, poiché era un uomo che avrebbe trovato molto difficile nascondersi, e credevo che volesse fare proprio quello. Nascondersi. Scomparire in un mare di facce scure.

Ronald Merrick aveva usato il termine giusto: relazione. Hari e io avremmo potuto essere nemici, o estranei, o amanti, ma mai amici, poiché un rapporto come il nostro veniva messo alla prova troppo spesso per poter sopravvivere. Eravamo sempre costretti a chiederci se ne valesse la pena. Sempre costretti a esaminare le nostre motivazioni. Da parte mia la motivazione era l’attrazione fisica. Non nutrivo abbastanza stima in me stessa da essere certa che Hari provasse lo stesso per me, ma ciò non cambiava quello che sentivo. Ne ero innamorata. Lo volevo accanto a me. Mi dicevo che non mi importava di quello che pensava la gente. Non mi importava di quello che lui aveva fatto, o di quello che individui come Ronald Merrick dicevano avesse fatto o fosse capace di fare. Volevo proteggerlo dai pericoli. Se non farsi più vedere con me lo avesse aiutato, ero pronta a lasciarlo andare, a lasciare che si nascondesse. Ma poiché ero innamorata di lui mi illudevo che quel “più” avesse un limite di tempo, una formula magica in grado di farmi sopportare la decisione di consentire che la mossa successiva giungesse da lui.

La mattina dopo, quando Lili mi chiese della visita al tempio, ne parlai come se non fosse successo nulla. In diversi momenti fui sul punto di chiederle: «Lo sapevi, che era stato Ronald ad arrestare Hari?». Ma non volevo sentirle dire di sì. Non volevo spianare la strada a una discussione che magari avrebbe potuto costringerla a confessare che da allora aveva cominciato a nutrire dubbi su Hari e che era giunta a pentirsi della celerità con cui era intervenuta in aiuto di un uomo che non conosceva e a convincersi che Ronald avesse avuto ragione a sospettare di lui e non dovesse vergognarsi di averlo fermato e interrogato.

Sapevo che Lili sarebbe stata la prima a capire che era successo qualcosa vedendo che Hari non si faceva più vivo e che non ci incontravamo più. Ero consapevole di aiutarlo tenendomi in disparte, di distogliere l’attenzione da lui, ma non mi rendevo ancora conto di ciò che stavo facendo in realtà: assecondando la mia passione irrealizzata, gli tessevo intorno una rete protettiva che escludeva anche me. Ma allora non mi sentivo esclusa. In seguito sì.

Andavo al lavoro, affrontavo la mia vita quotidiana. Da lui neanche una lettera. Per evitare di dover rispondere alle domande di Lili, se avesse deciso di farmele, cominciai a passare quasi ogni sera al circolo. La gente se ne accorse, e ne fui lieta. Se ero al circolo, ovviamente non ero con Hari. La prima volta che rividi Ronald, lui mi si avvicinò e chiese: «Le è piaciuto il tempio?». Mi strinsi nelle spalle e risposi: «Sì, abbastanza. Ma è un po’ una truffa. Non puoi aprire bocca senza dover sganciare qualcosa». Lui sorrise, però non riuscii a capire se fosse soddisfatto o confuso. Pensai che forse avesse intuito che la mia noncuranza era finta, ma poi conclusi che anche in quel caso non poteva capire cosa celasse. Quella sera lo odiai. Lo odiai e gli sorrisi. Stetti al gioco. E di nuovo avvertii quanto era facile, quanto era semplice. Recitare la parte della conformista. Poiché in realtà non vi era mai nulla a cui conformarsi a parte un’idea, una sciarada giocata intorno a una singola espressione: superiorità bianca.

E sempre, in tutto questo, desiderando Hari. Immaginandomelo mentre sbucava da dietro ogni singolo, roseo volto maschile e vedendo in ogni singolo, roseo volto maschile la fatica di fingere che il mondo fosse così piccolo. Pieno d’odio. Chiuso. Pronto a esplodere come polvere da sparo compressa.

Mi sembrava che l’intera maledetta faccenda di noi in India fosse giunta al punto critico. Era destino, poiché si fondava su una violazione. Forse a un certo punto c’era stata all’opera una forza morale oltre che fisica. Ma la forza morale si era guastata. Si è guastata. E i nostri volti lo riflettono. Nelle donne peggio che negli uomini, poiché la consapevolezza della superiorità fisica non ci è connaturata. Un uomo bianco in India può considerarsi fisicamente superiore senza privarsi della propria mascolinità. Ma cosa succede a una donna quando si dice che il novantanove per cento degli uomini che vede non è formato da uomini, ma da esseri di una specie inferiore il cui principale tratto distintivo è il colore della pelle? Cosa accade quando si rende asessuata un’intera nazione, trattandola come una nazione di eunuchi? Perché è questo che abbiamo fatto, non credi?

Dio solo sa cosa sta accadendo. Cosa succederà. La situazione sembra peggiorare di anno in anno. C’è disonestà da entrambe le parti, poiché la questione morale si è guastata per loro come per noi. Siamo tornati alle origini, alla questione originale di chi salta e chi dice di saltare. Scegli l’altisonante definizione che vuoi, magari addirittura quella del nostro vecchio amico, Mr Swinson: «Il più grande esempio di governo coloniale e influenza civilizzatrice dai tempi della Roma pre-cristiana». La realtà è che da parte loro è diventata una volgare lotta di potere, e da parte nostra un altrettanto volgare, compiaciuto tener duro. E più scomposti si fanno i loro litigi, più cresce il nostro compiacimento. Non lo si può più nascondere, poiché la questione morale, se mai è esistita, è ormai morta. È colpa nostra se è morta, perché spettava a noi ampliarla, e invece l’abbiamo progressivamente ristretta non adeguando mai le azioni alle parole. E non lo abbiamo mai fatto perché qui, dove ci sarebbe stato bisogno di farlo e mostrare che stava accadendo, ad avere la meglio è sempre stato l’antico, primitivo, feroce istinto di attaccare quello che non capivamo perché sembrava ed era diverso. E Dio sa di quanti secoli bisognerebbe risalire per arrivare alla sorgente della loro evidente paura della pelle chiara. Dio ci aiuti se un giorno supereranno quella paura. Ma forse paura non è il termine giusto. In India, quanto meno. È un’emozione così primitiva, e la loro civiltà è così antica. Forse allora farei meglio a dire: Dio ci aiuti se un giorno sostituiranno la stanchezza con la paura. Ma forse nemmeno stanchezza è la parola giusta. Forse non abbiamo una parola per esprimere quello che provano. Forse è nascosto in quella scultura in pietra del Vishnu dormiente, pronto a svegliarsi da un momento all’altro e farli precipitare tutti nell’oblio con un solo, estatico tuono.

 

Era questa la differenza tra le mie emozioni e quelle di Hari? Il fatto che lui poteva aspettare e io no? Alla fine non riuscii a reggere il silenzio, l’inazione, la separazione, l’artificiosità della mia posizione. Gli scrissi. Non ero portata per l’abnegazione. È un difetto degli anglosassoni, suppongo. Abbiamo sempre bisogno di una prova, di una dimostrazione tangibile della nostra esistenza, del segno che abbiamo lasciato, il genere di segno che possiamo portare appeso al collo per identificarci, per assicurarci di non esserci persi nella giungla terribile e oscura dell’anonimato.

Ma nella mia impazienza c’era anche la programmazione anglosassone, la premeditazione, l’accettazione che il tempo esercitava un suo moto specifico, per definire il quale erano stati inventati l’orologio e il calendario. Più ti allontani dall’equatore più diventi sensibile al ritmo di luce e buio, al modo in cui si espande e si contrae e organizza le stagioni, tanto che il tempo stesso sviluppa una caratteristica specifica che ti rende sensibile alle sue assurde ma meticolose pretese. Se fossi stata una ragazza indiana, forse nel mio messaggio a Hari avrei scritto: Stasera, ti prego. Invece gli diedi tre o quattro giorni di tempo. Non ricordo di preciso se tre o quattro, a dimostrazione di quanto poco contasse il numero di giorni o il giorno prefissato... anche se quello lo ricordo. Probabilmente lo ricorda chiunque. Il 9 agosto. Nel biglietto dicevo che ero dispiaciuta per i nostri dissapori e che volevo parlargli. La sera del 9 sarei andata al Santuario, e speravo di vederlo lì.

Non ricevetti risposta, ma quando giunse il giorno in questione ero felice, quasi spensierata. Mentre facevo colazione suonò il telefono. Credendo che fosse Hari, mi precipitai a rispondere prima di Raju. Ma non era Hari. Era Mrs Srinivasan che chiamava per Lili. Mandai Raju in camera di Lili per dirle di sollevare la cornetta. Poco dopo, quando salii io stessa a darle il buongiorno, Lili disse: «Hanno arrestato Vassi».

Be’, quella parte della vicenda la conosci già. Ce l’aspettavamo, ma quando accadde fu uno shock. All’ospedale le infermiere si comportavano come se fossero state loro stesse a salvare la situazione mettendo al fresco il Mahatma, i suoi colleghi e i membri del Congresso sparsi per il paese. Un anno prima, molte di loro non avrebbero nemmeno saputo cos’era il Congresso. L’atmosfera di quella mattina all’ospedale era la stessa che regnava al Circolo alla fine della Settimana della Guerra. «Avete notato gli inservienti?», disse una di loro. «Adesso sì che hanno la coda tra le gambe». Da quel momento in poi parvero mettersi tutte d’impegno per escogitare nuovi modi in cui umiliarli. E anche nei miei riguardi il loro atteggiamento mostrò un sottile mutamento, come se cercassero di farmi capire che per mesi avevo puntato sul cavallo sbagliato.

Fu solo nel pomeriggio che cominciarono ad avere paura. Sulle prime si sparse la voce delle rivolte nelle sottodivisioni, poi giunse conferma che l’assistente commissario si era recato in spedizione con una pattuglia di agenti per capire come mai non si riuscisse più a comunicare con Tanpur. Cominciò a piovere, e intorno alle cinque meno un quarto, quando il mio turno stava per concludersi, Mr Poulson scatenò un putiferio arrivando con l’insegnante della missione, Miss Crane. In un primo momento pensammo che fosse stata stuprata, ma poi fu lo stesso Mr Poulson, che incrociai mentre ero diretta nell’ufficio della capoinfermiera, a dirmi com’erano andate le cose. Miss Crane era stata aggredita mentre tornava da Dibrapur. La sua automobile era stata incendiata, e uno dei suoi insegnanti, un indiano, era rimasto ucciso, assassinato sotto i suoi occhi. Lei stessa era assiderata e sotto shock. Era rimasta seduta sul ciglio della strada per proteggere il corpo dell’uomo assassinato. Avevo avuto modo di conoscere Miss Crane a una delle serate a casa del vicecommissario, e la capoinfermiera mi diede il permesso di visitarla. Ma Miss Crane stava farneticando e non mi riconobbe. Temetti che fosse impazzita del tutto. Continuava a ripetere: «Mi dispiace. Mi dispiace che sia stato troppo tardi», mormorando che i chapati erano troppi per lei sola e chiedendo perché non li avessi mangiati anch’io, perché non mi fossi sfamata. Le presi la mano e cercai di comunicare con lei, ma lei non faceva che ripetere: «Mi dispiace che sia stato troppo tardi». Poi a un tratto disse: «Mi chiamo Edwina Crane, e mia madre è morta da più tempo di quanto mi piaccia ricordare», e cominciò a delirare su un tetto che doveva essere riparato e sul fatto che lei non potesse farci niente. «Niente», continuava a ripetere. «Non c’è niente che possa fare».

 

Quando uscii dall’ospedale pioveva1. Non c’era traccia dell’autista di Ronald. Quella sera doveva avere altro da fare. Ma io avevo la mia mantella impermeabile e il mio cappello da pioggia. A Lili e alle ragazze avevo detto che avrei fatto un salto al circolo, ma la visita a Miss Crane mi aveva fatto tardare e così puntai direttamente verso il Santuario, percorrendo Hospital Road e Victoria Road e passando dal ponte di Bibighar attraversai il fiume. C’era poca gente in giro: forse la pioggia, oltre alle voci dei disordini, aveva dissuaso molti dall’uscire di casa. Arrivai al Santuario intorno alle cinque e tre quarti, quando la pioggia stava cominciando a diminuire.

Non ti ho mai descritto il Santuario, vero? Svolti dall’estensione stradale di Chillianwallah Bagh e prendi un sentiero che costeggia il terreno abbandonato lungo il fiume, dove i più poveri tra gli intoccabili vivono in orribili, squallidi tuguri. Alla fine arrivi alle mura di una zona recintata che comprende tre costruzioni risalenti agli inizi del diciannovesimo secolo. Una ospita l’ufficio, la seconda l’ambulatorio e la “cella” di sorella Ludmila e la terza, la più grande, è quella in cui lei bada ai malati e ai morenti. La zona compresa entro quelle mura è grande quasi mezzo ettaro. Sembra un luogo abbandonato, e vi si respira quasi sempre il tanfo del fiume. Ma all’interno le costruzioni sono pulitissime e ordinate, regolarmente lavate e imbiancate.

Sorella Ludmila ha un assistente principale, un goanese di mezz’età di nome de Souza, e alcuni uomini e donne assortiti che assume al bisogno. Mi sono sempre domandata da dove provengano i suoi soldi.

Hari non c’era. Come prima cosa passai dall’ufficio, dove trovai Mr de Souza. Mi disse che sorella Ludmila era nella sua stanza e che per ora all’ambulatorio non si era presentato nessuno, probabilmente a causa delle voci di disordini. Andai al fabbricato dell’ambulatorio e bussai alla porta di sorella Ludmila. Non la vedevo dalla settimana della visita al tempio. Sapeva che Hari e io avevamo in programma di recarci lì, e mi disse di entrare e raccontarle com’era andata.

Smise di piovere, e nel giro di una decina di minuti riapparve il sole, come spesso accade al termine di un temporale pomeridiano, anche se ormai era già al tramonto. «Verrà anche Hari?», mi chiese sorella Ludmila, e io risposi che non ne ero sicura. Poi mi chiese del tempio. Lei non ci era mai entrata. Descrissi la nostra puja al Signore Venkataswara e la statua del Vishnu dormiente. Avrei voluto chiederle della notte in cui aveva trovato Hari privo di sensi in un fossato fuori dal Santuario, ma non lo feci. A mano a mano che i minuti passavano e lui non arrivava continuavo a pensare: “Tutto mi sta sfuggendo, si sta allontanando prima che io abbia potuto toccarlo con mano o capirlo”. Guardavo l’immagine intagliata di Shiva danzante e mi sembrava che si muovesse. Arrivai al punto di non poterlo più guardare, poiché sentivo che mi stava privando della mia stessa facoltà di movimento. Che rischiavo di perdermi in lui.

Mi voltai verso sorella Ludmila. Se ne stava sempre dritta sulla sua sedia di legno, con le mani giunte in grembo e la fede nuziale in evidenza. Non l’ho mai vista senza la cuffia, sicché non so se avesse i capelli rasati a zero. Il rigore e la semplicità della sua stanza avevano sempre evocato in me un’idea di sicurezza, ma quella sera pensai: “No, è lei a infonderla, non la stanza”. E sentii che anche questo mi stava sfuggendo. C’era una quantità di cose che avrei voluto sapere di lei, ma durante tutto il tempo in cui ci eravamo frequentate le avevo fatto una sola domanda personale. Malgrado un forte accento parlava un buon inglese, e le avevo chiesto dove lo avesse imparato. «Me l’ha insegnato mio marito», mi aveva risposto. «Si chiamava Smith». Giravano molte voci su di lei: per esempio che fosse fuggita da un convento quando era una giovane novizia e che portasse le vesti da suora nella speranza di essere perdonata. Non credo fosse vero. Non penso che ci fosse una sola storia su di lei che fosse veritiera. Solo la sua carità era vera. E nel mio caso aveva sempre avuto la meglio sulla curiosità. Quando parlavi con lei, non c’era alcun mistero. Aveva in se stessa tutte le spiegazioni di cui sentivo che potesse avere bisogno. E questo è raro, non trovi? Essere giustificati in se stessi, da quello che si è e che si fa, e non da ciò che si è fatto o si è stati in passato, o da quello che gli altri pensano che potresti essere o diventare.

Mi trattenni un’ora, fino al crepuscolo. Mi dissi che probabilmente Hari aveva dovuto lavorare fino a tardi, ma sapevo che questo non spiegava il suo silenzio. Mi venne in mente che potesse essere stato arrestato una seconda volta, ma poi conclusi che era improbabile. Gli arrestati erano tutti importanti membri locali del Congresso, come Vassi. Pensai di passare da casa di zia Shalini, ma una volta raggiunta l’estensione stradale di Chillianwallah Bagh cambiai idea e svoltai verso il ponte di Bibighar. Era ormai quasi buio. Temendo che si rimettesse a piovere mi ero di nuovo coperta, e sotto la mantella e il berretto impermeabile ero accaldata e sudaticcia. Attraversai il ponte e il passaggio a livello. Giunta al lampione di fronte a Bibighar mi fermai, mi tolsi la mantella e la sistemai sul manubrio. Fu a causa di quella sosta che attraversai la strada a piedi spingendo la bicicletta e mi affacciai all’ingresso di Bibighar. Fermandomi avevo avuto la netta sensazione che Hari fosse lì, seduto da solo nel padiglione, non ad aspettarmi ma pensando a me, chiedendosi se sarei passata.

Varcai il portale e percorsi il sentiero fino a dove lasciavamo sempre le biciclette, un punto in cui potevamo appoggiarle al muro e tenerle d’occhio dal padiglione. Ma quando vi arrivai vidi che la sua bicicletta non c’era. Mi voltai in direzione del padiglione. In un primo momento non vidi nulla, ma poi scorsi il bagliore della brace di una sigaretta. Suppongo che il sentiero lungo il muro disti più o meno cento metri dal padiglione. Li si può coprire in linea retta risalendo quello che un tempo era stato il prato della reggia e la piccola gradinata. Era per questo che di solito lasciavamo le biciclette appoggiate al muro: per risparmiarci la fatica di trasportarle in spalla sui gradini. L’altro modo di raggiungere il padiglione è seguendo il sentiero che costeggia il giardino. Non essendo sicura che la figura nel padiglione fosse Hari, imboccai il sentiero.

Quando sbucai sul lato del padiglione, vidi un uomo in piedi sul pavimento a mosaico. «Hari, sei tu?», feci. «Sì», rispose lui. Spensi il fanale, appoggiai la bicicletta contro un albero e salii la gradinata. Quando arrivai al padiglione mi accorsi di avere portato con me la mantella.

«Non hai ricevuto il mio biglietto?», chiesi, ma era una domanda stupida. Lui non rispose. Cercai a tentoni una sigaretta nella borsa, ma mi resi conto di averle finite. Gli chiesi di offrirmene una delle sue. La presi, ma mi fece tossire e la gettai. Mi sedetti sul mosaico. La tettoia sporge oltre i bordi del padiglione, mantenendo il pavimento sempre asciutto. La mantella era inutile, e così la posai a terra. Con tutti gli alberi che ci sono a Bibighar, sembra che la pioggia continui a cadere anche quando in realtà ha smesso da tempo. L’acqua sgocciola dalla tettoia e dalle foglie. Dopo un po’ si sedette anche Hari e si accese un’altra sigaretta. «Fammi provare di nuovo», dissi. Lui aprì il pacchetto e me lo porse. Ne sfilai una, poi gli presi la mano con cui reggeva la sua e l’accesi. Cominciai a fumare senza aspirare. «Cosa stavi cercando di provare?», disse lui dopo un silenzio «Che toccarmi non ti dà fastidio?».

«Credevo che questo l’avessimo superato», ribattei.

«No», disse lui. «Non possiamo mai superarlo».

«Ma dobbiamo. Io devo. E in realtà non è mai stato un ostacolo. Non per me, quanto meno».

Mi chiese perché fossi venuta a Bibighar. Gli dissi che lo avevo aspettato al Santuario per un’ora e che mi ero fermata tornando a casa perché immaginavo che potesse essere lì.

«Non dovresti essere fuori da sola, non stasera», riprese dopo un silenzio. «Ti accompagno a casa. Butta via quella schifezza».

Attese, poi si sporse verso di me, mi afferrò il polso, mi sfilò la sigaretta dalle dita e la gettò nel giardino. Era insopportabile, sentirlo così vicino e sapere che di lì a un istante l’avrei perduto. Il gesto di afferrarmi il polso era come il moto impaziente di un amante. Lo era anche per lui. Avrei voluto che non lasciasse più la presa. Ci fu un attimo in cui provai paura, forse perché era quello che voleva. Ma l’istante successivo ci stavamo baciando. La camicia gli era risalita sulla schiena, poiché la portava sopra i calzoni, e la mia mano entrò in contatto con la sua pelle, e poi ci perdemmo entrambi. Non vi fu nulla di delicato nel modo in cui mi prese. Mi sentii sollevare sul mosaico. Mi strappò via la biancheria intima e si premette su di me con tutte le sue forze. Ma quelli non eravamo io e Hari. Quando mi penetrò mi fece gridare. E poi fummo noi.

 

Arrivarono mentre giacevamo in dormiveglia ascoltando il gracidio delle rane, una mano di Hari su un mio seno, la mia nei suoi capelli neri, intenta a tracciare il miracolo del suo orecchio scuro.

Cinque o sei uomini. Arrivarono all’improvviso sulla piattaforma. Le facce dei miei incubi. Ma non solo volti. Figure scure vestite di cotone bianco; indumenti laceri e maleodoranti. Si lanciarono su Hari e lo trascinarono via. Poi il buio. E un odore familiare. Ma caldo e soffocante. Qualcosa che mi copriva la testa. Mentre lottavo, non riuscivo a pensare ad altro che a quella cosa sulla testa. La conoscevo ma al tempo stesso mi era sconosciuta, perché mi stava soffocando. E poi ci fu un momento (il momento, suppongo, in cui l’uomo che mi teneva immobilizzata a terra, coprendomi con questa cosa soffocante ma familiare, si sollevò da me), un momento in cui dimenticai il cappuccio e avvertii soltanto la mia nudità esposta. L’uomo doveva essersi rialzato quando gli altri avevano finito con Hari ed erano venuti ad aiutarlo. Sentii una pressione sulle ginocchia e sulle caviglie e poi sui polsi, un momento di terribile vulnerabilità e poi la prima esperienza di quegli orribili affondi animali, il movimento dell’amore senza la redenzione di una sola frazione di secondo di affetto.

 

Non sogno più volti. Nei miei incubi, ora di solito sono cieca. All’inizio c’è sempre l’immagine di Shiva. Lo vedo solo nel ricordo. A un tratto lui abbandona il cerchio di fuoco cosmico e mi copre, imprigionandomi gambe e braccia nel suo buio. Mi faccio spuntare di nascosto un terzo braccio con cui combatterlo o abbracciarlo, ma lui ne ha sempre uno in più per immobilizzarmi, ha sempre un nuovo lingam con cui rimpiazzare quello che si è afflosciato. Il sogno finisce quando non sono più cieca e vedo l’espressione sul suo volto, che è di assoluzione e di invito. A quel punto mi sveglio, ricordando che dopo che se n’erano andati mi ero ritrovata in mano la mantella e che, mentre respiravo e benedicevo l’aria con cui mi riempivo i polmoni, avevo pensato: “Era la mia stessa mantella, la mantella con cui mi riparo dalla pioggia, qualcosa di mio, una parte della mia vita”. Me la tenevo stretta al corpo, coprendomi. Credevo di essere sola. Per un attimo mi passò per la mente che Hari fosse fuggito insieme a loro, che fosse stato uno di loro.

Ma poi lo vidi, scorsi la sua forma riversa come la mia sul mosaico. Lo avevano legato e imbavagliato con strisce di tessuto, probabilmente ricavate dai loro stessi indumenti, e lasciato in una posizione in cui per evitare di vedere quello che stava accadendo avrebbe dovuto chiudere gli occhi.

Gattonai come una bambina attraverso il mosaico e lottai con i nodi, lottai perché erano stretti e perché cercavo contemporaneamente di coprirmi con la mantella. Prima di tutto sciolsi il bavaglio, temendo che potesse soffocarlo, poi i lacci alle caviglie e infine quelli ai polsi. E mentre lo slegavo lui rimase afflosciato a terra come lo avevano lasciato, e alla fine dovetti prenderlo tra le braccia, perché non ce la facevo più. Non ce la facevo più a sentirlo piangere.

 

Piangeva, suppongo, di vergogna e per quello che mi era accaduto e che non aveva potuto impedire. Disse qualcosa che nel mio stato confusionale non capii, ma che a distanza di tempo mi torna sempre in mente come un’inarticolata preghiera di perdono.

A un tratto avevo un gran freddo. Hari mi sentì rabbrividire, e ora fu lui a prendermi tra le braccia, e per un po’ restammo così, stringendoci forte come due bambini terrorizzati dal buio. Ma io non riuscivo a placare i brividi, e lui mi sistemò la mantella sulle spalle e mi coprì il petto. Poi si alzò e si mise a raccogliere le mie cose. Le tastai nelle sue mani e gliele presi. «Mettimi le braccia al collo», mi disse, e io obbedii. Mi sollevò e mi trasportò fino ai gradini, poi li discese uno per volta. Pensai a tutti i gradini che c’erano tra il padiglione e l’uscita, poi alla mia bicicletta. Credevo che Hari avrebbe attraversato il giardino, invece lui prese il sentiero. Quando passammo davanti al punto in cui avevo lasciato la bicicletta dissi: «No, è qui, da qualche parte». Lui non capì. «La bicicletta», soggiunsi. Mi fece posare i piedi a terra, ma continuava a tenermi stretta a sé. Disse che non la vedeva da nessuna parte, che gli uomini dovevano averla rubata o nascosta. Sarebbe tornato a cercarla l’indomani mattina. Gli chiesi se non avesse la sua, e lui rispose che l’aveva lasciata al bazar per una riparazione. Aveva trascorso l’intera giornata senza. Mi riprese in braccio e imboccò il sentiero. Cominciavo a sentirmi un peso morto e gli chiesi di mettermi giù. Lui lo fece, ma poi tornò a sollevarmi. Glielo permisi perché eravamo ancora nei giardini. Credo che se gli avessi chiesto di trasportarmi così fino alla MacGregor House, lui ci sarebbe in qualche modo riuscito. Ma quando arrivammo all’uscita e lui tornò a posarmi a terra, come per riprendere fiato, il mondo fuori dai giardini si rimise a fuoco. Oltre quel cancello si parava l’inizio di quello che un’altra ragazza bianca avrebbe considerato la sua salvezza. E lo era anche per me, in un certo senso. Ma non lo era per lui. Quando fece per riprendermi in braccio lo allontanai, come si fa per impedire a un bambino di toccare qualcosa di rovente. Guardando l’uscita lo vidi mentre mi trasportava al di là, alla luce, nell’acquartieramento.

«No», dissi. «Devo rientrare da sola. Non eravamo insieme. Non ci siamo visti».

Cercò di afferrarmi per un braccio, ma io mi ritrassi. «No», ripetei. «Lasciami andare. Tu non mi hai vista. Non sai niente. Niente. Non devi dire niente». Lui però non mi ascoltava. Mi riprese e cercò di stringermi a sé, ma io mi divincolai. Ero in preda al panico, al pensiero di cosa gli avrebbero fatto. Nessuno mi avrebbe creduta. «Non posso stare senza di te», disse lui. «Ti amo. Ti prego, lascia che stia con te».

Se non lo avesse detto, forse avrei ceduto. Il pensiero che avesse ragione lui e io avessi torto, che l’unico modo di affrontare la cosa fosse la verità, è uno dei grandi interrogativi che mi porto ancora dentro, un fardello meno evidente ma altrettanto pesante di questo bambino. E forse ti starai chiedendo come mai nel sentirgli dire che mi amava le mie resistenze non fossero crollate all’istante. Ma l’amore non è così, giusto? Non era fatto per me. Mi sconcertava. Mi faceva precipitare sempre più nel panico al pensiero di quello che avrebbero potuto fargli sentendogli dire: «Io l’amo. Ci amiamo».

Lo tempestai di pugni, non per fuggire da lui ma per far fuggire lui. Stavo cercando di farlo ragionare, di trasmettergli un po’ di astuzia a suon di pugni. «Non ci siamo mai visti», continuavo a ripetere. «Stasera sei rimasto a casa. Non devi dire niente. Tu non sai niente. Promettimelo».

Mi divincolai e cominciai a correre senza attendere la sua promessa. All’uscita dei giardini mi raggiunse e cercò di trattenermi. Di nuovo gli chiesi di lasciarmi, lo pregai di lasciarmi andare, di non dire nulla, di dichiararsi all’oscuro di tutto, di farlo per me, se quello era l’unico modo in cui potesse convincersi a tacere. Per un attimo lo strinsi a me (è stata l’ultima volta che l’ho toccato), poi mi liberai di nuovo e mi lanciai correndo fuori dai giardini, correndo nella luce del lampione sul lato opposto della strada e poi fuori, correndo nel buio e ringraziando il buio, correndo senza sapere in che direzione andavo. Infine mi fermai e mi appoggiai a un muro. Avrei voluto tornare indietro. Avrei voluto ammettere che non potevo affrontare quella cosa da sola. E avrei voluto dirgli che credevo di aver sbagliato tutto. Lui non avrebbe capito cosa provavo, cosa volevo dire. Ero dolorante. Ero esausta. Ed ero spaventata. Troppo impaurita per poter tornare indietro.

«Non c’è niente che possa fare, niente, niente», dissi, e mi chiesi dove avessi già udito quelle parole, e ripresi a correre su quelle orribili strade deserte e male illuminate che avrebbero dovuto condurmi a casa ma che portavano a luoghi che non riconoscevo, verso una salvezza che non era una salvezza poiché al di là si stendevano a dismisura le pianure, dandomi l’impressione che se avessi corso a sufficienza sarei precipitata oltre l’orlo del mondo2.

 

Sembrava così semplice, allora, dire che «Hari non c’era» e sentire, nel dirlo, di riuscire a proteggerlo. E ora è fin troppo facile pensare che la sua sola, vera protezione fosse invece la verità, per quanto sgradevole potesse essere per noi l’atto di rivelarla, di sentirla ripetere, per quanto pericolosa potesse essere per lui. Certo, se lui fosse stato un inglese (per esempio quel giovane sottufficiale che aveva cominciato a palpeggiarmi durante il ballo della Settimana della Guerra), suppongo che la verità sarebbe bastata e che non ci sarebbe mai venuto in mente di raccontare altro. Quando la gente avesse capito cosa stavamo facendo quella sera a Bibighar, ci avrebbe sostenuti e nel contempo avrebbe cercato di fare giustizia, e quando questa fosse stata ottenuta, o quando fossero state esplorate tutte le piste possibili senza riuscire a trovare i colpevoli, ci avrebbe fatto capire che a quel punto il nostro dovere, e in particolare il mio, era uscire di scena.

Ma lui non era un inglese. E naturalmente ci sono alcuni che direbbero che se lo fosse stato non sarebbe mai successo nulla, e avrebbero ragione, perché non saremmo stati costretti ad andare a Bibighar per poter stare soli, e non saremmo stati costretti ad andarci di sera. Lui mi avrebbe sedotta sul retro di una camionetta nel parcheggio del Gymkhana, o dietro gli spogliatoi della piscina, o in una stanza nella casa degli scapoli, o addirittura in camera mia alla MacGregor House, mentre Lili era fuori per uno dei suoi bridge. E ci sono alcuni che direbbero che anche se io e il sottufficiale avessimo fatto l’amore nel padiglione di Bibighar, non saremmo mai stati aggrediti da una banda di delinquenti indiani. E probabilmente avrebbero ragione pure loro, sebbene non esattamente per le ragioni giuste. Conferirebbero al sottufficiale doti sovrumane in grado di fargli liquidare la banda di dannati indigeni in un battibaleno, mentre in realtà i dannati indigeni si sarebbero liquidati da soli a causa del loro terrore dei bianchi. Miss Crane era stata schiaffeggiata, ma a restare ucciso era stato l’insegnante indiano che era con lei. Io ero stata violentata dopo che ero stata vista fare l’amore con un indiano. A quel punto il tabù era infranto.

Credo che Hari lo avesse capito. Credo che se ne fosse reso conto e che fosse per questo che provava vergogna e chiedeva perdono. Io invece vedevo solo i pericoli che correva, lui uomo di colore, trasportandomi in braccio attraverso un portale che dava sul mondo dei bianchi.

Cerco similitudini, espressioni che facciano più chiarezza, ma non ne trovo perché non esistono. È la cosa in sé: un indiano che regge in braccio una ragazza inglese con cui ha fatto l’amore e che poi è stato costretto a guardare mentre veniva stuprata; che la porta in salvo. È già una similitudine in sé. Dice tutto quello che c’è da dire, non credi? Se la estendi, se pensi a lui che mi trasporta in braccio fino alla MacGregor House, che mi affida alle cure della zia Lili, che telefona al dottore, chiama la polizia, risponde alle domande e viene trattato come colui che mi ha soccorsa, l’assurdità, l’implausibilità diventano quasi insostenibili. Si arriva dritti al punto in cui Hari, preso magari in disparte da Ronald, è costretto ad ammettere: «Sì, stavamo facendo l’amore», e in cui il cenno di comprensione che dovrebbe giungere da Ronald non arriva, a meno che non si schiarisca la pelle di Hari, la si schiarisca al punto da farla sembrare non solo quella di un bianco, ma quella di un bianco troppo sconvolto perché un altro bianco non possa non provarne compassione, per quanto consideri riprovevole la sua condotta.

E fu per questo che lottai con lui, che lo tempestai di pugni, che gli dissi: «Noi non ci siamo visti. Tu non sai niente».

Era così facile: «Hari non l’ho visto. Non lo vedo dalla sera della visita al tempio». Fu quello che dissi a Lili, distesa sul divano in salotto. Lei aveva finalmente capito cos’era accaduto e aveva chiesto: «È stato Hari?». E la mia risposta, forse fin troppo immediata ma incontrovertibile: «No. No. Hari non l’ho visto. Non lo vedo dalla sera della visita al tempio».

«Allora chi è stato?», domandò lei. Non riuscivo a guardarla in faccia. «Non lo so», risposi. «Cinque o sei uomini. Non li ho visti. Era buio. E mi hanno coperto la testa».

Ma se non li hai visti, come puoi essere certa che uno di loro non fosse Hari Kumar? Era un interrogativo a cui avrei dovuto rispondere, giusto? Ma Lili non lo pose. «Dove?», chiese invece, e io dissi: «A Bibighar», e anche lì sorgeva una domanda: cos’ero andata a fare a Bibighar? Ma nemmeno quella venne fatta. Non quella sera. Non da Lili. La trappola, tuttavia, stava cominciando a chiudersi. Aveva cominciato a farlo l’istante in cui ero arrivata a casa, inciampando e crollando sui gradini della veranda.

Mi ero procurata una brutta botta al ginocchio. Per qualche istante avevo perso i sensi. Quando ero rinvenuta e avevo provato a rialzarmi, avevo visto Lili che mi fissava come se non mi riconoscesse. Ricordo di averla udita pronunciare il nome di Raju. Immagino che l’avesse chiamato perché l’aiutasse, o che lui fosse già uscito insieme a lei. Poi mi ero ritrovata in salotto con in mano un bicchiere di brandy. Dovevano avermi trasportata Raju e Bhalu. Ricordo Bhalu in piedi sul tappeto senza i sandali. Ricordo i suoi piedi nudi. E quelli di Raju. Le loro mani scure. Le loro facce scure. Quando avevo finito di bere il brandy, Lili li aveva incaricati di aiutare memsahib a salire in camera sua. Ma quando mi si erano avvicinati non ero riuscita a sopportarne la vista e avevo gridato a Lili di mandarli via. Era stato in quel momento che lei aveva capito cos’era accaduto. Quando riaprii di nuovo gli occhi eravamo sole in salotto e mi vergognavo di guardarla in faccia. Fu allora che lei chiese: «È stato Hari?», e che io le diedi la risposta che avevo preparato.

E ancora oggi mi vergogno del modo in cui avevo strillato vedendo avanzare Bhalu e Raju. Avevo gridato perché erano scuri di pelle. Me ne vergogno perché è la dimostrazione che, malgrado il mio amore per Hari, non avevo esorcizzato quella stupida, primitiva paura. Hari era un’eccezione. Non voglio dire che lo amassi malgrado la sua pelle scura. La pelle scura era parte integrante della sua attrattiva fisica. Forse intendo che amandolo ed essendone attratta fisicamente avevo conferito al suo colore un significato o uno scopo speciale, isolandolo dal suo contesto invece di identificarmici all’interno del suo contesto. C’era anche un elemento di autocompiacimento, di rivendicazione e orgoglio sentimentale dovuto all’idea che il mio amore mi avesse aiutata a superare le barriere personali e sociali. Quando in realtà non le avevo superate affatto. Ma no, non è del tutto vero. In parte le avevo superate. A sufficienza da provare vergogna, allora e ancora adesso, e da chiedere a Lili di richiamare Raju e Bhalu e farmi accompagnare al piano di sopra. Li ringraziai e cercai di dimostrare che ero dispiaciuta. Il mattino dopo sul mio vassoio c’era un vaso di fiori del giardino che Bhalu, mi rivelò Lili, aveva tagliato per me.

 

Prima di aiutarmi ad affrontare le scale, Raju aveva telefonato alla dottoressa Klaus. «Anna sta arrivando», disse Lili mentre salivamo. «Non temere, Daphne, Anna sta arrivando». Poi attese insieme a me. Udimmo avvicinarsi un’auto o una camionetta, e Lili disse: «Sarà lei». Pochi istanti dopo bussarono alla porta della stanza. «Entri pure, Anna», disse Lili. Non volevo vedere nemmeno lei, e quando la porta si aprì distolsi il volto. Sentii Lili che diceva: «No, no, lei non può entrare». Poi si alzò, uscì dalla stanza e si chiuse dietro la porta. Quando rientrò mi disse che era Ronald e che mi aveva già cercato prima. «Gentile da parte sua», dissi, «ma adesso sono tornata. Digli che va tutto bene». E Lili ribatté: «Ma non è così, tesoro. Lo capisci, vero?». E a quel punto ricominciò a interrogarmi, per ottenere le risposte alle domande di Ronald. A Bibighar, ma quando? Quanti uomini? Quali uomini? Ne avevo riconosciuto qualcuno? Lo avrei riconosciuto, rivedendolo? Com’ero tornata a casa?

Poi mi lasciò per qualche minuto. La udii parlare con Ronald in corridoio. Quando rientrò in camera non disse nulla, limitandosi a sedersi sul letto e prendermi la mano. Udimmo Ronald ripartire di gran carriera. Senza guardare Lili le dissi: «Gli hai detto che non è stato Hari, vero?».

Lei rispose di sì, e in quel modo capii che Ronald glielo aveva chiesto. Il modo in cui erano entrambi saltati alla conclusione che Hari fosse coinvolto non fece che rafforzare la mia decisione di mentire.

A quel punto non restava che attendere Anna. Fu un sollievo quando arrivò, un sollievo essere trattata come una sorta di esemplare clinico, in modo lucido e impassibile. Quando ebbe finito, le chiesi se potesse dire a Lili di farmi riempire la vasca da uno dei domestici. Mi ero fatta l’idea che forse, dopo un’ora a mollo nell’acqua calda, avrei potuto cominciare a sentirmi pulita. Anna finse di darmi retta, ma in realtà mi aveva somministrato un forte sedativo. Ricordo il rumore dell’acqua che scendeva, e scivolando nel dormiveglia immaginai che fosse lo scroscio della pioggia. Anna aveva aperto i rubinetti solo per farmi addormentare. Quando mi svegliai era mattino. Anna era ancora al mio capezzale. «È rimasta qui tutta la notte?», le chiesi. Non era così, ovviamente, ma ero la sua prima visita. Anna mi era piaciuta fin da subito, però fino a quel mattino mi aveva sempre leggermente intimidito, come accade con le persone che non hanno avuto esperienze felici. Si esita a fare domande, e io non le avevo mai chiesto della Germania. Ma ora non ce n’era più bisogno. Avevamo trovato qualcosa in comune, e per questo riuscimmo a scambiarci un sorriso, vago e fuggevole, come se il legame che si era creato tra noi fosse appena percepibile.

 

Ti ho detto la verità, zia, al meglio delle mie capacità. Mi dispiace di non averlo potuto fare prima. Odio mentire, ma credo che lo farei di nuovo. Niente di ciò che è accaduto dopo Bibighar è riuscito a dimostrarmi che sbagliai a proteggere Hari negando di averlo visto quella sera. So che ha sofferto, lo avverto nel profondo. So che lo stanno punendo. Ma non devo credere che a causa delle mie menzogne stia subendo pene peggiori di quelle che gli avrebbe procurato la verità.

Quando penso alle contorsioni mentali a cui si abbandonarono alcuni nel tentativo di smascherare le mie menzogne e implicare Hari, tremo al pensiero di quanto gli sarebbe potuto accadere se solo mi fossi lasciata sfuggire che quella sera eravamo insieme a Bibighar.

Ma questo non allevia il peso di sapere che altri giovani sono stati puniti ingiustamente. Com’è possibile che qualcuno venga punito quando è innocente? So che alla fine sono stati imprigionati, a quanto dicono, per motivi estranei all’aggressione. Mi aggrappo a questo nella speranza che sia vero. Ma se non fosse stato per lo stupro, penso che invece sarebbero liberi. Non potevano essere stati loro. Lo so, ho detto che non avevo visto i miei aggressori, ed è vero. Ma mi ero fatta un’impressione di com’erano vestiti, dell’odore che emanavano, e avevo avuto la sensazione che fossero uomini, non ragazzi. Erano delinquenti calati a Mayapore da un villaggio vicino con l’intenzione di spassarsela. E a giudicare dalle voci che giravano, i giovani arrestati non avevano l’aria di essere dei delinquenti.

Venni a sapere degli arresti solo nel tardo pomeriggio del giorno dopo. Anna e Lili ne erano già al corrente. Ronald era tornato la sera prima e le aveva informate che «i responsabili erano sotto chiave». Al momento non mi avevano detto niente perché stavo dormendo e me l’avevano nascosto anche il mattino dopo poiché uno degli arrestati era Hari. Intorno alle dodici e mezza, Lili entrò in camera con Anna e annunciò: «Jack Poulson deve parlare con te, ma può farlo in presenza di Anna». Le chiesi di restare, ma lei rispose che era meglio che ci fossero solo Jack e Anna. Quando arrivò, Jack Poulson aveva l’aria del martire cristiano che avesse appena rifiutato per l’ultima volta di rinnegare Dio. Mi metteva a disagio, e io mettevo a disagio lui. Anna era in piedi accanto alla porta-finestra che dava sul terrazzo, e lui si piantò al suo fianco finché non lo invitai a sedersi. Si scusò per le domande che avrebbe dovuto rivolgermi e spiegò che Mr White lo aveva incaricato di “raccogliere le prove”, poiché ciò che era accaduto non era di sola competenza della polizia, ma coinvolgeva il distretto nel suo complesso.

Avevo avuto tempo di riflettere, di preoccuparmi per le domande che Lili non mi aveva fatto la sera prima ma a cui sapevo di dover dare una risposta. Cos’ero andata a fare a Bibighar? Come facevo a sapere che Hari non era coinvolto, se non avevo visto in faccia i miei aggressori? Avevo capito che il solo modo di superare un interrogatorio senza coinvolgere Hari era rivivere mentalmente l’intera vicenda come si sarebbe svolta se Hari non fosse stato con me a Bibighar.

Raccontai che, dopo aver fatto visita a Miss Crane, avevo lasciato l’ospedale ed ero andata al Santuario. Chiesi esplicitamente a Jack Poulson se potesse evitare di dilungarsi troppo sul Santuario, poiché ci andavo per dare una mano nell’ambulatorio ed ero sicura che fosse una violazione del regolamento ospedaliero, anche per un’infermiera volontaria non retribuita. Lui sorrise, come volevo che facesse. Ma il sorriso si spense, e il suo silenzio mi costrinse a proseguire da sola e giungere alla parte difficile.

Dissi che avevo lasciato il Santuario intorno al tramonto. Sembrava chiaro che nessuno si sarebbe presentato all’ambulatorio a causa delle voci sui disordini. In tutta la città regnava una quiete innaturale. La gente si era autoimposta il coprifuoco. Ma invece di esserne intimorita, provavo una falsa sensazione di sicurezza. Era come se avessi Mayapore tutta per me. Avevo preso la bicicletta, raggiunto l’estensione stradale di Chillianwallah Bagh, attraversato il ponte di Bibighar e superato il passaggio a livello.

«Non ha visto nessuno, nei pressi del passaggio a livello?», mi chiese Jack Poulson.

Ci riflettei. Ero ancora all’oscuro degli arresti. Fino ad allora eravamo ancora sul terreno dei fatti, della verità, ma dovevo valutare fino a che punto potevo permettermi di raccontarla. Non mi parve di vedervi alcun pericolo, e così mi sforzai di evocare un’immagine accurata dell’attraversamento del ponte e del passaggio a livello. «No», risposi. «Non c’era nessuno. Il semaforo del passaggio a livello è diventato verde, e mi pare di ricordare luci e voci provenienti dal casotto del custode. Per voci intendo il pianto di un bambino. La sensazione di una crisi familiare che stava assorbendo l’attenzione di tutti. In ogni caso, ho proseguito a pedalare. Arrivata al lampione di fronte a Bibighar, mi sono fermata e sono scesa dalla bicicletta».

Jack attese un istante e poi chiese: «Per quale motivo?».

«In un primo momento, per togliermi la mantella», risposi. «Me l’ero infilata quando sono partita dal Santuario perché temevo che si sarebbe rimesso a piovere, ma così non è stato e lei sa com’è, quando ci si ritrova inutilmente addosso una mantella impermeabile».

Jack annuì e poi chiese se mi fossi fermata proprio sotto il lampione. Significa che qualcuno mi ha vista, pensai, oppure che stanno cercando di dimostrare che qualcuno avrebbe potuto vedermi. Non ero preoccupata, poiché stavo ancora dicendo la verità. Ma ero guardinga, e sollevata per il fatto che la mezza bugia che stavo per dire fosse più vicina alla verità della prima versione che avevo ideato e poi scartato: che cioè mi fossi fermata davanti a Bibighar per infilarmi la mantella temendo che stesse per piovere, o perché aveva già cominciato e per questo avevo deciso di rifugiarmi nel padiglione. L’avevo accantonata perché non era vero che stava per piovere e in effetti non aveva piovuto, come chiunque avrebbe potuto dimostrare.

E così dissi che sì, mi ero fermata sotto il lampione per togliermi mantella e berretto da pioggia, infilare quest’ultimo nella tasca della mantella e appoggiare il tutto sul manubrio della bicicletta.

«Per quale motivo ha detto che “in un primo momento” si era fermata per togliersi la mantella?», chiese Mr Poulson.

Eravamo arrivati al primo vero punto pericoloso. Provai di nuovo sollievo per aver abbandonato l’idea di una melodrammatica aggressione da parte di sconosciuti che mi avevano sopraffatta e trascinata nei giardini. «Lo troverà terribilmente sciocco», dissi, «o quanto meno incauto e avventato». Ora che stavo effettivamente mentendo, mi congratulai con me stessa. La menzogna era perfettamente intonata alla mia immagine. Tipico di quella sciocca, pasticciona, maldestra di una Daphne Manners. Guardai Jack Poulson negli occhi e gliela rifilai. «L’acquartieramento era così deserto e silenzioso che mi sono detta: magari riuscirò a vedere i fantasmi».

«I fantasmi?», ripeté lui. Cercava di ostentare un’aria solenne ma sembrava semplicemente curioso, curioso come io fingevo di essere stata la sera prima. «Sì, gli spettri di Bibighar», risposi. «Al buio non c’ero mai stata», proseguii correndo un grosso rischio ma uscendone indenne, «e ricordavo di aver sentito dire che il posto era infestato dai fantasmi. E così mi sono fatta coraggio, ho attraversato la strada e sono entrata. Lo si può fare in qualsiasi momento, non essendoci più un cancello. Ho pensato che sarebbe stato divertente e che al mio ritorno avrei potuto dire a Lili: “Bene, i fantasmi di Bibighar li ho stesi. Adesso tocca a Janet MacGregor”. Ho spinto la bicicletta lungo il sentiero che porta al padiglione, l’ho appoggiata al muro, ho spento il fanale e sono salita sulla piattaforma a mosaico».

Ma Mr Poulson non era mai stato a Bibighar. Ci sarebbe andato in seguito per ispezionare la scena del crimine, ma per il momento dovetti spiegargli cos’era la piattaforma a mosaico. «In ogni caso», ripresi, «mi sono seduta nel padiglione, ho fumato una sigaretta», quello mi sfuggì, e di nuovo fu un grosso rischio, poiché se fosse stato trovato qualche mozzicone sopravvissuto alla pioggia di quella notte, di sicuro non sarebbe stato inglese, «e ho aspettato che i fantasmi si facessero vivi. Parlavo da sola, dicendo cose come: “Avanti, fantasmi, fatevi sotto”, e poi mi è venuta in mente Miss Crane e mi sono chiesta se non avessi fatto un’immensa sciocchezza. Suppongo che sia stata una follia, andare lì proprio ieri sera. Ma non avevo preso sul serio quello che era successo alla periferia del distretto, capisce? Suppongo che loro mi stessero osservando. Non ho sentito nulla, a parte lo sgocciolio e il gracidio, le gocce che stillavano dal fogliame e le rane che gracchiavano. Gli uomini sono sbucati fuori all’improvviso. Quasi dal nulla».

Mr Poulson assunse di nuovo l’espressione da martire cristiano. «E lei non li ha visti?». Era l’altro segnale di allarme. «Forse per un istante. Ma è successo tutto così in fretta. Non c’è stato alcun preavviso. Un momento ero sola, quello dopo ero circondata».

Ovviamente questa era la parte della storia che Jack Poulson desiderava sapere più, ma che gli creava un tale imbarazzo da impedirgli quasi di guardarmi mentre la raccontavo. Continuava a lanciare occhiate ad Anna, in cerca di sostegno morale, e per un attimo mi chiesi perché lei se ne stesse lì immobile, palesemente all’ascolto ma tenendo lo sguardo fisso sul giardino, prendendo le distanze dall’interrogatorio, riducendosi a una presenza impersonale che sarebbe passata all’azione, ridiventando Anna Klaus, al primo segno di sofferenza nella voce della sua paziente.

«Mi dispiace di dover insistere con queste domande», riprese Jack Poulson. «Ma c’è qualcosa che ricorda di quegli uomini, o di uno qualunque di loro, qualsiasi cosa che possa aiutarla a identificarli?».

Presi tempo. «Non mi sembra», risposi. «Voglio dire, hanno tutti lo stesso aspetto, non trova? Specialmente al buio». Ero consapevole di aver detto qualcosa che poteva essere considerato indelicato, come anche in contrasto col mio carattere. Lui mi chiese com’erano vestiti. Avevo un ricordo abbastanza vivido di indumenti di cotone bianco: dhoti e camicie a collo alto, vestiti da contadini, sudici e maleodoranti. Ma il campanello d’allarme suonò di nuovo. Compresi che l’eventuale cattura dei responsabili avrebbe messo in pericolo Hari. Se fossi stata ricondotta a Bibighar di sera e messa di fronte a quegli uomini, credo che non mi sarebbero sfuggiti. Puoi riconoscere qualcuno anche quando pensi di non avere alcun appiglio per farlo, anche se hai avuto solo un secondo o due per fartene un’impressione che a malapena chiameresti impressione, quanto meno del tipo che valga la pena di descrivere o cercare di descrivere. Avevo paura di quel confronto, paura di ritrovarmi a dire: «Sì, sono stati loro», poiché a quel punto quegli uomini avrebbero detto di essere stati provocati, si sarebbero inginocchiati e avrebbero implorato pietà sostenendo che una cosa simile non sarebbe mai accaduta se non avessero visto la donna bianca fare l’amore con un indiano.

La trappola era ormai scattata, giusto, zia? Una volta che cominci a mentire, non c’è più via d’uscita. A furia di menzogne mi ero messa in una situazione da cui non potevo più uscire, se non con la verità. Ma la verità non osavo dirla, e così non potevo fare altro che confondere e sconcertare e farmi odiare allo scopo di non coinvolgere Hari, dando sui nervi a tutti insistendo che lui non c’era, creando una quantità di problemi tale che non sarebbero mai riusciti a incriminare o processare i miei aggressori perché sapevano che la testimone principale avrebbe sabotato ogni loro tentativo.

Ma naturalmente avevo dimenticato o quanto meno non avevo fatto i conti con il potere che avevano di accusare e punire basandosi soltanto sul sospetto. Ci fu un momento in cui giunsi quasi a dire la verità, intuendo cosa sarebbe potuto accadere. Sono felice di non averlo fatto, poiché credo che a quel punto avrebbero trovato il modo di dimostrare che Hari era tecnicamente colpevole di stupro, avendo fatto l’amore con me e di conseguenza incoraggiato altri a seguire il suo esempio. Se non altro, le mie menzogne gli hanno risparmiato l’accusa di violenza carnale. E l’hanno risparmiata anche agli altri giovani. Non ho mai chiesto quale sia la pena per il crimine di stupro. L’impiccagione? L’ergastolo? La gente non faceva che parlare di appenderli a una corda. O di spararli da un cannone, che è quello che facevamo agli ammutinati nel diciannovesimo secolo.

E così, quando Jack Poulson mi chiese come fossero vestiti i miei aggressori risposi che non ne ero sicura, ma poi decisi che sarebbe stato meglio dire la verità, e cioè che erano vestiti “da contadini”, piuttosto che dare l’impressione che indossassero camicie e pantaloni come Hari.

«Ne è sicura?», domandò Mr Poulson, il che faceva il mio gioco, poiché lo disse come se la mia testimonianza stesse contraddicendo la versione che lui stava costruendo, o che altri avevano costruito per lui, un quadro al cui centro c’era Hari. Perciò risposi di sì, che erano vestiti come contadini o braccianti. E per andare sul sicuro aggiunsi: «E ne avevano anche l’odore». Il che era vero. «Qualcuno di loro puzzava d’alcol?», domandò Mr Poulson, e io pensai a quando Hari era stato raccolto da sorella Ludmila nel campo abbandonato. Per il momento la verità continuava a sembrare la cosa meno rischiosa, e così risposi che non ricordavo di aver sentito odore di liquore.

«Mi dispiace di doverle imporre tutto questo», disse lui. Gli assicurai che non era un problema, che sapevo quanto fosse necessario. Per la prima volta durante l’interrogatorio ci guardammo negli occhi per più di una frazione di secondo. «C’è il dettaglio importante della bicicletta», riprese lui. «Lei ha detto che l’aveva abbandonata lungo il sentiero, nelle vicinanze del padiglione. Aveva lasciato anche la mantella, appoggiata sul manubrio?».

Lì per lì non riuscii a capire che importanza avesse quell’interrogativo. Immaginavo sapesse che la mantella era stata usata per coprirmi la testa, visto che l’avevo detto a Lili e Anna. Dettagli simili li aveva ottenuti da loro. A me non rivolse una sola domanda sullo stupro in sé. Poveretto! Probabilmente sarebbe morto piuttosto che farlo, magistrato o non magistrato. Ad aver subito una violenza era stata una ragazza inglese, e il suo distacco da uomo di legge non poteva reggere. Decisi di dire la verità anche sulla mantella. «No, mi pare proprio di averla portata con me nel padiglione. Anzi, ne sono sicura. Temevo che il pavimento potesse essere bagnato, invece era asciutto. Alla fine non mi ci sono seduta, l’ho solo posata accanto a me».

Lui parve soddisfatto, e fu solo in seguito, quando la faccenda della bicicletta e del luogo in cui era stata ritrovata mi si ritorse contro, che compresi dove volesse arrivare. Stava cercando di stabilire dove “loro” avessero trovato la bicicletta. Se avessi detto che avevo lasciato la mantella sul manubrio, ciò avrebbe dimostrato che gli uomini sapevano della bicicletta prima ancora di aggredirmi, visto che avevano usato la mantella. Nel caso contrario, poteva significare che l’avevano vista solo mentre si allontanavano lungo il sentiero. Il che avrebbe indicato che se n’erano andati da quella parte e non attraverso il muro crollato in fondo ai giardini. Non ci sarebbero state impronte poiché era un sentiero di ghiaia, e in più, tra la pioggia e i poliziotti che avevano calpestato il terreno, quel genere di pista non avrebbe condotto a nulla. «Ha detto che all’improvviso si è trovata circondata», fu la domanda successiva. «Intende che le si avvicinarono da tutti i lati della piattaforma?».

E di nuovo, un campanello d’allarme. Se avessi risposto di sì, la domanda successiva non sarebbe stata affatto una domanda, ma un’affermazione impossibile da confutare: «Dunque non ha potuto distinguere l’uomo o gli uomini alle sue spalle?».

Mi resi conto che sarebbe stato difficile eliminare del tutto il sospetto che almeno uno di loro potesse essere passato inosservato, specialmente se quell’uomo fosse rimasto nascosto temendo che potessi riconoscerlo. Hari, per esempio. Il padiglione è aperto su ogni lato. Potevo solo minimizzare il pericolo. «Be’, no», risposi, «non da tutti i lati. In un primo momento mi sono seduta sul bordo della piattaforma, poi ho gettato via la sigaretta e mi sono girata per rimettermi in piedi. E gli uomini si stavano avvicinando alle mie spalle. Non lo so, forse avevo sentito un rumore che mi aveva fatto decidere di andarmene. In effetti, quel posto faceva venire i brividi. Quando mi sono girata, due di loro erano già in piedi sulla piattaforma, e gli altri tre o quattro vi si stavano arrampicando».

Se avevo gridato? No, ero rimasta troppo sorpresa per farlo. E loro avevano detto qualcosa? Mi sembrava che uno avesse ridacchiato.

Mr Poulson volle approfondire il margine di errore riguardo agli «altri tre o quattro». Erano tre o erano quattro? In totale erano cinque oppure sei? Dissi che non ricordavo. Che ricordavo solo l’orribile, repentina sensazione di essere aggredita, non sapevo di preciso da quanti uomini, se cinque o sei. Uomini come quelli che avevo descritto, braccianti, delinquenti, puzzolenti da far schifo. Dissi che era stato come essere scaraventata in uno di quei disgustosi scompartimenti di terza classe su un treno indiano. E che non ne volevo più parlare.

A quel punto Anna si rianimò. Si girò e disse: «Sì, credo che possa bastare, Mr Poulson», in quel suo tono molto diretto e tedesco. Lui si alzò all’istante, più che lieto di togliere il disturbo, anche se solo per poco. Anna lo accompagnò alla porta. Tornò da me per sincerarsi che stessi bene, poi mi lasciò sola. Lili mi portò il pranzo, un piatto di frutta con cagliata, dopodiché riposai fino al tardo pomeriggio. Quando mi svegliai, Lili era con me e Raju stava uscendo dalla stanza dopo aver portato il vassoio del tè.

«Mr Poulson avrebbe dovuto dirtelo», disse Lili dopo che ne ebbi bevuta una tazza. «Ieri sera sono stati arrestati alcuni giovani. Uno di loro è Hari».

 

La mia bicicletta era stata ritrovata nel fossato davanti a casa di Hari, a Chillianwallah Bagh. Non potevo crederci. Era una tale, mostruosa ingerenza del fato. «Ma lui non c’era!», protestai. «Hari non era lì!». Lili volle credermi. Cercai di non farmi prendere dal panico. Gli uomini arrestati dovevano essere i miei aggressori, e a quel punto dovevano avere già parlato dell’indiano che avevano visto amoreggiare con me nel padiglione. Da parte mia avrei dovuto negarlo, insistere a negarlo e sperare che Hari mantenesse la promessa di non dire niente, di essere ignaro di tutto. Sentivo che me l’aveva fatta, quella promessa, lasciandomi andare. Chiesi a Lili quando fosse stato arrestato, e perché, e da chi. Quando seppi che era in prigione fin dalla notte prima e che era stato Ronald ad arrestarlo e a trovare la bicicletta davanti a casa sua dissi: «Sta mentendo, non pensi? La bicicletta l’ha trovata a Bibighar, ma poi l’ha portata davanti a casa di Hari e l’ha gettata lui nel fossato».

Lili era sconvolta perché sapeva che poteva essere vero, ma non voleva crederci. Non poteva accettare l’idea che un pubblico ufficiale britannico potesse abbassarsi a tanto. Ma ci sono solo tre possibili spiegazioni, e solo una di esse è probabile. Avevo lasciato la bicicletta lungo il vialetto, appoggiata a un albero. Il vialetto era immerso nel buio, e la bicicletta sarebbe passata facilmente inosservata, a meno che non si sapesse dov’era e non si fosse muniti di lanterna. Quando Hari mi aveva portata in braccio lungo il sentiero, dovevamo averla superata prima ancora che io dicessi che era «lì, da qualche parte» e lui mi mettesse giù. Ma in quel momento Hari non era interessato alla bicicletta. Voleva solo riportarmi a casa. Suppongo che per un attimo avesse pensato che trovando la bicicletta avrebbe potuto farmici salire sopra e poi spingermi a destinazione. Ma in quelle circostanze sarebbe stato come uno scherzo di cattivo gusto, non credi? E Hari non perse tempo a cercarla. Penso che fosse rimasta dove l’avevo lasciata, che quando Ronald era arrivato a Bibighar con i suoi uomini fosse stata trovata quasi subito e che lui l’avesse caricata su una camionetta, fosse andato a Chillianwallah Bagh e l’avesse gettata nel fossato davanti a casa di Hari. Credo che fosse il genere di comandante che lasciava molto spazio di manovra ai suoi uomini, ottenendo in cambio che seminassero false prove per lui e tenessero la bocca chiusa. Ricordi l’episodio in cui il suo viceispettore aveva schiaffeggiato impunemente Hari? Non c’era alcun elemento che potesse stabilire un collegamento tra Hari e l’aggressione, a parte i suoi noti rapporti con me e la gelosia, i sospetti e i pregiudizi di Ronald. Cos’altro poteva averlo condotto a casa di Hari? E per quale motivo, quando vi era arrivato, si era messo a cercare la bicicletta? Se la bicicletta si trovava in un fossato, per trovarla prima bisognava cercarla, giusto?

Se la bicicletta era già lì prima del suo arrivo, suppongo sia possibile che uno degli uomini di Ronald l’avesse trovata setacciando la zona, o comunque si chiami quello che la polizia fa quando va a prelevare un sospettato. Ma l’impressione che ebbi prima della cosiddetta “inchiesta” fu che Ronald avesse detto di essere entrato a casa di Hari proprio perché avevano trovato la bicicletta lì di fronte, e che si fosse reso conto solo allora che era l’abitazione di Hari. Ma se era questa la prima impressione che aveva voluto dare, forse non stava ragionando in modo troppo lucido, poiché agli occhi degli inglesi non aveva certo bisogno di giustificare l’irruzione a casa di Hari. A quanto pareva, quella sera ci era già passato una volta. Forse aveva la mente in subbuglio per quello che avevo detto a Lili e che lei gli aveva riferito: che Hari quella sera non era con me, che non era colpevole di niente. Ma lui voleva che lo fosse. E penso che quando si trattò di stendere un vero rapporto fu costretto a cambiare la sua versione, dicendo che si era recato a casa di Hari e poi aveva trovato la bicicletta, e non il contrario.

Voglio concedere a Ronald il beneficio del dubbio sul fatto che, dopo avere saputo cosa mi era accaduto ed essere ripartito dalla MacGregor House, fosse passato dal suo quartier generale, avesse formato una squadra, si fosse recato a Bibighar, non vi avesse trovato nulla, avesse setacciato l’area circostante, avesse arrestato quei giovani che bevevano liquore di contrabbando in una baracca sull’altra sponda del fiume e a quel punto si fosse diretto a Chillianwallah Bagh, dove aveva trovato Hari col volto tumefatto e dove i suoi agenti avevano scorto la bicicletta nel fossato. Era andato lì perché pensava che mentissi, anzi ne era certo, e perché i giovani arrestati nella baracca sull’altro lato del ponte erano conoscenti di Hari. Ma ci era andato principalmente perché odiava Hari. Perché voleva provare la sua colpevolezza. In questo caso restano solo altre due spiegazioni per la presenza della bicicletta in quel fossato. Una è che Hari fosse tornato a prenderla dopo che io l’avevo lasciato, avesse pedalato fino a casa e poi, rendendosi conto del pericolo, l’avesse gettata nel fossato; ma ciò implicava che avesse perso la testa, perché altrimenti non avrebbe mai abbandonato la bicicletta davanti a casa propria. L’altra spiegazione è che uno dei miei aggressori conoscesse Hari, sapesse dove viveva e avesse rubato la bicicletta e poi l’avesse lasciata davanti a casa sua, prevedendo che la polizia avrebbe setacciato la zona; il che significa che conoscendo Hari doveva anche essere al corrente della nostra amicizia, e induce automaticamente a pensare che potesse aver previsto che quella sera saremmo stati a Bibighar. Ma non lo avevamo previsto neanche noi, e l’idea che quella sera a Bibighar uno o più uomini avessero riconosciuto Hari al buio e avessero avuto la lucidità mentale di rubare la mia bicicletta e lasciarla davanti a casa sua è un po’ dura da digerire, non trovi? Chi poteva aver fatto una cosa simile? Uno dei domestici di Lili? Uno di quelli di Mrs Gupta Sen? Qualcuno che poteva aver letto e decifrato il biglietto in inglese in cui davo appuntamento a Hari per la sera del 9 agosto al Santuario? No, non è credibile. Non lo sarebbe nemmeno ipotizzando, come feci per un momento, che questo furbissimo o fortunatissimo uomo o ragazzo potesse essere uno di quei barellieri che sorella Ludmila assoldava, mai per più di qualche settimana poiché, se restavano più a lungo, cominciavano a stufarsi e «i loro pensieri prendevano una brutta strada». Il giorno che andai a dirle addio vidi che aveva un nuovo ragazzo. Mi raccontò di quelli che le scrivevano dopo che se n’erano andati, e disse che uno solo di loro era tornato a mendicare. E per un attimo mi passò per la testa che quello tornato a mendicare potesse essere lo stesso che si trovava con sorella Ludmila e Mr de Souza la notte in cui avevano soccorso Hari. Che potesse aver sviluppato un interesse per Hari, seguendolo dappertutto, imparandone i movimenti, spiandoci a Bibighar. Ma per quale motivo? Un ragazzo simile, di ritorno al suo villaggio, poteva aver parlato dell’indiano e della ragazza bianca, condotto a Mayapore una banda di delinquenti attirati dalle voci di disordini e saccheggi, essere penetrato a Bibighar insieme a loro dal terreno abbandonato per trascorrervi la notte e averci visti, Hari e io, mentre facevamo l’amore. I nostri aggressori ci avevano osservati, questo era certo. Ma le coincidenze sono troppe. Quegli uomini erano dei comuni delinquenti. Ed era stato Ronald Merrick a spostare la bicicletta, lo so. Non penso che Hari avesse molti amici, ma non credo nemmeno che avesse dei nemici, a parte Ronald; nessuno, in ogni caso, che si sarebbe spinto a simili estremi per farlo incriminare.

Se non era stato Ronald, doveva essere stato Hari stesso a spostare la bicicletta, per poi farsi prendere dal panico e abbandonarla davanti alla propria casa. Ma non penso che Hari avesse perso la testa.

Ma io sì. Dissi a Lili di lasciarmi sola. Volevo riflettere. E a quel punto divenne tutto chiaro. Ronald aveva setacciato Bibighar, aveva trovato la bicicletta e l’aveva caricata sulla camionetta; poi aveva attraversato il ponte diretto a Chillianwallah Bagh, aveva interrogato il custode del passaggio a livello, aveva trovato i giovani “amici” di Hari, li aveva arrestati e quindi si era recato da Hari, dove aveva scaricato la bicicletta nel fossato e fatto irruzione in casa sua. E mentre Hari veniva arrestato, probabilmente gli agenti avevano perquisito la sua stanza. Hari aveva distrutto il biglietto in cui gli davo appuntamento al Santuario? Il messaggio non venne mai menzionato, sicché doveva averlo fatto. Forse era stata l’unica cosa che era riuscito a fare prima del loro arrivo, sempre che non se ne fosse sbarazzato in precedenza. La fotografia che gli avevo dato, invece, venne menzionata. Ronald l’aveva sequestrata come “prova”: era una copia di quella che ti spedii e che Hari stesso mi aveva aiutata a scegliere quel giorno nel laboratorio di Subhas Chand. «Mr Kumar aveva una sua foto in camera da letto», disse Mr Poulson durante l’inchiesta informale che si svolse alla MacGregor House. «Gliel’aveva data lei?». Capisci, come se stessero cercando di dimostrare che Hari aveva un’ossessione per me e aveva rubato la foto per guardarla di notte, come se mi stessero offrendo la possibilità di ritrattare tutto, di passare dalla loro parte, di abbandonare le mie sciocche idee di lealtà, arrendermi e ammettere che mi ero infatuata di lui, che Hari aveva fatto leva sulle mie emozioni nel modo più cinico e calcolatore, che era un sollievo poter finalmente dire la verità, e cioè che ero tornata in me e non ne ero più intimorita e men che meno infatuata, che lui mi aveva aggredita e brutalizzata e poi mi aveva costretta a subire il turpe oltraggio di essere stuprata dai suoi amici, dicendomi che se l’avessi tradito mi avrebbe uccisa, il che sarebbe stato facile perché i britannici stavano per ricevere il benservito. Oh, sapevo bene cosa avevano in mente, magari andando contro le loro opinioni personali: era la storia a cui dovevano credere a causa della possibile posta in palio. Del trio che componeva la commissione privata d’inchiesta, o qualunque fosse la sua denominazione ufficiale (Mr Poulson, un giovane, spaventato e imbarazzato funzionario inglese di sottodivisione di cui non ricordo il nome e il giudice Menen), solo il giudice, che presiedeva la commissione, manteneva un’aria di assoluto distacco. Era un distacco che mi pareva dovuto alla stanchezza, una stanchezza che aveva condotto alla perdita di ogni speranza. Ma la sua semplice presenza mi incoraggiava, non solo perché era un indiano, ma perché ero sicura che non avrebbe potuto presiedere quella commissione se ci fosse stata la benché minima probabilità che gli uomini accusati venissero processati nella sua corte distrettuale. Immagino che se l’inchiesta avesse dato il risultato che la commissione non aveva più alcuna speranza di ottenere, ma che la comunità inglese continuava a volere, il caso sarebbe diventato di competenza dell’Alta Corte provinciale.

Ma sto correndo troppo. Devo tornare per un momento alla sera del 10, quando allontanai Lili dalla stanza per avere il tempo di riflettere, in preda al panico per quello che potevano avere scoperto ai danni di Hari, per l’identità dei giovani arrestati e per quanto potevano aver detto. Poi ripensai con sgomento alla grossolana avventatezza, tipicamente inglese, con cui avevo dato per scontato che, se io avessi detto che era innocente, Hari non avrebbe avuto problemi. L’avevo lasciato solo, convinta di aiutarlo col semplice fatto di frapporre una distanza tra noi. Ma ora lo rivedevo dove l’avevo abbandonato, all’uscita di Bibighar. Cosa aveva fatto a quel punto, zia? Era tornato a cercare la bicicletta e l’aveva presa pensando in quel modo di aiutarmi? Oppure si era incamminato verso casa? Quando ero arrivata alla MacGregor House avevo il collo e la faccia sporchi di sangue; così mi aveva detto Anna. Doveva provenire dal volto di Hari, quando ci eravamo abbracciati. In quel buio non avevo visto come quegli uomini lo avevano ridotto. Non glielo avevo chiesto. Non ci avevo pensato. A quanto pare, quando Ronald fece irruzione in camera sua Hari si stava sciacquando il volto. Naturalmente cercarono di dimostrare che fossi stata io a ferirlo cercando di difendermi. Ma ora tutto quello che riesco a pensare è l’insensibilità che mostrai lasciandolo solo ad affrontare tutto quello senza dire niente, negando ogni cosa solo perché glielo avevo detto io, ma dovendolo fare con quei tagli o quelle abrasioni sul volto che non poteva giustificare. Quando all’inchiesta citarono quei tagli, risposi: «Perché lo chiedete a me? Domandatelo a Mr Kumar. Io non ne so niente. Lui non era presente». «Glielo abbiamo chiesto», disse Mr Poulson. «Ma lui non ha voluto rispondere». Poi cambiò argomento. In quel momento stavano raccogliendo la deposizione di Ronald. Io lo fissavo, ma lui evitava il mio sguardo. «Forse era stato colpito da un poliziotto», dissi. «Non sarebbe stata la prima volta». Ma non mi fu di alcun aiuto. Era la cosa sbagliata da dire, in quel momento e in quella situazione. Li portava a simpatizzare con Ronald invece che con me. Non aveva importanza, peraltro, visto che in ogni caso avevo già cominciato a odiare me stessa. Mi detestavo perché mi rendevo conto che Hari mi aveva preso in parola e non aveva detto niente: letteralmente niente. Niente, niente, niente. Non aveva parlato malgrado gli indizi a suo carico, di cui non avevo tenuto conto quando lo avevo abbandonato ed ero corsa via.

Lo avevano maltrattato, non è vero? Torturato in qualche modo? Ma lui non aveva aperto bocca. Al momento dell’arresto era stato sorpreso col volto coperto di tagli, la mia fotografia in camera e la mia bicicletta nel fossato davanti a casa sua, ma non aveva parlato. A un certo punto, durante quei giorni di domande e risposte, Lili mi rivelò: «Non vuole dire dove si trovava. Nega di essere stato a Bibighar. Dice che non vi vedevate dalla sera della visita al tempio. Ma non vuole spiegare dov’è stato o cos’ha fatto dopo il lavoro e prima di tornare a casa passate le nove. Dev’essere rientrato più o meno quando sei arrivata anche tu».

E naturalmente c’erano altre cose che non avevo anticipato o non sapevo: le visite di Ronald alla casa di Chillianwallah Bagh, alla MacGregor House e al Santuario. Quando avevo lasciato Hari a Bibighar, probabilmente immaginavo che gli sarebbe bastato dire che aveva trascorso l’intera serata a casa, persuadere zia Shalini a giurarlo, se mai glielo avessero chiesto, o inventarsi un’altra storia, a seconda di quello che a suo modo di vedere avrebbe funzionato. Ma per Hari non c’era storia che potesse funzionare. Non gli avevo dato la possibilità di calmarmi e farmi ragionare, che gli avrei concesso se fosse stato un inglese: «Ascolta, per l’amor del cielo, se non ero qui a Bibighar dove diavolo ero? Come faccio a spiegare il labbro gonfio, o l’occhio nero, o il graffio sulla guancia?».

Non gliene avevo data la possibilità perché anche nel panico davo comunque per scontato di essere superiore e privilegiata, di sapere cos’era meglio per entrambi, poiché il colore della mia pelle mi metteva automaticamente dalla parte di quelli che non mentivano mai. Ma in realtà abbiamo ormai superato di molto quello stadio di semplicità coloniale. Abbiamo creato un goffo automa giudiziario e non sappiamo più come fermarlo. Continua a funzionare per noi anche quando meno lo vogliamo. Lo abbiamo creato per dimostrare quanto siamo equi e civili. Ma è un automa bianco e non è in grado di distinguere tra amore e stupro. Capisce soltanto il rapporto fisico e lo vede solo come un crimine perché è stato creato per punire il crimine. Di sicuro ha punito Hari per questo, e se i rapporti fisici tra razze diverse sono un crimine, lo ha punito a ragione. Forse un giorno qualcuno causerà per errore un contatto sbagliato, o magari inserirà un circuito speciale con l’obiettivo di rendere l’automa imparziale e indifferente al colore della pelle, e allora probabilmente l’automa esploderà.

 

Dopo aver saputo da Lili dell’arresto di Hari e averci riflettuto a fondo, convocai Raju e gli dissi di mandare a chiamare Poulson Sahib. Avevo ormai superato il panico. Ero furiosa, lo ero perfino con Lili. Sentivo che mi aveva tradita permettendo l’arresto di Hari senza muovere un dito per impedirlo. Con me era molto paziente, ma tra noi si era creato un distacco che prima non c’era mai stato. Disse che se davvero volevo parlare con Mr Poulson, lo avrebbe chiamato al telefono. Forse pensava che mi fossi decisa a confessare. Sapeva che avevo mentito. Ma per lei la verità sarebbe stata dolorosa quanto le menzogne. Era stata lei a invitare Hari a casa sua. E Hari era un indiano, un compatriota. Per un giorno o due dopo Bibighar mi sentii un’intrusa, una delle sue arpie che si era lasciata inspiegabilmente coinvolgere nella vita di una famiglia indiana e che si era chiusa in camera per mantenere intatto ciò che era rimasto della sua integrità razziale.

Mr Poulson si presentò dopo cena. Lili lo accompagnò da me e mi chiese se volevo che si trattenesse anche lei. Risposi che forse sarebbe stato meglio se ci avesse lasciati soli. Non appena se ne fu andata interpellai Poulson: «Perché ieri sera non mi ha detto che Hari Kumar era stato arrestato?». Di solito provavo simpatia per lui, ma quella sera lo disprezzavo. D’altra parte, ero pronta a disprezzare chiunque. Poulson aveva l’aria di voler sprofondare attraverso il pavimento. Disse che Hari era stato arrestato perché sembravano esserci gli elementi che lo comprovavano, malgrado la mia “convinzione” che non fosse coinvolto. «Quali elementi?», chiesi. «Quali elementi che possano contraddire i miei? Siete impazziti, se pensate di poter incolpare Hari».

Ribadì che gli indizi raccolti la sera prima conducevano a Hari, e che, malgrado la mia convinzione che non fosse stato presente a Bibighar, non lo si poteva escludere.

Dissi che non era una questione di convinzione. Davvero pensava che non l’avrei saputo, se Hari fosse stato uno dei miei stupratori? Lui trasalì per lo spavento. L’idea di una confessione intima lo terrorizzava. Quando me ne resi conto credetti di aver trovato la chiave giusta: spaventarli con l’idea di ciò che avrei potuto dire in tribunale. Gli chiesi degli altri arrestati. Lui finse di non saperne nulla. «A quanto pare Ronald tiene ben coperte le sue carte», osservai sorridendo. «Ma non c’è da stupirsene, giusto? Dopo tutto, è ovvio che è stato lui a mettere la mia bicicletta in quel fossato».

Lili era rimasta scioccata, ma la sua reazione non era nulla in confronto a quella di Jack Poulson. «Cosa diamine glielo fa pensare?», sbottò. Gli dissi di chiederlo a Ronald. Mi sembrava meglio restare sul vago, lasciargli qualcosa di scabroso su cui rimuginare. Prima che se ne andasse (e se ne andò poiché a suo parere «per il momento non c’era nulla di proficuo da approfondire») tornai alla carica: «Hari non era lì, e dubito che ci fossero anche gli altri arrestati. È la solita storia, non è vero? Una donna inglese viene aggredita e all’improvviso tutti perdono il senso della misura. Se Ronald o chiunque altro di voi pensa di potersela prendere impunemente con i primi indiani su cui avete messo le mani, vi sbagliate di grosso. In tribunale non reggerà mai, perché in tribunale ci sarò io e ripeterò quello che le sto dicendo adesso. Con la differenza che in quella sede potrei scendere molto più nei dettagli».

Lui si alzò e mormorò qualche parola di scusa, dicendo che si rendevano tutti conto dell’orribile esperienza che avevo avuto e che era certo che nessun innocente sarebbe mai stato punito. «In tal caso, mi dica una cosa», insistetti. «Lasciamo perdere il singolo innocente. Gli altri arrestati corrispondono forse alla descrizione che ho fatto dei miei aggressori?».

Disse che non lo sapeva, che non li aveva visti. Ma io non avevo intenzione di dargliela vinta così facilmente. Era un rischio, ma mi sembrava che valesse la pena di correrlo. «Oh, Jack, la smetta. Lo sa benissimo. Anche se non li ha visti, di sicuro sa chi sono. Sono come li ho descritti io? Bifolchi puzzolenti? Luridi braccianti? Oppure sono ragazzi come Hari? Giovani del tipo che Mr Merrick sembra detestare?».

Avevo colto nel segno, ma lui ripeté che non lo sapeva. Gli sembrava che uno o due di loro fossero noti alle autorità o sospettati di condurre attività politiche «di stampo anarchico». Non mi lasciai sfuggire l’occasione: «Ah, intende giovani istruiti? Non contadini maleodoranti?».

Lui scosse il capo, non tanto per negarlo quanto per impedire ulteriori discussioni.

 

Ripensandoci ora, mi dispiace di aver messo alle corde il povero Jack Poulson. Ma era necessario. Sono abbastanza sicura che quella sera se ne andò pensando: “Il caso non sta in piedi. Non con gli uomini che Merrick ha arrestato”. Non so quanto di più possa aver detto a casa del vicecommissario, che era quasi sicuramente la sua destinazione. Probabilmente non aveva bisogno di dire altro che questo, o qualcosa su questa falsariga: «O la ragazza sta mentendo, oppure Kumar è davvero innocente, ma se lei insiste a mentire è come se lui lo fosse, innocente, perché non riusciremo mai a provare il contrario. Lo stesso vale per gli altri. Merrick ha preso una cantonata».

Robin White prese le distanze dall’inchiesta, al punto da affidarla a Jack Poulson fino al momento della decisione finale. Se fosse stato come il suo predecessore, Mr Stead (un personaggio che Vassi e quelli come lui detestavano), Dio sa cosa sarebbe successo. Suppongo che per lui l’aggressione a una povera oca inglese non fosse molto importante, se paragonata a tutto il resto. Non so se Poulson lo informò della bicicletta e della mia accusa ai danni di Ronald. Non sarebbe stata una cosa facile da dire. All’inchiesta la bicicletta non venne mai menzionata, e l’unica occasione in cui venne fuori il nome di Hari fu quando Ronald fece rapporto sugli arresti. Le domande che Jack Poulson gli pose sembravano studiate in anticipo, tanto che l’intera deposizione mi parve ridicola. Mr Poulson lesse a voce alta i nomi degli uomini e si limitò a chiedere a Ronald dove e quando fossero stati arrestati e cosa stessero facendo. Come già sapevo grazie a Lili, i poveretti stavano bevendo liquore di contrabbando in una baracca nei pressi del ponte di Bibighar, ma all’inchiesta rimasi nuovamente colpita dall’ingiustizia della cosa. Per quanto riguardava Hari, Ronald disse che si trovava nella sua stanza e si stava «lavando la faccia, segnata da tagli e abrasioni». Fui quasi sul punto di interromperli e chiedere della bicicletta, ma poi ci ripensai. Il fatto che non venisse menzionata era un buon segno. Mi chiesi se Jack Poulson avesse scambiato due parole in privato con Ronald e avesse deciso, sulla base delle sue risposte, di lasciar perdere la bicicletta, non solo per il bene di Ronald ma anche per quello del Servizio, della bandiera e tutto il resto. Ma quando Jack Poulson mi chiese se ricordassi di aver “sfregiato” qualcuno dei miei aggressori, ribattei con l’osservazione sui tagli di Hari. Sul fatto che magari avesse avuto un alterco con qualche poliziotto.

Dopo il cosiddetto rapporto sugli arresti, la commissione congedò Ronald e tornò a concentrarsi e fare domande sulla mia testimonianza, e fu lì che mi resi conto che gli elementi alla base degli arresti erano così inconsistenti che, se da un lato non provavano nulla, dall’altro potevano provare di tutto. Il giudice Menen era rimasto in silenzio, nel senso che non mi aveva ancora rivolto una sola domanda, ma verso la fine mi disse: «Le devo chiedere perché si è rifiutata di identificare gli arrestati», cosa che avevo fatto qualche giorno prima, quando il grosso dei disordini a Mayapore era ormai passato e loro avrebbero voluto chiudere il caso in un modo o nell’altro e farla finita. «Mi sono rifiutata di identificarli perché sono certa che non sono stati loro. Se necessario, sono pronta a ribadirlo in aula».

Il giudice Menen disse che capiva i miei motivi riguardo «a quel Kumar», ma che il rifiuto da parte della testimone principale di identificare gli altri poteva essere interpretato come un atto di ostruzione alla giustizia e poteva aiutare l’accusa a provare il suo caso a dispetto della mia testimonianza, adducendo l’ostruzione a esempio della mia inaffidabilità.

Le sue parole mi fecero riflettere. Mr Poulson sembrava sollevato. Non aveva importanza che Menen fosse un indiano e che forse non avrebbe dovuto rivolgersi in quel modo a una giovane donna bianca. Ad aver parlato era la Legge. Quel vecchio furbacchione del giudice, pensava, mi aveva messa con le spalle al muro, spaventandomi con un dettaglio legale e ricordandomi che neanche la testimone principale poteva impedire alla Corona di perseguire la giustizia. Ma io credevo di aver adocchiato una via d’uscita. E non ero neanche del tutto certa che lo stesso giudice Menen si sentisse su un terreno così solido. «Se è per questo che la mia testimonianza viene considerata inaffidabile», chiesi, «diventerebbe più credibile se recitassi la farsa di fronteggiare quegli uomini pur non avendo alcuna intenzione di identificarli? Preferite che la reciti? In ogni caso, quando dirò che non li riconosco dovrete credermi sulla parola. Il semplice atto di guardarli non è di per sé indice di affidabilità, giusto?».

Il volto di Menen rimase impassibile. Rispose che avrebbero continuato a presumere che stessi dicendo la verità, e mi ricordò che l’intera inchiesta era basata sul presupposto che le mie parole fossero veritiere e che sarebbe stato soltanto il mio rifiuto di accettare il confronto con gli arrestati a sollevare la questione della mia inattendibilità. «Nella sua testimonianza», proseguì, «dice di essersi fatta un’impressione dei suoi aggressori. Li descrive come contadini o braccianti. Per quale motivo, allora, essendosi fatta quell’impressione, si rifiuta di aiutarci a stabilire se esistano elementi sufficienti a trattenere gli arrestati?».

In quel momento, guardandolo, pensai: sai anche tu che sono gli uomini sbagliati. Vuoi che vada al penitenziario, che li guardi e dica: No, non sono affatto come li ricordo. Oppure vuoi che metta bene in chiaro, scandalosamente in chiaro, che è inutile sperare di presentarsi in tribunale con questi ragazzi come imputati.

Ma avevo ancora paura di trovarmeli davanti. Ero sicura che non erano stati loro, ma non lo davo per certo. Non volevo affrontarli. Se fossero stati loro i colpevoli, c’era il pericolo, molto vago ma comunque reale, che nel vedermi si facessero prendere dal panico e incriminassero Hari. E se io li avessi riconosciuti, non volevo essere costretta a dire che non erano stati loro. Non ero sicura che ci sarei riuscita, nemmeno per Hari. Non volevo mentire in quel modo. C’è una differenza tra cercare di impedire un’ingiustizia e ostruire la giustizia.

«No, non collaborerò», dissi. «Uno di quegli uomini è innocente. Se viene accusato un innocente, la colpevolezza o l’innocenza degli altri non mi interessa. Rifiuto categoricamente qualsiasi confronto. I miei stupratori erano contadini. I giovani che avete arrestato non lo sono, ragion per cui sono quasi certamente innocenti. Tanto per cominciare sono tutti indù, giusto?».

Mr Poulson confermò che lo erano.

Sorrisi. Questa me l’ero preparata bene. «Bene, ecco un’altra prova: uno dei miei violentatori era musulmano. Era circonciso. Se volete che vi spieghi come lo so sono pronta a farlo, ma preferirei sorvolare. Uno di loro era musulmano. Erano dei delinquenti comuni. A parte questo, non c’è altro che possa dirvi. Non posso dirvi più di quanto non abbia già detto. L’impressione che mi sono fatta di loro è abbastanza forte da poter dire “no, non sono loro”, ma non a sufficienza da dire “sì, sono loro”. Per quanto ne sappia, potrebbero anche essere stati soldati britannici coi volti anneriti. Non credo sia così, ma se dicendolo riesco a convincervi che almeno in un caso avete l’uomo sbagliato, sono pronta a farlo».

Sia Mr Poulson che il giovane di cui non ricordo il nome sembravano profondamente turbati. Il giudice Menen mi fissò e poi disse: «Grazie, Miss Manners. Non abbiamo altre domande. Siamo spiacenti di averla dovuta sottoporre a questo interrogatorio».

Si alzò e lo imitammo tutti, come se fossimo in un’aula di tribunale e non nella sala da pranzo della MacGregor House. Ma le similitudini finivano lì. Invece di uscire per primo dalla stanza, il giudice Menen rimase immobile, facendomi capire che il privilegio spettava a me. Quando arrivai alla porta, Jack Poulson mi precedette e me l’aprì. Un gesto puramente automatico, un ingranaggio della macchina anglo-indiana. Ma potevo sentire l’odore del suo sgomento. Era qualcosa di amaro, come se avesse appena ingerito un’erba aromatica dalla rapida azione paralizzante.

 

Salii in camera e mi versai da bere. Credevo che fosse tutto finito, pensavo di averla avuta vinta e che Hari sarebbe stato rilasciato di lì a qualche ora, magari il giorno dopo. Uscii sul balcone, come avevo fatto spesso nel corso di quelle ultime due settimane. Durante i disordini potevi udire le grida e gli spari e il rombo delle camionette e degli autocarri che percorrevano da una parte all’altra il quartiere residenziale. Per un giorno o due c’erano stati poliziotti di guardia al cancello della MacGregor House. Temevano che la casa venisse presa d’assalto, ma da parte nostra eravamo più preoccupate per Anna Klaus che per noi stesse. A un certo punto era rimasta virtualmente imprigionata nell’ospedale segregato della città nativa, e per un paio di giorni non l’avevamo più vista. Mrs White avrebbe voluto che Lili e io ci trasferissimo nel suo bungalow, ma Lili non voleva saperne. E nemmeno io. Era stato allora che erano apparsi gli agenti di guardia. Nel vederli mi ero sentita anch’io prigioniera. Ronald non si era mai fatto vivo. Non voleva più avere niente a che fare con me, e sentivo che l’intera comunità degli europei, a parte qualche eccezione, era pronta a fare lo stesso o lo aveva già fatto. Ma non aveva importanza. Ero arrivata al punto di credere che per noi bianchi tutto stesse per finire. E nemmeno questo mi turbava. Una sera Lili mi disse che i rivoltosi avevano fatto irruzione nel carcere. È così che si risolverà, avevo pensato. Hari verrà liberato. Non sapevo che non si trovava in quel penitenziario. Gli indiani prenderanno il potere, mi ero detta. E forse non mi puniranno. Forse Hari mi raggiungerà qui. Ma non riuscivo a visualizzare la scena con chiarezza. E non sarebbe accaduto nulla di simile. Era intervenuto l’esercito e si sentiva sparare, e se per noi era diventata solo una questione di tempo, per loro la situazione era ormai disperata. L’automa si era attivato.

Ma io ero in pensiero per Anna e per sorella Ludmila. Erano le uniche persone bianche che conoscevo che vivevano o lavoravano su quella sponda del fiume. In seguito sorella Ludmila mi avrebbe confessato che non aveva rispettato il coprifuoco ed era uscita ogni sera con Mr de Souza e il suo barelliere. C’era molto da fare. In un paio di occasioni la polizia li aveva costretti a rientrare, ma in generale riuscivano a sfuggirle. La “casa della morte”, come veniva chiamata dalla gente, era sempre piena. E ogni mattina veniva visitata dalla polizia e dalle donne i cui mariti o i cui figli non erano rincasati la sera prima.

Ero preoccupata anche per te, finché Lili mi disse che aveva chiesto a Robin White di usare canali ufficiali per informarti che stavo bene. Le autorità avevano cercato di prevenire la pubblicazione del mio nome sulla stampa nazionale. Speranza vana. Grazie a Dio ci eravamo parlate al telefono prima che il mio nome venisse diffuso ai quattro venti. Ma temevo ugualmente che tu potessi decidere di venire a Mayapore. Ti ringrazio di non averlo fatto, di avere capito. Se ti fossi presentata, sarei crollata. Dovevo affrontare la cosa da sola, e ringrazio anche Lili per averlo capito. Sulle prime pensavo che il suo distacco fosse causato dalla disapprovazione, poi che fosse dovuto a quella curiosa indifferenza indiana verso il dolore. In realtà la sua “indifferenza” era completamente “europea”, del tutto civilizzata, come la tua e come la mia. Ci sono dolori che proviamo, e dolori che riconosciamo negli altri, che è meglio ignorare, non per insensibilità ma per discrezione. Il distacco di Anna, invece, era molto diverso. Era anch’esso europeo ma anche ebraico, un’espressione di autodifesa così come di sensibilità, quasi non volesse essere costretta a ricordare il dolore poiché ricordandolo avrebbe trasferito quella sensibilità dalle mie pene alle sue. Mantenendo una distanza era in grado di stringere un’amicizia con me, di concedermi la sua fiducia e il suo riguardo, il genere di considerazione che può sorgere tra due estranei che riconoscono reciprocamente la tempra di cui sono fatti. Non ci si dovrebbe aspettare di più dalle persone; eppure l’affetto proviene da una fonte diversa, non credi? Penso al bene che ci vogliamo tu e io, che non è solo una questione di sangue, poiché esiste anche tra me e Lili. È un affetto che vince, che esiste in se stesso, ma che non ha necessariamente una spiegazione, poiché non ha niente a che fare con la fiducia, se non nel senso che la fiducia origina proprio dall’affetto. Ti fidi dopo aver imparato ad amare.

Nei riguardi di Anna non avrei mai potuto nutrire un sentimento del genere. Né lei per me, ne sono certa. Ma eravamo due buone amiche, fidate e comprensive. A un certo punto sviluppi una sorta di istinto per le persone. Mi sto dilungando su questo perché quel giorno sul balcone, mentre sorseggiavo il mio meritato gin con succo di lime, vidi Ronald e Jack Poulson che uscivano di casa e salivano sulla camionetta di Ronald. Il giudice Menen non era con loro. Si era trattenuto a bere qualcosa con Lili.

Curioso, pensai. Per quanto mi riguarda, Ronald e Jack Poulson sono solo gente. Non provavo alcun risentimento, né verso Ronald né tanto meno verso Jack, che era evidentemente pronto a trascorrere la serata insieme a lui. Ma sentivo che non appartenevano alla cerchia di quelle persone che «valeva la pena conoscere», come un giorno aveva detto mia madre, probabilmente intendendo qualcosa di completamente diverso. Ma io avevo perfettamente chiaro cosa intendevo. Li conoscevo già, Ronald e Jack. Erano persone prevedibili, prevedibili perché lavoravano per l’automa. Dicevano quello che diceva l’automa, facevano quello che l’automa faceva e credevano nelle stesse cose in cui credeva l’automa, perché erano stati individui come loro a instillargli quelle convinzioni. E finché l’automa avesse funzionato sarebbero stati sempre nel giusto, poiché l’automa era il paradigma della correttezza.

In loro non vi era alcuna passione originaria. Qualunque sentimento individuale si spegneva quando andava in conflitto con quello che l’automa era predisposto a sentire. All’inchiesta c’era voluto il giudice Menen per sfondare la barriera dell’automa (se “sfondare” è il modo corretto di descrivere le azioni di un uomo che trasformava perfino l’atto di alzarsi da una sedia in qualcosa di perfettamente studiato e bilanciato). Ma lui ci era riuscito. Un momento era seduto dalla loro parte, dalla parte dell’automa, e il momento dopo era al di qua. Lo eravamo insieme: mi aveva portata con sé, o mi aveva raggiunta, comunque la si voglia mettere. Per questo mi sembrava giusto che si fosse trattenuto a bere un bicchiere con Lili, lasciando che i servi dell’automa se ne andassero da soli a escogitare il modo di far credere che l’automa avesse condotto l’inchiesta a una conclusione logica. Dovevano salvare la faccia dell’automa, oltre che la loro.

Era strano, ritrovarmi a pensare quelle cose di Jack Poulson. Mr e Mrs White lo avevano in grande stima. Era ancora giovane, abbastanza giovane da essere cauto, il che potrebbe sembrare ridicolo ma non lo è, poiché un uomo ancora giovane ha una famiglia da mantenere e una carriera da perseguire. Ma è probabile che ci sia bisogno di un evento come quello che sarebbe diventato noto come “il caso dei giardini di Bibighar” per distinguere tra gli uomini meccanici e quelli capaci di lanciare una chiave inglese tra gli ingranaggi. Il che è un altro modo di descrivere quello che provavo riguardo al giudice Menen. La cosa interessante è che la chiave che gettò nell’ingranaggio, quella che fermò l’inchiesta, era quella giusta. Di sicuro ci vogliono anni di esperienze e conoscenze per sapere quale chiave usare e quando usarla. Credo che lui lo sapesse così bene che alla fine la diede a me, concedendosi l’ulteriore soddisfazione di lasciare che fossi io a lanciarla. Sapeva che l’unico modo di arrestare temporaneamente l’automa era puntare dritto al cuore di ciò che lo aveva attivato: la piccola rotella di procedura giuridica che era stata inserita nel meccanismo nella speranza che una volta partita si sarebbe bloccata solo quando fossa stata fatta giustizia. Andando al cuore dell’ingranaggio, Menen lo aveva smascherato per quello che era e mi aveva dato la possibilità di fermarlo imponendogli qualcosa di impossibile: di capire la giustizia di ciò che stava facendo e di provare che la sua giustizia era pari o superiore alla mia. Ma era un blocco solo temporaneo.

Prima che il giudice Menen se ne andasse, rientrai dal balcone e feci un bagno. Ero pronta e vestita per la cena quando Lili venne a chiedermi come stavo e se avevo voglia di vedere Anna, che era passata a farci visita di ritorno dall’ospedale segregato. «Il giudice Menen è ancora qui?», chiesi, e lei disse che se n’era andato da una decina di minuti. E che mi mandava un caro saluto. Era la prima volta che vedevo Lili commossa. Prima di allora l’avevo solo vista divertita, o ironica, o critica, o distante. Credo che fosse stato il giudice Menen a commuoverla con le sue parole, o meglio a far sì che si commuovesse nel rivedermi dopo aver parlato con lui. Non so cosa le avesse detto, né lo saprò mai. Tipico di Lili. E tipico anche di lui. Ma il fatto è che Lili e io ci eravamo allontanate, in un modo terribilmente inglese avevamo messo metri e metri di spazio tra noi, e ora eravamo di nuovo insieme.

Scesi insieme a lei e diedi il benvenuto ad Anna. Lili le chiese di restare a cena, e lei accettò. Per me fu come una festa imprevista, il programma di un picnic rivelato a una bambina in un dorato mattino d’estate. Quando Lili uscì per dire a Raju di avvertire in cucina che saremmo state in tre a cena, rabboccai il drink di Anna. «Si vede che sta meglio», disse. «Continui così».

«Credo proprio che lo farò», risposi. «Penso che abbiamo vinto». Usai il “noi” perché Anna mi aveva sostenuto fin dall’inizio. Sapevo che prima ancora dell’inchiesta le era stata rivolta la cruda domanda: «A suo giudizio Miss Manners era intacta prima dell’aggressione?». E sapevo qual era stata la sua risposta. Quando dissi che pensavo che avessimo vinto, lei sollevò il bicchiere.

 

Quella fu l’ultima serata felice che passai. In seguito mantenni l’ottimismo, ma non la gioia. E alla fine anche l’ottimismo svanì. Avevo bisogno di Hari. Avevo anche bisogno di Lili, e di Anna, e di te, ma di lui più di tutti. Mi ero creata la mia cerchia ristretta, non è vero? Quella entro la quale mi sentivo al sicuro. Una zona di sicurezza nella terra di nessuno. Ovunque andiamo, qualunque cosa facciamo, sembriamo sempre circondarci con questa protezione illusoria. Trascorsero ore. Giorni. Più di una settimana. Non uscivo più di casa. Quando veniva qualcuno mi rifugiavo in camera. La MacGregor House tornò gradualmente a riempirsi di vibrazioni la cui fonte mi era sempre sfuggita, ma che ora riuscivo a individuare e a vedere come inseparabile dalla casa stessa: fiducia, compromesso, qualcosa di fondamentalmente esplorativo ed evasivo, come se le persone che la frequentavano stessero cercando di imparare e non di insegnare, e quindi di perdonare e non di accusare. Hai presente quel vecchio detto riprovevole, «Quando lo stupro è inevitabile rilassati e goditelo»? Ebbene, c’è stato più di uno stupro. Non posso dire che mi fossi goduta il mio. Ma Lili stava cercando di rilassarsi e godere di quello che abbiamo fatto al suo paese. Non dico che l’abbiamo fatto per cattiveria. Forse c’era addirittura amore. Da qualche parte nel passato, e nel presente, e nel futuro, un amore come quello tra me e Hari. Ma i guastatori ci sono sempre, vero? Gli Swinson. Le streghe scese dal treno a Lahore. I Ronald Merrick. Il piccolo idiota che aveva riassunto la sua ridicola storia insulare fischiando e dicendo che «un muso nero di fornitore» stava «guadagnando una fortuna».

Un giorno venne a trovarmi Connie White. Arrivò con Mavis Poulson, ma dopo una decina di minuti si rese conto che non avrebbe ottenuto nulla e che portarsi dietro Mavis, con tutta la sua spigolosità e la sua virtuosa gravidanza, era stato un errore. E la mandò via. Era la moglie del vicecommissario, e poteva farlo senza investire più coraggio di quello sufficiente a sopportare un giorno o due di antipatia da parte di Mavis. Quando fummo finalmente sole disse: «Mio marito non sa che sono qui, e non glielo dirò. So che non dovrei interferire, ma Hari Kumar è stato trasferito in prigione. E anche gli altri giovani».

Non era una sorpresa. Me l’aspettavo. Il silenzio di Lili, che durava ormai da giorni, mi aveva preparata. Il fatto che non capissi non voleva dire che non lo credessi possibile. Chiesi per quale crimine fosse stato incarcerato, e Mrs White rispose con un gesto che sottolineava la futilità tanto della domanda quanto della risposta. «L’intero incartamento è ormai nelle mani del commissario, non possiamo più farci niente. Ma volevo sapere: c’è qualcosa che può dire a me che magari non direbbe a Jack, a Robin o a Lili?».

«Che genere di cosa, santo cielo?», esclamai.

Lei fece di nuovo quel gesto, di cui conoscevamo entrambe il significato. Disse che quello probabilmente potevo dirlo solo io. Mi parve di fiutare una trappola e sorrisi. «Insomma», riprese lei, «sa come sono fatti gli uomini. Si ripetono di continuo di non potersi permettere il lusso della vera curiosità. Intendo la curiosità sulle persone. Oh, so che risolvono ogni genere di complicatissimo problema, dimostrando che siamo fatti di acqua, di gas o di chissà cos’altro, e che l’universo continua a esplodere e a espandersi alla velocità di un’infinità di anni luce al secondo, e sono cose affascinanti, suppongo, ma a noi non servono a niente quando si tratta di tenere a bada la servitù ed evitare che se ne vada con la stessa decisione, anche se a una velocità di pochi chilometri all’ora».

Risi. Era tutto così assurdo. Chiacchiere. Insulsaggini. Battute. Poveretta. Era il suo arsenale. La chiave di volta, la crepa nell’armatura, era quella parola: «curiosità». Mi fece capire cosa si aspettava che dicessi. «Cos’è che la incuriosisce?», chiesi, e scoppiai di nuovo a ridere. Probabilmente stavo facendo la figura della pazza. Dicono che la povera, vecchia Miss Crane fosse uscita di senno. Lili andò a visitarla una volta, quando ero ancora alla MacGregor House. Forse due, non ricordo. Non ne parlavamo molto. Aveva staccato tutti i quadri dai muri, pur non avendo in programma di andare da nessuna parte. Poi, più avanti, commise suttee. Avrai letto l’articolo sul «Times of India». Lili e io l’abbiamo visto, ma non ne abbiamo mai parlato. Forse lei te l’ha raccontato per lettera. Naturalmente è sbagliato dire che si “commette” suttee. Suttee, o sati (è questa la grafia giusta?), è una sorta di stato di grazia vedovile, giusto? Non lo si commette, vi si entra. Una buona vedova indù diventa suttee. Dovrei farlo anch’io, zia? Hari è morto? Suppongo si possa dire che qui viviamo in una tale condizione di eremitaggio da poter già passare per sannyasi. Ma no, non ho ancora finito con questo mondo. Ho ancora almeno un dovere da compiere.

E sapevo di averne uno da compiere per Connie White. E così, quando smisi di ridere, ripetei: «Allora, cos’è che la incuriosisce?».

Bisogna pagarle, le facezie. Bisogna sborsare il loro prezzo.

«Be’, a quanto pare è cominciato tutto con un certo Moti Lal», rispose lei.

Era un nome che non avevo mai sentito, ma venni a sapere che Moti Lal era l’evaso che Ronald stava cercando la prima volta che aveva arrestato Hari. Era un ex impiegato dello zio di Hari ed era un agitatore di studenti, giovani e lavoratori. Quando aveva provato a organizzare il personale dell’ufficio di Romesh Chand, questi l’aveva cacciato. Poi gli era stato notificato un ordine restrittivo secondo la sezione 144 del codice di procedura penale. Credo che in quello ci fosse stato lo zampino di Ronald. La sezione 144 è quella che invita ad astenersi da atti che possano creare disordini nel distretto, giusto? In ogni caso, per infastidire gli inglesi Moti Lal aveva fatto come molti altri e aveva infranto la restrizione, e per questo era stato processato secondo la sezione 188 del codice penale e condannato a sei mesi. Ricordo tutte le formule legali perché ascoltando il racconto di Connie mi ci aggrappai nella speranza che potessero spiegare quello che era accaduto a Hari. Così non fu, ma più tardi le andai a controllare nei volumi di giurisprudenza nella biblioteca di Lili.

Moti Lal era finito in prigione ad Aligarh, ma poi era evaso. Era lui che Ronald stava cercando quando era passato dal Santuario la mattina in cui Hari vi stava ancora smaltendo la sbronza. Chiesi a Connie cosa c’entrava Moti Lal col fatto che un innocente venisse imprigionato per un crimine che non aveva commesso. «È proprio questo il punto», rispose lei. «Hari Kumar non è in prigione per l’aggressione, ma per motivi politici. Perché conosceva Moti Lal».

Risi di nuovo. «Hari conosceva Moti Lal. Io conosco Hari. Perché non mandare in galera anche me? Dunque suppongo che anche tutti gli altri giovani conoscessero Moti Lal?».

Connie rispose che non le importava granché degli altri ragazzi. Erano tutti schedati. Dopo che Jack Poulson li aveva interrogati, sia lui che Robin si erano convinti che, se non fossero stati arrestati la sera di Bibighar, sarebbero finiti al fresco nel giro delle quarantotto ore successive, per insurrezione o sabotaggio. Comunque la si pensasse riguardo alla giustizia o all’ingiustizia dell’accaduto, nella situazione attuale erano “bersagli facili”: tanto meglio che fossero stati tolti di mezzo.

«“Bersagli facili” è la definizione giusta», dissi. «A questo punto non potreste più rilasciarli, giusto? Sono stati arrestati per il crimine peggiore che esista, e lo sanno tutti. E lo stesso vale per Hari. Solo che per lui la questione è ancora più delicata. Perché tutti sanno che ci frequentavamo».

Connie ammise che per Hari era più complicato, o quanto meno che lo era stato quando non si sapeva ancora con certezza se avesse preso parte all’aggressione. D’altra parte, nessuno dei giovani era stato accusato formalmente di violenza carnale. Il caso era ancora aperto. La polizia stava ancora indagando. Ma sembrava improbabile che sarebbero mai riusciti a trovare i responsabili, a meno che qualcuno di loro non se ne fosse vantato nel villaggio da cui provenivano o in prigione. Non si poteva escludere che i miei aggressori fossero stati arrestati in seguito, durante le sommosse. La polizia sperava solo che non fossero rimasti uccisi. Connie ne dubitava, perché individui «di quella risma» non avrebbero messo a repentaglio la propria vita sfidando l’esercito. Era più probabile che fossero stati arrestati in seguito ai saccheggi. Certo, se erano ancora liberi, a quel punto potevano essere ovunque, e probabilmente si poteva solo sperare in un informatore, in un loro nemico che li aveva sentiti pavoneggiarsi. Il problema era che in India non potevi mai fare affidamento su prove acquisite in tal modo.

Non so quali fossero le intenzioni di Connie. Alleviare le mie ansie che Hari potesse ancora essere punito per lo stupro; mettermi in guardia, avendo intuito la verità e immaginando che non volessi la cattura dei colpevoli, nel timore che incriminassero Hari; cogliermi con la guardia abbassata nella speranza che dicessi qualcosa di sventato, rovinando tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento. O forse nessuna di queste cose. Quando non hai fatto che mentire, cominci a sospettare quasi tutti di astuzie, inganni e sotterfugi. Immagino che la sua fosse semplice curiosità, come aveva detto all’inizio, che stesse esercitando il suo diritto di soddisfarla in quanto donna, ora che gli uomini avevano reso tutto irrevocabile.

Disse che Moti Lal non era mai stato preso. Che si era «dato alla macchia». I giovani arrestati mentre bevevano liquore di contrabbando avevano giurato che non lo vedevano da quando era stato incarcerato, ma a parere di Jack Poulson mentivano. Il problema era che nel corso delle indagini e degli interrogatori Hari Kumar si era «gradualmente rivelato un giovane da considerare con profondo sospetto» (e anche questa mi parve il genere di affermazione che poteva provenire solo da Jack Poulson). La polizia lo teneva da mesi sotto osservazione. Era stato fermato e interrogato durante la caccia a Moti Lal. Aveva fatto «mistero del suo nome» e in un primo tempo aveva fornito quello sbagliato, il che era già di per sé un reato, anche se Ronald Merrick non lo aveva perseguito considerandola solo un’infrazione tecnica. Ma poi aveva dichiarato testualmente: «Odio questo maledetto paese, quelli che ci vivono e quelli che lo governano». E aveva lavorato nello stesso ufficio di Moti Lal. Era stato anche collega di un giovane anarchico di nome Vidyasagar, che era stato arrestato per diffusione di letteratura sediziosa, un opuscolo in cui incitava la polizia ad aiutare il popolo a «liberare i martiri dei giardini di Bibighar». Al momento dell’arresto di Hari dopo il mio stupro, la polizia aveva perquisito la sua stanza e stranamente non vi aveva trovato alcuna corrispondenza a eccezione di una sola lettera, proveniente dall’Inghilterra e firmata da un individuo che aveva usato il solo nome di battesimo e che quindi non era stato identificato, ma che faceva chiaramente parte delle forze armate e che era stato a Dunkirk. Questo individuo definiva Dunkirk «un macello», e avvertiva Hari che era possibile che le sue lettere venissero aperte. Il padre lo aveva già fatto con alcune mentre lui era in Francia e non gliele aveva inoltrate perché piene di «posizioni politiche estremiste». Nessuno riusciva a spiegarsi il motivo per cui Hari avesse conservato proprio quella lettera, tra le tante che doveva aver ricevuto nel corso del tempo da persone diverse. Naturalmente non avevano intenzione di indagare più a fondo sull’identità di quel giovane inglese dalle opinioni alquanto «ribelli». Bastava il fatto che la lettera sembrasse più o meno provare che anche Hari era un ribelle. E così, senza troppe difficoltà, era stata avanzata la tesi che Hari Kumar, malgrado all’apparenza fosse un giovane pacifico, istruito e privo di appartenenze politiche, fosse il leader di un gruppo di facinorosi che soltanto grazie a un arresto preventivo non avevano potuto agire apertamente contro lo sforzo bellico. Gli incartamenti relativi a Kumar e agli altri giovani erano stati trasmessi al commissario, il quale aveva ratificato la decisione a cui Robin White era giunto «suo malgrado»: la decisione di imprigionarli secondo le leggi sulla Difesa dell’India.

Ora che Connie giunse a quel punto della sua filippica, stavo ridendo nel modo in cui si ride quando l’alternativa è piangere. Sapevo chi doveva essere quel ragazzo inglese. «Ma è una farsa!», sbottai. «È assurdo! Hari può provare che è tutta una ridicola, mostruosa farsa!».

«Ma cara, è proprio questo che personalmente mi lascia perplessa», obiettò lei. «Gli altri giovani hanno negato tutto; tutto tranne il fatto di conoscersi, cosa che era difficile negare. Hanno gridato e pianto e insistito sulla loro innocenza, a parte il reato di bere liquore di contrabbando. E sappiamo che mentivano. Ma Hari si è comportato in modo del tutto diverso. È stato interrogato personalmente da Jack Poulson, ma si è rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda. Non ha negato né confermato nulla. L’unica cosa che ha detto a propria difesa è stata questa: “Non ero a Bibighar. Non vedevo Miss Manners dalla sera della visita al tempio”. E naturalmente questo l’ha detto solo per rispondere all’accusa di stupro. La sua replica a qualsiasi altra domanda è stata: “Non ho niente da dire”. È innaturale. Lo è per me, quanto meno. Gli uomini hanno semplicemente interpretato il suo silenzio come un’ammissione di colpa. Se fossi un uomo, probabilmente l’avrei fatto anch’io. Ma sono una donna, e lo è anche lei. Penso a Hari Kumar, ascolto Jack mentre parla di lui con Mavis, ascolto mio marito parlarne col vecchio Menen, e mi viene da pensare: “Qualcosa non quadra. Un uomo non resta zitto, a meno che non stia cercando di mettersi da solo il cappio al collo. Un uomo lotta per la propria vita e la propria libertà. Lotta perché è un uomo”».

Eravamo sedute in veranda. Ah, c’era proprio tutto, lì con noi: le poltrone di vimini, il tavolino col vassoio del tè, il profumo dei fiori, l’odore dell’India, quella sua aria di certezza, di perpetuità; ma anche la strana sensazione che nulla di tutto ciò stesse davvero accadendo, perché era cominciato col piede sbagliato e così era continuato finché non era finito, e anche la fine era sbagliata, poiché per me era irreale e remota eppure totale nel modo in cui ti avviluppava, come se si fosse già trasformata in un inizio. Quanto è tenace la speranza di cui soffriamo! Credo che la MacGregor House fosse stata eretta su fondamenta simili. Gli scalini che portavano alla veranda su cui ero inciampata e caduta erano solo a pochi passi di distanza. Non avevo mai visto il fantasma di Janet MacGregor, ma avevo la sensazione che lei avesse visto il mio.

«Forse è sciocco da parte mia», riprese Connie, «ma se Hari Kumar fosse stato un inglese forse avrei potuto comprendere meglio il suo silenzio. Ma anche in quel caso non avrebbe potuto essere altro che un silenzio imposto da una donna».

Mi rimisi a ridere. Lo feci perché mi ero resa conto che questa volta non c’era davvero nulla che potessi fare: per Connie, per me stessa, per Hari, per chiunque. Le mie gambe, nude dal ginocchio in giù, erano un anacronismo, uno scandalo. Per interpretare la scena con un minimo di stile avrei avuto bisogno di un abito lungo di mussola bianca e una paglietta in testa. Avrei dovuto essere cosciente della dignità dell’occasione. Avrei dovuto poter dire: «Ma Harry è un inglese», e poi alzarmi, schiudere il parasole e ritrarmi da Constance White in modo che lei sapesse ma non dicesse nulla, poiché il nostro era un mondo in cui gli uomini morivano all’aperto e le donne piangevano in privato e la regina sedeva sul trono come una saggia vecchietta, riuscendo nell’ardua impresa di provare che c’era un mondo in cui anche la corruzione moriva per mancanza d’aria viziata.

Ah, era grandioso, vero? Io lì seduta in poltrona e Connie White in un’altra, a mostrare ettari di pelle malaticcia, sudando sotto le ascelle mentre Hari sudava in una disgustosa galera, al di là della nostra portata, chiedendosi cosa avesse guadagnato a comportarsi da bianco quando una ragazza gli aveva imposto una promessa: una promessa per il suo bene, certo, ma anche per quello di lei. Perché lei lo desiderava. Voleva che le restasse vicino, che continuasse a fare l’amore con lei. Era meraviglioso. Meraviglioso perché era scuro di pelle. Io lo desideravo e lui era scuro, e così il suo essere scuro era parte di ciò che volevo. Seduta in veranda insieme a Connie, in preda alle risate, per un acrimonioso, egoistico istante sperai che lui stesse soffrendo quanto me, per aver posto quel suo maledetto, acquisito orgoglio inglese al di sopra della pulsione a penetrare me. Gli augurai ogni felicità nel suo stupido sistema di valori. Tipico, pensai. Preghi un indiano di non dire niente e lui lo interpreta in senso letterale.

Più avanti, naturalmente, mi resi conto che non era stato così. Che lui lo aveva interpretato deliberatamente in quel modo. Per punirsi. Per avere qualcosa di nuovo con cui deridere se stesso. Dopo che Connie se ne fu andata, senza avere scoperto nulla di nuovo se non forse il fatto che ero una squilibrata, Lili mi trovò in lacrime nella mia stanza. La comicità del momento era svanita ed era esploso il melodramma, non tanto in tragedia quanto semplicemente nella vita, con tutte le sue stupide correnti che ti scagliano in modo indiscriminato da un pensiero all’altro ma riescono sempre a tenerti a galla. Non puoi mai annegare. Mai e poi mai, finché non muori. Allora perché tutta questa ridicola paura della verità?

Ma con Lili seduta sul mio letto, intenzionata a confortarmi ma anche a rimproverarmi per quelle assurdità, ridiventai bambina. Piansi e gridai: «Lo voglio, lo voglio. Riportamelo, zia. Ti prego, fa’ qualcosa per riportarmelo».

Lei non disse nulla. Come Hari. Per loro, suppongo, non c’è davvero niente da dire. Niente, se la loro intenzione è quella di costruire e non distruggere. Dietro tutte le chiacchiere e la violenza dell’India c’è un silenzio profondo e duraturo. Shiva vi danza, Vishnu vi dorme. Perfino la loro musica è silenzio. È l’unica musica che conosco che sembra consapevole di spezzare il silenzio e di tornarvi quando è finita, come a dimostrare che qualunque suono prodotto dall’uomo è un’illusione.

Che strana concezione del mondo! Noi non la capiremo mai. Sospetto che nemmeno loro la comprendano. È nel tentativo di capirla che sorella Ludmila vaga per le strade, raccogliendo i corpi dei morti e dei morenti? È soltanto un concetto che si può far risalire a un’esperienza primigenia di dolore e sofferenza, estrema ma ormai dimenticata? Me lo chiedo perché qualche settimana dopo, quando mi resi conto di essere incinta e chiesi a Lili di far venire Anna Klaus, mi parve che anche Anna fosse in bilico su quello stesso crinale tra realtà e illusione per aver subito privazioni e sofferenze ed essere sopravvissuta. Anna crede molto nell’anestesia, è una grande somministratrice di sedativi. La ricordo in piedi in camera mia, la fronte corrugata nel suo piccolo cipiglio professionale mentre frugava nella sua borsa nera. Quale abbondanza di compromessi si trova nella borsa di un medico! Anna sembrava molto lontana, ma al tempo stesso pareva portarmi con sé, a milioni di chilometri di distanza lungo interminabili gallerie piastrellate di bianco, passaggi sotterranei di degradazioni umane salvate dal lerciume solo perché noi nordici abbiamo imparato a trasformare la sofferenza in qualcosa di asettico e non contagioso. In un primo momento mi feci la sciocca idea che stesse preparando qualcosa perché potessi sbarazzarmi del bambino. «Che cos’è, che cos’è?», chiesi. «Non si agiti», ribatté lei. «È solo per concederle una buona notte di sonno. Le madri in attesa devono essere contemplative. Come le suore».

E così la lasciai proseguire. Ma poi a un tratto dissi: «Cosa posso fare, Anna? Non riesco a vivere senza di lui».

Lei non mi guardò, continuando a dosare la pozione. Quando rispose non si rivolse a me, ma alla sua medicina. Dopo tutto, era l’unica cosa di cui poteva fidarsi davvero, in cui poteva credere e riporre il suo amore. «È quello che deve imparare», disse. «A vivere senza».

Poi mi porse il bicchiere e mi restò accanto finché non l’ebbi bevuto fino all’ultima goccia.

 

 

APPENDICE ALLA PARTE SETTIMA

Lettere di Lady Manners a Lady Chatterjee

 

Srinagar, 31 maggio ’43

 

Mia cara Lili,

spero tu mi abbia perdonata per non aver accettato il tuo invito del mese scorso, e per il silenzio che da allora ho interrotto solo con i miei due telegrammi. Nell’ultimo, una settimana scorsa, ti promettevo di scrivere. Se lo desideri, vieni a trovarmi il mese prossimo. Sarò sulla casa galleggiante.

Temo di prevedere un’infinità di complicazioni legali. La povera Daphne è morta senza fare testamento, ragione per cui credo che, per quanto riguarda la bambina, l’eredità sia subordinata a un regime di amministrazione fiduciaria, a meno che la parte proveniente dalla madre di Daphne non venga rivendicata dai nipoti. Mrs George Manners aveva una sorella, che Daphne chiamava zia Kate e che era morta in un incidente stradale. Il marito si era risposato, ma le prime nozze avevano prodotto due o tre tra figli e figlie, cugini con cui Daphne ricordava di aver giocato da piccola. Se Daphne fosse morta intestata ma senza progenie, suppongo che cugini e cugine avrebbero potuto avere diritto a qualcosa. Non sono sicura di cosa succeda quando la figlia in questione è illegittima. Il tutto verrà trasmesso ai legali di Londra, visto che i soldi si trovano là. Daphne è stata molto cauta, con la sua piccola eredità. Non ha mai toccato il capitale, limitandosi ad attingere alla rendita tramite le banche indiane. In ogni caso, ho chiesto a Mr Docherty a ’Pindi di fare il possibile per mettere ordine nella faccenda, ma ci vorrà un’eternità per capire cosa spetta alla bambina e ancora più tempo per sapere che uso se ne potrà fare.

Nel frattempo, sono io a essere responsabile per lei. Quando verrai, Lili, forse potrai dirmi se la piccola è figlia di Hari Kumar. Ho un motivo speciale per volerlo sapere. Non concerne alcuna disputa legale o accusa penale. Cercare di determinare la paternità è fuori questione. Mr Kumar è al di là tanto delle nostre accuse quanto del nostro aiuto, e voglio che continui a esserlo. Ma nel concedere rifugio e affetto alla bambina per amore di Daphne, oltre che per amor suo, preferirei sapere di poterlo fare nella convinzione che la sua paternità non sia avvolta nel dubbio oltre che nella tragedia. So di non aver bisogno di dire che desidero la tua opinione, non una rassicurazione, e che se non ti sentissi in grado di darmela non voglio che tu finga solo per mettermi il cuore in pace.

È una bambina dolce e graziosa. La sua pelle sarà chiara, ma non abbastanza da farla passare per bianca. Di questo sono felice. Crescendo, non si lascerà condizionare dalla tentazione di portare una maschera. Questo almeno le verrà risparmiato: le sofferenze e le umiliazioni subite da così tante giovani eurasiatiche. Intendo crescerla come un’indiana, ed è uno dei motivi per cui l’ho chiamata Parvati. L’altro è che credo sia un nome che a Daphne sarebbe piaciuto: Parvati Manners. In futuro, sarà lei a decidere se vuole cambiare cognome.

È stata restia a venire al mondo, ma adesso che c’è sembra altrettanto determinata a non lasciarlo. Il dottor Krishnamurti ci ha procurato una balia, una graziosa ragazza del Kashmir che ha perso il suo primogenito e ricopre Parvati di attenzioni. Sarebbe la perfetta ayah, ma dice di non volersene andare da Srinagar. È sposata con uno dei giovani barcaioli che conducono le shikara durante l’alta stagione, e che ho promesso di impiegare quando mi trasferirò giù al lago. Magari riuscirò a convincerli a venire entrambi a ’Pindi in settembre. Lui ha l’aria della canaglia, ma formano una bella coppia, e lei lo tiene a freno. È commovente, vederli giocare con Parvati come se fosse la loro bambina. Mentre lei allatta la piccola lui le resta accanto, di guardia. È in parte affascinato, in parte imbarazzato dal procedimento, ma è profondamente fiero delle abilità di sua moglie, nonché suppongo della parte che lui stesso ha avuto nel riempirle i seni di quel latte che ora va alla figlia di qualcun altro. E immagino che entrambi vedano i guadagni di lei come una compensazione per ciò che hanno perduto, un dono di Allah.

Piacerebbe anche a Daphne, guardarli. Ha potuto vedere la piccola soltanto per un secondo o due. Il travaglio si è protratto per quarantotto ore. Né io né te abbiamo avuto figli, ragione per cui potremmo forse essere classificate allo stesso livello di ignoranza degli uomini, o di quegli uomini che non appartengono alla professione medica. Il dottor Krishnamurti è stato magnifico. Povera Daphne, a guardarla l’avresti giudicata abbastanza grande e grossa da poter avere dozzine di figli, ma la sua pelvi aveva qualcosa che non andava e la piccola era nella posizione sbagliata. Il dottore avrebbe voluto ricoverarla in ospedale per raddrizzare il feto, ma Daphne si è rifiutata. E così l’intervento è stato effettuato qui a casa, con un paio di infermiere, un anestesista e una quantità di strumenti. Mancavano ancora due o tre settimane alla data prevista di nascita. Il dottore mi ha spiegato che il feto era stato raddrizzato, ma che alla minima occasione avrebbe potuto rimettersi in una posizione tale da causare un parto podalico. Aveva consigliato a Daphne di non essere assurda e acconsentire a un cesareo, così da poter risolvere la cosa in un battibaleno. Ma lei aveva rifiutato. Si era fatta l’idea che fosse suo dovere spingere fuori il bambino dal proprio ventre come natura comanda. Io e Krishnamurti siamo sempre stati sinceri l’uno con l’altra. È triste pensare che per diventare amici ci sia voluta questa terribile vicenda. Gli avevo subito detto quello che la tua dottoressa Klaus ti aveva confidato, che Daphne aveva un ritmo cardiaco irregolare. Dopo averla visitata, lui mi aveva assicurato che non era di per sé un fatto preoccupante, anche se probabilmente era stato per questo che i dottori londinesi le avevano sconsigliato di proseguire a guidare ambulanze. La cosa strana è che lei non lo avesse mai detto. Be’, no, in realtà non è strano. È tipico. Aveva sempre finto che fosse stata la sua vista a causare quella che lei una volta aveva definito la «rimozione dal servizio». Ma in realtà la sua cardiopatia non era una complicazione dal punto di vista del parto; era solo quello che Krishnamurti definiva «un piccolo debito in più nel bilancio».

A un certo punto, durante quelle orribili quarantotto ore, ho creduto che Daphne volesse la morte del bambino, o quantomeno la propria. Ma da allora ho cambiato idea. Voleva soltanto “farlo nel modo giusto”. Il feto si è rimesso nella posizione sbagliata, suppongo perché non poteva uscire. Krishnamurti aveva avuto la lungimiranza di portare qui tutta l’attrezzatura. Aveva trasformato la camera da letto in una sala operatoria. La povera Daphne non era abbastanza lucida da capire cosa stava succedendo. Alla fine sono stata io a dare il permesso di effettuare il cesareo.

E ora ce l’ho sulla coscienza. Daphne avrebbe dovuto essere ricoverata in ospedale. Malgrado Krishnamurti avesse preso tutte le precauzioni possibili, è morta di peritonite. Dopo che se n’è andata, per un paio di giorni non sono riuscita a guardare la neonata. Col permesso di Krishnamurti avevo assistito all’estrazione. Ero vestita come un’infermiera in sala operatoria, camice bianco e mascherina sulla bocca e sul naso. Dovevo vedere quella componente della vita. Se non avessi avuto il coraggio di farlo, non sarei mai riuscita a perdonarmelo. Ma all’inizio avevo temuto di non farcela. Sembrava qualcosa di osceno, come l’apertura di un barattolo, che di per sé non è oscena ma lo diventa quando il barattolo è un addome umano. Ma poi, quando il barattolo era ormai aperto e avevo visto cosa ne stavano estraendo, era stato come se anch’io stessi rinascendo. Era un miracolo, e ti faceva capire che i miracoli non sono belli, poiché esistono su un piano di esperienza in cui parole come “bellezza” non significano nulla.

L’altra cosa che per me non significava nulla era che quello strano, piccolo, ingarbugliato grumo di carne che veniva sollevato da Daphne (ma forse il termine giusto è sradicato, poiché mi era parso che le loro mani guantate avessero dovuto cercarlo e incoraggiarlo a venir fuori) non fosse dello stesso colore di sua madre. La differenza era lieve, tanto che se non fosse per un ricordo specifico potrei anche convincermi che al momento non vi avessi badato per il semplice fatto che non l’avevo notata. Ma l’avevo notata. E ricordo precisamente di aver pensato: Sì, lo vedo, il padre era scuro di pelle. Ma questo non mi aveva provocato alcuna reazione a livello emozionale. Ne avevo preso nota e poi me n’ero dimenticata. Mi è tornato in mente solo dopo, alla morte di Daphne, quando loro hanno cercato di mostrarmi la neonata per distrarmi. Ma non è stato per questo che non ho voluto vederla. L’ho fatto perché nello stato mentale in cui ero la incolpavo di avere ucciso Daphne. Semmai è stato proprio il suo aspetto di indiana a farmi provare il primo moto di compassione e a farmela vedere come una bambina. Povera piccola, mi sono detta, non ha un futuro in cui sperare.

Ti ho detto che Daphne l’ha vista per un secondo o due, tra uno stato di incoscienza e l’altro. L’infermiera gliel’ha avvicinata. Lei ha cercato di toccarla, ma non ne ha avuto la forza. Però ha sorriso. Ed è per questo che voglio che tu veda Parvati coi tuoi occhi e giudichi se c’è qualche somiglianza con Hari Kumar. Temo di non vedere Daphne in lei, ma forse tu ci riuscirai. I parenti sono di solito gli ultimi a riconoscere le somiglianze.

Con affetto,

Ethel

 

 

Rawalpindi, 5 agosto ’47

Mia cara Lili,

ho deciso di andarmene da ‘Pindi. Mi rifiuto di vivere in un luogo i cui abitanti verranno trasformati in nemici dell’India, il paese che mio marito ha cercato di servire, con un solo tratto di penna. E puoi contare sul fatto che il termine “nemici” non sia un’esagerazione. Il Pakistan è il nostro supremo fallimento. Non riesco a sopportarne l’idea. Non avrebbero mai dovuto sbarazzarsi di Wavell. La nostra unica giustificazione per duecento anni di dominazione era l’unificazione. Invece abbiamo preso un paese composito e lo abbiamo diviso in due, e tutti in patria non fanno che ripetere quanto sia stato bravo il nuovo viceré a risolvere la questione in modo così rapido. Hanno ragione, ovviamente. Ma il viceré è un uomo del ventesimo secolo, mentre l’India continua a vivere nell’Ottocento, il che è il motivo per cui la stiamo abbandonando. A Delhi sono tutti incantati da lui. Gli indiani, intendo dire. Non si rendono conto che il suo ruolo è stato semplicemente quello dell’elegante decorazione in vetrina, una vetrina che è dalla fine della guerra che cerchiamo di rendere attraente. Dietro la vetrina, il negozio continua ad appartenere al diciannovesimo secolo, anche se a un diciannovesimo secolo di segno radicale. La parola d’ordine è ancora insulare. L’indipendenza dell’India a tutti i costi, non per il bene dell’India ma del nostro.

Andrò a stare nella residenza ufficiale di Gopalakand, ospite di Sir Robert Conway, un vecchio amico di Henry nonché consigliere del maragià. Anche i maragià stanno per essere sacrificati, principalmente per colpa loro, ma a calare l’accetta saranno i vecchi fabianisti e i più irriducibili tra i sindacalisti di Londra, non certo il Congresso. Magari possiamo vederci a Gopalakand? La piccola Parvati manda un abbraccio alla zia Lili, e io con lei.

Con affetto,

Ethel

 

 

New Delhi, giugno ’48

Mia cara Lili,

ti sarebbe possibile raggiungermi qui? Mi trovo al palazzo cittadino di Sua Altezza di Gopalakand, se così si può chiamare. Non sono stata bene, e ci sono diverse cose di cui ti vorrei parlare. Vorrei anche mostrarti, e darti se le accetterai, alcune cose lasciate da Daphne, annotazioni, lettere e un diario.

Ho modificato il mio testamento per provvedere a Parvati e destinare un lascito alla creazione di un orfanotrofio, realizzando così un desiderio di Daphne. Ti ho nominata come uno degli amministratori fiduciari e ho suggerito che il centro venga chiamato Istituto Manners per Bambine e Bambini Indiani, un modo di ricordare mia nipote evitando l’imbarazzo che un nome come Istituto Daphne Manners potrebbe causare a persone dalla memoria lunga. Ho anche suggerito che l’istituto venga creato a Mayapore. Una delle cose che potremmo considerare insieme è l’uso del luogo noto come il Santuario. L’anno scorso mi hai detto che quella donna stava perdendo la vista. Se l’uso del Santuario come sede dell’istituto fosse possibile e praticabile, una delle disposizioni del lascito dovrebbe essere un vitalizio o qualcosa di simile che permetta a sorella Ludmila di continuare a viverci.

Quando avrai letto il diario della povera Daphne (sul quale per tutti questi anni ho mantenuto il mio riserbo, anche se penso che tu ne abbia sempre sospettata l’esistenza) capirai meglio perché i miei pensieri abbiano preso questa strada. L’altra cosa di cui dobbiamo parlare è il futuro di Parvati. Non voglio sembrarti morbosa, ma il momento in cui la mia dipartita la lascerà sola al mondo non è così lontano. Sono ancora dell’opinione che non dovremmo fare nulla per cercare di rintracciare colui che – ne siamo entrambe certe – è suo padre. Ogni volta che la vedi, non fai che dire che somiglia sempre più a Hari. Questo mi è di conforto, perché so che stai dicendo il vero e non lo fai solo per rassicurarmi; ma non mi persuade a cercare il povero ragazzo e presentargli il conto delle sue responsabilità. Sono sicura che sei d’accordo con me. Sarei riuscita a ottenere una cosa simile quando lui era ancora in prigione, e nel caso fosse ancora vivo forse potrei farcela ancora oggi, anche se immagino che sia stato rilasciato già da due o tre anni. Hai probabilmente ragione a sospettare che quando sua zia Shalini ha lasciato Mayapore, nel 1944, abbia fatto ritorno alla proprietà di famiglia nelle Province Unite al solo scopo di preparare un focolare domestico in cui accoglierlo all’uscita dal carcere, anche nell’eventualità che la sua prigionia si fosse protratta a lungo. Ovviamente qualcuno sa cos’è successo, probabilmente quel Romesh Chand Gupta Sen. L’affermazione del tuo amico avvocato Srinivasan, e cioè che quando lui stesso, dopo la liberazione, gli aveva chiesto notizie di Mrs Gupta Sen, questi si fosse limitato a scrollare le spalle e rispondere che era tornata al suo villaggio e che lui aveva troncato i rapporti con i Kumar, probabilmente non fa che dimostrare il tentativo di nascondere una verità che lui conosceva bene ma che non voleva divulgare. Io credo che dopo il rilascio probabilmente Hari sia tornato da sua zia Shalini, ma che poi sia andato altrove, magari addirittura abbia cambiato nome. Nella nuova India, un giovane imprigionato per i motivi che erano stati addotti nel suo caso non avrebbe faticato a trovare amici. Ma immagino che lui non li volesse. Potrebbe anche essere morto, vittima casuale delle sanguinarie brutalità tra indù e musulmani che l’anno scorso hanno segnato la fine dell’influenza unificatrice e civilizzatrice dei nostri anni di potere.

No, cara. Lasciamo che il povero Hari Kumar trovi da solo la via della propria salvezza, se è ancora vivo per farlo e se esiste una salvezza per quelli come lui. Perché lui è l’avanzo, la questione in sospeso del nostro regno, il genere di individuo che siamo stati noi a creare, probabilmente con le migliori intenzioni. Malgrado l’emergere di Nehru come una potenziale forza moralizzatrice negli affari mondiali, non vedo niente, in India, che possa sopportare le pressioni e gli strascichi della divisione che noi inglesi le abbiamo permesso di autoimporsi e di cui siamo moralmente responsabili. Nel concederla abbiamo creato un precedente per la spartizione proprio quando ci sarebbe stato bisogno dell’opposto, lasciandole via libera (di nuovo con le migliori intenzioni) per stanchezza e per il fallimento di pretese morali e fisiche che non potevano reggere lo sforzo di guardare al futuro e vedere cosa avrebbe significato abdicare alle condizioni dell’India e non alle nostre. Forse, alla fine, di condizioni non ne avevamo più perché non eravamo stati abbastanza astuti da abbigliarle da ventesimo secolo, e così ora il mondo si dividerà in piccole isole di dogmatismi e resistenze reciproche, e la promessa che sembrava sempre celarsi anche dietro i peggiori aspetti del nostro colonialismo evaporerà nella Storia come una mistica imperialista, la ridicola glorificazione di una politica profondamente avida e funzionale.

Ricordi il caro Nello con la pipa di Henry in bocca, come andava avanti e indietro per la stanza, imitando la sua voce? «Politica? Politica? Al diavolo la politica! Quello che pensi e che senti, caro mio: questo è l’importante! Non sprechiamo il nostro tempo con idee di seconda mano sul probabile. Prendiamo il dannato probabile e vediamo dove ci porta». Quanto ridevo, allora. Ma ripensandoci adesso non rido più. Che meravigliosa occasione abbiamo sprecato. Parlo di noi, per noi. Ma se ne rendono conto anche gli indiani, vero? Malgrado gonfino il petto e provino l’emozione di sedersi da uomini liberi attorno a un tavolo per stendere una costituzione. Non sarà una specie di lettera d’amore agli inglesi, quella costituzione? Il tipo di lettera che un’amante abbandonata scrive quando la relazione si è conclusa in quella che al momento è passata per una civile e dignitosa ammissione reciproca di incompatibilità? In un mondo diventato improvvisamente monotono perché, grazie a Dio, il tuo amato se n’è andato, offrendo a un’altra il suo affetto omicida e imprevedibile, non cerchi forse di ricatturare i momenti di piacere più significativi, momenti forse non condivisi ma comunque esistiti? Ma è sempre una riconquista impossibile. E così ti accontenti della seconda scelta, ti accontenti della lezione che ti sembra di aver imparato, scordando quella che speravi di imparare e che potresti aver imparato, e alla fine non impari niente, perché la seconda scelta è un fattore comune a tutto il mondo, e qualunque idiota è in grado di insegnarlo, e qualunque idiota lo può ereditare.

A terrorizzarmi è il pensiero che gradualmente, quando gli splendori di un divorzio civile e le promesse di restare buoni amici si saranno esauriti, possa venir fuori il vero risentimento, quello che entrambi i popoli riuscivano a malapena a tenere a bada quando avevano motivo di considerarlo sbagliato poiché non poteva giovare né ai governanti né ai governati. Mi riferisco naturalmente all’avversione e alla paura che esiste tra neri e bianchi. È una passione di quinta categoria, degna solo di un paese di volgari bottegai e grassi bania. Ricordo che nell’assistere all’imitazione di Nello uno degli assistenti di Henry, un giovane terribilmente beneducato il cui nonno aveva guadagnato una fortuna imbottigliando salse o cose simili (non che questo fosse in sé una mancanza, ma in qualche modo lui non se n’era affrancato), rimase orribilmente scioccato, e ricordo che mentre stavo ancora ridendo si voltò verso di me e parve sul punto di esclamare: «Santo cielo, Lady Manners! Lei permette questo nel salotto di Sir Henry?». Intendeva solo dire che Nello era scuro di pelle e il povero Henry era bianco, anche se a dire il vero era ormai grigio e giallo e malato, e aveva un piede nella fossa. Suppongo che alla resa dei conti si riduca tutto a questo, perché è la divisione ultima, giusto? Intendo il colore della pelle, non la morte.

Be’, io e te abbiamo sempre cercato di tenere aperte le porte di casa. Tu, quanto meno, dovrai continuare a farlo ancora per molto. Lili, il vero succo di questa lettera è questo: quando io me ne sarò andata, darai un tetto a Parvati?

Con amore,

Ethel

 

 

Immaginate dunque un paesaggio piatto che ruota e si rovescia, rispecchiando le oscillazioni del volo notturno 115, il Viscount diretto a Calcutta; un paesaggio che è buio ma che si mostra subito come un sistema di luci ordinatamente raggruppate intorno a un centro e con qualche galassia minore alla loro periferia: la pista illuminata dell’aeroporto, il sobborgo di Banyaganj, separato dal corpo centrale poiché il collegamento con Mayapore, la Grand Trunk Road, è immerso in un buio spezzato soltanto dallo scarso traffico notturno (fari in miniatura che avanzano a quella che anche da questa altitudine sembra una velocità eccessiva) e da una costellazione relativamente isolata a metà strada, dove la nuova colonia inglese abita nei paraggi del Technical College, delle fabbriche e dell’aeroporto, usato con la stessa noncuranza di una stazione dei pullman. Oltre allo straniero, a bordo del volo 115 c’è solo un altro inglese, lo stesso che quella sera al circolo rivolgeva di quando in quando un’occhiata al tavolo di Srinivasan, forse non tanto per curiosità, quanto per il desiderio di sottrarsi momentaneamente alle fatiche di rispondere alle domande con cui giovani loquaci come Surendranath e Desai lo tempestavano per recuperare il tempo secondo loro perduto dai padri.

Dopo essere stato similmente circondato anche nella sala partenze dell’aeroporto, quest’altro inglese è ora seduto da solo, a diversi posti di distanza dallo straniero nel velivolo semivuoto. Gli altri passeggeri sono uomini d’affari indiani. Anch’essi occupano posti separati, diretti verso i loro incontri di lavoro nel Bengala Occidentale. Non appena si spegnerà la spia luminosa sulla paratia («ALLACCIARE LE CINTURE», «VIETATO FUMARE») apriranno le loro cartelle e studieranno le loro carte. Il volo è di breve durata, e la tregua che offre è preziosa quanto quella che un uomo può godersi in un ambiente ben più privato, leggendo il giornale del mattino per scoprire gli avvenimenti del giorno prima e giudicare come potrebbero incidere su quelli odierni. Uno di loro, quello che in sala partenze era seduto con le gambe incrociate sotto di sé, indossa un dhoti. Il sedile dell’aereo non gli offre abbastanza spazio per riprendere la comoda posizione di prima, cosa della quale lo straniero è lieto, perché non si sa mai dove si siano posati quei piedi nelle ventiquattro ore precedenti.

Il velivolo sembra faticare a prendere quota. La pista illuminata ricompare nell’ovale del finestrino, non molto più lontana di quanto fosse l’ultima volta, seguita dalle luci di Mayapore, che appaiono leggermente sfocate, forse a causa della condensa sui doppi vetri, che se non altro, però, si conformano a un tracciato noto e riconoscibile ora che l’osservatore ha avuto tempo di orientarsi.

Si può addirittura intuire la distesa del maidan: uno spazio scuro racchiuso da regolari fonti di luce: Hospital Road, Club Road, Church Road (un nome rimasto inalterato malgrado la regina Vittoria sia diventata il Mahatma Gandhi) e Artillery Road. L’aereo vira verso est, quasi seguendo il corso del fiume che porta all’inimmaginabile costa di Miss Crane. Lei non aveva mai dovuto sostenere questa visione globale del creato, e forse era un peccato, poiché da questa altitudine, e a questa velocità, la topografia che lei trovava tanto soffocante a livello del suolo si rivela casuale e non pianificata, con motivi aggiunti a posteriori dagli esseri umani a seconda delle esigenze del momento.

L’insegna al neon che illumina il percorso dei fedeli dal tempio di Tirupati al fiume e viceversa si vede abbastanza chiaramente e, basandosi su di essa e sulla luce sopra il casotto del custode del passaggio a livello del ponte di Bibighar, lo straniero (che sta facendo ritorno a Calcutta per una seconda ispezione di ammuffite reliquie missionarie) riesce a determinare con una certa approssimazione la posizione dei giardini di Bibighar e della MacGregor House.

I giardini di Bibighar sono immersi nel buio (ora come allora), ma dalla MacGregor House giunge l’esplosione di luce promessa da Lili Chatterjee: tutte le lampade accese all’interno e tutti i riflettori in giardino, da quassù pallidi ma improvvisamente inconfondibili, tanto da spingerti a perlustrare vanamente l’area con lo sguardo nella speranza di scorgervi un segno della presenza di Lili, a immaginarla con Parvati ai piedi dei gradini della veranda, intenta a fissare le luci intermittenti rosse, verdi e ambra della grossa macchina volante.

 

È dunque questa, la MacGregor House, l’ultima immagine abitata da suoni che non sono soltanto quelli di Lili e Parvati: tintinnii di vetri rotti, passi di scarpe comode che dall’atrio di piastrelle bianche e nere salgono al corridoio del primo piano, dove le porte di mogano dai pomelli di ottone si aprono su stanze che danno ai loro occupanti l’opportunità di osservare la realtà per se stessi e il sogno per altri, e giungere alle loro conclusioni riguardo a ciò che si trova al di là.

Sono suoni, questi, che oggi il visitatore distratto attribuirà alla presenza di Parvati e non a quella di sua madre. Ma Parvati ha il passo lieve e non manda nulla in frantumi (tranne forse il cuore di un ragazzo). Lei è un’altra storia, ed è per questo che la sua presenza in questo luogo è titubante, anche se ciò le si confà, vista la sua timidezza e l’aria di chi non ha ancora affrontato il mondo, e men che meno vi ha imposto la forza della sua personalità. Incontrarla senza preavviso, sola in una delle stanze della MacGregor House o seduta all’ombra in giardino mentre conta i petali di un fiore; vederla esprimere un piacere intenso ma distante (distante perché malgrado la sua intensità ha una fonte palesemente lontana, in un mondo privato che trepida sul crinale tra le illusioni infantili e un giudizio più maturo); sentirla mentre si esercita a cantare il mattino presto e la sera, ascoltando la seria, studiosa applicazione con cui affronta un fraseggio difficile, ammette la sconfitta con un gridolino esasperato e poi ci riprova: tutto questo induce a lasciare la MacGregor House con l’idea che Parvati sia una ragazza ammirevolmente idonea a situazioni in cui ci sia sempre la promessa di una storia che continua invece di finire, e che Lady Chatterjee sia la depositaria di una tradizione costituita per l’amore del futuro e non del passato.

«Mah, questo non lo so», dice Lady Chatterjee conducendo lo straniero in un ultimo giro di perlustrazione dell’antica casa, accettando il sostegno del suo braccio, schermandosi gli occhi dal sole del tardo pomeriggio con la mano libera, mentre Shafi è già pronto ad accompagnarlo all’aeroporto. «Voglio dire, la parola “depositaria” mi fa pensare a un magazzino in cui ficchi i tuoi mobili quando parti per un’altra assegnazione. Suppongo che un inglese possa dire che l’India intera è proprio questo. Ci siete andati tutti, ma avete accumulato una tale quantità di roba che avete dovuto lasciarvela dietro, e quelli di voi che ci tornano spesso non ci pensano neanche, e men che meno chiedono la chiave per entrare a rovistare sotto i vecchi lenzuoli e vedere se le cose importanti che avete lasciato sono ancora lì o non sono invece marcite». Esita un istante, poi domanda: «Parvati l’ha salutata come si deve?».

Sì, Parvati ha salutato, e ora scende di corsa i gradini della veranda (tardi, poiché tende a seguire gli orari di Mayapore piuttosto che l’ora ufficiale), diretta alla lezione serale di canto con la sua guru, la quale ha cantato a Londra, New York e Parigi e ormai accetta di insegnare solo alle allieve più promettenti, ragazze in possesso sia del talento che della fibra per un addestramento lungo otto anni. Forse un giorno anche Parvati canterà in quelle capitali occidentali e poi diventerà lei stessa una guru, insegnando a una nuova generazione di ragazze le complessità formali delle canzoni che sua madre un giorno aveva descritto come l’unica musica al mondo che le sembrasse consapevole del silenzio che spezzava e a cui faceva ritorno alla fine. Prima di scomparire, correndo nel suo sari rosa pallido, si ferma e muove la mano in un saluto, e lo straniero risponde al gesto, augurandole una buona lezione serale. Quelle sue corse si ripetono due volte al giorno, e negli intervalli si chiude in camera e si esercita rigorosamente per ore. A volte arriva un giovane reggendo i due tamburelli, le tablas, per fornirle la necessaria base percussiva, che altrimenti lei ottiene da sola sferzando il tambura a forma di cipolla con le sue agili dita. La sua carnagione è bruno pallido, e sotto una certa luce i capelli rivelano sfumature rosse che si vedono più di frequente al Nord.

 

Dooliya le aoō re moreē babul ke kaharwa.

Chali hoon sajan ba ke des. Sangaki sakha

saba bichchuda gayee hai apne ri apne ghar jaun.

 

O servitori paterni, portate il mio palanchino.

Sto partendo per la terra di mio marito.

Le mie dame di compagnia sono disperse.

Sono andate in case diverse.

 

(Un raga del mattino)

1 Qui inizia la sezione del diario mostrata a Robin White.

2 Fine della sezione del diario mostrata a Robin White.