Quando suo padre morì a Edimburgo per un’overdose di sonniferi e gli avvocati lo informarono che non erano rimasti neanche i soldi per finire di pagare Mr e Mrs Carter, che si prendevano cura della casa nel Berkshire, Hari Kumar telefonò ai Lindsey per chiedere consiglio sul da farsi. Gli avvocati insistevano che avrebbe dovuto toglierselo dalla testa, ma Hari, antiquato com’era, si era fatto l’idea di essere chiamato a rispondere dei debiti paterni, sempre che vi fossero dei debiti. I Lindsey facevano la sua stessa fatica a credere alle voci di bancarotta. Gli dissero di recarsi subito a Didbury e restare da loro. Non doveva preoccuparsi, Mr Lindsey avrebbe parlato con i legali e chiarito ogni cosa.
Suo padre morì nel bel mezzo delle vacanze pasquali del 1938, poche settimane prima che Hari compiesse diciott’anni. Quando accadde, i Lindsey erano a Parigi. Se fossero stati in patria, probabilmente Hari si sarebbe trovato con loro e al funerale avrebbe di sicuro avuto il loro sostegno. Trascorreva gran parte delle sue vacanze con i Lindsey. Colin, il figlio, era il suo più vecchio amico. Era stato con loro fino al giorno prima che partissero in treno per Parigi. Se suo padre non gli avesse scritto da Edimburgo per avvertirlo che intendeva raggiungerlo a Sidcot per parlare del futuro, sarebbe andato a Parigi anche lui, confidando come sempre sul permesso paterno in absentia. Invece aveva ricevuto quella lettera ed era tornato a casa, dove suo padre non era ancora arrivato e la governante e il marito, i coniugi Carter, erano di cattivo umore. Non si aspettavano la sua visita ed erano all’oscuro del fatto che suo padre avesse in programma di lasciare Edimburgo. Hari non provava una grande simpatia per i Carter. A Sidcot il personale non resisteva mai troppo a lungo. I Carter erano lì da un paio d’anni, il che era una sorta di record. Hari non ricordava neanche quante governanti e giardinieri tuttofare avesse impiegato suo padre nel corso del tempo. In passato, prima che lui andasse in collegio e poi a Chillingborough, c’era stata una successione di scontrosi precettori, istitutrici e domestiche, alcuni dei quali avevano detto chiaramente che preferivano lavorare per padroni bianchi. A Sidcot Hari non si era mai sentito a casa propria, come invece gli era successo quando aveva cominciato a conoscere i Lindsey. Suo padre lo vedeva tre o quattro volte all’anno, di rado per più di una settimana alla volta. Sua madre non la ricordava. Sapeva che era morta in India mettendolo al mondo. E dell’India non aveva memoria alcuna.
Il motivo per cui Hari faceva fatica a credere agli avvocati era che i soldi non erano sembrati mai mancare. Quando era abbastanza cresciuto da comprendere le differenze in termini di ricchezza, si era reso conto che la casa di Sidcot era più pregevole, più grande e più costosamente arredata di quella dei Lindsey; e oltre a quella c’era una successione di appartamenti londinesi che suo padre occupava e abbandonava secondo qualche principio che Hari non capiva e di cui non si interessava, se non per prendere accuratamente nota del nuovo indirizzo e telefono a cui far pervenire le sue lettere e a cui presentarsi quando suo padre lo chiamava a scuola alla fine del trimestre e gli proponeva di fermarsi a pranzare con lui a Londra prima di tornare a casa. Di solito Hari si presentava insieme a Colin. Ed era stato Colin che un giorno aveva detto, guardandosi intorno nel sontuoso ma poco accogliente appartamento: «Tuo padre dev’essere ricco da far schifo». E Hari si era stretto nelle spalle e aveva risposto: «Suppongo di sì».
Quello era stato probabilmente il momento in cui aveva cominciato a guardare con occhio critico suo padre, l’agghiacciante cantilena del suo inglese, il fatto che avesse modificato in “Coomer” il proprio cognome e che dicesse a tutti di chiamarlo David, perché Duleep era troppo difficile da pronunciare. Duleep aveva scelto il nome Hari per il suo unico figlio maschio sopravvissuto (il figlio maschio che aveva tanto desiderato, per cui aveva pregato e la cui esistenza era stata pianificata fino al più piccolo dettaglio) poiché Hari era facile da pronunciare ed era diverso solo nel modo in cui lo si scriveva dal diminutivo del nome sassone Harold, che era stato re degli inglesi prima dell’invasione dei normanni.
La storia narra che Duleep Kumar fosse andato in Inghilterra a studiare giurisprudenza, contro il volere e solo con il più riluttante dei permessi dei suoi genitori, più o meno nello stesso periodo in cui Miss Crane lasciava il servizio presso i Nesbitt-Smith e cominciava quello più impegnativo presso la missione, e più o meno in quello in cui moriva, in preda a una miseria altrettanto profonda pur se meno spettacolare di quella di Duleep, la madre di una ragazzina che successivamente era entrata in orfanotrofio e che in seguito si sarebbe fatta chiamare sorella Ludmila.
I Kumar erano possidenti in un distretto delle Province Unite. Erano ricchi per gli standard indiani e fedeli a una corona straniera che sembrava rispettare le leggi della proprietà. Erano in molti, ma fin da giovane Duleep cominciò a rendersi conto che, per quanto potessero essere rispettati da quelli della loro razza, il più imberbe degli impiegati pubblici bianchi al primo anno di servizio li poteva tenere in attesa sulla veranda del sacro, piccolo bungalow dalle cui stanze interne giungeva, sospinta dai punkah, un’aria di disinvolta superiorità. Il potere, avvertiva Duleep, non risiedeva nel denaro, bensì in quella magica combinazione di cultura, contegno e razza. Suo padre (uno di coloro che spesso dovevano aspettare) non era d’accordo. «Alla resa dei conti», diceva, «è il denaro che conta. Che cos’è un affronto? Che cos’è un insulto? Non significano nulla. Non costano niente, né recarli né riceverli. L’orgoglio ferito guarisce in fretta nel calore di una tasca piena. Quel giovanotto che mi fa aspettare è uno sciocco. Non accetta omaggi perché gli hanno insegnato che il dono di un indiano è una mazzetta. In patria non sarebbe così cauto. Ma da qui a quarant’anni sarà povero e dovrà vivere della sua pensione nel clima freddo del suo paese».
«Ma in quei quarant’anni avrà esercitato il potere», obiettava Duleep.
«E cosa sarà mai questo potere?», chiedeva suo padre. «Avrà appianato qualche disputa terriera, si sarà occupato della manutenzione delle opere pubbliche, avrà allungato una strada, costruito una fognatura, riscosso tasse per conto del governo, multato qualche migliaio di persone, fatto frustare una ventina di uomini e mandato in prigione altri duecento. Tu invece sarai un uomo relativamente ricco. Il tuo sarà un potere materiale, visibile quando osserverai le terre che possiedi. Avrai un solo, piccolo problema: essere tenuto in attesa da un successore di questo giovane, che a sua volta non accetterà i tuoi omaggi ed eserciterà quello che tu chiami potere e morirà senza possedere altro che i suoi ricordi coloniali».
Duleep rideva. Rideva dell’umorismo sardonico di suo padre. Ma rideva soprattutto perché sapeva che non era affatto così. Alla morte di suo padre, la terra di cui lui andava così fiero sarebbe stata divisa tra i figli, e poi i figli dei figli, e poi i figli dei figli dei figli finché non sarebbe rimasto nulla, e il potere si sarebbe progressivamente ridotto, campo dopo campo, villaggio per villaggio. E nel bungalow sacro ci sarebbe sempre stato un giovane, pronto ad ascoltare, con fare disponibile ma evasivo, i racconti di sofferenze, povertà e ingiustizia ma pensando sempre e solo alla propria carriera, pianificando di seguire i passi del suo predecessore un gradino dopo l’altro fino a una carica nel Segretariato, a una poltrona nel Consiglio del governatore generale o a un seggio nell’alta corte di giustizia.
Duleep Kumar era il più giovane di quattro fratelli e tre sorelle. Forse avere sette figli era considerato di buon auspicio, poiché negli anni successivi alla sua nascita, avvenuta nel 1888, i genitori erano parsi soddisfatti e non intenzionati a fare ulteriori aggiunte. Duleep era il piccolo, l’ultimogenito. È possibile che i suoi fratelli e sorelle fossero gelosi delle attenzioni e dell’affetto che i genitori gli dimostravano. Di sicuro in seguito, quando si sarebbe trattato del benessere di suo figlio Hari, nessuno dei fratelli o sorelle maggiori ancora in vita avrebbe mostrato interesse o offerto aiuto. Col senno di poi, forse le cose sarebbero andate meglio se non ci fosse stato nemmeno un Kumar a interessarsi a lui; invece c’era stata Shalini, la bambina che la madre di Duleep aveva messo al mondo quando lui aveva undici anni. Tutto sta a indicare che tra l’ultimo figlio maschio e l’ultima figlia femmina fosse sorto un legame speciale, originato molto probabilmente dal senso di isolamento che Duleep doveva provare nei riguardi dei fratelli e delle sorelle maggiori, quando ormai l’impeto originario della predilezione dei genitori aveva cominciato a esaurirsi portandolo, malgrado la tenera età, a guardare il mondo che lo circondava con occhio critico e quello che si trovava al di là con preoccupazione. Dei quattro fratelli maschi, Duleep fu il solo che portò a termine gli studi alle scuole superiori e li proseguì all’università pubblica. La sua famiglia vedeva la laurea come una perdita di tempo e all’inizio si era opposta, ma poi cedette. Da adulto, Duleep era solito citare i dati del censimento provinciale effettuato in quel periodo, che mostravano una popolazione maschile di ventiquattro milioni e mezzo di individui e una femminile di ventitré milioni. Dei maschi, un milione e mezzo sapevano leggere e scrivere; delle femmine meno di cinquantaseimila, cifra che non comprendeva le tre sorelle maggiori. Suo padre e i suoi fratelli sapevano leggere e scrivere il dialetto locale, ma in inglese erano semianalfabeti. Era proprio perché aveva acquisito una buona conoscenza della lingua degli amministratori che il giovane Duleep aveva cominciato ad accompagnare il padre quando questi doveva presentare una richiesta al responsabile di sottodivisione, e aveva scorto i primi segni dei segreti nascosti dietro la maschera neutra dell’autorità bianca. In lui si era sviluppata una tripla determinazione: tagliare i ponti con una tradizione di famiglia priva di sbocchi, diventare un uomo che faceva favori invece di chiederli e salvare Shalini dall’ignoranza e dalla tirannia domestica che non solo le sue sorelle maggiori ma anche le mogli dei due fratelli più grandi parevano accettare senza protestare, come se fosse tutto ciò che le donne potevano sperare di ottenere nella vita. Shalini aveva solo tre anni quando Duleep aveva cominciato a insegnarle l’alfabeto hindi. A cinque anni sapeva leggere l’inglese.
Giunto ai sedici anni, Duleep partì per il college. L’istituto pubblico che aveva accettato la sua domanda di iscrizione era all’altro capo del mondo: più di centocinquanta chilometri di distanza. Quando se ne andò, sua madre pianse. I suoi fratelli sbuffarono. Le sorelle maggiori e le cognate lo guardarono come se si stesse recando a svolgere una qualche ignominiosa commissione. Suo padre non capiva, ma la sera prima gli diede la sua benedizione e il mattino della partenza lo accompagnò alla stazione in un doolie trainato da buoi.
E forse fu proprio allora che ebbe inizio quella che si può chiamare la tragedia di Duleep Kumar. Era un ragazzo la cui passione per il successo era sempre andata leggermente oltre le sue abilità. Ed era una passione che si era abituata all’azione costante degli agenti irritanti della famiglia. Una volta lontano, in compagnia di giovani con retaggi diversi ma ambizioni simili, le originarie frustrazioni su cui quelle passioni avevano prosperato cominciarono a esaurirsi. Lì erano tutti sulla stessa barca, ma col procedere degli studi per il baccalaureato Duleep divenne fastidiosamente consapevole del processo che separava gli studenti brillanti da quelli che arrancavano. Per la prima volta nella sua vita si trovava a dover ammettere l’esistenza di coetanei che, se non più intelligenti di lui, di sicuro si dimostravano più svegli. E analizzando quel fenomeno giunse rapidamente a una conclusione. I ragazzi più brillanti provenivano di sicuro da famiglie moderne in cui si parlava regolarmente inglese. Nel corpo insegnante c’era una preponderanza di inglesi. Alle superiori pubbliche gran parte dell’istruzione, seppure in lingua inglese, era affidata a professori indiani. Lui aveva sempre capito esattamente tutto quello che dicevano e spesso aveva pensato che avrebbe potuto dirlo meglio. Ora invece alle lezioni faceva sempre più fatica a seguire non tanto le parole quanto i ragionamenti che vi stavano dietro. E non osava fare domande. Nessuno le faceva. Si limitavano tutti ad ascoltare attentamente. Riempivano quaderni di appunti meticolosi su quello che credevano di avere capito. Fare domande significava ammettere la propria ignoranza. In un mondo competitivo come quello, una simile ammissione avrebbe potuto rivelarsi fatale.
Duleep stava tuttavia scoprendo un nuovo agente irritante: le frustrazioni dovute non a una retriva famiglia indiana, bensì alla stessa lingua inglese. Ascoltando i suoi compagni, era sbalordito che non sembrassero in grado di comprendere la differenza tra la loro parlata e quella degli inglesi. Non era solo una questione di idiomi o di pronuncia. Lui era troppo giovane per poter esplicitare il problema, ma avvertiva di essersi avvicinato al cuore di un altro importante segreto. Scoprirlo gli avrebbe forse permesso di capire la natura di ciò che nel responsabile di sottodivisione sembrava semplice arroganza e nei professori inglesi disprezzo intellettuale.
Sarebbe arrivato il momento, in futuro, in cui avrebbe potuto dire al figlio Hari: «Non è solo che quando tu rispondi al telefono chiunque sia all’altro capo del filo pensa di parlare con un rampollo inglese delle classi alte. È che nella tua testa, e nel tuo comportamento, tu sei quel rampollo. Quando io avevo la tua età, non solo parlavo inglese con un accento da babu ancora più forte di quello che ho adesso, ma tutto ciò che dicevo era una costante imitazione di quelli che ci comandano, perché lo era tutto quello che pensavo. Non necessariamente lo si ammetteva, ma era quello che loro pensavano ogni volta che ci sentivano parlare. Più che altro ne erano divertiti, altre volte infastiditi. Succede tuttora. Non potevano sentirci parlare senza pensare che eravamo un popolo assoggettato e inferiore. Più cercavamo di essere idiomatici più i nostri pensieri sembravano ingenui, poiché ragionavamo in una lingua straniera che non avevamo mai considerato nel modo giusto, in relazione alla nostra. Vedi, l’hindi è essenziale ed elegante. In hindi possiamo fare ragionamenti che hanno le doti della semplicità e della verità. E comunicarci a vicenda questi pensieri usando immagini altrettanto sobrie, semplici e veritiere. L’inglese non è sobrio, ma elegante lo è. Non può essere definito veritiero, perché le sue sfumature sono infinite. È la lingua di un popolo che probabilmente si è guadagnato una reputazione di perfidia e ipocrisia proprio per il fatto che la sua lingua è così flessibile, spesso apparentemente sventata grazie a espressioni che un anno sembrano significare una cosa e l’anno dopo qualcosa di completamente diverso. Questo almeno succede quando è scritto, e di solito gli inglesi affidano alla carta le loro più nobili aspirazioni e intenzioni. Scritto, l’inglese sembra un modo di prendere tempo e accattivarsi la fiducia altrui. Ma l’inglese parlato non è quasi mai bello. A quel punto sì, diventa essenziale come l’hindi, ma più crudele. Noi abbiamo imparato l’inglese sui libri, e gli inglesi, sapendo che i libri sono una cosa e la vita un’altra, hanno riso di noi. E continuano a farlo. Ridevano di me, sai, in quel college indiano che anticipò la mia prima, disastrosa trasferta inglese per studiare legge. Al college imparai l’importanza di capire a fondo, di stabilire una vera familiarità con una lingua, sia parlata che scritta. Ma naturalmente imparavo quasi tutto sui libri. Un capitolo di Macaulay era molto più facile da capire, e di sicuro più eccitante, di una frase di Mr Croft, il nostro professore di Storia. Alla fine mi sforzavo addirittura di usare una prosa macaulayana nella mia parlata. In seguito avrei scoperto che tra gli insegnanti inglesi un percorso tortuoso per arrivare a una semplice ipotesi veniva chiamato kumarismo. E dovette passare altro tempo prima che mi rendessi conto che un kumarismo non era qualcosa di ammirevole, bensì di alquanto sciocco. Ma penso che fu proprio la mia notorietà ad aiutarmi a cavarmela, anche se per il rotto della cuffia. Ero tra gli ultimi della lista, ma per i miei standard fu un trionfo».
E fu sulle ali di quel trionfo che il diciannovenne Duleep tornò a casa, non per la prima volta da quando si era recato in stazione sul doolie (in mezzo c’erano state le vacanze, com’era naturale) ma per la prima volta nelle vesti di un giovane di comprovato valore e con ambizioni che ora indicavano la necessità di affrontare il viaggio attraverso le acque nere fino all’Inghilterra, dove avrebbe dovuto sostenere gli esami dell’Indian Civil Service, che a quei tempi era l’unica sede in cui tali esami potevano essere svolti, regola che riduceva efficacemente il numero di indiani in grado di farli.
Più che felici per i suoi successi accademici, i suoi genitori erano invece preoccupati per il suo venir meno a una funzione fondamentale: quella di sposarsi, di moltiplicarsi, di garantire almeno un figlio maschio che a tempo debito avrebbe potuto ufficiare i suoi riti funebri e accompagnarlo nel suo onorevole viaggio verso un altro mondo.
La ragazza che avevano in mente, che si chiamava Kamala e il cui oroscopo, a sentire gli astrologi, convergeva in modo beneaugurante con il suo, aveva già quindici anni; anzi, specificarono loro, quasi sedici.
«Kamala!», esclamò lui. «Chi è, cos’è questa Kamala?», gridò senza neanche ascoltare la risposta.
L’abitazione dei Kumar era uno sconclusionato agglomerato di bassi edifici eretti intorno a un cortile centrale e si trovava all’interno di un ampio piazzale circoscritto da mura alle porte del villaggio principale sulle loro terre, a circa otto chilometri di distanza dal centro abitato in cui si trovava il quartier generale del responsabile inglese di sottodivisione. Otto chilometri dal più vicino avamposto della civiltà da percorrere su un carro trainato da bufali, pensava Duleep. Ah, che prigione! Giocava con Shalini, e negli intervalli tra gli svaghi le ripeteva le lezioni che le aveva già insegnato, vedendo con piacere che nei tre mesi di lontananza non le aveva dimenticate. Tra i due si era ormai sviluppata una reciproca adorazione; agli occhi di lui lei era una bambina dolce, graziosa e intelligente, e lui a quelli di lei era un fratello attraente come un dio ma miracolosamente terreno e giocoso la cui saggezza non aveva fine e la cui gentilezza non era confinata da inspiegabili, improvvisi silenzi o malumori, quanto meno quando erano insieme. Ma Shalini lo sentiva alzare la voce con i fratelli, discutere col padre. Una volta, quando lui credeva di essere solo, lo udì addirittura piangere; e andò a raccogliere dei fiori per scacciare magicamente la sua infelicità perché potesse tornare a sorridere e raccontarle le vicende di Rama, il dio-re.
Alla fine Duleep decise di scendere a patti con i suoi genitori. Avrebbe accettato in linea di principio di sposare la ragazza, Kamala. Ma del matrimonio non si sarebbe parlato finché lui non avesse completato gli studi in Inghilterra e superato gli esami. Avrebbe acconsentito soltanto allora a un fidanzamento ufficiale.
E quanto si sarebbe trattenuto in Inghilterra?, volle sapere suo padre.
Due, forse tre anni. Suo padre scosse la testa. A quel punto Kamala avrebbe continuato a vivere con i genitori, pur avendone diciotto o diciannove. Voleva che sua moglie diventasse lo zimbello di tutti prima ancora di giacere nel suo letto? E aveva pensato ai costi di una trasferta di studio in Inghilterra? Da dove credeva che arrivassero, tutti quei soldi? Ma Duleep era preparato a quell’ultima obiezione. Avrebbe trasferito ai fratelli la parte della sua eredità corrispondente ai costi degli studi all’estero.
«Un sacco non può contenere più di una certa quantità di maund, e tu non puoi dare via quello che non è ancora tuo», obiettò suo padre. «In più, è proprio la tua eredità a renderti allettante per i tuoi futuri suoceri».
«La mia istruzione e la mia carriera non contano niente, per loro?», chiese Duleep.
Suo padre scosse di nuovo la testa. «Quella che definisci la tua carriera non è ancora cominciata. Forse hai dimenticato quello che tua moglie ci porterebbe in dote? Forse con quegli introiti si potrebbero trovare i soldi per mandarti in Inghilterra. Ma prima dovresti sposarla. Hai già diciannove anni. Tutti i tuoi fratelli si sono sposati prima di averli compiuti. La tua futura moglie sta per compierne sedici. A quell’età, le tue sorelle maggiori erano già tutte maritate. Ho già dovuto trovare tre doti. Le mie tasche non sono senza fondo. E fra qualche anno dovrò cercarne un’altra per Shalini».
Gli affari di famiglia erano l’unica cosa per cui c’era sempre tempo. I negoziati tra padre e figlio si protrassero per diversi giorni, finché Duleep andò da lui e disse: «Va bene, sposerò Kamala. Ma subito dopo andrò in Inghilterra».
I loro colloqui si svolgevano nella stanza che il padre aveva, in quegli ultimi anni, riservato alla meditazione, attività che forse avrebbe potuto metterli in guardia su ciò che sarebbe seguito. Era un locale privo di mobili. Ci si sedeva su stuoie stese sulle piastrelle del pavimento. Le pareti imbiancate erano spoglie a eccezione di una coloratissima litografia di Ganesha, il dio della Fortuna, in una piccola cornice di palissandro, e sul davanzale della piccola finestra dotata di sbarre ma priva di vetri una brocca di peltro in cui di solito era infilato un mazzetto di calendule o frangipani.
«Non voglio che tu entri nell’amministrazione pubblica», disse il padre di Duleep, muovendo una nuova obiezione. «Se proprio non vuoi accontentarti di badare ai tuoi possedimenti, ti consiglio di diventare avvocato. Sono studi, mi pare, che puoi fare a Calcutta».
«Cos’hai contro l’amministrazione pubblica?», chiese Duleep.
«È l’amministrazione di un governo straniero. Se mio figlio vi prestasse servizio, me ne vergognerei. Preferisco che la combatta in tribunale per aiutare la sua gente».
«Vergognartene?», ripeté Duleep. «Però non provi vergogna quando ti fanno aspettare nella veranda di un qualsiasi burra sahib. L’hai detto tu stesso: cos’è un insulto? Cos’è l’orgoglio ferito?».
«Mi vergognerei», rispose il vecchio Kumar, «se il burra sahib qualsiasi fosse mio figlio».
Era una puntualizzazione sottile. Duleep impiegò un paio di giorni a digerirla, a soppesare la sincerità della repentina antipatia di suo padre nei riguardi del Raj, che se non era sorta all’improvviso doveva essere stata tenuta sempre ben nascosta.
«E va bene», si arrese qualche giorno dopo. «Ci ho riflettuto. Diventerò avvocato. Magari patrocinatore legale. Ma per farlo dovrò studiare in Inghilterra».
«Però prima sposerai la ragazza, Kamala?».
«Sì, padre. Prima sposerò Kamala».
In famiglia, solo la madre e una zia di Duleep avevano visto la sua futura moglie, Kamala Prasad. Per farlo si erano recate in visita dai Prasad. Soddisfatte da quello che avevano visto e di ciò che si sapeva della sua educazione, avevano fatto rapporto al padre di Duleep. Rassicurati dagli astrologi e soddisfatti della proposta di dote, i Kumar non dovevano fare altro (previa sottomissione di Duleep alla loro volontà) che siglare l’accordo con un fidanzamento ufficiale e fissare la data delle nozze.
Kamala Prasad viveva a una trentina di chilometri di distanza. Per la cerimonia di fidanzamento furono solo i maschi Prasad a recarsi dai Kumar: il padre e gli zii della futura sposa e due dei suoi fratelli già sposati. Portarono dolci e piccoli doni in denaro, ma lo scopo della loro visita era più che altro quello di controllare che la casa in cui Kamala sarebbe vissuta fosse all’altezza di quanto erano persuasi di doversi aspettare. Duleep, che aveva visto i suoi fratelli eseguire quegli stessi rituali, si inchinò davanti al futuro suocero e poi si inginocchiò per toccargli i piedi in una dimostrazione di umiltà. Il suocero gli tracciò sulla fronte il tilak, il segno di lieto auspicio. Gli ospiti si trattennero per una breve conversazione formale, accettarono un rinfresco e poi fecero ritorno in stazione, prima tappa del loro viaggio verso casa. Duleep era rimasto poco colpito dalla cerimonia; gli era parsa alquanto inutile, ma per Shalini, con Duleep al centro dell’attenzione, era stata magica. «Il giorno delle nozze avrai una spada e arriverai a cavallo come un re?», gli chiese.
«Immagino di sì», rispose lui con una risata, e in segreto pensò: Che farsa! Il suo interesse principale risiedeva nei preparativi che stava svolgendo con l’aiuto del preside del college pubblico per giungere in Inghilterra a settembre, in tempo per l’inizio del trimestre autunnale, che laggiù aveva l’affascinante nome di Michaelmas term.
La cerimonia di fidanzamento si svolse in gennaio, e quasi subito sorsero le prime difficoltà intorno alla data delle nozze. Gli astrologi dicevano che il momento ideale era la seconda settimana di marzo. Duleep proponeva invece la prima settimana di settembre. La nave su cui aveva trovato posto tramite un agente di viaggio di Bombay salpava la seconda settimana. Gli astrologi scossero il capo: se le nozze non potevano essere celebrate la seconda settimana di marzo, avrebbero dovuto essere rinviate alla quarta di ottobre.
«Tutte sciocchezze», protestò Duleep. «Significa solo che ad aprile farà già troppo caldo e che da giugno a ottobre probabilmente pioverà troppo». Non aveva intenzione di trascorrere quasi sei mesi da sposato prima di partire per l’Inghilterra. A dirla tutta, non intendeva nemmeno andare a letto con una ragazzina di appena sedici anni, per quanto graziosa e matura potesse essere. Si sarebbe concesso alla cerimonia. Avrebbe addirittura passato una notte o due con sua moglie, per non disonorarla. Ma non avrebbe fatto l’amore con lei. L’avrebbe baciata e sarebbe stato gentile, e le avrebbe fatto capire che avrebbe avuto tutto il tempo, quando lui fosse tornato dall’Inghilterra con un’onorevole qualifica professionale, di assumersi i doveri di moglie e il fardello della maternità. Sperava quasi che Kamala fosse brutta.
Certe volte si svegliava in piena notte e pensava che ciascuna delle scelte che aveva fatto dalla fine del college fosse stata sbagliata. Aveva abbandonato il proposito di lavorare nella pubblica amministrazione. Aveva ceduto alle pretese matrimoniali dei suoi genitori. Aveva intrapreso lo studio di una materia che non era mai stata il suo sogno. L’unica cosa che era riuscito a conservare era la determinazione ad andare in Inghilterra. La mattina la prospettiva dell’Inghilterra era sufficiente a fargli affrontare la giornata con solare allegria, né poteva evitare di godere dell’affetto e approvazione di cui i suoi genitori lo stavano circondando. Un giorno sentì suo padre dire a un vecchio amico: «Dopo le nozze, naturalmente, Duleepji dovrà proseguire gli studi in Inghilterra», come se fosse stato lui stesso a volerlo, e rifletté che l’orgoglio paterno poteva crescere come una buona semente anche sul terreno meno indicato, se quello stesso terreno veniva prima irrigato dal sudore del dovere filiale. Ma nel buio notturno, tra il sonno e la veglia, Duleep cercava vanamente un’interpretazione pratica di quella singola parola, Inghilterra; un’interpretazione che potesse alleviare le sue ansie, recargli un conforto che andasse oltre il suo generico desiderio e raggiungesse il suo specifico proposito. Il potere come lui lo vedeva gli sembrava potenzialmente sminuito dalla facilità ed equivocità con cui aveva acconsentito a mettersi al servizio della legge, che il potere lo interpretava e magari lo sfidava, ma non lo esercitava. Forse, pensava, in me c’è una mancanza fatale, la radice oscura della pianta del compromesso che non sboccia mai in un fiore che non sia maleodorante; poi si girava sull’altro fianco e si riaddormentava con la mano posata sul seno sodo della remissiva, amorevole ragazza che ormai lo seguiva sempre nei suoi sogni.
Fu lui ad averla vinta. Gli astrologi scoprirono un’inaspettata e propizia congiunzione astrale. Le nozze vennero fissate per la prima settimana di settembre. «Visto, Shalini?», disse Duleep alla sorellina. «Erano tutte sciocchezze, proprio come ti dicevo». Ma si fermò prima di aggiungere: «Come i Kumar, anche i Prasad hanno troppe figlie a proprio carico e non vedono l’ora di sbarazzarsi di Kamala, pure alla fine della stagione dei monsoni». Guardando Shalini, si ritrovò egli stesso a soppesare il fardello che a nove anni la sorellina già rappresentava per le difficoltà di trovarle la dote necessaria e il desiderio dei suoi genitori che fosse felice, ben maritata, con una nuova famiglia che recasse onore a loro e buona fortuna a lei, un marito che le mostrasse gentilezza e per cui lei potesse provare affetto e fedeltà, dando così soddisfazione a lui e alla sua famiglia nonché a se stessa e alla propria.
“Spero solo”, si disse pensando alla sua futura moglie, “di riuscire a non odiarla”.
La prima lista di invitati preparata dal padre dello sposo arrivava quasi a trecento nomi. Dopo una serie di negoziati con i Prasad venne ridotta a poco meno di duecento. Gli invitati della famiglia della sposa sarebbero stati quasi il doppio. I costi per i Prasad sarebbero stati rovinosi. Le due famiglie cominciarono a radunarsi intorno a metà agosto. Giunsero Kumar dal Punjab, da Madras, dal Bengala, da Lucknow e dalla provincia natale, da Bombay e addirittura da Rawalpindi. Duleep era l’ultimo dei figli maschi del vecchio Kumar, il che significava che per quella generazione ci sarebbe stato solo un altro matrimonio: quello di Shalini. La casa si riempì e così la dépendance che era stata costruita fuori dalle mura del complesso per le nozze delle sorelle maggiori di Duleep.
Il mattino del giorno fatidico partirono di buon’ora per Delali. Le piogge erano miracolosamente finite in anticipo, il che veniva considerato un buon presagio. A casa di Kamala le cerimonie erano cominciate già da due giorni. Tre carrozze del treno per Delali erano state riservate per il contingente dello sposo. Alla stazione di arrivo c’era in attesa una delegazione di Prasad. Duleep e famiglia vennero condotti nella dimora di un fratello del padre della sposa. Qui Duleep venne vestito da re guerriero, con pantaloni bianchi aderenti, giacca ricamata, spada, mantello, turbante decorato di lustrini e corona di lamé con appese ghirlande di rose e gelsomini che gli nascondevano parzialmente il volto e gli riempivano le narici del loro dolce, narcotico profumo. Quando si fece sera Duleep venne condotto al cavallo bardato e vi montò insieme al suo testimone, un giovane cugino, dietro di lui sulla sella. La processione fino alla casa della sposa ebbe inizio alle sei e mezza. Era accompagnata da uomini muniti di lanterne, tamburi, trombe e fuochi d’artificio. La sera fu invasa dal fracasso e dai botti della loro avanzata. A Duleep venne il mal di testa. A seguire la processione c’erano gli abitanti di Delali, curiosi di vedere con i loro occhi quale marito fosse riuscita ad accalappiare la figlia minore dei Prasad. Ai loro benigni insulti, i paladini di Duleep rispondevano a tono.
Duleep smontò da cavallo all’ingresso dell’abitazione della sposa, venne condotto fino al cortile delle donne sposate sul lato opposto del complesso, si sedette e affrontò la prima delle ordalie.
«Sicché la settimana prossima andrai in Inghilterra», disse una delle donne. «Ti stanchi così in fretta che devi scappare?».
«Oh, no», rispose Duleep entrando nello spirito della prova, «ma un giovane marito farebbe meglio ad accettare l’adagio: moderazione in tutto».
«La sposa potrebbe pensarla diversamente», osservò un’altra donna.
«Il miele è più buono dopo una lunga astinenza», ribatté Duleep.
«E se si dovesse guastare?», chiese una donna ancora più audace.
«Il palato fedele trova dolce anche il miele più amaro».
Le donne risero nascondendo i volti. Duleep era un vero uomo. La notizia venne rapidamente riferita alla sposa, seduta da ore nella sua camera interna dopo il bagno purificatore, assistita dalle donne il cui compito era quello di farle indossare le vesti rosse e i pesanti gioielli, decorarle mani e piedi con l’henné e applicarle il kohl agli occhi.
«Bello come un principe», le dissero, «e altrettanto baldanzoso. E che occhi! Ma anche gentile. Ebbene sì, sei fortunata. Mariti simili non crescono sugli alberi. Varrà la pena di aspettarlo, dopo l’assaggio iniziale».
La seconda ordalia era la cerimonia stessa, che sarebbe dovuta iniziare all’ora propizia di mezzanotte e mezza nel cortile principale e che si sarebbe protratta per ore, nel rispetto dei riti vedici. Duleep si sedette accanto alla sposa di fronte al fuoco sacro sull’altro lato del quale sedeva il pandit. Lei era velata e a capo chino. Duleep non osava guardarla, ma ne avvertì il profumo e la delicatezza e la temporanea magnificenza. Il velo che le copriva la testa era annodato al pomello della sua spada, che ai vecchi tempi avrebbe dovuto usare per tranciare il ramo di un albero allo scopo di dimostrare il suo vigore. Erano già indissolubilmente uniti, per tutta la vita e forse oltre. E lui non l’aveva ancora vista in faccia. E lei non lo aveva ancora guardato. Non poteva avere visto niente di lui a parte le pantofole dorate e ricamate e i pantaloni bianchi aderenti. A meno che non avesse sbirciato, ma lui non credeva che l’avesse fatto. Il pandit stava intonando i mantra. Qualcuno gettò incenso sul fuoco. Duleep e Kamala vi girarono intorno, la prima volta con Duleep in testa, la seconda con Kamala, invertendo l’ordine. Lei ricevette il riso nelle mani a coppa e lo versò in quelle di lui, e lui lo gettò sulle fiamme. Insieme fecero i sette passi propizi, poi il pandit recitò i loro nomi e i nomi dei loro antenati, e Kamala venne condotta via, e Duleep non l’avrebbe riavvicinata che due sere dopo, quando la madre di lei l’avrebbe accompagnata nella sua stanza, a casa sua. Ma ormai si era già fatto mattino. L’indomani, dunque, Kamala si sarebbe messa in viaggio per la casa dello sposo, vestita con gli abiti portati in dono per lei dai Kumar.
Duleep dormì fino a tardi, e al risveglio ruppe il digiuno e ispezionò la dote esposta su tavoli montati su cavalletti e protetti da tendoni nell’eventualità che una pioggia inaspettata e sventurata rovinasse tutto. C’erano indumenti per lui e per sua moglie, gioielli, piccoli scrigni ricolmi di monete d’argento e banconote da cento rupie, costumi cerimoniali di famiglia, argenteria, utensili domestici e, in una scatola, il titolo di proprietà di un terreno. Quella sera andò a letto presto, stordito da tante ricchezze personali, il prezzo di un marito pagato dal padre di una ragazza, e il mattino dopo indossò di nuovo gli abiti regali e la spada nella guaina di velluto che gli impediva i movimenti, montò in sella al cavallo bardato e condusse la processione fino alla stazione ferroviaria. La figura minuta di sua moglie, ancora velata, vestita di scarlatto e pesantemente ingioiellata, era stata trasportata in braccio dai genitori fino al palanchino. Duleep immaginò che subito prima di salirvi avesse avuto un’esitazione e avesse pianto, e che fosse stata persuasa a proseguire solo dal conforto e dal coraggio infuso in lei dalle parole di sua madre.
Quando le tendine del doolie vennero chiuse, i portatori lo sollevarono e le donne che lo seguivano cominciarono a intonare la canzone della sposa, il raga del mattino della fanciulla che lascia la casa d’infanzia per quella del marito.
Dooliya la aoō
re moreē babul ke kaharwa.
Chali hoon sajan ba ke des.
Al limitare del loro villaggio, dove verso sera giunsero in processione dalla stazione, vennero accolti da quella che sembrava la sua popolazione al completo. Le donne sposate si avvicinarono al doolie (fornito dai Kumar in sostituzione di quello dei Prasad rimasto a Delali), scostarono le tendine ed esaminarono la sposa. A giudicare da come poi guardarono Duleep, non dovevano aver trovato gravi difetti. Dei Kumar, solo Shalini era rimasta a casa. Si precipitò fuori dalle mura e si aggrappò alle redini del cavallo che Duleep aveva trovato ad attenderlo alla stazione insieme al doolie.
«Duleep, Duleep», esclamò, «come sei bello! Perché l’hai sposata? Perché non mi hai aspettata?». E s’incamminò con passo fiero e possessivo, conducendo il cavallo entro le mura. Ma quella sera tardi, quando avrebbe già dovuto essere a letto da un bel po’, entrò nella stanza in cui lui si stava preparando e disse: «Mi dispiace, Duleep».
«Perché ti dispiace?», chiese lui prendendola in braccio. Lei gli cinse le braccia al collo.
«Perché...», rispose, «perché l’ho vista».
«E per quale motivo dovresti essere dispiaciuta?», domandò Duleep, e il cuore gli batteva così forte che riuscì a malapena a reggere la fitta di incertezza.
«Perché sembra una principessa», gli disse Shalini. «Hai combattuto per lei? Hai sconfitto spiriti malvagi per liberarla? È andata così, Duleepji? Dimmelo! Dimmelo!».
«Immagino di sì», rispose lui; poi la mandò via con un bacio e attese nella stanza in cui di lì a poco Kamala sarebbe stata condotta dalla madre e affidata a lui.
Il problema, rivelò anni dopo a Hari, fu che quando tolse il velo a Kamala e la vide se ne innamorò all’istante. Forse era vero, ed era la spiegazione del fatto dell’insuccesso della sua carriera di studente di giurisprudenza in Inghilterra. Il ritorno in patria da sconfitto fu difficile da sopportare proprio perché suo padre non gli mosse un solo rimprovero per gli anni e i soldi sprecati. Rientrato in India, dovette lottare sotto il peso di innumerevoli fardelli: quello di sapere che la sua mente non era in grado di tenere il passo con quelle di uomini migliori di lui, e di essere consapevole che diverse volte, in Inghilterra, gli erano state fatte concessioni solo perché era un indiano e aveva percorso tutta quella strada e sopportato costi notevoli con l’intento evidente di farsi da sé, superando la condizione svantaggiata in cui era nato. Poi c’era il fardello di sapere che non poteva dare la colpa ai suoi genitori se spesso in Inghilterra aveva sofferto il freddo, la solitudine e la vergogna, e se di frequente aveva provato sgomento per la sporcizia, lo squallore e la povertà, la vista di bambini scalzi, cenciosi mendicanti e donne ubriache e le dimostrazioni di crudeltà verso animali ed esseri umani: peccati che in India si pensava potessero commettere o permettere soltanto gli indiani. Poteva rinfacciare i suoi genitori di averlo forzato a contrarre un matrimonio prematuro che aveva turbato l’involuto percorso delle sue pretese accademiche, ma non certo per quello sgomento, né per le costanti dimostrazioni che tra gli inglesi, a casa loro, era uno straniero. Veniva sempre trattato con gentilezza, addirittura con rispetto, ma sempre con riserbo; il genere di riserbo che andava per mano con il miglior comportamento possibile, e di conseguenza col disagio. Spesso si ritrovava a rimpiangere la spontaneità della vita di casa. Per scoprire l’essenza segreta degli inglesi – si rese conto – bisognava essere cresciuti in mezzo a loro. Per lui era già troppo tardi, ma per suo figlio non lo sarebbe stato. Non si era mai immaginato di avere dei successori, al plurale. Un figlio gli sarebbe bastato. Suo figlio sarebbe riuscito dove lui aveva fallito, se avesse potuto godere dei vantaggi che a lui erano stati preclusi.
Il guaio, rifletteva Duleep, era che l’India aveva lasciato il segno su di lui, e nessuna esperienza successiva l’avrebbe mai cancellato. Sotto la sottile superficie di anglicizzazione c’era una solida indianità che il matrimonio combinato aveva solo confermato e rafforzato. «E un indiano indiano», avrebbe spiegato un giorno a Hari, «non ha futuro in un mondo anglo-indiano». Di una cosa Duleep era certo: per quanto asserissero il contrario, gli inglesi si sarebbero tenuti stretto il loro impero ben oltre gli anni che gli restavano da vivere e per quasi tutta, se non proprio tutta, la vita di suo figlio. Se aveva una teoria, riguardo al fatto che gli inglesi se ne sarebbero andati, era che stavano aspettando che i bambini indiani diventassero inglesi come loro, se non addirittura di più, così che quando avessero ceduto le redini del potere avrebbero potuto avvertire uno strappo non più forte di quello che un uomo sentirebbe affidando a un figlio adottivo un’impresa costruita dal nulla lungo un periodo di alterne fortune e disastri.
Per Duleep l’indipendenza indiana si riduceva a quello, era una questione evolutiva più che politica, della quale non sapeva nulla. Credeva nella superiorità intellettuale degli inglesi. Non era certo con la forza fisica che dominavano un impero. Lo dominavano perché erano dotati di armi di intelligenza civica in confronto alle quali l’arsenale indiano si rivelava primitivo. Il tipico esempio di ciò era il giovane dalla pelle chiara seduto sulla veranda del bungalow del funzionario di sottodivisione. Lui non era mai stato costretto da nessuno a sposare una ragazza di sedici anni. A lui non importava, in ultima analisi, se fosse finito nella tomba con o senza una progenie maschile o femminile. Lui non era mai stato distratto dai propri doveri o dalle proprie ambizioni dalla travolgente sensazione fisica di ritrovarsi davanti una ragazza scaraventata in camera sua dalla madre, una ragazza che quando gli si era svelata lo aveva inondato con il puro e semplice desiderio di possederla, di dimenticare, di scacciare gli spiriti dell’autodisciplina, del sapere e della castità ed entrare con vigore nel secondo stadio dell’esistenza, governato da spiriti di natura ben diversa.
«Il fatto che mi innamorai di tua madre», disse anni dopo a Hari, «provava una cosa, la quale a sua volta ne provava molte altre. Provava la mia indianità. Non era solo una questione di soddisfare la propria giovane sessualità nei termini che potresti capire anche tu. Quale giovane avrebbe potuto resistere all’eccitazione di rimuovere quel velo e non restare deluso da ciò che vedeva, di sapere che la ragazza che aveva di fronte in una posa così umile era sua e che poteva farne quello che voleva? No, non era così semplice. In quel momento, capisci, entrai nel secondo stadio dell’esistenza secondo la disciplina induista. Divenni marito e padrone di casa. Nel profondo, in quel momento, le mie ambizioni erano tutte concentrate sulla famiglia, sulla mia progenie ancora inesistente. La capisci questa forte risacca psicologica? Sì, certo, avrei provato piacere, piacere fisico. Ma dove altro poteva condurre quel piacere se non alla felicità e all’appagamento per il sangue del mio sangue? Di sicuro non avrebbe dovuto essere seguito da un altro lungo periodo di celibato, di studio e istruzione. In un attimo avevo ormai superato quello stadio. Per la disciplina indù non ero più uno studente ma un uomo, con le responsabilità e le fonti di piacere di un uomo, che sono diverse da quelle di un ragazzo e di uno studente. Ciò malgrado, agli occhi del mondo occidentale in cui mi recai ero ancora un ragazzo, ancora uno studente. Stavo vivendo una menzogna, come si diceva un tempo negli ambienti della piccola borghesia inglese. Non è vero?».
Con queste parole Duleep Kumar giustificava il proprio fallimento, sempre che fosse stato un fallimento, ma dentro di sé si torturava per l’assenza di rimproveri da parte dei suoi genitori. Forse era sua moglie a rimproverarlo, Kamala, anche lei entrata nel secondo stadio dell’esistenza dopo essere stata penetrata, deflorata e poi abbandonata ai ricordi della propria stessa, straordinaria, dolorosa transizione da bambina a donna, passando alcune stagioni dell’anno con i suoi genitori e altre con quelli di Duleep e accogliendolo al suo ritorno con un’umiltà ormai leggermente inacidita nell’avvertire la quale Duleep dovette concludere che, a un’analisi obiettiva della situazione, era riuscito a ottenere il peggio di entrambi i mondi. Dopo tutto non aveva riportato alcun vaso pieno d’oro, alcun abito principesco, alcun mezzo per liberarla dalla tirannia di una famiglia matriarcale, come probabilmente lei si era aspettata dalla sua lunga permanenza in Inghilterra. Pur non avendo un’idea precisa delle ambizioni che lo avevano fatto partire, di certo Kamala aveva capito il senso di fallimento legato al suo ritorno.
«Alla mia partenza ero un temuto ma adorato marito indù. Al mio ritorno ero un mezzo uomo, impuro secondo i dettami della tradizione induista perché avevo attraversato le acque nere. Ma le avevo attraversate senza ottenerne alcun palese vantaggio. Per purificarmi, venni persuaso a consumare i cinque prodotti della vacca, sterco e orina compresi. A eccezione naturalmente della carne».
In Inghilterra non aveva detto a nessuno di essere sposato. Se ne vergognava. Per un mese aveva previsto e temuto la notizia della gravidanza di Kamala. Il sollievo che provò era temperato dalla delusione. Non sarebbe riuscito a sopportare la distrazione di una futura paternità, ma poteva apprezzare la libertà di non essere padre solo insieme alla sensazione di come ciò si rifletteva sulla sua virilità. Non vedeva l’ora di ricevere lettere da casa, che però quando arrivavano lo deludevano fino alla disperazione. Suo padre gli scriveva in hindi e sulle buste segnava il suo indirizzo in inglese, ma in uno stampatello che sembrava opera di un bambino dell’asilo. E ogni lettera era un sermone, una comunicazione formale da padre a figlio. Le poche che riceveva da Kamala erano ingenue come quelle di una bambina, risultato di ore di lavoro e istruzione. Sapeva che qualcuno doveva leggerle le sue. Solo la corrispondenza con Shalini gli dava qualche piacere.
Restituito a sua moglie, ma ancora privo delle qualifiche necessarie anche per una carriera non di sua scelta, si dedicò a insegnarle a leggere e a scrivere. Lei accettò di malagrazia. Non voleva imparare più di quello che già sapeva. La trovava una perdita di tempo, un affronto alla sua condizione di donna sposata. Se la vedevano con un libro, le sue cognate la canzonavano. «Ti comporti da stupida solo perché Shalini è più intelligente di te», disse lui quando Kamala finse di avere scordato la lezione del giorno prima.
La vecchia, grande casa era un alveare di inattività. Le donne bisticciavano tra loro. La voce di sua madre, sovrastando le altre per volume e autorità, portava solo tregue passeggere. Suo padre trascorreva ore in solitaria meditazione. I suoi fratelli oziavano, giocando d’azzardo e puntando sui galli da combattimento. Per un certo periodo, lo stesso Duleep sprofondò in un simile stato di inerzia. Non c’era bisogno che muovesse un dito o che lavorasse. Giocava con Shalini, che aveva ormai quasi dodici anni. Stiamo aspettando, si disse, che nostro padre muoia. Allora avremo il piacere di contenderci l’eredità. Passeremo tre o quattro anni a litigare, e a quel punto i figli dei miei fratelli saranno diventati abbastanza grandi da sposarsi e i soldi così attentamente accumulati cominceranno a essere sperperati, le terre a essere vendute e suddivise, e la mia profezia finirà per avverarsi.
Duleep aveva conservato l’idea di proseguire gli studi in India, seguita da quella di fare domanda per una posizione amministrativa in provincia. Aveva anche pensato di prendere sua moglie e andare a vivere da soli, ma non voleva lasciare Shalini. I suoi genitori non le avrebbero permesso di andare a scuola. Provò a mettersi in contatto con la missione zenana, un’organizzazione che mandava i suoi insegnanti nelle case delle famiglie indiane ortodosse per dare lezioni private alle donne, ma la missione perse interesse quando venne a sapere che le lezioni sarebbero state seguite da una sola bambina. Per un paio d’anni o forse più – si rese conto – l’istruzione di Shalini sarebbe stata sua responsabilità. In più Kamala era finalmente incinta, e Duleep cominciò a fare programmi per il futuro di suo figlio: un futuro che a volte sembrava molto lontano dal prendere la forma che lui avrebbe voluto. Non riusciva a immaginare di poter convincere Kamala ad attraversare le acque nere. Non riusciva a immaginarla in Inghilterra. E sapeva che si sarebbe vergognato di lei. In Inghilterra Kamala sarebbe stata lo zimbello di tutti. Lì in India, invece, lo zimbello era lui. Il problema pareva insolubile. Suo figlio sarebbe cresciuto con gli stessi identici svantaggi di cui soffriva lui. Poteva dare la colpa a se stesso per avere sposato una ragazza come Kamala, oppure poteva darla ai suoi genitori per averlo costretto a farlo. Poteva dare la colpa all’India e alle tradizioni induiste. Ma era più facile darla a Kamala, che da parte sua era già diventata petulante e viziata. Litigavano di frequente. Lui non ne era più innamorato. Occasionalmente ne era impietosito.
La loro primogenita visse solo due giorni. L’anno dopo, il 1914, il primo della guerra inglese contro la Germania, nacque un’altra bambina, la quale sopravvisse un anno. La terza figlia nacque morta nel 1916. La povera Kamala sembrava incapace di partorire un bimbo sano, tanto meno un maschio. Privati anche di questo, cominciarono ad avere discussioni sempre più acrimoniose. Duleep scoprì che lei gli dava la colpa dei suoi fallimenti di madre. Mettere al mondo un maschio forte era suo dovere e lei era determinata a compierlo. «Ma come posso farcela da sola?», chiedeva. «La colpa è tua. Tutti quegli anni passati sui libri hanno fiaccato la tua virilità». Furioso, lui se ne andò di casa con una manciata di soldi e l’intenzione di non tornarci più. Aveva la vaga idea di arruolarsi; ma poi pensò a Shalini, e quando rimase senza un soldo fece ritorno a casa. Era al verde e in disgrazia. Durante il suo mese di assenza, Shalini si era fidanzata con un certo Prakash Gupta Sen. I Gupta Sen erano parenti acquisiti del ramo di Lucknow dei Kumar.
Shalini gli fece le sue rimostranze, non per il fidanzamento ma per la sua assenza durante le cerimonie formali. «Perché sei stato via, Duleepji?», voleva sapere. «Se fossi rimasto, saresti andato a Mayapore con nostro padre e i nostri fratelli. E avresti potuto dirmi com’è questo Prakash. Loro dicono che è intelligente e attraente. Ma perché non posso sapere quello che pensi tu? A te avrei creduto».
«È tutto quello che riesci a dire? È tutto quello che ti importa? Il suo aspetto?».
Ma lei era già diventata donna.
«Cos’altro può contare, Duleepji? E io ho ormai quindici anni. Non si può restare bambine per sempre».
Le nozze di Shalini si svolsero quasi un anno dopo, nel 1917. Di nuovo la casa si riempì di gente. Duleep era sbalordito dalla calma con cui Shalini accettava la situazione e addirittura sbocciava al tepore delle blandizie formali riservate a una sposa. Quando vide il giovane Prakash Gupta Sen inorridì: grasso, vanesio, tronfio, lussurioso, come sarebbe venuto fuori di lì a qualche anno. Ma evitò Shalini. “Non ho più coraggio”, si disse. “Perché non faccio una scenata? Perché lascio succedere questa cosa terribile?”. Ma conosceva la risposta. “Perché sono già sconfitto. Il futuro non mi riserva niente. Sono anglicizzato solo a metà. La metà più forte è ancora indiana. E godo al pensiero che il futuro non riservi nulla a nessun altro”.
La sera delle nozze di Shalini andò di nuovo a letto con sua moglie. Lei pianse. Piansero entrambi. E si impegnarono a essere più gentili, indulgenti e comprensivi l’uno con l’altra. Il mattino della partenza rituale di Shalini, lui la osservò dall’uscita del complesso. La vide salire senza esitare sul palanchino.
E finalmente vide anche qualcos’altro: che aprendole la mente e ampliando i suoi orizzonti le aveva insegnato la lezione che lui stesso non aveva mai imparato, il valore del coraggio morale e non solo di quello fisico. Avrebbe rivisto sua sorella soltanto due volte: la prima durante la settimana che lei trascorse dopo le nozze nella casa di famiglia insieme a Prakash, la seconda cinque anni dopo quando, alla vigilia della partenza per l’Inghilterra insieme al figlio Hari, andò a farle visita a Mayapore durante il Rakhi-Bandan, portandole indumenti in dono e ricevendo in cambio un bracciale di setole di elefante: la festa in cui fratelli e sorelle riaffermano il loro legame e si scambiano voti di affetto e fedeltà. Sua moglie Kamala era ormai morta da due anni, e la povera Shalini non aveva ancora avuto figli. Suo marito, Duleep lo sapeva, passava gran parte del suo tempo in compagnia di prostitute. Morì pochi anni dopo, ucciso da un colpo apoplettico a casa della sua favorita.
«Prova a immaginare», scrisse Shalini al fratello in quell’occasione. «Le sue sorelle hanno avuto il coraggio di suggerirmi di diventare suttee per onorarlo e acquistare meriti religiosi!».
«Lascia Mayapore e raggiungici in Inghilterra», rispose Duleep da Sidcot.
«No», scrisse lei di rimando. «Il mio dovere, per quello che vale, è qui. Sento che non ci rivedremo più, Duleepji. Non hai anche tu la stessa sensazione? Siamo così fatalisti, noi indiani! Grazie dei libri che mi mandi. Sono il mio piacere più grande. E per la fotografia di Hari. Che bel ragazzo è diventato! Lo considero il mio nipote inglese. Forse un giorno, se mai verrà in India e vorrà visitare la sua vecchia zia indiana, lo rivedrò. Ma a ripensarci, non arriverò ai trent’anni. Sono così felice per te, Duleepji. Nella fotografia di Hari rivedo il mio caro fratello che mi faceva sedere sulle sue ginocchia. Ma adesso basta con queste sciocchezze».
Questi erano i racconti che Duleep fece a Hari; e che a sua volta Hari, dopo la morte del padre e nelle poche settimane di adolescenza inglese che gli restavano, fece a Colin Lindsey. Le vedeva come storie che non avevano niente a che fare con la sua vita: perfino allora, con il viaggio in nave verso l’India già prenotato e pagato dalla zia con quello strano nome, Shalini.
Ma ce n’era un’altra, di storia e anche questa Hari la raccontò a Colin. Sembrava incredibile a entrambi, non perché non riuscissero a immaginare che potesse essere accaduta, ma perché nessuno dei due avrebbe mai pensato che potesse succedere alla famiglia di Harry Coomer.
La storia era questa: due settimane dopo il ritorno rituale di Shalini a casa dei genitori, e una settimana dopo la sua partenza definitiva per Mayapore col marito, il padre di Duleep annunciò l’intenzione di liberarsi di tutti i beni terreni, di lasciare la sua famiglia e le sue responsabilità, vagare per le campagne e alla fine diventare sannyasi.
«Ho fatto il mio dovere», disse. «Bisogna riconoscere che è finita. Non bisogna diventare un peso. Ora il mio dovere è verso Dio».
I suoi familiari erano sconvolti. Duleep lo implorò di ripensarci, ma suo padre era irremovibile. «Quando ci lascerai, allora?», gli chiese.
«Me ne andrò tra sei mesi. Impiegherò questo tempo a sistemare i miei affari. L’eredità verrà divisa in parti uguali tra voi quattro. La casa andrà a tuo fratello maggiore. Vostra madre dovrà poterci vivere fino a quando lo vorrà, ma tuo fratello maggiore e sua moglie diventeranno i capifamiglia. Tutto sarà fatto come se io fossi morto».
«E tu lo chiami giusto, tutto questo?», gridò Duleep. «Lo chiami devoto? Lasciare nostra madre? Seppellirti vivo nel nulla? Mendicare il tuo pane quotidiano, quando sei abbastanza ricco da sfamarne cento, di mendicanti?».
«Ricco?», ripeté suo padre. «Cosa significa ricco? Oggi possiedo ricchezze. Basta un tratto di penna su un documento per liberarmene, di quelle che tu chiami ricchezze. Ma quale tratto di penna su quale documento potrebbe liberarmi dal peso di un’altra vita dopo questa? Una simile liberazione la si può solo sperare, la si può solo guadagnare rinunciando a tutti i legami con il mondo».
«Ah, è così!», esclamò Duleep. «Perfetto! In questo modo non potrai vergognarti vedendo tuo figlio ridursi a un insignificante burra sahib! Che differenza può fare per te a questo punto, sapere cosa sono e dove sono? È per questo che ho ceduto al tuo volere? È stato per essere ignorato e abbandonato insieme ai miei fratelli e a nostra madre che ti ho obbedito?».
«Dove c’è dovere dev’esserci obbedienza. I miei doveri verso di te sono finiti. La tua obbedienza non è più necessaria. Ora i tuoi obblighi sono altri. E io ho un dovere diverso».
«Ma è mostruoso!», sbraitò Duleep. «Mostruoso e crudele ed egoista! Mi hai rovinato la vita. Mi sono sacrificato per niente».
Come aveva già scoperto, era più facile incolpare gli altri che se stesso, ma in seguito si pentì di quell’attacco. Il ricordo lo faceva soffrire. Provò a parlarne con sua madre, ma lei ormai si dedicava in silenzio alle faccende quotidiane ed era diventata inaccessibile. Quando il giorno della partenza di suo padre si era fatto ormai vicino, Duleep andò a chiedergli perdono.
«Sei sempre stato il mio figlio prediletto», ammise il vecchio Kumar. «Era peccato, volere più bene a te che agli altri. Sarebbe stato meglio se tu non avessi avuto ambizioni. Se fossi stato uguale ai tuoi fratelli. Ma non potevo esimermi dall’esercitare la mia autorità con più forza sull’unico tra i miei figli che sembrava pronto a sfidarla. E mi vergognavo della mia preferenza. Forse l’esercizio della mia autorità è andato oltre il ragionevole. Un padre non chiede perdono a suo figlio. Può solo dargli la sua benedizione e affidare alle sue cure quella brava donna di sua madre».
«No», protestò Duleep in lacrime. «Quello non è un mio dovere. Appartiene al tuo primogenito. Non impormi quel fardello».
«Il fardello ricadrà sul cuore più pronto ad accettarlo», rispose il vecchio Kumar; poi si inginocchiò e toccò i piedi del suo ultimogenito in segno di umiltà.
Anche il modo in cui diventò sannyasi sembrava dimostrare la sua determinazione a sferrare il più duro dei colpi al proprio orgoglio. Non si prestò ad alcun rituale. Non indossò la veste lunga. Il mattino della sua partenza apparve in cortile coperto solo da un perizoma, reggendo in mano un bastone e una ciotola per l’elemosina. Sua moglie, impietrita in volto, versò una manciata di riso nella ciotola, e lui uscì dal cancello e imboccò la strada che si allontanava dal villaggio.
La famiglia lo seguì a distanza per un tratto, ma lui non si voltò mai. A un certo punto Duleep e i fratelli si fermarono, ma la madre proseguì. Loro la guardarono senza dirsi nulla, aspettando finché lei si sedette sul ciglio della strada e lì rimase; poi Duleep la raggiunse, la fece rialzare e la sostenne lungo il tragitto per tornare a casa.
«Non devi arrenderti al dolore», gli disse lei più tardi, coricata sul suo letto nella stanza buia da cui aveva ordinato che venisse tolto ogni articolo di lusso e di conforto. «È la volontà di Dio».
Da quel giorno sua madre condusse l’esistenza di una vedova. Consegnò le chiavi di casa alla moglie del figlio maggiore e si trasferì in una stanza sul retro affacciata sugli alloggi della servitù. Cucinava il proprio cibo e lo consumava in solitudine. Non usciva mai dalle mura del complesso. Col passare del tempo, i figli e le nuore impararono ad accettare la situazione come inevitabile. Comportandosi in quel modo, dicevano, lei stava acquisendo meriti religiosi. E così parvero più che lieti di dimenticarla. Il solo Duleep andava ogni giorno in camera sua, le si sedeva vicino e la guardava filare il khadi. Per poter comunicare con lei doveva limitarsi a dire cose che non richiedevano risposta o fare domande semplici, a cui la madre poteva replicare annuendo o scuotendo la testa.
In questo modo la teneva al corrente delle notizie: la fine della guerra tra Inghilterra e Germania, gli affari a cui aveva cominciato a interessarsi, la più recente gravidanza di Kamala, la nascita di un’altra bambina morta. Un giorno le riferì la notizia, o meglio la voce, che suo padre era stato riconosciuto da uno dei Kumar di Lucknow che si trovava in viaggio a Bihar, il quale lo aveva visto sul marciapiede della stazione con la sua ciotola per l’elemosina ma non gli aveva rivolto la parola. Sua madre non smise neanche di filare. Nel 1919 le disse qualcosa dei moti nel Punjab, ma tacque sul massacro di Amritsar, dove le truppe gurkha al comando di ufficiali britannici avevano sparato su civili indiani disarmati. Quello stesso anno le disse che Kamala era di nuovo incinta, e nel 1920, poche settimane dopo la festa di Holi, le diede la notizia che gli era nato un figlio. A quel punto l’anziana donna aveva preso l’abitudine di borbottare mentre filava il khadi, e Duleep non ebbe mai la certezza che lo avesse udito. Non lo guardò quando lui le disse di Hari, e nemmeno due giorni dopo, quando le riferì che Kamala era morta e che ora lui aveva un figlio sano e robusto ma non aveva più una moglie. Sua madre non lo guardò nemmeno quando lui scoppiò a ridere. Rideva perché non riusciva a piangere; non per Kamala, non per suo figlio, non per suo padre o per la sua vecchia madre impazzita. «Ci è riuscita, capisci, madre?», le gridò in inglese in preda all’isteria. «Ha fatto il suo dovere. Buon Dio, se l’ha fatto! Sapeva qual era il suo dovere e alla fine l’ha compiuto. Poco importa che le sia costato la vita. Sappiamo tutti qual è il nostro dovere, giusto? Così come io so qual è il mio. Ora se non altro ho un figlio e ho un dovere verso di lui, ma ci sei anche tu, e mio padre ti ha affidata a me».
Ci vollero altri diciotto mesi per assolvere a quell’ultimo dovere. Una mattina Duleep entrò in camera di sua madre e trovò il filatoio abbandonato e l’anziana donna distesa a letto. Quando le rivolse la parola, lei aprì gli occhi, lo guardò e disse:
«Tuo padre è morto, Duleepji». La sua voce era roca e incrinata dalla lunga inattività. «L’ho visto in sogno. Il fuoco è stato acceso?».
«Il fuoco, madre?».
«Sì, figlio mio. Il fuoco dev’essere acceso».
Poi si era riaddormentata.
Quella sera, risvegliandosi, gli fece la stessa domanda: «Il fuoco è acceso?».
«Lo stanno preparando».
«Svegliami quando hanno finito».
Dormì fino al mattino successivo, e quando aprì gli occhi gli chiese: «Le fiamme sono alte, Duleepji?».
«Sì, madre», rispose lui. «Il fuoco sta avvampando».
«Dunque è giunta l’ora», disse lei. Poi sorrise, chiuse gli occhi di nuovo e gli disse: «Non ho paura», e non si svegliò più.
La madre di Duleep morì nell’ottobre 1921. L’anno seguente, dopo che ebbe venduto ai fratelli la sua parte della proprietà e visitato Shalini a Mayapore, Duleep si recò con suo figlio a Bombay, dove si imbarcarono per l’Inghilterra. A quel punto era relativamente benestante, e nel corso dei sedici anni successivi riuscì a incrementare periodicamente il suo capitale con investimenti propizi e imprese fortunate. Forse era vero che aveva in sé quella che una volta aveva definito una mancanza fatale, anche se non conduceva al compromesso come aveva pensato, sempre che quella mancanza esistesse davvero. Certo, in gioventù era sceso a compromessi, ma poi diventando uomo aveva tenuto fede ai suoi doveri. Il difetto era forse da cercare nella qualità della sua passione. Probabilmente in essa vi erano state impurità fin dall’inizio, oppure le impurità potevano esservi penetrate con le frustrazioni che in un altro uomo avrebbero potuto facilmente diluirla, ma che in lui l’avevano rafforzata e alimentata fino al punto che era la sola passione a guidare i suoi pensieri e le sue azioni, concentrandoli tutti su Hari.
Un estraneo avrebbe potuto guardare la vita, i tempi e i tratti caratteriali di Duleep Kumar (o Coomer, come sarebbe diventato) e vedere un uomo, una carriera e un retroterra che di per sé, presi separatamente o insieme, non avevano alcun senso. L’unica logica che possedevano aveva a che fare con Hari: con la sua salute, con la sua felicità, con le sue prospettive, con il suo potere in un mondo in cui di norma ragazzi come Hari non vi potevano contare; erano queste le tacche sulla riga che Duleep usava per misurare i propri successi o fallimenti: ed erano questi i risultati finali che si prefiggeva in ogni impresa in cui si imbarcava.
Quando il padre di Colin Lindsey mantenne la promessa di parlare con gli avvocati per cercare di venire a capo della notizia apparentemente assurda che Duleep Kumar era morto in rovina, questo fu ciò che gli disse il socio anziano dello studio:
«Nel suo paese, probabilmente, Coomer avrebbe guadagnato una fortuna e l’avrebbe conservata. Un giorno mi confidò che da ragazzo avrebbe voluto diventare un funzionario pubblico o un avvocato e che non gli era mai venuto in mente di darsi agli affari. La cosa curiosa è che in realtà aveva un certo talento per i maneggi finanziari. Nel senso europeo del termine. Alla resa dei conti, era il suo lato più inglese. Forse nel suo paese avrebbe fatto mangiare la polvere al tipico affarista medio. Aveva una visione ampia, tutt’altro che ristretta. O forse farei meglio a dire che si lanciava in ogni nuova impresa con quel tipo di visione, per poi ridurla sempre a come guadagnare la maggior quantità di soldi nel minor tempo possibile perché suo figlio potesse diventare qualcosa che non è. Che peccato! Nell’ultimo anno o giù di lì, quando gli affari avevano cominciato a peggiorare, cercavo continuamente di metterlo in guardia, di dissuaderlo dalle folli speculazioni. E suppongo che sia qui che... be’, che cominciano a venire fuori cose come il sangue e il retaggio. Coomer si è lasciato prendere dal panico. E alla fine ha perso completamente la testa, a giudicare dai disastri che si è lasciato dietro. E ovviamente non ce l’ha fatta ad affrontarli. Non penso che si sia suicidato perché non poteva fronteggiare le conseguenze dei suoi atti, ma perché non poteva sopportare quello che tali conseguenze avrebbero significato per suo figlio. Il fatto, in altre parole, di dover tornare in India con la coda tra le gambe. Sa, Coomer avrebbe potuto trovarsi in guai abbastanza seri. Al ragazzo non l’ho detto, e probabilmente è meglio che non venga a saperlo. Ma c’è un aspetto del caso che a parere della banca sembra un chiaro esempio di falsificazione».
Mr Lindsey era scioccato.
L’avvocato vide la sua espressione e soggiunse: «Può ringraziare il cielo di non avere investito nelle attività di Coomer».
«Non avevo denaro a sufficienza», spiegò Lindsey. «Eppoi lo conoscevo a malapena. Ci dispiaceva per il ragazzo, tutto qui. E a dire il vero è una sorpresa sentirle dire che suo padre lo amasse tanto. Perché per quello che riuscivamo a vedere era vero il contrario. Probabilmente in famiglia abbiamo tutti il cuore tenero, compreso mio figlio. Fu lui, qualche anno fa, a chiedere a Harry di passare le vacanze estive con noi quando scoprì che altrimenti sarebbe rimasto solo. E da allora è sempre stato così».
«Ma vede, Mr Lindsey», ribatté l’avvocato, «era proprio stando lontano da suo figlio che Coomer agiva nei suoi migliori interessi. Non sto dicendo che cercasse deliberatamente di far sembrare che suo figlio venisse trascurato per procurargli inviti nelle case altrui, dove avrebbe imparato com’erano davvero gli inglesi. No, si teneva a distanza da Harry perché sapeva che, se Harry fosse cresciuto nel modo in cui lui desiderava, prima o poi si sarebbe vergognato di lui. C’era ad esempio la questione dell’accento. A me non pareva affatto male, ma naturalmente era un accento indiano. E Coomer di sicuro non voleva che Harry lo imparasse. Non voleva che Harry imparasse niente da lui. Me lo disse esplicitamente. Disse che non vedeva l’ora che Harry mostrasse di non apprezzare più la sua compagnia. Non voleva che il ragazzo si vergognasse di lui ma fosse troppo rispettoso per mostrarglielo. Tutto ciò che desiderava per lui era che ricevesse la migliore istruzione inglese e la migliore formazione che il denaro potesse comprare».
E non solo il denaro, pensò Lindsey. Il seme amaro era stato piantato. E fu probabilmente proprio questo, più di ogni altra cosa, che finì per fugare i dubbi che poteva avere nutrito riguardo alla ragionevolezza del rifiuto che aveva opposto all’impossibile, fiabesca proposta di suo figlio Colin, che cioè Harry potesse vivere con loro; questo, più ancora dello shock subito dal suo intero sistema di valori, un sistema fondato sulle buone maniere, nel sapere che il padre del giovane Coomer aveva falsificato una firma su un documento; questo, e cioè che la solitudine del giovane Coomer non era stata causata dalla negligenza paterna bensì da una linea programmatica con uno scopo preciso e non particolarmente onesto: l’accesso a un ambiente sociale che suo padre non poteva garantirgli sulla base delle proprie risorse naturali.
A un tratto Lindsey ricordò i commenti (o meglio permise loro di compiere il viaggio dalla retroguardia alla prima linea dei suoi pensieri) di quegli amici delle cui opinioni si fidava tranne quando contrastavano con le convinzioni progressiste che restavano appollaiate a fatica sulle solide spalle dei suoi naturali istinti di clan. Non ne rammentava le parole esatte, ma di sicuro aveva ben chiare le idee che vi stavano dietro: che in India potevi spesso contare sul fatto che i nativi agissero nell’interesse comune a patto che li tenessi occupati; che il vero indiano, quello più fidato, era probabilmente il tuo servitore, colui che si guadagnava il pane che consumava sotto il tuo stesso tetto, seguito a ruota dal semplice contadino, che odiava le sanguisughe della sua stessa razza, ignorava la politica ma da persona sensata qual era prestava attenzione al clima, allo stato dei raccolti e al rispetto delle regole; che rispettava l’imparzialità e rappresentava la maggioranza di quella semplice nazione che veniva altresì rovinata da un contatto troppo ravvicinato con le idee sofisticate della moderna società occidentale. L’ultima persona di cui ti potevi fidare, dicevano quelle persone (e lo sapevano, che diamine, perché vi erano state o erano imparentate con coloro che vi erano stati) era l’indiano occidentalizzato, perché in realtà non era affatto un indiano. Le uniche eccezioni alla regola si trovavano tra i maragià e quelli come loro, nati nella cerchia cosmopolita di coloro il cui compito era esercitare l’autorità e che erano interessati a conservare il vecchio status quo sociale.
C’era stato un momento in cui suo figlio Colin pensava che il padre di Harry fosse un maragià, un ragià o come minimo un ricco possidente di quelli che venivano subito dopo i maragià in ordine di importanza. Col passare degli anni quella prima impressione era stata gradualmente corretta (a volte da quegli stessi amici, secondo i quali il padre di Hari era probabilmente figlio di un mero zamindar, qualunque cosa fosse uno zamindar). Ma l’impressione iniziale si era mai davvero modificata in qualcosa di somigliante alla verità? Era stata tutta una truffa, l’intera faccenda? Lindsey non voleva pensarlo. Ma ora lo pensava, e rientrò a casa dalla sua altruistica visita allo studio legale con la sensazione generale che lui e suo figlio fossero stati ingannati, menati per il naso e trascinati in una brutta faccenda solo perché erano stati fin troppo disposti a pensare il meglio e ignorare il peggio del prossimo, senza ascoltare gli avvertimenti di coloro che avevano osservato l’adozione di Harry Coomer da parte dei Lindsey con espressioni a volte fin troppo indicative delle loro opinioni, e cioè che da quella storia non ci si poteva aspettare nulla di buono.
Quella sera a cena, ascoltando suo figlio, biondo e attraente, rivolgersi a Harry, nero di capelli e scuro di pelle, Lindsey si sorprese a pensare: “Straordinario! Se chiudi gli occhi non riesci a sentire la differenza. E sembrano proprio sulla stessa lunghezza d’onda”.
Ma lui non avrebbe più chiuso gli occhi. Prese da parte Harry e gli disse: «Mi dispiace, vecchio mio. Non c’è niente che possa fare. Gli avvocati mi hanno convinto».
Harry annuì. Sembrava deluso, ma rispose: «Be’, grazie lo stesso. Per averci provato, intendo». Poi sorrise, come se si aspettasse che Lindsey gli posasse un braccio sulle spalle come era solito fare.
Ma quella sera Lindsey si scoprì incapace di compiere quel gesto affettuoso.
Nei ricordi più vividi di Hari c’erano cumuli di foglie bagnate e gelide al tocco, come alle prime ore di un mattino di fine ottobre dopo una gelata. Per lui l’Inghilterra era un aroma dolce, freddo, pulito, pungente; aria in movimento che invadeva le valli e spazzava le cime delle colline, non stagnante e pesante, non un mezzo di trasmissione di cattivi odori. L’Inghilterra era il parco e i pascoli dietro Sidcot, i timpani della casa, i vetri a piombo e losanghe delle finestre, il glicine benevolo.
Svegliandosi in piena notte sullo stretto letto di corda nella sua stanza al numero 12 di Chillianwallah Bagh, Hari scacciava a manate le zanzare, si tappava le orecchie per non sentire il gracidio delle rane e le strida taglienti delle lucertole in calore sui muri e sul soffitto. Arrivava al mattino emergendo da sogni agitati di casa e scivolava all’istante nell’incubo della veglia, nel disgusto che provava per tutto ciò che quel paese straniero offriva: le cornacchie che gracchiavano fuori e i grossi scarafaggi color ambra che caracollavano, con i loro corpi pesanti, le loro teste leggere e le loro delicate antenne ondeggianti, dalla camera da letto a una stanza da bagno adiacente nella quale non c’era alcuna vasca ma solo un rubinetto, un secchio, una paletta di rame, un pavimento di cemento e un vischioso canaletto di scolo da cui le acque sporche si immettevano in un foro nel muro e da lì si riversavano schizzando sul fango rappreso del cortile, prosciugando strato dopo strato il suo retaggio inglese e la speranza di scoprire di essersi immaginato tutto dal giorno che aveva ricevuto la lettera in cui suo padre gli chiedeva di incontrarlo a Sidcot per parlare del futuro. Era questo il futuro? L’incontro non era mai avvenuto, quindi forse non lo era. Suo padre non era mai arrivato, non aveva mai lasciato Edimburgo, dove era morto nella sua camera d’albergo.
A volte, quando arrivava una lettera di Colin Lindsey, Hari guardava l’intestazione sulla busta come volesse confermare a uno spirito interiore, più scioccamente ottimista e speranzoso del suo, che a scrivergli non era stato suo padre per dirgli che era stato tutto un errore. Non vedeva l’ora di ricevere corrispondenza dall’Inghilterra, ma poi quando le lettere arrivavano e lui le apriva e le leggeva, una prima volta voracemente e una seconda con più calma, scopriva che la giornata si era incupita in un modo che gli faceva pensare a un atto di violenza immotivata; gratuita, se non per il fatto che era calcolata per riportarlo miracolosamente alla sua aria natia, alla sua brughiera, a persone il cui comportamento non lo disgustava. Quando era in un simile stato d’animo non rispondeva mai a una lettera. Aspettava sempre che la sofferenza più acuta causata dal suo arrivo fosse passata e, trascorsi un paio di giorni, faceva un primo tentativo di buttare giù una risposta che non lo smascherasse come un codardo: poiché una cosa simile sarebbe stata inammissibile, estranea alla scala di valori che Hari sapeva di dover conservare se voleva che quell’incubo giungesse alla sua inimmaginabile, imprevedibile ma presumibilmente logica fine.
In questo modo, Colin Lindsey non poté mai figurarsi quanto a fondo il suo amico avvertisse il peso dell’esilio. In una lettera a Harry scriveva: «Mi fa piacere che tu ti stia ambientando. Sto leggendo molto sull’India per farmi un’idea più chiara di come ti ci ritrovi. Sembra un posto magnifico. Vorrei tanto poterti raggiungere. Hai infilzato qualche buon maiale, di recente? Se lo fai, non lasciare la carcassa davanti a una moschea, se non vuoi che i fedeli del Profeta ti appendano per gli zebedei. Consiglio di veterano! Sabato scorso abbiamo pareggiato con i Wardens. Ci manca il tocco di Coomer, quegli eleganti spostamenti del peso sulla gamba migliore e quei lenti, pregevoli lanci eleganti. Strano, pensare che la vostra stagione del cricket comincerà più o meno quando qui avrà inizio quella del calcio. Non che quest’anno la seguirò. È stato deciso cosa farai? Io di sicuro lascerò la scuola alla fine dell’anno scolastico. Papà dice che sarebbe disposto a pagarmi un istitutore privato se volessi iscrivermi all’università (sai che speranze), ma io ho deciso di accettare la proposta di mio zio e andare a lavorare a Londra, negli uffici di quella compagnia petrolifera in cui ha le mani in pasta».
La riposta di Hari, scritta dopo qualche giorno, fu questa: «L’idea, se ben ricordi, era quella che dopo Chillingborough avrei studiato per gli esami di ammissione all’Indian Civil Service, che li avrei dati a Londra e poi sarei venuto qui a farmi le ossa. Ormai gli esami puoi darli anche qui, ma non credo che lo farò. Il vecchio cognato di mia zia ha un’impresa a Mayapore, e a quanto pare si aspettano che vada a lavorarci. Ma prima dovrei imparare la lingua. Mio zio acquisito trova che la lingua che parlo potrebbe rivelarsi utile, ma dice che gli servirà a ben poco se non riuscirò a capire una parola di quello che dice il 90 per cento della gente con cui avrò a che fare. In questo periodo, qui piove a dirotto. A volte smette, spunta fuori il sole e da ogni cosa si leva il vapore. Ma le piogge, mi dicono, andranno avanti fino a settembre; a quel punto arriverà il fresco, ma solo per qualche settimana. Con l’anno nuovo torna il caldo, e ad aprile-maggio, a quanto pare, non riesci neanche più a sudare. Mi è venuta la diarrea e posso mangiare solo frutta, anche se mi sveglio pensando alle uova col bacon. Salutami tanto tua madre e tuo padre, Connolly e Jarvis e ovviamente anche il vecchio Rospaccio».
Superata la tentazione di stracciarla e scriverne un’altra in cui far capire a Colin cosa significasse ritrovarsi a vivere dalla parte sbagliata del fiume in una città come Mayapore, sigillò la busta. In quel caso gli avrebbe detto questo: «Qui non c’è niente che non sia orribile. Case, città, fiume, paesaggio. Tutto è ridotto a un sordido, uniforme squallore da coloro che vi abitano. Se esiste un’eccezione, di sicuro la puoi trovare sulla riva opposta del fiume, in quello che viene chiamato il quartiere residenziale. E tu forse ti ci potresti abituare, e addirittura apprezzarlo, perché sarebbe la tua sistemazione, il tuo rifugio. Io invece sono qui al Chillianwallah Bagh. È quello che definiscono un quartiere moderno. Secondo i loro criteri, se abiti in una di queste soffocanti mostruosità di cemento sei qualcuno. Ma l’intera zona puzza di fogna. In camera mia (se puoi definirla una camera: con le sue finestre senza vetri e con le sbarre somiglia più a una cella) ci sono un letto con un telaio di legno e una rete di corda, una sedia, un tavolo che zia Shalini ha ricoperto con un agghiacciante drappo viola ricamato d’argento, un armadio chiamato almirah con un’anta che non si apre. Il mio baule e le valigie stanno facendo la muffa. Al centro del soffitto c’è un ventilatore a pale. Spesso si blocca in piena notte, e ti svegli boccheggiando. Mia zia e io viviamo da soli. Abbiamo quattro servitori, che occupano le stanze in fondo al cortile. Non parlano una parola di inglese. Quando sono al piano terra mi osservano dai vani delle porte e attraverso le finestre, perché sono il nipote venuto da “Bilaiti”. Mia zia, suppongo, è una brava donna. Non ha neanche quarant’anni, ma sembra un’ultracinquantenne. Non ci capiamo. Lei si sforza di comprendermi più di quanto io mi prenda il disturbo di capire lei. Ma almeno è una persona sopportabile. Tutti gli altri li detesto. Dal loro punto di vista sono un impuro. Vorrebbero farmi bere piscio di vacca per purificarmi della macchia di aver vissuto all’estero, dall’altra parte delle acque proibite. Purificarmi! Ho visto uomini e donne defecare all’aperto, in un terreno abbandonato lungo il fiume. Di sera, il tanfo del fiume raggiunge la mia stanza. In bagno, in un angolo, c’è un buco sul pavimento e due gradini a forma di suola di scarpa su cui mettere i piedi prima di accosciarti. Ci sono sempre mosche e scarafaggi. Ti ci abitui, ma solo svilendo i tuoi istinti civili. Sulle prime ti riempiono di orrore. Di terrore, perfino. È un purgatorio, agli inizi, svuotare l’intestino.
Ma la casa è un rifugio di pace e pulizia, in confronto a quello che c’è e che succede fuori. Il nostro latte proviene direttamente da una mucca. Grazie al cielo zia Shalini lo fa bollire. Il lattaio passa di mattina e munge la sua mucca davanti a casa nostra, accanto a un palo del telegrafo. Al palo lega un vitellino morto e imbalsamato contro cui la mucca strofina il muso. Il vitello serve per continuare a farle produrre latte. È morto di fame, perché tutto il latte della madre veniva venduto ai bravi indù. Da quando l’ho scoperto, il mio tè lo prendo solo col limone o col lime, che zia Shalini può trovare al bazar. Ci sono stato una sola volta, al bazar. È successo la prima settimana che ero qui, verso la fine di maggio. La temperatura era di 43 gradi. Non mi ero ancora reso bene conto di cosa mi stesse succedendo. Ero andato al bazar con zia Shalini per gentilezza, perché lei sembrava desiderare che l’accompagnassi. Ma cos’era, una specie di incubo? Il lebbroso, per esempio, che se ne stava all’ingresso e a cui nessuno sembrava badare: era reale? Sì, lo era a sufficienza. Quello che restava della sua mano mi ha sfiorato la manica. Zia Shalini ha depositato una moneta nella sua ciotola. Lei ci è abituata, ai lebbrosi. Sono parte della sua esperienza quotidiana. E quando ha messo la moneta in quella ciotola, io mi sono ricordato del racconto di mio padre, quello che ti ho riferito e a cui nessuno di noi due ha creduto fino in fondo, sul fatto che mio nonno fosse andato via di casa e si fosse messo a mendicare per guadagnare meriti religiosi e diventare parte dell’Assoluto. Ebbene, era diventato un lebbroso anche lui? Oppure si era semplicemente ritrovato in comunione con Dio?
Tutti quei racconti di mio padre: al momento sembravano semplici storie. Perfino un po’ romantiche. Ma per poterle assorbire fino in fondo bisogna immaginarsele qui, o in un luogo simile a questo o addirittura più primitivo. Guardo zia Shalini e cerco di vedere in lei la ragazzina che era stata data in moglie, e che ne aveva pagato il prezzo, a un uomo che poi era morto di sifilide o qualcosa di simile. Morto in un bordello, in ogni caso. Vorrei che mio padre non mi avesse detto niente di tutto ciò. Mi ritrovo a guardarla a tavola, sperando che tocchi solo il bordo esterno del piatto. Povera zia Shalini! Lei mi fa domande sull’Inghilterra, il genere di domande a cui non puoi rispondere perché in patria nessuno te le fa.
Patria. Me lo lascio ancora sfuggire. Ma la mia patria è questa, giusto, Colin? Domani non mi sveglierò a Chillingborough o a Sidcot, e nemmeno in quella che chiamavamo sempre “camera mia” a Didbury, non è vero? Mi sveglierò qui, e la prima cosa di cui mi renderò conto sarà il gracchiare delle cornacchie. Mi sveglierò alle sette e scoprirò che tutti sono già in piedi da almeno un’ora. Dal cortile giungerà l’odore di qualcosa che viene cucinato nel ghi. Al pensiero della colazione mi si rivolterà lo stomaco. Sentirò gridare i servitori. In India gridano tutti. Al cancello di casa ci sarà un venditore ambulante o un mendicante. E starà gridando anche lui. Oppure sarà soltanto l’uomo che grida. La prima volta che l’ho sentito, credevo che fosse un pazzo fuggito da chissà dove. In realtà è un pazzo che non è mai stato rinchiuso. La sua follia è vista come un segno del fatto che Dio l’ha notato personalmente. Di conseguenza lui è più venerando delle persone cosiddette sane di mente. Forse sotto quest’idea di sacralità si cela l’altra idea: che la follia sia l’unica condizione sensata per un indiano, che sia quello che tutti vorrebbero essere.
Probabilmente splenderà il sole del mattino. Guardare fuori dalla finestra fa male agli occhi. La luce non ha gradazioni. C’è solo un bagliore piatto e accecante e un’oscurità improvvisa al passaggio di una nuvola. Più tardi pioverà. Se la pioggia sarà abbastanza forte, riuscirà a coprire le grida della gente. Ma dopo un po’ anche lo scroscio della pioggia ti fa ammattire. Da quando sono qui ho cominciato a fumare, ma le sigarette sono sempre umide. Intorno alle undici si presenta un vecchio chiamato Pandit Babu Sahib, in teoria per darmi lezioni di hindi. È mia zia a pagare le lezioni. Il pandit ha un lurido turbante in testa e una grande barba grigia. Le lezioni sono una farsa, perché lui non parla un inglese che io sia in grado di riconoscere. Certi giorni non si presenta nemmeno, oppure arriva un’ora dopo. Questi non hanno la concezione del tempo. Per me sono ancora “questi”.
Mi chiedi cosa farò. Non lo so. Per ora sono alla mercé dei parenti acquisiti di mia zia. A quanto pare ci sono ancora dei Kumar a Lucknow e un fratello di zia Shalini che vive con la moglie nella vecchia casa dei Kumar nelle Province Unite. Ma loro non vogliono saperne di me. Zia Shalini li ha informati quando ha saputo della morte di mio padre, ma loro non erano interessati. Mio padre aveva tagliato i ponti con tutti tranne che con lei. Prima di emigrare in Inghilterra aveva venduto le sue terre ai fratelli. Il fratello ancora in vita teme, secondo zia Shalini, che io abbia in mente di rivendicare una parte della proprietà. Lei suggerisce di rivolgerci a un avvocato per controllare se la vendita originaria fosse in regola. In questo è uguale a qualunque altro indiano. Se riescono a impegolarsi in una lunga, rovinosa causa civile, sono contenti. Ma io non ne voglio sapere. E così dipendo da lei e da suo cognato, Romesh Chand Gupta Sen, finché non riuscirò a guadagnarmi da vivere. Ma quale decente fonte di guadagno posso ottenere, senza una qualifica riconosciuta? Zia Shalini mi lascerebbe frequentare uno dei college indiani, ma la decisione non spetta a lei, poiché è Romesh Chand a tenere i cordoni della borsa. (Dopo tutto, lei appartiene ai Gupta Sen). Qui c’è un istituto tecnico fondato da un ricco indiano chiamato Chatterjee. A volte penso che potrei provare a iscrivermi e ottenere una laurea in Ingegneria, o un diploma, o qualunque sia l’attestato che ti dà una scuola simile.
Sai qual è la cosa peggiore? Be’, non la peggiore, ma quella che mi mette davvero in difficoltà? Né zia Shalini, né Romesh Chand, né i loro amici e parenti hanno conoscenze tra gli inglesi, quanto meno non quelli che contano in società. Zia Shalini non ne conosce perché non ha una vita sociale. Gli altri non vogliono nemmeno provare a familiarizzare, ne fanno una questione di principio. Questa è una società indù rigida, chiusa, semiortodossa. Comincio a capire a cosa si fosse ribellato mio padre. Se la famiglia conoscesse qualche inglese, prima o poi qualcuno potrebbe interessarsi al mio futuro. I cinque anni a Chillingborough dovranno pure contare qualcosa, e ci sarà di sicuro una quantità di borse di studio e programmi a cui potrei iscrivermi. Ma zia Shalini non ne sa nulla e sembra timorosa di nominare l’argomento con chicchessia, e i Gupta Sen non vogliono palesemente sentirne parlare. Romesh Chand dice che potrò essergli utile nella sua attività. Li ho visti, i suoi uffici. Penso che impazzirei, se dovessi lavorarci. La sede principale si trova sopra un magazzino affacciato sul Chillianwallah Bazar, e c’è una filiale allo scalo ferroviario. Romesh Chand è un fornitore di grano e verdure fresche della guarnigione militare sull’altra riva del fiume. È anche un mercante di grano in proprio. E zia Shalini dice che ha le mani in pasta in una serie di altre imprese. Possiede la quota di maggioranza della proprietà di Chillianwallah Bagh. Questa non è l’India dei tuoi libri, dove si macellano i maiali in cortile. Questa è l’India dell’avida borghesia mercantile che tiene i risparmi sotto le assi del pavimento e accumula riso e frumento finché da qualche parte scoppia una carestia e li si può vendere a caro prezzo, anche se nel frattempo la maggior parte si è guastata. A quel punto li si vende allo Stato e si corrompe il funzionario perché non noti che sono pieni di insetti. Altrimenti li si potrebbe vendere allo Stato mentre sono ancora in buone condizioni e non è ancora scoppiata la carestia, dopodiché è lo Stato che li lascia guastare, a meno che nel frattempo non vengano rubati dai depositi, venduti a buon mercato e conservati fino alla comparsa di un altro funzionario pubblico che si lasci convincere a ricomprarli a suon di bustarelle. È zia Shalini a dirmi queste cose. Lo fa ingenuamente, per farmi ridere. Non si rende conto che sta parlando di persone per le quali dovrei provare un senso di vicinanza, uomini come ad esempio suo marito, il defunto Prakash Gupta Sen. In qualche modo dovrò riuscire a cavarmi fuori da questa situazione. Ma per andare dove?».
Giusto, dove? Non era una domanda a cui Colin avrebbe potuto aiutarlo a rispondere, poiché Hari la rivolgeva solo a se stesso, e dovettero passare diversi mesi perché arrivasse a farlo in termini così espliciti e inequivocabili. Non lo fece prima per il semplice motivo che non riusciva ad accettare la realtà della sua situazione. Era una situazione che conteneva in sé una forte componente di irrealtà; a volte era ridicola, nella maggioranza dei casi no, ma contrastava sempre con l’idea che potesse generare direttamente un futuro. Per avere il futuro, prima bisognava distruggere quell’irrealtà. Bisognava scaraventarle contro qualcosa dall’esterno, mandandola in frantumi. Durante questo periodo Hari rimase aggrappato al proprio inglese come se fosse una sorta di armatura protettiva, con un’appassionata convinzione pari a quella che aveva nutrito suo padre, che cioè vivere in Inghilterra potesse essere sufficiente a cambiare la propria esistenza. E ora, sentendo che quel retaggio era il solo e unico dono prezioso che suo padre gli aveva fatto, Hari era propenso a dimenticarsi che in Inghilterra era stato molto critico verso di lui e col passare degli anni se ne era vergognato sempre più. Ogni volta che gli si rivelava un nuovo orrore si ripeteva: “Questo è ciò che mio padre detestava e che ha cercato di risparmiarmi fino a impazzire”. La pazzia era l’unico modo in cui riusciva a spiegarsi il “suicidio” paterno. Ed era ormai abbastanza adulto da immaginare che la solitudine avesse aggravato la follia. Se Duleep Kumar non fosse stato così solo, forse avrebbe potuto trovare il coraggio di affrontare il disastro finanziario della cui esistenza gli avvocati avevano convinto il figlio, ma di cui non erano riusciti a dargli una spiegazione soddisfacente. A Mayapore, Hari vedeva quel disastro come l’opera dello stesso spirito maligno che ora gli stava rovinando la vita.
Per quasi tutta la durata della stagione delle piogge rimase in uno stato di cronica e deprimente cupezza. Qualsiasi cosa mangiasse riduceva il suo intestino in acqua. In circostanze del genere, un essere umano si ritrova a corto di coraggio. La sua indisposizione e il disgusto che provava per ciò che c’era fuori dal 12 di Chillianwallah Bagh lo tenevano confinato in casa per giorni interi. Passava gli umidi pomeriggi dormendo come se fosse narcotizzato, e dopo un po’ cominciò a temere i momenti in cui zia Shalini richiedeva la sua compagnia o proponeva una passeggiata, visto che la pioggia era cessata e la sera secondo lei era fresca. In quelle occasioni si incamminavano verso il fiume maleodorante, lungo l’estensione stradale di Chillianwallah Bagh che portava al ponte di Bibighar, ma lì giunti tornavano indietro come se quello che c’era sulla riva opposta fosse proibito, o se non proprio proibito quanto meno indesiderabile. Per tutto quel periodo, da maggio a metà settembre, Hari non si recò mai nel quartiere residenziale sull’altra sponda del fiume. Sulle prime non lo fece perché non ne aveva motivo, ma in seguito la riva opposta divenne sinonimo di libertà, e non gli sembrava ancora arrivato il momento di metterla alla prova. Non voleva tentare lo spirito maligno.
La prima volta che attraversò il fiume fu la terza settimana di settembre del 1938, quando le piogge erano ormai finite, il suo intestino era guarito e non gli restava più alcuna scusa per non fare quanto meno finta di accontentare suo zio Romesh Chand Gupta Sen; quando, in realtà, aveva deciso di accontentarlo veramente e per quanto fosse in suo potere, poiché aveva avuto modo di parlare con l’avvocato di famiglia, un certo Srinivasan, e sperava di persuadere lo zio a mandarlo al Mayapore Technical College o all’università della capitale della provincia.
“Diventerò”, si disse, “esattamente quello che mio padre voleva che diventassi e in questo modo salderò il debito con lo spirito maligno. Diventerò un indiano che gli inglesi accoglieranno tra loro e riconosceranno”.
La morte di suo padre aveva sollevato la questione dell’obbligo morale.
La sua destinazione era il magazzino nei pressi dello scalo ferroviario, dove avrebbe dovuto consegnare alcuni documenti a Mr Nair, il capufficio. Per recarvisi prese un risciò a pedali. Ben pochi degli indumenti che aveva portato con sé dall’Inghilterra si erano rivelati di qualche utilità. Sua zia lo aveva aiutato a rifarsi un piccolo guardaroba di camicie e pantaloni preparati in fretta dal sarto del bazar. I calzoni che indossava quel giorno erano bianchi e a gamba larga. La camicetta a maniche corte era anch’essa bianca, e in testa aveva un topee color camoscio. Solo le scarpe erano inglesi, fatte a mano e molto costose. Uno dei domestici di zia Shalini le aveva lucidate fino a farle brillare come a lui non era mai riuscito.
Sul ponte di Mandir Gate il traffico era bloccato. Subito davanti al risciò, un camion dal cassone scoperto carico di sacchi di grano gli bloccava la visuale. Un coolie seminudo e sudato sedeva sui sacchi fumando un bidi. Di fianco al risciò c’era un altro camion, subito dietro un autobus. Il risciò si era fermato di fronte al tempio. Sulla strada nei pressi del cancello del tempio erano accovacciati i mendicanti. Kumar distolse gli occhi, temendo di riconoscere il lebbroso. Sentì sferragliare il treno sulla riva opposta, ma il camion gli impedì di vederlo. Cinque minuti dopo il traffico riprese a muoversi. Il ponte aveva un parapetto di pietra imbiancata. Kumar ebbe una fugace impressione di acqua e distanza, di rive che si allontanavano incurvandosi a creare insenature e promontori di fango, prima che le tre ruote del risciò sobbalzassero sulle traversine di legno della ferrovia, trasportandolo nell’altra metà del mondo.
La sua delusione fu acuta tanto quanto lo era stata l’aspettativa. La strada che dal ponte di Mandir Gate portava alla stazione ferroviaria era fiancheggiata da fabbricati che gli ricordavano quelli lungo l’estensione stradale di Chillianwallah Bagh: ma prima che il giovane conducente del risciò svoltasse a destra, suonando il campanello e gridando un avvertimento a un vecchio intento a rincorrere un bufalo imbizzarrito, scorse una prospettiva di alberi e una vaga traccia, oltre gli alberi, di aria e spazi aperti. Quando il ragazzo si fermò nel piazzale dello scalo merci ferroviario, che sembrava brutto e funzionale come tutti gli scali merci del mondo, Kumar gli disse di attendere. Lui parve obiettare qualcosa, ma Kumar non riuscì a capire cosa gli stesse dicendo e si allontanò senza pagarlo, l’unico sistema sicuro per trattenerlo. Entrò nel magazzino contrassegnato dalla scritta «ROMESH CHAND GUPTA SEN E SOCI, FORNITORI». L’interno del deposito era pervaso dall’odore di semi e fibre comune a tutti i luoghi di quel genere. Era buio e relativamente fresco. I braccianti trasportavano sacchi di grano da un mucchio su un lato del magazzino al binario di raccordo che si trovava fuori al sole, sul versante opposto del fabbricato, per poi caricarli su un vagone merci. Nell’aria aleggiava una foschia di polvere e scorie di pula. Sulla parete più vicina, una porta aperta e una sfilza di finestre davano sulla vasta caverna del magazzino. Questo era l’ufficio, illuminato da nude lampadine. Kumar vi entrò. Il capufficio non c’era. Seduti ai tavoli montati su cavalletti e intenti a scrivere sui loro registri c’erano due o tre giovani vestiti con dhoti e camicette di cotone tessute in casa. Nessuno di loro si alzò. Nell’ufficio dello zio sopra il magazzino nel Chillianwallah Bazar i giovani impiegati scattavano in piedi ogni volta che Kumar entrava. Ciò lo metteva in imbarazzo, ma ora, sospettando che gli impiegati dell’ufficio allo scalo merci sapessero chi era, non poté fare a meno di notare la differenza di comportamento e sentirsene momentaneamente sminuito. Chiese notizie del capufficio. Il giovane a cui si rivolse gli rispose in un inglese sufficientemente scorrevole, ma in un tono la cui scortesia era palesemente voluta.
«In tal caso lascerò a lei queste carte», ribatté Kumar posando i documenti sul tavolo. Il giovane li prese e li lanciò in un cestello di rete metallica.
«A proposito, sono urgenti», osservò Kumar.
«Allora perché li lascia a me? Perché non li riprende e va a cercare Mr Nair nell’ufficio del capostazione?».
«Perché è compito suo, non mio», disse, poi si voltò e fece per andarsene.
«I documenti sono stati affidati a lei, non a me».
Si fissarono a vicenda.
«Se non è in grado di occuparsene, li lasci pure nel suo cestello. Io sono solo il garzone delle consegne», disse Kumar.
«Senta un po’, Coomer», gli gridò dietro il giovane quando fu arrivato alla porta.
Si girò, infastidito dalla conferma che l’altro lo aveva riconosciuto.
«Se suo zio vuole sapere a chi ha dato queste carte, mi chiamo Moti Lal».
Era un nome che immaginava di dimenticare, ma che in realtà avrebbe avuto modo di ricordare.
Quando uscì dal magazzino e raggiunse il ragazzo del risciò, vide che questi si era incattivito e pretendeva di essere pagato. Salì a bordo e gli disse di portarlo al bazar dell’acquartieramento. Aveva imparato a dirlo in hindi. Il ragazzo scosse la testa, e Kumar ripeté l’ordine alzando la voce. Il ragazzo afferrò il manubrio del risciò, invertì il senso di marcia, prese la rincorsa e montò sul sellino. Poi fece per sterzare nella direzione da cui erano venuti e Kumar dovette alzare di nuovo la voce, il che causò un’altra discussione. Kumar credeva di indovinare il motivo delle sue obiezioni. Non voleva portare un passeggero indiano così lontano poiché era raro che i passeggeri indiani pagassero più della tariffa minima.
Alla fine il ragazzo si arrese alla sua cattiva sorte e sterzò verso l’acquartieramento, e Kumar si ritrovò a percorrere ampi viali costeggiati da bungalow ben spaziati tra loro. Qui c’era ombra e un senso di pace mattutina come quello che provava a Didbury tra la colazione e il pranzo durante le feste. La strada era asfaltata, ma i viottoli che conducevano ai bungalow erano kutcha, sterrati. Nella quiete improvvisa si poteva udire il ticchettio regolare dei pedali. Kumar si accese una sigaretta per contrastare l’odore di pelle dei sedili e quello di sudore del ragazzo, che si erano fatti più penetranti.
Il ragazzo fece una serie di svolte a sinistra e poi a destra, e Kumar stava cominciando a chiedersi se non lo stesse deliberatamente portando fuori strada quando, nel punto in cui la via che stavano percorrendo ne incontrava un’altra, in un incrocio a T scorse la sezione di un porticato di negozi, uno dei quali sovrastato da un’insegna: «DR. GULAB SINGH SAHIB (P) LTD: FARMACIA». Erano giunti su Victoria Road. Disse al ragazzo di girare a sinistra, e ogni volta che questi lo guardava da sopra la spalla per suggerire che era ora di fermarsi gli rivolgeva un secco gesto della mano a indicargli di proseguire. Voleva andare oltre il bazar dell’acquartieramento. Voleva arrivare fino a quello che chiamavano il maidan.
Sotto i portici di Victoria Road si vedevano alcune donne inglesi. Sembravano pallidissime. Le loro automobili erano parcheggiate all’ombra su un lato del bazar. L’ombra c’era perché alle dieci e mezza del mattino il sole era ancora obliquo. C’erano anche alcune tonga a cavallo. Le piccole carrozze erano dipinte di colori accesi, e le briglie dei cavalli erano decorate con medaglioni d’argento e pennacchi rossi e gialli. Alcune delle donne inglesi indossavano pantaloni. Per un breve istante Kumar trovò che i calzoni le imbruttissero, ma l’impressione non sopravvisse alla calorosa sensazione di essere di nuovo in compagnia di persone che capiva. Spostò lo sguardo da un lato all’altro della strada: qui c’era un negozio chiamato Darwaza Chand, Sarto Civile e Militare; lì c’era la Imperial Bank of India; ancora più in là c’erano gli uffici della «Mayapore Gazette», interessanti da vedere poiché zia Shalini la ordinava espressamente affinché lui potesse leggere le notizie locali in inglese. Tutti i negozi dell’acquartieramento facevano pubblicità sulla «Gazette», e Kumar ne riconosceva i nomi. Avrebbe voluto essere ricco solo per poter dire al ragazzo del risciò di fermarsi davanti alla banca, farsi cambiare un assegno e poi attraversare la strada e andare a ordinarsi qualche bell’abito e camicia da Darwaza Chand. Avrebbe anche voluto avere il coraggio di recarsi alla English Coffee House, bere una tazza o due, fumare una sigaretta e attaccare discorso con le due graziose fanciulle inglesi che vi stavano entrando in quel momento. E avrebbe voluto picchiettare col dito sulla schiena ossuta del ragazzo del risciò, farlo fermare davanti al negozio di articoli sportivi e saggiare il peso e l’elasticità delle mazze da cricket di salice inglese che lì vendevano a caro prezzo. La vista delle mazze in vetrina gli fece venire una gran voglia di stirare le spalle e sferzare una palla vagante. Dopo avere scelto la mazza avrebbe attraversato la strada e avrebbe consumato un pasto decente allo Yellow Dragon, il ristorante cinese; e quella sera sarebbe andato al cinema Eros, dove alle 19,30 e alle 22,30 proiettavano un film che lui aveva già visto sette mesi prima al Carlton di Haymarket insieme ai Lindsey. Sarebbe stato bello se i Lindsey fossero stati lì a Mayapore e fossero andati a rivederlo insieme a lui. Oltrepassando il cinema, un palazzo con una facciata di stucco bianco situato a una certa distanza dalla strada in uno spiazzo di sabbia con un cancello a fisarmonica di maglia d’acciaio a riparare la caverna scura del ridotto all’aperto, Kumar avvertì con più forza che mai il dolore dell’esilio.
Disse al ragazzo di puntare verso il maidan. Il cinema era l’ultima costruzione del bazar, oppure la prima, a seconda della direzione di provenienza. Al di là c’era un tratto alberato di strada fiancheggiata su entrambi i lati da basse mura dietro le quali si trovavano i capanni e i magazzini del Dipartimento dei Lavori Pubblici. Il risciò acquistò velocità, superò l’incrocio tra Victoria Road e Grand Trunk Road e proseguì oltre il Tribunale, la caserma di polizia, il quartier generale del Distretto, la casa degli scapoli, il bungalow del sovrintendente distrettuale e quello in cui i Poulson sarebbero arrivati nel 1939.
Fu così che Hari Kumar giunse al maidan. Una volta lì, disse al ragazzo di fermarsi. L’ampio spazio verde era quasi deserto. C’erano solo due piccoli cavalieri, due bambini bianchi sui loro pony rincorsi dai syce. Le cornacchie volteggiavano gracchiando, ma per Hari non avevano più un aspetto predatorio. In quel posto regnava la pace. E Hari pensò: Sì, è bello. In lontananza, sul lato opposto del maidan, poteva scorgere il campanile di St. Mary. Scese dal risciò, si sistemò all’ombra degli alberi e si fermò all’ascolto. Socchiudendo gli occhi, riusciva quasi a immaginarsi nel parco pubblico vicino a Didbury. Le piogge avevano lasciato la loro firma verde sul terreno, ma lui non lo sapeva perché non aveva mai visto prima il maidan; non lo aveva mai visto in maggio, quando l’erba era talmente bruciata che diventava color ocra.
Avrebbe voluto montare in sella a un cavallo, lanciarlo al galoppo e sentire l’aria sul volto. Si potevano noleggiare i pony? Si rivolse al ragazzo del risciò, ma era una domanda impossibile da fare. Non conosceva le parole giuste. Forse non aveva neanche bisogno di saperlo o di chiederlo, poiché poteva indovinare la risposta. Il maidan era riserva dei sahiblog. Eppure Kumar sentiva che gli sarebbe bastato rivolgersi a uno di loro per essere riconosciuto e ammesso. Risalì sul risciò e disse al ragazzo di riportarlo al bazar dell’acquartieramento. Avrebbe fatto qualche acquisto alla farmacia del dottor Gulab Singh: un tubetto di dentifricio Odolo, un sapone Pears. Controllò il portafoglio senza farsi vedere. Aveva un biglietto da cinque rupie e quattro da una rupia. Circa quindici scellini. Il ragazzo del risciò ne avrebbe chiesti tre, ma si sarebbe accontentato anche di due.
Durante il ritorno si accorse che nelle strade c’erano pochi risciò a pedali. C’erano automobili, biciclette e tonga a cavallo. I passeggeri dei risciò a pedali erano sempre indiani. Uno di questi aveva piantato i sandali sopra una cassa piena di pollame. Kumar si sentì contagiare dalla vergogna perché stava usando un mezzo di trasporto che lo indicava come un pesce fuor d’acqua proveniente dalla città dei neri, visto che i risciò a pedali potevano provenire solo dall’altra parte del fiume.
Quando giunsero alla farmacia di Gulab Singh disse al ragazzo di fermarsi, scese dal risciò, salì i due gradini del marciapiede e proseguì sotto il portico ombreggiato. La vetrina di Gulab Singh offriva prodotti così familiari, così anglosassoni, che avrebbe voluto gridare di gioia. O di disperazione. Non riusciva a decidere quale. Entrò. Il negozio era buio e fresco, percorso da lunghi banchi di vetro montati su gambe da tavolo, come in un museo. Si sentiva un vago odore di pepe e un aroma più intenso di unguenti. A un’estremità c’era il banco. Nel negozio si aggiravano alcune donne inglesi, ciascuna servita da un commesso indiano. C’era anche un uomo, vagamente somigliante a Mr Lindsey. Era vestito in un modo che smascherava gli indumenti di Kumar per quello che erano: capi da babu, merci da bazar. Gli inglesi parlavano tra loro, e prestando attenzione si poteva udire ogni parola. L’uomo che somigliava a Mr Lindsey stava dicendo: «Come, non è arrivato? Avevate detto martedì, e oggi è martedì. Tanto valeva che lo ordinassi per conto mio. Va bene, datemi l’altro articolo e fate arrivare il resto quanto prima».
Kumar si mise davanti al banco e attese che il commesso terminasse di servire il cliente inglese. Questi gli scoccò un’occhiata, poi tornò a concentrarsi su quello che faceva il commesso, che stava incartando una generica scatola di cartone.
«Bene», disse ritirando il pacchetto. «Mi aspetto la consegna del resto entro le sei».
«Avete del sapone Pears?», chiese Kumar quando l’inglese se ne fu andato.
Il commesso, un uomo di diversi anni più vecchio di lui, dondolò la testa e se ne andò. Kumar non era nemmeno sicuro che avesse capito. Un altro commesso uscì dalla porta con la scritta «DISPENSARIO», ma si diresse con la confezione che reggeva in mano verso una donna intenta a studiare gli articoli in saldo in uno dei banchi di vetro. Sull’altro lato del negozio c’era una cabina fotografica. Kumar attese. Quando rivide il suo commesso, questi stava aprendo la vetrina di uno dei banchi per un gruppo di donne bianche.
Kumar si allontanò dal banco rimasto deserto e si piazzò in un punto da cui valutò di poter attirare l’attenzione del commesso. Ci riuscì, ma questi aveva l’espressione di non rammentare che qualcuno gli avesse mai chiesto del sapone Pears. Kumar rimpianse che non stesse servendo un gruppo di uomini. In quel caso avrebbe potuto interromperli senza mettersi dalla parte del torto. Invece si trovava nel ruolo ignominioso dell’osservatore emarginato di una situazione che un altro stava sfruttando a proprio vantaggio, nascondendosi, si disse Hari, dietro le gonne di un drappello di donne. Si guardò intorno e vide che l’uomo che prima era emerso dal dispensario vi stava facendo ritorno. «Volevo sapere se avevate del sapone Pears».
L’uomo si fermò, forse automaticamente paralizzato dalle inflessioni da sahib della voce di Kumar. Per un istante parve disorientato, come se dovesse valutare le prove che gli stavano fornendo i suoi occhi e le sue orecchie. «Pears?», ripeté alla fine. «Ah, sì, ce l’abbiamo. Per chi è?».
Era una domanda che Kumar non si aspettava e che non capì subito. Ma poi ci arrivò. Per chi l’aveva preso, quel tizio? Per un babu mandato dal padrone a fare le compere?
«Per me, naturalmente», disse.
«Una dozzina o due?».
Gli si era seccata la bocca.
«Una saponetta», disse cercando di mantenere un tono dignitoso.
«Lo vendiamo solo a dozzine», spiegò l’uomo, «ma immagino che possa trovarlo al bazar». Poi aggiunse qualcosa in hindi, che Kumar non capì.
«Chiedo scusa, non parlo l’hindi», disse. «Cosa mi stava dicendo?».
A un tratto si rese conto che, infastidito dalla situazione, aveva alzato la voce e che altri nel negozio lo stavano osservando e ascoltando. Incrociò lo sguardo di una delle donne inglesi. Lei si voltò lentamente dall’altra parte con un sorriso per cui si potevano usare solo due aggettivi: acrimonioso, sprezzante.
«Stavo dicendo», ribatté il commesso, «che se desidera una saponetta singola, al Chillianwallah Bazar le costerà di meno, perché lì non badano ai prezzi imposti al dettaglio».
«La ringrazio, molto gentile», disse Kumar, e uscì dal negozio.
La stanza negli uffici sopra il Chillianwallah Bazar in cui lavorava Kumar era più grande delle altre. La condivideva con altri impiegati che parlavano inglese, i quali lo temevano a causa dei suoi modi e dei legami di famiglia che aveva col padrone. Fieri di conoscere quello che tra loro passava per inglese, una lingua che di norma nel magazzino di Romesh Chand non veniva molto usata, erano offesi dalla sua intrusione ma anche perversamente lusingati dall’accresciuto senso di importanza che gli conferiva la sua presenza. Erano giovani che cercavano il più possibile di non parlare la loro madrelingua e che per questo guardavano con disprezzo gli uomini nei piccoli, soffocanti cubicoli, i vecchi contabili che svolgevano il loro lavoro e la loro corrispondenza in dialetto locale. L’arrivo di Kumar era una conferma della loro superiorità, ma anche una minaccia per la loro tranquillità. Di fronte a lui non osavano più criticare Romesh Chand o i capiufficio, nell’eventualità che uno dei compiti di Kumar fosse quello di spia della famiglia. E anche dopo essersi convinti che non lo era, non potevano evitare di chiedersi chi di loro avrebbe perso il lavoro per fare posto a quel giovanotto anglicizzato che non sapeva niente di affari ma aveva i modi di un burra sahib. La loro condotta verso di lui era un miscuglio di sospetto, timore reverenziale, invidia e servilismo.
Kumar ne era nauseato. Li considerava degli smidollati, peggio di un branco di ragazzine che oscillavano tra risolini e musi lunghi. Faceva fatica a seguire quello che dicevano. Le loro parole si accavallavano l’una sull’altra. Le loro frasi erano cantilene. Le loro pronunce erano strane. Sulle prime si impegnò a comprenderli, ma poi vide che sforzarsi troppo era pericoloso. Si chiedeva quanto una persona sarebbe riuscita a lavorare in mezzo a loro senza assumere gli stessi modi di dire, gli strani modelli di pensiero che controllavano il loro linguaggio. Di notte, solo in camera sua, a volte parlava a voce alta nel tentativo di individuare e correggere mutamenti di tono, accenti e inflessioni. Mantenere la dimensione inglese della sua voce e delle sue abitudini diventò sempre più importante. E lo restò anche dopo la disastrosa visita alla farmacia di Gulab Singh. Ricordava le parole di suo padre: «Quando sei tu a rispondere al telefono, la gente crede di parlare con un inglese». Negli uffici di suo zio non c’erano telefoni, e nemmeno al 12 di Chillianwallah Bagh. E anche se ci fossero stati, non c’erano inglesi da chiamare o da cui farsi chiamare. Ma Kumar vedeva questa assenza di elementi inglesi nella sua vita pubblica esteriore come una proiezione logica dell’irrealtà che pervadeva la sua vita interiore.
Fu in questo periodo, dopo la visita in farmacia, che cominciò a farsi l’idea di essere diventato invisibile ai bianchi, anche se il concetto stesso impiegò del tempo a trovare questa formulazione. Una volta abituatosi ad attraversare il fiume dal bazar al deposito dello scalo ferroviario, nonché al modo in cui gli inglesi sembravano non vederlo quando incrociavano il suo sguardo, il concetto di invisibilità acquistò prontamente un suo senso, ma ci volle dell’altro tempo perché quell’idea producesse il proprio naturale corollario nella sua mente, e cioè che suo padre era riuscito a ridurlo a un niente: un niente nella città dei neri, un niente nell’acquartieramento, un niente perfino in Inghilterra, visto che in Inghilterra era ormai diventato solo un ricordo, una firma familiare ma forse irreale in fondo alle lettere insensate che scriveva a Colin Lindsey; insensate perché col passare dei mesi si allontanavano sempre più dalla verità. In realtà quelle missive erano diventate come esercizi con cui il giovane Kumar allenava il proprio retaggio inglese, e lui lo sapeva. Sapeva che le sue lettere erano deludenti. Riconosceva i segni di un crescente distacco nelle risposte di Colin. Ma la loro amicizia continuava a essergli preziosa. La firma di Colin in fondo a una lettera era la prova di cui aveva bisogno per essere certo di non essersi immaginato la sua esperienza inglese.
Dove tracciare una linea di demarcazione nella storia di Hari Kumar o Harry Coomer, nella sua vicenda prima di Bibighar?
Sorella Ludmila dice che per lei Bibighar ebbe inizio il mattino in cui Merrick condusse via Kumar dal Santuario sul retro della sua camionetta; perciò forse bisognerebbe risalire fino ad allora, o quanto meno al momento in cui, nel buio, il suo corpo venne rovesciato sulla schiena da Mr de Souza e il suo volto illuminato dalla torcia. Che espressione torva, fu il commento di sorella Ludmila; il tipo di espressione che le era familiare sui volti dei giovani indiani, ma che nel caso di Hari era particolarmente significativa.
E a chi ci si può rivolgere per conoscere i fatti della vicenda di Kumar prima di Bibighar? C’è l’avvocato Srinivasan. C’è sorella Ludmila. Shalini Gupta Sen non c’è più; non è rimasto un solo Gupta Sen che sappia qualcosa o che ammetta di saperlo. Ci sono altri testimoni: e in particolare c’è una certa firma sul registro dei soci del Mayapore Gymkhana Club. C’è anche la firma dello stesso Harry Coomer sul registro del Mayapore Indian Club, anno 1939. Il Mayapore Chatterjee Club, o MCC. L’altro circolo. Quello sbagliato. La si può vedere in un quaderno molto simile a quelli usati nel circolo giusto, sotto una data curiosamente vicina a quella del maggio 1939 in cui il vicecommissario sfidava la tradizione ed effettuava un’entrata forzata al Gymkhana.
«Presentai il giovane Kumar all’Indian Club», racconta Srinivasan, «perché mi sembrava che ne avesse bisogno. Lo vidi solo poche volte. Non gli ero simpatico, temo. Non si fidava di me perché ero l’avvocato di suo zio Romesh. Ma lui mi piaceva, a parte quei suoi modi inglesi che trovavo arroganti; mi piaceva come persona, se non come tipo di persona. Se fossimo andati più d’accordo, se si fosse fidato di me, forse avrei potuto fare qualcosa per lui; per esempio avrei potuto portarlo a casa di Lili Chatterjee e farlo partecipare a qualche serata mista tra inglesi e indiani. Ma quando lui arrivò a quello che un tempo veniva chiamato il giro della MacGregor House, era ormai troppo tardi. A quel punto era già entrato nelle cattive grazie di quel poliziotto, Merrick, che l’aveva fermato e interrogato. La sera del 1939 in cui lo introdussi all’Indian Club non fu un successo. Il circolo era pieno di bania, seduti coi piedi sulle sedie. Non gli piacque per niente. Non credo che ci tornò più, e poche settimane dopo lasciò l’ufficio dello zio. Aveva scoperto che i Gupta Sen stavano pensando di combinargli un matrimonio e aveva ormai perso ogni speranza di convincere suo zio a farlo studiare al Technical College. Posso dirle questo: se non fosse stato per sua zia Shalini, quando Kumar decise di lasciare l’ufficio di Romesh Chand sarebbe finito nei guai. Il vecchio era pronto a lavarsene le mani. Ricordo quanto lei lo pregò e lo implorò di non interrompere i suoi aiuti economici. Lui non lo fece, ma li ridusse. Shalini faceva economia e si privava di questo e di quello perché Hari avesse in tasca qualcosa; e naturalmente gli dava da mangiare, da dormire e da vestirsi. Io le dicevo che, finché avesse continuato così, gli avrebbe impedito di imparare a cavarsela da solo. Aveva quasi diciannove anni: per i nostri standard era un uomo. Ma lei non voleva sentirlo criticare. E non vorrei darle l’impressione sbagliata: lui non se ne stava certo con le mani in mano. Ricordo ad esempio che fece domanda di impiego alla British-Indian Electrical. Fece due o tre colloqui, e a un certo punto sembrava che ce l’avesse fatta. Era ovvio che loro fossero interessati: l’aver studiato in scuole private inglesi contava qualcosa. Non importava che fosse privo di qualifiche. Avrebbero potuto insegnargli quello che aveva bisogno di sapere e introdurlo a una carriera amministrativa. Ma a un certo punto entrò in rotta di collisione con uno degli inglesi nell’azienda, o così mi disse Shalini Gupta Sen. Non era difficile immaginarne il motivo. A quei tempi i commercianti venivano considerati la più infima forma di vita anglo-indiana. Perfino i maestri di scuola occupavano una posizione superiore nella scala sociale coloniale. L’inglese con cui Hari si scontrò aveva probabilmente un accento delle Midlands e non sopportava il fatto che un indiano potesse parlare come un amministratore delegato.
Dopo il fallimento con la British-Indian Electrical cercai di far capire a Romesh che stavano sprecando il talento del ragazzo. Ma le confesso, il problema non mi faceva passare le notti in bianco. Lei mi ha chiesto di essere sincero. Ebbene, francamente il genere di indiano in cui Duleep Kumar aveva trasformato suo figlio non mi piaceva più di tanto. Non dimentichi che a quei tempi avevo poco più di quarant’anni e che la mia principale area di interesse era la politica. E Hari Kumar come animale politico non mi stimolava. Senza dubbio suo padre gli aveva insegnato che la politica indiana era un’assurdità, una finzione. E lui non la prendeva sul serio. Non la conosceva davvero, non aveva per esempio la minima idea del passo avanti che il potere nelle province aveva significato per il Congresso. Si rendeva conto a malapena che la provincia in cui viveva era un tempo dominata da un governatore britannico e da un consiglio da lui nominato. Considerava la democrazia come qualcosa di dovuto. Non aveva conosciuto l’autocrazia. Politicamente era un innocente, come gran parte degli inglesi. A quei tempi io non avevo pazienza per gente simile. Oggi, naturalmente, io stesso sono diventato un innocente. È il destino che ci attende tutti, o quelli di noi che da giovani avevano opinioni politiche appassionate. In particolare attende quelli tra noi che hanno pagato le loro opinioni con la prigionia. La prigione ci ha lasciato un’impronta sgradevole. Ci ha portati a dare troppa importanza alle cose che ce la fecero subire».
Quando lasciò l’impiego da suo zio, Hari comunicò a Pandit Baba Sahib che non desiderava più prendere lezioni di hindi. Lo fece per evitare che sua zia spendesse soldi inutili. Ormai conosceva l’hindi a sufficienza da dare ordini, in pratica il livello che l’inglese medio in India considerava degno dei suoi sforzi. La serie di colloqui di lavoro alla British-Indian Electrical Company si svolse all’inizio della stagione delle piogge del 1939. Quando Hari venne scartato fu un duro colpo, anche se dopo l’ultimo colloquio se l’era aspettato. Per la prima volta scrisse una lettera a Colin che dava all’amico (o avrebbe dovuto dargli) un’idea più chiara delle difficoltà che doveva affrontare.
«Sembrava molto probabile che sarei stato rimandato in patria a imparare i fondamenti tecnici», raccontò al giovane Lindsey. «Prima a Birmingham e poi negli uffici londinesi della casa madre. Il primo colloquio, con un tipo simpatico di nome Knight, è andato benissimo. Lui aveva studiato al Wardens dal 1925 al 1930, e aveva giocato nella sfida Chillingborough-Wardens del 1929 che a quanto pare avevano vinto loro con ventidue punti di distacco. In realtà non abbiamo quasi parlato di lavoro, anche se è stato lui a menzionare Londra e Birmingham, facendomi ben sperare. Sembrava la risposta a tutte le mie preghiere e per di più una risposta che in quei mesi era sempre stata a portata di mano. Gli ho raccontato tutto, di mio padre e del resto, e lui è parso abbastanza comprensivo. Il colloquio successivo l’ho avuto con l’amministratore delegato, ed è stato un po’ più difficile, probabilmente perché lui, come mi aveva anticipato Knight, aveva alle spalle solo la scuola secondaria e una patina di università. Ma anche con lui ho avuto l’impressione che fosse andata bene, malgrado abbia gettato un po’ di acqua fredda sull’idea di farmi tornare in patria per la formazione. Ha detto che l’azienda aveva una sorta di accordo con il Technical College per privilegiare i loro diplomati nella ricerca di giovani indiani con prospettive dirigenziali, ma che stavano anche sviluppando un progetto di corsi esterni con il college per i loro “soggetti promettenti”, un programma composto da una parte di formazione sul lavoro e un’altra parte di istruzione scolastica. Se poi avessi ottenuto il diploma presso il college, forse sarebbe stato possibile rimandarmi in patria per approfondire la formazione. Ha fatto un po’ di storie sul fatto che non mi fossi iscritto all’università e ha detto: “Certo, Coomer, che alla sua età quasi tutti i giovani indiani hanno già una laurea di primo grado in lettere o in scienze”. Avrei voluto rispondere: “Be’, si fa per dire”, ma non l’ho fatto, immaginando che sapesse riconoscere anche lui la differenza tra un laureato in scienze a Mayapore e uno che aveva fatto studi classici a Chillingborough. Tutto considerato, però, anche il secondo colloquio si è concluso su una nota di ottimismo. Subito dopo ho scambiato qualche parola con Knight, e lui mi ha detto che nel mese trascorso dal nostro primo incontro aveva scritto a un collega dell’ufficio di Londra, il quale aveva ottenuto una buona raccomandazione dal vecchio Rospaccio.
Ho dovuto aspettare altre due settimane per il terzo colloquio, sul quale sia Knight che l’amministratore delegato mi avevano messo in guardia, pur dandomi l’impressione che fosse poco più di una formalità: l’incontro con un tizio che loro definivano Direttore Formazione Tecnica, un certo Stubbs, la cui definizione migliore è sbruffone. Stubbs ha aperto i giochi spingendo verso di me un piccolo cilindro attraverso la sua enorme scrivania e invitandomi a dirgli cos’era e a cosa serviva. Quando ho risposto che non lo sapevo, ma che mi sembrava una specie di valvola, ha fatto un sorrisetto e ha detto: “Da dove arrivi, ragazzo? Direttamente dall’albero?”. Poi ha preso un foglio stampato e mi ha mitragliato con una serie di domande. “Ho già spiegato a Mr Knight che non so niente di elettricità”, gli ho detto ben prima che arrivasse alla fine. Lui non mi ha neanche ascoltato. Probabilmente non avrei dovuto fare il nome di Knight. Ha ripreso a snocciolare le sue domande fino in fondo e fino al mio ultimo: “Non lo so”. Poi mi ha guardato in cagnesco e ha chiesto: “Cosa sei, una specie di commediante? Mi stai facendo perdere tempo di proposito?”. Ho risposto che stava a lui dirlo. Stubbs si è abbandonato all’indietro sulla poltrona girevole e ci siamo guardati negli occhi per quella che mi è parsa un’eternità. Poi lui ha detto: “In questa stanza siamo solo io e te, Coomer o come diavolo ti chiami. E lascia che ti dica una cosa. Non mi piace avere comunistelli scuri nella mia divisione”. A quel punto mi sono alzato e me ne sono andato. Il che è esattamente quello che lui voleva vedere, nonché l’unica cosa che potessi fare a parte strisciargli ai piedi.
E così adesso sai cosa sono, Colin, un comunistello scuro. (Ricordi quel bastardo di Parrott al nostro primo anno a Chillingborough?). Sono un comunistello scuro perché so fare l’analisi logica di Tacito ma non ho la minima idea di cosa stesse dicendo quello Stubbs. E la storia non finisce qui. All’incirca tre giorni dopo ho ricevuto una lettera in cui Knight chiedeva di vedermi. Ci sono andato, e lui mi ha detto che al momento non c’erano posizioni libere. Era molto diverso da quello di un mese prima. Confuso e imbarazzato, non voleva fare un torto a un vecchio alunno di Chillingborough, ma sotto sotto era maledettamente freddo. Chissà cosa gli aveva raccontato Stubbs. Ed essendo Stubbs un bianco, sentivano tutti di dover credere a lui. Dopo tutto, per l’impiego che stavo cercando c’era probabilmente una ventina di neolaureati più o meno falliti disposti a saltare quando Stubbs avesse loro detto di saltare.
L’unica cosa che mi lasciava perplesso era per quale motivo fosse Stubbs a dettare la linea. Perché lui? Knight doveva sapere che tipo di uomo era, giusto? Ciò malgrado, non ha mai nemmeno suggerito l’idea di sentire la mia versione. Non ha neanche fatto riferimento al mio colloquio con Stubbs. A dirla tutta, all’uscita dal suo ufficio mi sono domandato perché si fosse preso il disturbo di convocarmi. Avrebbe potuto benissimo scaricarmi per lettera. È stato solo dopo che ho capito che, probabilmente, aveva voluto rivedermi come per guardarmi attraverso gli occhi di Stubbs, avendo in mente quello che Stubbs gli aveva detto. E mi sono reso conto che in quel secondo colloquio con Knight non sarei mai riuscito a fare buona impressione, e non certo per colpa mia; poiché avevo fiutato di non avere la minima possibilità fin dal momento in cui mi ero seduto, e ne ero rimasto terribilmente contrariato, forse lo sforzo di nasconderlo aveva creato l’impressione che non me ne importasse niente. Invece me ne importava eccome, Colin. Dopo un po’ la conversazione si è esaurita, poiché lui non aveva altro da aggiungere e io non potevo dirgli nulla, se non qualcosa come: La prego, signore, mi dia un’altra possibilità. Forse aspettava che lo chiamassi “signore”. Non mi sembra che al primo colloquio l’avessi mai fatto, e se l’avevo fatto lui non se n’era accorto. Ma probabilmente dopo aver parlato con Stubbs era quello che voleva sentire. In ogni caso, a un tratto ha distolto lo sguardo, e così mi sono alzato e l’ho ringraziato. Lui mi ha promesso che si sarebbe segnato il mio nome nell’eventualità che si fosse liberato un posto, si è alzato a sua volta ma è rimasto dietro la scrivania e non mi ha teso la mano. Credo che avesse in mente di darmi una specie di avvertimento sul fatto che non eravamo più a Chillingborough e che avrei dovuto imparare come ci si comportava con i bianchi. Quella, quanto meno, era l’atmosfera che si respirava nella stanza. Con quella scrivania tra noi. A un tratto, la mia stessa presenza nel suo ufficio era diventata un privilegio. Un privilegio che avrei dovuto rispettare. Non ricordo neanche come ne sono uscito; mi sono semplicemente ritrovato fuori dal cancello principale della fabbrica, ho inforcato la bicicletta, ho ripreso la Grand Trunk Road e ho attraversato di nuovo il ponte di Bibighar verso la mia riva del fiume».
Per un certo periodo dopo quello che Srinivasan chiamava il fallimento con la British-Indian Electrical, Hari non fece nulla. Si era pentito della lettera che aveva scritto a Lindsey, e se ne pentiva sempre più a mano a mano che le settimane passavano senza risposta. Altre cose trovarono spiegazione nella sua mente: l’atteggiamento di Mr Lindsey nelle ultime settimane in Inghilterra, che lui aveva sempre attribuito all’imbarazzo per non essere stato in grado di aiutarlo a livello finanziario; l’esperienza in nave, dove una volta superata Suez gli inglesi che fino allora gli si erano rivolti senza problemi avevano cominciato a formare gruppetti esclusivi, tanto che negli ultimi giorni di viaggio gli unici inglesi con cui era riuscito a parlare erano quelli che affrontavano per la prima volta la traversata. Hari aveva condiviso la cabina con altri due ragazzi, studenti indiani che tornavano in patria. Non ci era andato molto d’accordo, poiché aveva scoperto che non avevano nulla in comune con lui. Chiedevano la sua opinione su cose a cui lui non aveva dedicato un solo pensiero. Studiavano economia politica, e volevano diventare professori universitari. Lui li aveva trovati incredibilmente noiosi, come due vecchie zitelle. A quanto pareva, li aveva scioccati dormendo nudo e vestendosi e spogliandosi in cabina, senza chiudersi in gabinetto.
In questo modo, passo dopo passo, Hari giunse alla rivelazione che i programmi di suo padre per lui erano fondati su un’illusione. In India, un indiano e un inglese non avrebbero mai interagito su un piano di parità. A contare non era quello che un uomo pensava, quello che diceva e come si comportava. Forse ciò valeva anche in Inghilterra, e i Lindsey erano stati l’eccezione alla regola. Ma Hari non biasimava suo padre. La rabbia che provava era diretta verso gli inglesi, per aver nutrito l’illusione in cui era vissuto suo padre. Se avesse provato più simpatia per i suoi connazionali, in quel momento avrebbe potuto schierarsi dalla loro parte, in cerca dell’occasione per farla pagare agli inglesi. Ma nessuno degli indiani che aveva conosciuto gli era piaciuto, e i loro metodi di resistenza alla dominazione inglese gli parevano infantili e inefficaci. E in ogni caso, loro stessi non si fidavano di lui. E nemmeno gli inglesi, a quanto pareva. Hari si rese conto che per il mondo esterno era diventato una nullità. Ma dentro di sé non si sentiva tale. Anche se fosse stato completamente solo al mondo, non poteva non essere qualcosa. E non era del tutto solo. Aveva ancora Colin in patria, e zia Shalini a Mayapore. L’affetto che provava per lei, che sulle prime, nel rendersi conto di provarlo, era stato riluttante ad ammettere, era ormai diventato sincero. Nella modestia di Shalini vedeva la dimostrazione di una sollecitudine nei suoi riguardi che era altrettanto intensa, se non di più, di quella che Mrs Lindsey soleva esprimere in termini così espansivi, aperti e calorosi. Hari non poteva negare che a suo modo zia Shalini, strana e ritrosa com’era, gli voleva bene. Il problema era che quel sentimento non riusciva a raggiungerlo o incoraggiarlo al di fuori di quel ristretto, piccolo mondo che era il solo a lei noto, un mondo che lui trovava soffocante e spesso agghiacciante. Gli era difficile entrarvi, anche brevemente, per mostrarle quanto ricambiasse il suo affetto. Per farlo doveva proteggersi alimentando il suo disprezzo e mostrando la sua avversione. Non poteva farci niente se sua zia pensava che disprezzo e avversione fossero rivolti a lei. Quando gli dava dei soldi, lui non riusciva mai a ringraziarla come avrebbe dovuto. Era denaro dei Gupta Sen. Forse lei capiva perché non gli piaceva e perché la sua repulsione aumentava di pari passo con il bisogno che ne aveva; o forse le parole brusche con cui lo accettava la ferivano. Dopo qualche tempo, lei cominciò a infilare i soldi in una busta e lasciargliela sul tavolo in camera da letto. A commuoverlo era il fatto che sulla busta scrivesse sempre Harry.
L’altro aspetto toccante era che lei sembrava considerarlo il capofamiglia, nel classico senso indù di uomo, potenziale sostegno economico, marito e padre, procreatore. Ma Hari non riusciva a vedersi nel ruolo dell’uomo sposato. Le ragazze indiane non lo attraevano. Le inglesi che vedeva nell’acquartieramento sembravano muoversi entro le pieghe di un’invisibile purdah che rendeva i loro corpi irreali, asessuati. Il suo desiderio si concentrava su una creatura antropomorfa il cui sesso era smascherato dal modo in cui le cosce prendevano forma e dal gonfiore del seno, ma il cui colore era ambiguo; muta, cieca e immobile sotto il suo corpo che a volte, di notte, in preda alla tensione della veglia o del sonno, penetrava quel vuoto e si liberava del peso morto di un impulso feroce ma privo di una direzione.
Quattro settimane dopo l’ultimo colloquio con Knight, Hari fece di nuovo domanda di impiego. Aveva passato quel periodo a cercare di decifrare la logica di una situazione che ormai accettava come reale e non più illusoria. Quel dono prezioso di suo padre, il suo retaggio inglese, era chiaramente e per molti versi uno svantaggio, ma lui continuava a considerarlo fondamentalmente una risorsa. Era l’unica cosa che lo distingueva. Fisicamente era forte, sano e attraente, ma allo stesso modo di un’infinità di altri giovani. Quello in cui eccelleva rispetto a loro era la sua conoscenza dell’inglese. La logica sembrava indicare uno sfruttamento deliberato di quel vantaggio. Avrebbe potuto guadagnarsi da vivere come istitutore privato, insegnando ai bambini a migliorare la loro parlata; ma era una vita che non lo attraeva. Dubitava che sarebbe stata sufficientemente attiva, o che lui avesse avuto la pazienza o ancor meno le capacità necessarie. L’altra possibilità, forse l’unica alternativa, era molto più interessante.
Leggeva la «Mayapore Gazette» ormai da più di un anno, e sapeva dove le sue qualifiche avrebbero potuto offrirgli un appiglio naturale. Di proprietà di un indiano, diretta da un indiano, la «Gazette» era anche palesemente scritta e redatta da indiani. Gli articoli di fondo e quelli di attualità erano di buona fattura, ma la cronaca locale era spesso involontariamente comica. Hari immaginava che la presunta popolarità del giornale presso gli inglesi di Mayapore fosse dovuta alle risate che questi si facevano alle sue spalle, unita al piacere di vedere stampati i propri nomi sulle pagine della cronaca mondana e dello sport. Per essere un giornale di proprietà indiana, la «Gazette» era prudentemente neutrale. Lasciava che a schierarsi politicamente fossero i periodici in dialetto locale, di cui ce n’erano diversi, e uno in inglese, il «Mayapore Hindu», che alcuni funzionari inglesi leggevano per lavoro e altri per confrontarne le notizie con quelle del «Calcutta Statesman» e del «Times of India», ma che quasi tutti ignoravano. In più di un’occasione gli era stato impedito di andare in stampa.
Una volta che ebbe deciso di chiedere un impiego alla «Mayapore Gazette», Hari passò diversi giorni a ricopiare esempi particolarmente eclatanti di cattiva sintassi e uso di espressioni dialettali dagli arretrati del giornale e a riscriverli. Quando valutò di essere in grado di svolgere il compito che intendeva farsi affidare, scrisse al direttore chiedendo un colloquio. Dovette fare diverse stesure della lettera prima di arrivare a una versione sufficientemente essenziale. Secondo l’intestazione in cima alla colonna degli articoli di fondo sulla pagina centrale della «Gazette», il direttore si chiamava B.V. Laxminarayan. Hari gli spiegò che stava cercando lavoro. Gli comunicò la sua età e qualche breve dettaglio sulla sua istruzione. Disse che per risparmiargli il disturbo di rispondere alla lettera gli avrebbe telefonato lui stesso di lì a due o tre giorni per vedere se potessero incontrarsi. Dopo qualche esitazione, decise di aggiungere che Mr Knight della British-Indian Electrical Company sarebbe probabilmente stato lieto di trasmettergli la lettera di raccomandazioni ricevuta dal preside di Chillingborough. Si firmò «Hari Kumar» e scrisse «Personale» sulla busta per ridurre il rischio che venisse aperta e stracciata da un impiegato preoccupato di perdere il posto di lavoro. L’esperienza nell’ufficio di suo zio non era stata del tutto inutile. Dubitava che Mr Laxminarayan potesse conoscere Knight, o conoscerlo a sufficienza da telefonargli, o che, se anche si fosse sbagliato in entrambi i casi, Knight avrebbe avuto il coraggio di raccontare alcunché a un indiano, tranne che c’erano stati diversi colloqui ma non si era liberata alcuna posizione. Confidava anche su quello che, nella concezione di Knight, un galantuomo sarebbe stato disposto a dire di un giovane che aveva giocato a cricket contro la sua vecchia squadra.
La seconda congettura si dimostrò esatta. Laxminarayan conosceva Knight, ma non a sufficienza da telefonargli per motivi che non riguardassero un articolo sulle attività della British-Indian Electrical Company. In ogni caso, non lo avrebbe chiamato in merito alla lettera di Kumar. Mr Knight non gli piaceva: lo vedeva come un lusingatore di professione le cui tendenze progressiste erano ormai da tempo soffocate dal terrore mortale delle conseguenze sociali di qualsiasi atto di coraggio. «Knight», avrebbe detto in seguito a Hari, «può essere ormai considerato solo una pedina». Era un giudizio severo che dava su Knight per evitare di ricondurlo a se stesso.
Laxminarayan reagì con interesse alla lettera di Hari Kumar, e gli rispose: «Mi chiami pure, anche se al momento non ho posizioni libere». In realtà non aveva alcuna intenzione di assumerlo. Aveva anzi ricevuto istruzioni dal proprietario, che viveva a Calcutta, di ridurre le spese e fare in modo che vi fosse una proporzione più ragionevole tra utili e investimenti. Personalmente pensava che la diffusione della «Gazette» sarebbe aumentata se il giornale avesse appoggiato la causa nazionalista. Sapeva che la «Gazette» era aborrita dai membri del sottocomitato locale del Congresso e che gli inglesi la consideravano una specie di barzelletta. Ma credeva che facendo ribollire il sangue a questi ultimi avrebbe potuto venderne più copie. Il grosso dei lettori attuali, formato da indiani timidamente occidentalizzati e inglesi snob, non sarebbe andato perduto, poiché entrambe le categorie seguivano per definizione il gregge. Ma stimava che nel giro di dodici mesi avrebbe potuto aumentare la diffusione settimanale di cinque o diecimila copie se solo Madhu Lal gli avesse permesso di ospitare opinioni informate e controverse sia a livello locale che nazionale: non indù, non musulmane, non britanniche ma indiane nel senso migliore del termine.
Laxminarayan credeva scrupolosamente nel suo giornale. Crederci era un modo per poter continuare a credere in se stesso, e criticarne apertamente i difetti dava più soddisfazioni che criticare i propri. Aveva trovato il modo di sostituire l’azione negativa con il pensiero positivo, e forse era meglio così. Era ormai troppo immerso nei compromessi della prima mezz’età per poter ravvivare (in modo pratico e sensato) le scintille di ribellione della sua giovinezza. Di sicuro fu meglio così anche per Hari. Al loro primo incontro bastò qualche minuto di conversazione perché il vecchio demone soffocato di Laxminarayan cominciasse a scalciare, cercando vanamente di assumere il controllo sul suo giudizio. Il demone provava avversione per Kumar: i modi, la voce, la posizione in cui sedeva con la testa ritta, le gambe accavallate, una mano scura posata sul suo lato della scrivania: un embrione di sahib nero che si esprimeva con la sicurezza di un sahib, il tipo di sicumera che si manifestava come un senso di superiorità tenuto discretamente a freno nel rispetto del protocollo del momento. Il demone smise di scalciare solo perché i fianchi interiori di Laxminarayan erano ormai assuefatti al dolore causato dai suoi speroni e perché Kumar sarebbe potuto diventare una risorsa potenziale per il tipo di periodico che Mr Madhu Lal voleva che la «Gazette» diventasse. E quando Kumar gli porse alcuni fogli di carta a dimostrazione del suo talento di caporedattore, paragrafi e colonne estratti da vecchi numeri del giornale e trasformati nell’inglese semplice, chiaro e standardizzato che nelle fasi più convulse di superlavoro sfuggiva perfino a lui, il direttore seppe che avrebbe finito per offrirgli un impiego e che probabilmente si sarebbe sbarazzato di uno dei giovani che lo impensierivano ma a cui voleva più bene, uno di quei ragazzi di scarso talento ma di gran cuore che molto probabilmente sarebbe diventato di impaccio.
Laxminarayan. Ora abita in un bungalow un tempo appartenuto a una famiglia eurasiatica che se n’era andata da Mayapore nel 1947, un bungalow su Curzon Road. È diventato vecchio. Sta scrivendo una storia delle origini del nazionalismo indiano che probabilmente non porterà mai a termine, men che meno pubblicherà: la sua apologia per i molti anni di compromessi personali. Riconosce che la linea editoriale di Madhu Lal ha dato buoni risultati, visto che la «Mayapore Gazette» non ha mai cessato di esistere. Se fosse stato per lui, per Laxminarayan, forse sarebbe stata soppressa nel 1942, l’anno in cui il «Mayapore Hindu» era stato fatto chiudere per la terza o quarta volta. Ma è divertito, ora, dal seguito indù e nazionale della «Gazette», come se il giornale fosse sempre stato un baluardo delle cause che adesso è di moda sostenere. Il nuovo proprietario è un bramino del Pakistan. Il nuovo direttore è il cugino dell’editore. In termini di politica nazionale, il giornale concede gran parte del suo spazio ai discorsi e alle attività di Mr Morarji Desai. Per l’anno prossimo ha in programma di uscire con un’edizione simultanea in hindi, un primo passo verso l’eliminazione totale dell’inglese. È questo, più di qualsiasi altra cosa, a rattristare Mr Laxminarayan, il quale per tutta la vita ha avuto quello che lui definisce un rapporto di odio-amore con la lingua inglese. È quella in cui aveva imparato a formulare le sue idee rivoluzionarie, e quella che si era prestata senza problemi all’impresa di far sembrare la cauta via di mezzo da lui imboccata un esempio di buon senso e non una manifestazione di paura.
«Cosa sono diventato?», domanderebbe a chi andasse a visitarlo a casa sua, dov’è attorniato da nipotini i cui strilli sembrano giungere da ogni stanza e dal giardino soleggiato che (direbbero gli inglesi) è stato “lasciato andare”. «Glielo dico io cosa sono. Sono un vecchio che ha vissuto uno dei più grandi sconvolgimenti della storia moderna, il primo, e penso il più travolgente, di un’intera serie di rivolgimenti politici, di ribellioni contro il dominio dell’uomo bianco, che sono ormai diventati così comuni da essere quasi noiosi. E io l’ho attraversato senza un graffio. Un vero Vicario di Bray, non so se mi spiego. Ormai in pensione, membro onorario del Mayapore Club dove i bravi indù fraternizzano. Quando scoprono che fui io a condurre la «Gazette» nelle acque in tempesta subito prima dell’indipendenza, i giovani giornalisti vengono a trovarmi e mi dicono: “La prego, signore, ci racconti come si stava davvero ai tempi dei britannici”. Allo stesso modo in cui i vostri, di giovani, potrebbero chiedere: “Com’era davvero ai tempi di Hitler e Mussolini?”. I vecchi esponenti del colonialismo britannico sono diventati ormai mitici, capisce? I nostri giovani conoscono i nuovi inglesi e si chiedono: “Ma qual era il problema? Non hanno l’aria di essere dei mostri, e sembrano interessati alle stesse cose a cui siamo interessati noi. Non sono interessati al passato e non lo siamo neanche noi, se non per chiederci quale fosse il problema, domandarci se il nostro governo stia facendo di meglio o semplicemente se ci rappresenti. A noi sembra piuttosto l’espressione di un traballante matrimonio tra vecchia ortodossia e vecchi rivoluzionari, gente che non ha niente di interessante da dire”.
Offrii un impiego a Kumar e in seguito licenziai un certo Vidyasagar, che poi nel 1942 sarebbe stato arrestato e imprigionato insieme ad altri membri della redazione del «Mayapore Hindu». Quando il giovane Kumar venne coinvolto nello sgradevole episodio di Bibighar mi venne chiesto di intervenire, ma temo che rifiutai. Nessuno mi chiese di intercedere per il povero Vidyasagar, a cui vennero inflitte quindici staffilate per aver violato il regolamento carcerario. Non che avrei potuto farci qualcosa, in un caso o nell’altro. Ma non mi andava giù che quando i due giovani vennero arrestati, ciascuno per motivi diversi, Kumar fu l’unico ad avere qualcuno che prendeva le sue difese, qualcuno pronto a telefonarmi dicendomi: “Non può farlo uscire di prigione? Lei era il suo datore di lavoro, non può fare niente per lui? Non può provare che non si trovava nelle vicinanze di Bibighar?”. Persone come Lady Chatterjee. E quel Knight della British-Indian Electrical, probabilmente in preda a una crisi di coscienza. Perfino l’assistente commissario, Mr Poulson, mi convocò per informarsi sulle posizioni politiche di Hari Kumar. “Mr Poulson”, risposi, “Kumar è come me. Non ha posizioni politiche. È un leccapiedi del Raj”. Ero furioso. Non vedevo il motivo per cui avrei dovuto aiutarlo. Se i britannici non riuscivano a capire da soli che era innocente, chi ero io per intromettermi? Kumar era più britannico di loro».
Una settimana dopo aver trovato lavoro alla «Mayapore Gazette», Hari ricevette una lettera di Colin Lindsey. Era datata fine luglio 1939. Colin si scusava per il lungo periodo di silenzio. «Qualche mese fa mi sono arruolato nell’esercito, e la tua ultima lettera mi è arrivata durante l’addestramento», spiegava. «Eravamo alquanto occupati. Se ci sarà una guerra, come sembra probabile, richiederò una nomina a ufficiale; in caso contrario, mi va benissimo essere un normale caporale non retribuito, attestato che ho ricevuto durante l’addestramento. Immagino che anche tu prenderai in considerazione l’esercito, giusto, Harry? Se succede qualcosa, intendo. Mi dicono che l’esercito indiano sia un gran bel corpo e che gli ufficiali non siano più solo britannici. Magari ci incontreremo in trincea, come in Journey’s End! Mi spiace che tu abbia avuto un’esperienza così spiacevole in quella fabbrica. Non capisco perché i parenti di tua zia non vogliano investire sulla tua carriera di funzionario pubblico. Mio padre dice che, a sentire un suo amico, gli indiani possono addirittura diventare giudici della Corte Suprema, sicché l’amministrazione pubblica mi sembra la mossa giusta. Quella o l’esercito. Io ti consiglio il secondo. È una gran bella vita. E sinceramente, Harry, tu saresti un signor comandante di plotone, che è quello che voglio diventare in caso di guerra. A quel punto potresti fargliela vedere a quello Stubbs, che evidentemente non è nient’altro che un novellino. Come me, per il momento! Ho la sensazione che quando riceverai questa mia io sarò in Francia. Perché diavolo dev’esserci sempre di mezzo la Francia? Nella mia unità pensiamo che i crucchi dovrebbero presentarsi direttamente qui. A quel punto gli faremmo vedere una cosetta o due. Il maggiore Crowe, il nostro comandante, sostiene che con tutte quelle storie su burro o armi i poveracci stiano praticamente morendo di fame e non abbiano neanche la forza di imbracciare un fucile, figuriamoci operare l’artiglieria. Caro vecchio Harry! Vorrei che fossi qui. Potremmo affrontare insieme questa faccenda. Per come la vedo io, è l’unica cosa a cui valga la pena di partecipare. Gli affezionati genitori ti mandano i loro saluti».
«Un giorno mi parlò di una lettera di quel Lindsey», racconta sorella Ludmila. «Perché mi trattava come una madre confessora? Era un ruolo che non meritavo. Mi si rivolgeva a quel modo, come se non credesse in nulla, un atteggiamento che non gli era naturale, che aveva acquisito. “Sorella”, mi disse, “lei cosa avrebbe fatto, se un giorno la lettera di un vecchio amico le avesse improvvisamente rivelato che ormai parlavate due lingue diverse?”. Non ricordo cosa gli risposi. Forse solo questo: “Esiste solo la lingua di Dio”. Intendendo con questo la verità, e cioè che è l’unica lingua che conta. Lui non si considerava del tutto privo di colpe, poiché scrivendo a Lindsey non gli aveva detto cosa provava nel profondo del cuore. Forse non lo aveva fatto perché non poteva. Non glielo aveva detto perché non lo sapeva neanche lui».
Dalla «Mayapore Gazette» Hari riceveva sessanta rupie al mese, l’equivalente di poco più di quattro sterline. Ne dava la metà a sua zia Shalini, poiché il giorno in cui lui aveva cominciato a lavorare per Mr Laxminarayan, Romesh Chand aveva ridotto gli aiuti all’ex cognata. Le sessanta rupie erano la paga di Hari in qualità di caporedattore. Se poi Laxminarayan avesse pubblicato un suo articolo originale, glielo avrebbe pagato un’anna a riga. Ciò significava che per un pezzo di sedici righe Hari avrebbe guadagnato una rupia.
Questo fu ciò che disse a Colin Lindsey quando rispose alla sua lettera. Forse cercava di fargli capire che a Mayapore la minaccia delle ambizioni tedesche pareva molto lontana e che il curioso linguaggio retorico pre-1914 usato da Lindsey non era per niente in sintonia con quelli che Hari considerava i propri obblighi immediati né col chiaro ricordo del disprezzo per la guerra che lui e Colin avevano condiviso, o almeno professato di condividere. Qualcosa era successo al suo amico, e Hari non riusciva a capire cosa. C’era stata una fase nella quale pensavano entrambi di dover rispondere con l’obiezione di coscienza a quella che definivano una violenza fisica forzata nell’interesse degli obiettivi politici ed economici della nazione. E adesso Colin citava nostalgicamente Journey’s End. Indossare un’uniforme ti corrompeva a quel punto? E cos’era stato, nel caso di Colin, a far sì che la indossasse volontariamente? Colin, che un giorno aveva detto che il patriottismo era una perversione dell’istinto umano di sopravvivenza allo stesso modo del fanatismo religioso. Chillingborough era una serra che produceva amministratori, non soldati. Per un amministratore, un soldato rappresentava l’ultima spiaggia nella difesa di una linea di condotta: un’ultima spiaggia sulla quale ripiegare era una vergogna.
«Sono felice», scrisse Hari, «che tu non stia trovando troppo logorante la vita nelle forze armate...».
La sottigliezza inglese! Già mentre scriveva quelle parole, si rendeva conto che potevano essere interpretate sia come virile understatement che come una critica maligna.
«...e immagino che se la situazione diventerà critica anche l’India entrerà in guerra. Il che varrà anche per me».
Si fermò e rifletté un istante. In realtà non sentiva affatto che valesse anche per lui.
«È difficile applicare una teoria quando ci si trova davanti a una situazione che richiede una reazione concreta», proseguì a scrivere. «Suppongo che tu abbia dovuto affrontarne una così come ho dovuto farlo io».
Ricordava quando Mr Lindsey aveva definito Hitler un dannato imbianchino, e subito dopo un uomo che «in ogni caso otteneva risultati». Ricordava anche che durante la conferenza di Monaco, che tra l’altro aveva coinciso con le sue stesse concessioni a Romesh Chand, Colin gli aveva scritto una lettera in cui si diceva sollevato che il buon senso di Mr Chamberlain avesse evitato lo scoppio delle ostilità. Per Hari, a Mayapore, Monaco non aveva significato nulla. Col senno di poi, pensava che non avesse significato nulla neanche per gli inglesi di Mayapore, protetti com’erano dal tepore coloniale della loro indistruttibilità razziale. Ma non nutriva dubbi sul fatto che il tono dell’ultima lettera di Colin riflettesse con accuratezza lo stato d’animo degli inglesi nel loro complesso, in patria come all’estero. Cercava di condividerlo lui stesso, ma non ci riusciva. Non poteva trovarne l’ispirazione a Chillianwallah Bagh o nell’acquartieramento, nel tribunale civile o nelle aule del giudice distrettuale e nemmeno sul maidan, i luoghi che gli erano diventati sempre più familiari grazie al suo lavoro alla «Gazette». Non la poteva trovare in quei luoghi perché vi accedeva da indiano. Vi accedeva dietro permesso, non per diritto. Quello che vi vedeva non gli piaceva, né apprezzava ciò che vi provava: l’invidia per gli inglesi e le loro istituzioni che riempiva il vuoto lasciato dalla perdita della sua stessa identità inglese. Trovava fin troppo facile e deprimente dipingersi Colin al posto del giovane inglese che ricopriva la carica di magistrato esercitando un potere giudiziario che, se non era esattamente di vita o di morte, essendo alquanto limitato, bastava a spedire in prigione per un anno un uomo abbastanza vecchio da essere suo padre; deprimente poiché in quel giovane Colin poteva essere visto, seppur solo simbolicamente, in una luce sgradevole. D’altra parte, Hari non riusciva neanche a immaginare se stesso al posto del magistrato indiano che un giorno sostituì l’inglese, gestendo la sua corte in modo altrettanto acido e pieno di sicumera. Per la prima volta Hari si ritrovò a chiedersi: come si permette un indiano di occupare quel seggio, multare quell’uomo, imprigionare quella donna, rinviare quel caso alla corte distrettuale? Provava un’inaspettata resistenza all’idea che un indiano svolgesse il lavoro di un inglese. Soffermandosi a riflettere su quella riluttanza, si rese conto che era la reazione di un membro di una razza sottomessa. Il pensiero lo turbò.
«Quante storie», scrisse a Colin due mesi dopo (quando nella lontana Europa la guerra era già scoppiata) riguardo alle dimissioni dei ministeri provinciali dominati dal Congresso. «Com’è naturale, entrambi i punti di vista sono comprensibili. Il viceré non poteva non dichiarare guerra a nome dell’India, essendo il rappresentante del re-imperatore ed essendo i tedeschi nemici del re. Ma poiché ormai da qualche tempo la politica britannica nei riguardi dell’India era quella di considerarla come un dominio in embrione che col passare del tempo avrebbe imparato a governarsi da solo, il viceré avrebbe potuto quanto meno fare mostra di consultare i leader indiani. Alcuni sostengono che in realtà il decreto del 1935 gli imponesse di consultarli, ma anche in caso contrario, quanto più efficace sarebbe stata una dichiarazione di guerra accompagnata simultaneamente da una libera dichiarazione di alleanza da parte dell’India! E si può anche capire che, con tutto il gran parlare che si fa degli obiettivi di guerra britannici, gli indiani pensino che uno di essi dovrebbe essere l’indipendenza dell’India subito dopo la fine del conflitto. Il fatto che questa non sia stata nominata tra gli obiettivi stabiliti e con una data prefissa ha portato molti indiani a trasformare l’indipendenza in un obiettivo immediato. Solo un paese libero, sostengono, può combattere con convinzione. E temono che a guerra finita si ripetano le tergiversazioni di questo ultimo decennio e oltre. Ma a mio modo di vedere sono responsabili anche loro di questo ritardo. Il Congresso dice di rappresentare l’India intera, ma non è così. E tutti i contrasti interni su chi rappresenta cosa finiscono per fare il gioco di quegli inglesi che non vogliono rinunciare all’India, il genere di persone che secondo mio padre l’avrebbero sempre avuta vinta. E nel complesso credo che avesse ragione lui. Per esempio, con le dimissioni dei ministeri del Congresso molte delle province sono di nuovo amministrate da un governatore e da un consiglio, il che mi sembra proprio il genere di cosa che un partito col sale in zucca dovrebbe voler evitare, visto che fa regredire di anni la situazione politica. D’altra parte non sono mai stato in grado, e forse non lo sarò mai, di capire la politica indiana. Per quanto riguarda gli effetti della guerra sugli inglesi di qui, da quello che posso vedere non ce ne sono stati. Francamente, è qualcosa che sembra quasi svolgersi in un altro mondo, sempre che si possa dire che si stia davvero svolgendo. A giudicare dalle notizie non sta succedendo molto, giusto? Gli inglesi di qui hanno cominciato a dire che Hitler si è reso conto di aver fatto il passo più lungo della gamba e che alla fine metterà la testa a posto e si accorderà con Francia e Gran Bretagna. Certi indiani, invece, dicono che erano anni che i loro leader, Nehru in particolare, mettevano in guardia l’Occidente di fronte alla minaccia rappresentata da Hitler».
A eccezione di una breve lettera scritta durante le feste natalizie del 1939, che Colin aveva trascorso a casa dopo aver completato il corso di addestramento per allievi ufficiali, per quasi un anno Hari non ebbe più notizie dell’amico. Nella primavera del 1940, in una breve missiva Mr Lindsey lo informava che Colin era «da qualche parte in Francia» e che l’ultima lettera di Hari gli era stata inoltrata. Proseguiva dicendo che la cosa migliore da fare da quel momento in poi sarebbe stata indirizzare la corrispondenza a Didbury, da dove sarebbe stata rispedita a Colin ovunque si trovasse.
Hari non poteva evitare di ripensare all’atteggiamento che il padre di Colin aveva assunto nel 1938, un comportamento che in quegli ultimi due anni aveva cominciato a vedere come una dimostrazione di sfiducia. “Che cosa farà con le mie lettere?”, si domandò. “Le leggerà? Le censurerà? Non le rispedirà se vi leggerà qualcosa che potrebbe turbare Colin o che lui non gradisce?”. Ogni volta che si metteva a scrivere, l’ombra di Mr Lindsey si stagliava sulla carta da lettere. Era un altro elemento di disturbo del flusso di pensieri diretto al suo vecchio amico. Nella sua mente cominciò a prendere piede l’idea che lui e Colin si stessero allontanando non solo a causa delle circostanze, ma anche per intervento dello stesso spirito potente e maligno che aveva portato suo padre alla morte e lui all’esilio; però la lettera che alla fine ricevette da Colin nell’agosto del 1940 sembrava mostrare che tra loro non era cambiato fondamentalmente nulla. La struttura di un’amicizia viene di rado analizzata a meno che non si trovi in difficoltà; e quando Hari tentava un’analisi della sua amicizia con Colin, la trovava di una salutare semplicità. Era un’attrazione tra simili che aveva superato ormai da tempo qualunque morbosa o infantile curiosità suscitata dal colore della pelle e dalla magia dei geni. La lettera di Colin riportava indietro le lancette. Era la voce autentica del suo vecchio amico. Leggendo tra le righe, Hari capì che Colin non aveva passato un periodo facile, e questo li riportava allo stesso livello. La lettera di per sé forniva scarse informazioni. Il giovane Lindsey si era trovato a Dunkirk, dopodiché aveva passato «qualche tempo in ospedale, non perché fossi gravemente ferito ma perché c’era voluto un po’ per trovare le cure e le medicazioni giuste e a un certo punto le cose si erano messe male, ma adesso sto bene». Gli aveva scritto da casa, dove si trovava in convalescenza prima di fare ritorno alla sua unità.
«È stato un gran macello, se vuoi sapere il mio parere. Mi viene da ridere quando sento dire a mio padre che suo figlio era a Dunkirk, come se fosse qualcosa di cui andare fieri. La reazione che continuo a provare è una grande rabbia, ma indirizzata a nessuno in particolare, poiché non c’è nessuno, che sia una singola persona o un gruppo, che possa essere considerato più responsabile di altri. Suppongo che sia semplicemente stata la nostra vecchia amica Nemesi che alla fine è riuscita a beccarci. Ho perso un buon amico, laggiù. L’altro giorno ho fatto visita a sua sorella. È ridicolo, come ci si ritrovi impegolati in queste trite situazioni melodrammatiche. Eravamo entrambi terribilmente a disagio. Al mio arrivo dall’ospedale, papà mi ha dato un paio di tue lettere che aveva conservato. Abbiamo avuto una piccola discussione. Avevo paura di quello che avresti potuto pensare non ricevendo risposta. Sulle prime lui ha spiegato che non voleva disturbarmi e che tu avresti capito che avevo altro da fare. Poi ha ammesso di averle lette e trovate piene di posizioni politiche “estremiste”. Hari, te lo dico solo per avvertirti di tenere a mente che, se mi scrivi a casa, è possibile che le tue lettere vengano aperte. Lui ha promesso che non lo farà più, e ha capito di avere sbagliato, ma negli ultimi tempi si è fatto delle strane idee. Non voglio ferirlo, ma sotto molti punti di vista mi sembra ormai un estraneo. E anche questo è un cliché, non è vero? Lo è al punto che non mi fido delle mie stesse reazioni. Ma molte delle cose che dice e che fa ormai mi danno ai nervi. Ha appeso una mappa del “Times” alla parete e vi infila le sue puntine come un generale. La puntina su Dunkirk ha una minuscola Union Jack di carta. Ho idea che rappresenti me. Scrivimi, Hari, e dimmi qualcosa di sensato».
Qualcosa di sensato? Il giorno che ricevette quella lettera, Hari si trovava alla corte distrettuale per assistere al ricorso in appello di un uomo che la magistratura di Tanpur aveva processato e condannato per avere rubato la mucca di un altro e averla venduta a un terzo, il quale a sua volta l’aveva usata come dote per le nozze della figlia. L’imputato sosteneva che la mucca era diventata sua poiché il proprietario originale permetteva che pascolasse sulle sue terre, nutrendosi gratuitamente e consumando più biada del suo valore di mercato. L’appello si basava sul fatto che il magistrato di Tanpur non aveva ammesso le testimonianze di due persone pronte a giurare che il condannato aveva ripetutamente avvertito il proprietario originale della sua intenzione di vendere la mucca. Il giudice Menen respinse l’appello e Hari lasciò il tribunale, poiché il caso successivo, l’ultimo della giornata, era un ricorso in appello contro un’incarcerazione sulla base della sezione 188 del codice penale indiano, e il suo direttore non pubblicava mai quel genere di delicate notizie.
«Qualcosa di sensato?», rispose Hari a Colin. «Suppongo che in tempo di guerra si possa considerare sensato, se non proprio giusto, imprigionare un uomo per avere espresso la sua opinione. Ma in questo caso non si tratta di una misura di guerra. È una disposizione di lunga data, presente in una sezione del codice penale. La sezione 144 consente alle autorità civili di stabilire se una persona è un rischio potenziale per la pace pubblica e di imporne il silenzio, pena l’arresto e l’incarcerazione. Se la persona in questione disobbedisce all’ordine, viene processata e punita come prescritto dalla sezione 188. Se vuole, credo che possa ricorrere in appello fino ad arrivare alla Corte Suprema provinciale. Il giorno in cui è arrivata la tua lettera ero alla Corte distrettuale. Me ne sono andato subito prima che il giudice (un indiano) aprisse l’udienza, sicché non so come sia finita. Ma uscendo ho visto il prigioniero che attendeva scortato da due agenti, e l’ho riconosciuto. Si chiama Moti Lal. “Salve, Coomer”, ha detto lui prima che le due guardie lo sospingessero in aula attraverso l’ingresso dei detenuti. L’ultima volta che l’avevo visto lavorava negli uffici di mio zio allo scalo ferroviario. Tornato in redazione, mi sono informato. A quanto pare mio zio l’aveva licenziato qualche mese prima, in teoria per incapacità. Ma da quello che ha detto il mio direttore, mi sembra di capire che il vero motivo sia che mio zio aveva saputo che Moti Lal era coinvolto con quella che si potrebbe definire l’ala clandestina del Partito del Congresso. Ho provato a chiedere all’avvocato di mio zio, un bramino di nome Srinivasan, quale fosse il vero motivo dell’arresto di Moti Lal. A quanto pare, insisteva a incitare i lavoratori e gli studenti allo sciopero o alla ribellione e aveva disobbedito al divieto di parlare a un’assemblea di studenti dell’ultimo anno del Technical College. Era anche sospettato di essere il leader di un gruppo di giovani che stampava e diffondeva opuscoli sediziosi, ma di questo non c’erano prove. In ogni caso, era stato condannato a sei mesi di detenzione. E il suo appello è stato respinto. Me l’ha detto un ex collega della “Gazette”, un certo Vidyasagar, che adesso scrive per un giornale radicale, il “Mayapore Hindu”, quando ci siamo incontrati ieri in Tribunale.
Vidyasagar è un tipo piacevole, per il quale provo simpatia, ma sento di avere la coscienza sporca. Durante le mie prime settimane di lavoro alla “Gazette” il direttore mi spediva dappertutto insieme a lui, finché un bel giorno non l’ha licenziato. Vidya l’ha presa bene. Dice che aveva intuito cos’aveva in mente il direttore quando questi lo aveva incaricato di mostrarmi i rudimenti del mestiere. “Non ce l’ho con te, Kumar, perché tu non sai niente”, mi ha detto un giorno. Ogni volta che ci incontriamo mi punzecchia, dicendo che col tempo potrei anche diventare un buon indiano.
Ma non sono certo di sapere cos’è un buon indiano. È quello che si arruola nell’esercito seguendo la tradizione di famiglia, o magari quello che è abbastanza ricco e ambizioso da versare contributi in denaro ai fondi bellici governativi, oppure è il ribelle che si fa arrestare come Moti Lal? Oppure il buon indiano è il Mahatma, che qui tutti chiamano Gandhiji e che il mese scorso, dopo che Hitler ha fatto vedere all’Europa di che pasta è fatto il suo esercito, ha lodato la Francia per essersi arresa e ha scritto al governo britannico chiedendo di adottare “un modo più nobile e coraggioso di combattere” e permettere all’Asse di invadere la Gran Bretagna? Il “modo più nobile e coraggioso” significa seguire il suo metodo di non-collaborazione non-violenta. Il che sembra un comportamento da “buon indiano”. Poi però c’è Nehru, il quale è palesemente convinto che questo atteggiamento sia folle. E che sembra voler combattere Hitler. Lui dice che le difficoltà dell’Inghilterra non sono un’opportunità per l’India, ma poi aggiunge che non per questo si può impedire all’India di continuare a lottare per la propria libertà. Forse, allora, il buon indiano è quel Subhas Chandra Bose, il fuoriuscito dal Congresso che considera la liberazione una priorità assoluta e che per questo al momento è a Berlino a leccare i piedi a Hitler e a diffondere appelli via radio incitandoci a spezzare le nostre catene. Oppure Mr Jinnah, che se non altro ha semplificato il problema religioso chiedendo uno Stato musulmano separato se il Congresso a maggioranza indù riuscirà a sbarazzarsi degli inglesi? O ancora uno dei principi indiani che mantengono la loro sovranità grazie ai trattati con la Corona britannica e che non hanno intenzione di perderla solo perché una masnada di estremisti politici ha ottenuto il controllo dell’India britannica? Questo, in realtà, è un problema più grave di quanto immaginassi, poiché i principi regnano su quasi un terzo del territorio indiano. E per finire, dovremmo forse scordare tutte queste sofisticherie su chi è e chi non è un buon indiano e vederlo come il semplice contadino a cui preme soltanto sbarazzarsi dell’usuraio locale e poter godere del suo intero raccolto? E gli inglesi che posizione avrebbero, in tutto questo?
La risposta è che non lo so, perché qui non sono considerato uno di loro. Non ho mai a che fare con loro se non superficialmente, come esponente della stampa nel genere di funzioni pubbliche e sociali che nell’Inghilterra assediata e razionata di oggigiorno vi farebbero ridere o gridare di rabbia. E non appena apro bocca mi guardano sbalorditi perché parlo come loro. Se uno di loro (uno degli uomini, mai una donna) mi chiede dove ho imparato a parlare inglese così bene e io glielo dico, lui sembra stupito e quasi ferito, come se gli stessi raccontando una fandonia e mi aspettassi che ci creda.
Una delle cose che a quanto pare al momento non sopportano è il modo in cui gli americani (che non sono ancora entrati in guerra, se mai lo faranno) cercano di intromettersi e costringerli a fare concessioni agli indiani, che loro ovviamente considerano una proprietà privata. Sono al settimo cielo riguardo al ritorno di Churchill, poiché lui si è sempre esplicitamente schierato contro qualsiasi riforma liberale nell’amministrazione dell’Impero indiano. Il suo recente tentativo, in seguito alla disfatta delle forze di spedizione britanniche in Francia, di tenere a bada le ambizioni degli indiani promettendo di aumentarne la partecipazione al governo del loro stesso paese (promesse che non sembrano andare molto al di là dell’aggiunta di qualche indiano accettabile nel consiglio del viceré) non ha fatto che suscitare le risate dei radicali indiani. I quali ricordano ancora (così dice il mio direttore) le promesse fatte durante la Grande Guerra, una guerra alla quale il Congresso si era impegnato a contribuire credendo che valesse la pena di sostenere la Corona poiché a cose fatte la Corona l’avrebbe premiato riconoscendo le sue richieste di parziale autogoverno. Ma quelle promesse non erano mai state mantenute. Anzi, erano addirittura state prese misure ancora più severe contro le agitazioni, e l’intera triste faccenda delle promesse della Grande Guerra si era conclusa nel 1919 con l’orribile spettacolo del massacro del Jallianwallah Bagh di Amritsar, dove il generale Dyer aveva aperto il fuoco sui civili disarmati e senza via d’uscita, uccidendone a centinaia. La ricomparsa di Churchill come capo del consiglio di guerra britannico, accolta con enorme gioia dagli inglesi di qui, non ha fatto che deprimere gli indiani. Immagino che la loro sia una reazione eccessiva. Non avevo idea che Churchill avesse una reputazione così orribile. Lo chiamano l’arcimperialista. Curioso, che quella che pare la soluzione giusta per l’Inghilterra debba sembrare completamente sbagliata per la parte dell’impero che Disraeli definì il gioiello più luminoso della corona. I progressisti inglesi sostengono naturalmente che Churchill è sempre stato un realista, addirittura un opportunista, e che si dimostrerà sufficientemente astuto da cambiare di nuovo posizione e fare concessioni in senso liberale. Come prova di ciò, indicano il fatto che nel gabinetto siano stati coinvolti anche membri dell’opposizione socialista per creare l’immagine di un governo di solidarietà nazionale.
Mi chiedo però che cosa ne verrà. Penso che non possa esserci alcun dubbio sul fatto che negli ultimi vent’anni, intenzionalmente o meno, gli inglesi abbiano avuto successo con il metodo del divide et impera, e il genere di conversazioni che sento fare durante gli eventi sociali a cui partecipo (reclutamento di Guide, vendite di beneficenza, partite di cricket miste che finiscono spesso sotto il diluvio e si concludono con un tè in una serie di tendoni discretamente contrassegnati dalle scritte “RISERVATO AGLI EUROPEI” e “ALTRE RAZZE”) mi fanno capire fino a che punto gli inglesi, per portare avanti il loro dominio fino e oltre il dopoguerra, dipendono dalle divisioni politiche tra gli indiani. Sostengono apertamente che “abbandonare il dannato paese non funzionerebbe, perché non c’è un partito indiano sufficientemente rappresentativo a cui lasciarlo”. Preferiscono i musulmani agli indù (a causa del fatto che le affinità tra Dio e Allah sono maggiori di quelle tra Dio e Brahma), mostrano un’innata predilezione per i principi indiani, sono turbati a livello emotivo dall’esistenza degli intoccabili e vanno matti per i contadini che vedono il Raj, di qualunque tipo esso sia, come una sorta di Dio. Quella che non gradiscono è la versione nera di quello stesso radicalismo bianco che secoli or sono condusse alla Magna Carta. Detestano ricordare che in Europa furono proprio loro a ribellarsi allo status quo feudale, perché la ribellione contro di esso da queste parti è così maleducata. Vedono l’India come un luogo in cui sono arrivati e di cui si sono impadroniti quando era disorganizzata, e di conseguenza pensano di non avere alcuna colpa per la disorganizzazione odierna.
Ma duecento anni non sono sufficienti a unificare un paese? Gli inglesi si riconoscono il merito di tutte le migliorie che hanno portato. Ma ci si può arrogare il merito di qualcosa senza riconoscere la colpa di qualcos’altro? Per esempio, cinque anni fa chi aveva mai sentito parlare di Pakistan, di uno Stato musulmano separato? Non riesco a credere che il Pakistan possa mai diventare realtà, ma se ciò accadrà sarà perché gli inglesi avranno tergiversato abbastanza a lungo a favore di una minoranza religiosa da permetterle di sfruttare un’opportunità politica.
Immagino la tua perplessità: che nei nostri pensieri un problema così apertamente nazionale debba avere la precedenza su quanto è appena accaduto in Europa. Essendo in guerra, gli inglesi chiamano sedizione il riconoscimento di questa precedenza. Gli americani considerano il conflitto che ne risulta come la classica tempesta in una tazza di tè inglese, che gli inglesi farebbero meglio a sedare se vogliono continuare a bere il loro tè delle quattro (cosa che hanno cominciato a fare solo dopo avere aperto nuovi mercati commerciali in Oriente). D’altra parte, gli americani pensano che la minaccia più incombente per la loro sicurezza provenga dal versante del loro continente che dà sul Pacifico. Per questo è ovvio che vogliano un’India forte e unita, poiché se i loro nemici potenziali, i giapponesi, dovessero fare la voce grossa, sarebbero costretti a guardarsi dietro oltre che davanti.
Il lavoro a questo giornale mi ha costretto a osservare il mondo e cercare di trovarvi una logica. Ma anche dopo averlo fatto continuo a domandarmi qual è la mia relazione con ciò che mi circonda, ed è proprio questo a mettermi in difficoltà. Capisci cosa intendo, Colin? Al momento non sembra esserci un singolo paese a cui io senta di dovere la mia totale dedizione. E forse questo è il futuro che ci aspetta, e non so se trovarla un’idea incoraggiante oppure allarmante. Se non esistono più paesi, che cosa resta se non la distinzione antropologica del colore? Quello sì che sarebbe un conflitto terribile, poiché i conti che restano ancora da regolare in questo senso sono drammatici. Ma non sono sicuro che il genere umano non se lo meriti».
E così non c’era niente di “sensato” che Hari potesse scrivere a Colin, ma forse per entrambi era sufficiente sapere di essere ancora in grado di stabilire una connessione malgrado le distanze di tempo e di spazio. Girava un detto, tra i giovani indiani, secondo il quale le amicizie con i bianchi resistevano di rado al logorio della separazione e mai a quello ancora più acuto di una riunione sul suolo indiano.
«Lei cosa farebbe», domandò Kumar a sorella Ludmila, «se la lettera di un vecchio amico le rivelasse improvvisamente che ormai parlate due lingue diverse?». Forse è strano che ricordasse proprio quella lettera di Lindsey, la lettera in cui l’amico citava Journey’s End; che, nel fare quella domanda, la ricordasse così bene da averla ancora in mente, come se ciò che Colin gli aveva scritto dopo il suo battesimo di fuoco, chiedendogli di dirgli qualcosa di sensato, avesse meno importanza di quelle frasi nostalgiche e neo-patriottiche che lo avevano sconcertato tanto. D’altro canto, il lato inaspettato di un uomo è più memorabile delle sue apparenti, episodiche dimostrazioni di costanza e immutabilità. L’immagine di un Lindsey che parlava una lingua nuova lasciò il segno su Kumar, tanto da farlo esprimere in questi termini, in un successivo colloquio con sorella Ludmila:
«Avrei dovuto contestare fin da subito le sue parole. Avrei dovuto dirgli la verità sulla mia vita a Mayapore. Avrei dovuto dirgli: “Siamo entrambi cambiati, forse al punto che non abbiamo più nulla in comune. Pensare che, se dovessi tornare a Didbury ci troveremmo di nuovo a nostro agio l’uno con l’altro è probabilmente ridicolo quanto credere che se tu venissi a Mayapore, saresti disposto anche solo a farti vedere insieme a me”. Sì, avrei dovuto dirglielo. Non l’ho fatto perché non volevo pensarlo. E così siamo andati avanti a scriverci lettere il cui solo scopo era confermarci a vicenda che c’era stato un tempo in cui eravamo immuni a tutte le pressioni al di fuori di quelle dell’innocenza.
Quando Colin è arrivato in India nel 1941 e mi ha scritto da Meerut, ho provato una sorta di sfrenata euforia. Ma è durata molto poco. Poi mi sono rassegnato a quello che sapevo sarebbe successo. Se lui fosse venuto direttamente a Mayapore, magari avremmo avuto una possibilità. Ma Meerut era molto lontana. Sembrava improbabile che sarebbe mai stato trasferito a una guarnigione abbastanza vicina a Mayapore da poterci vedere. E ogni settimana che passava non avrebbe fatto altro che rendere sempre più vasto l’abisso di cui doveva essersi ormai reso conto, quello tra un uomo del suo colore e uno del mio, privo di qualifiche ufficiali, un semplice indiano che lavorava e viveva in una città nativa. Lui l’avrebbe sentito crescere fino a rendersi conto che non si poteva più colmare, poiché anche quella speranza era svanita. Ricordavo il mio stesso disgusto, l’orrore per la sporcizia, lo squallore e il tanfo, e sapevo che Colin avrebbe provato qualcosa di simile. Ma lui avrebbe avuto una via di fuga. Avrebbe avuto luoghi in cui andare e cose da fare che gli avrebbero offerto rifugio. Avrebbe imparato ad avere bisogno di quel rifugio e poi ad accettarlo come qualcosa che aveva il dovere di preservare, di proteggere dalle aggressioni, e in ultima analisi di vedere come la vera India: il circolo, la mensa ufficiali, il bungalow, i fiori inglesi in giardino, la servitù nelle sue uniformi pulite, gli impianti sportivi, la precedenza nei negozi, negli uffici postali, nelle banche e sui treni; tutte le cose che scaturiscono dal bisogno di proteggere il tuo equilibrio mentale e che finiscono per gonfiare il tuo ego e alimentare i tuoi pregiudizi.
E anche se Colin fosse stato abbastanza forte da resistere a quelle tentazioni fisiche e spirituali e venirmi a cercare a Mayapore, dove avremmo potuto incontrarci e trascorrere più di un’ora o due insieme? Da quando è scoppiata la guerra, la città dei neri è diventata inaccessibile perfino agli ufficiali, a meno che non abbiano un qualche incarico ufficiale. Al Gymkhana io non sarei potuto entrare, e Colin cosa avrebbe pensato dell’altro club, visto che risulta odioso perfino a me? Se ci fossimo dati appuntamento allo Smith’s Hotel, si sarebbe svolta una scena imbarazzante. Il proprietario anglo-indiano non apprezza le visite degli indiani comuni. Al ristorante cinese gli ufficiali posso usare solo la sala al primo piano, mentre gli indiani non sono ammessi oltre il pianterreno a meno che non siano loro stessi ufficiali di nomina regia. Forse saremmo andati al cinema, ma lui non avrebbe apprezzato i posti in cui mi sarei potuto sedere. Ci sarebbe stata la English Coffee House, che però non è un caso se si chiama English Coffee House. Se lui fosse stato di guarnigione a Mayapore, forse avremmo potuto trascorrere un’ora o due nei suoi alloggi. O magari avrebbe ottenuto il permesso di attraversare il ponte e farmi visita a Chillianwallah Bagh. Tutte queste erano possibilità che andavano considerate. E nel farlo mi sono ovviamente reso conto che il fattore costante non era tanto il luogo dell’incontro, quanto la determinazione a vedersi. E quale amicizia è in grado di sopravvivere in circostanze simili?
Da Meerut Colin si è trasferito prima ad Ambala e poi nei pressi di Lahore. Nella prima lettera diceva che sulla carta geografica Meerut non sembrava poi così distante da Mayapore. Nella seconda si chiedeva se sarebbe mai stato abbastanza vicino da rendere possibile un incontro. Nella terza non ne faceva neanche cenno. E a quel punto ho intuito che era accaduto, in soli tre mesi. Aveva visto quella che poteva solo definire la mia India. E ne era rimasto inorridito. Spaventato, addirittura. Come poteva sapere che anch’io ne ero rimasto inorridito e spaventato? Come poteva sapere che per tre anni avevo sperato, desiderato di essere salvato, e che avevo confuso l’idea di salvezza con quella di un retaggio inglese e dell’amicizia con un inglese? Come avrebbe potuto saperlo? Da un certo punto di vista, io ero più inglese di lui. In quanto inglese lui poteva ammettere di provare orrore, se non paura. Ma io, da indiano anglicizzato, non osavo ammettere nessuna delle due cose nelle mie lettere, nel timore di essere considerato “nevrastenico”. E così ho capito che era successo, per quanto orribile fosse: vedendo quella che non avrebbe potuto fare altro che chiamare la mia India, Colin aveva avuto conferma del sospetto che io avessi fatto ritorno nel mio elemento naturale.
Be’, dico che l’ho capito, ma è poi vero? Non ho forse proseguito a trovare giustificazioni, sia per lui che per me stesso? Non ricevendo alcuna lettera da Lahore, non mi sono forse detto: “Insomma, non è certo un civile che non ha nient’altro da fare oltre ad alzarsi, mangiare, andare al lavoro e controllare la posta quando torna a casa la sera”? E quando la guerra si è avvicinata, quando i giapponesi hanno bombardato Pearl Harbor, invaso Siam, Malesia e Birmania e sono addirittura arrivati a creare scompiglio tra gli inglesi di Mayapore, non ho forse pensato al povero Colin, di nuovo nell’occhio del ciclone? E mi sono addirittura sentito in colpa per non essere stato abbastanza uomo da tener fede a quel poco di cui ero sicuro, la mia educazione inglese, arruolarmi e combattere per coloro per cui un tempo avevo provato affinità, anche se da queste parti loro non mostravano di provarla per me? E non mi sono forse reso conto dell’inutile disastro che ero riuscito a fare della mia vita dal 1938, incupito come quei poveri impiegati che tanto disprezzavo, senza un amico e senza ripagare la gentilezza e l’affetto di zia Shalini con qualcosa che lei avrebbe potuto riconoscere come amore o anche semplice gratitudine?
E poi un bel giorno li ho visti, nel gennaio del 1942. Soldati inglesi nell’acquartieramento, con il nome del reggimento sulle mostrine. Un nome che ricordavo dalle lettere di Colin da Meerut, da Ambala e infine dai paraggi di Lahore. Capitano C. Lindsey, seguito dal nome e dal numero dell’unità, poi dall’indirizzo e infine dalle parole “India Command”».
«Fu la seconda volta che lo vidi ubriaco», racconta sorella Ludmila, «che lui mi parlò di Colin. Gliel’ho detto, che c’era stato un simile episodio. Dopo la visita al tempio con lei, con la ragazza. Fu allora che mi disse quelle cose. Con lei non ne aveva mai parlato. Glielo chiesi, il giorno in cui venne a dirmi addio al Santuario: “Sa niente di un certo Lindsey?”. Lei ci pensò qualche istante e poi rispose: “No, mi dica”.
Però io le risposi che non era importante. E a quel punto non lo era più. Ma per lei forse lo è. Dopo tutto questo tempo. “L’ho visto”, mi disse il giovane Kumar, “o almeno mi è parso di vederlo mentre usciva dalla Imperial Bank e saliva su una camionetta dell’esercito sulla cui sponda posteriore era dipinto lo stesso stemma che c’era sulle mostrine dei soldati”. Ma non ne era sicuro. E perfino allora cercava di giustificarlo. A quel punto, capisce, con la guerra che i giapponesi avevano fatto arrivare alle nostre porte, l’India era già cambiata. Si respirava un’aria di segretezza e impeto militare, e il giorno in cui credette di avere visto Colin, Kumar tornò a casa aspettandosi di trovare una lettera in cui l’amico gli diceva: “Sono di guarnigione nei pressi di Mayapore, e a volte passo dall’acquartieramento. Dove possiamo vederci?”. Ma non c’era alcuna lettera. E così, col passare dei giorni, cominciò a pensare che l’uomo che aveva visto non fosse Colin. “Non è da Colin, trovarsi nei paraggi di Mayapore e non farmelo sapere. L’India non può avergli fatto questo. Non questo. Come può farlo a chiunque, men che meno a Colin?”.
Riesce a immaginarsela? La sensazione quotidiana di Kumar che se il postino non avesse portato alcuna lettera si sarebbe potuto verificare un incontro fortuito nella zona a nord del fiume? Ogni giorno prendeva la bicicletta e andava da Chillianwallah Bagh alla “Mayapore Gazette”, e a volte si recava a questo o quell’evento di cui doveva scrivere. E quella era un’altra cosa, un’altra cosa che mi disse. Il fatto di essere invisibile ai bianchi anche da giornalista. Andava a questo o quell’evento: il concorso equestre, il festival dei fiori, la parata delle Guide, gli eventi sportivi delle scuole superiori, le lauree o le partite di cricket del Technical College, la festa dell’ospedale. Conosceva di nome e di faccia ogni singolo civile inglese di una certa importanza e ogni indiano di una certa distinzione, ma loro non lo conoscevano, perché a quelle funzioni, lei capisce, c’era sempre quello che voi chiamate un responsabile o rappresentante stampa, e il giovane Kumar poteva rivolgersi soltanto a lui, e non sempre, poiché agli eventi importanti partecipava anche Mr Laxminarayan. “Oh, c’è stato un momento”, esclamò in quell’occasione, mi riferisco alla sua seconda ubriacatura, “in cui pensavo che mi sarei fatto un nome. Che i lettori della ‘Gazette’ avrebbero pensato: che bell’inglese! Davvero magnifico! Chi è questo giovane Kumar? Invece non sanno nemmeno come mi chiamo. Al massimo sono il ragazzo della ‘Gazette’. Il mio nome non viene mai stampato. In realtà nessuno sa che esisto. Sono solo un volto vagamente noto. Ma me lo merito. Lui mi usa. Laxminarayan. Certe volte mi tiene incatenato alla scrivania, a trasformare l’inglese dei babu in un inglese accettabile. Altre volte mi manda fuori. Ma mi tiene come un anonimo ingranaggio della sua anonima macchina. Un giorno ho sentito un inglese che gli diceva: ‘Insomma, Laxminarayan, che sta succedendo alla ‘Gazette’? A parte la rubrica di quel ‘Girovago’, non è più divertente’. Il mio direttore si è limitato a ridere. Non ha spiegato perché non è più spassosa. Me la fa pagare, capisce, per Vidyasagar, per tutto, per le sue stesse mancanze”».
«Fu a una di quelle occasioni», prosegue sorella Ludmila, «che Kumar rivide Lindsey. Lo rivide ed ebbe la certezza che fosse lui, essendo abbastanza vicino da riconoscerne le fattezze, l’espressione, i manierismi, la postura, tutto ciò che gli era rimasto impresso in modo indelebile come appartenente a Lindsey. Quale occasione? Non ricordo. Ma era febbraio, fine febbraio. E rammento che Kumar menzionò il maidan. Ce l’ho ancora ben presente, questa immagine che non appartiene ai miei ricordi ma a quelli di Kumar. Che ho ereditato da lui. E mi sembra quasi di esserci stata. Di esserci ancora. Verso sera, nel corpo di Kumar. Un volto scuro nella folla. Era una partita di cricket? Non saprei. Non lo capisco, il cricket. Ma capisco come verso sera, sul maidan, le razze si incontrassero con diffidenza e creassero un breve miscuglio che dall’alto, dal punto di vista di Dio, pareva meno informale di quanto sembrasse da terra, poiché dall’alto era possibile vedere la corrente bianca e quella scura come un mare da una scogliera, separato in flussi e ondate ma agli occhi di Dio sempre e soltanto acqua.
E Kumar vide Lindsey. Ah, quali segreti di mente e corpo avevano condiviso da ragazzi? Lui mi aveva parlato degli autunni inglesi. E anche questi riesco a vederli, a sentirli. E li riconosco, Kumar e Lindsey bambini, mentre corrono a casa attraverso i prati gelati e si scaldano le mani davanti al focolare, così come ricordo la benedizione di un paio di guanti in un freddo inverno e il modo in cui il fiato poteva trasformare una finestra e riempire il cuore di un calore diverso. Ah, che sensazione di sicurezza. Di microcosmico potere. Tradurre, ridurre, far svanire con un singolo alito le gelatine di frutta nei loro piccoli nidi di carta dai bordi di finto pizzo. Sapere che c’erano e non c’erano. Era una magia dell’anima. Ma far svanire Lindsey era una magia che Kumar non era in grado di fare, quella calda sera sul maidan. Lindsey lo guardò e poi passò oltre senza riconoscerlo, senza capire che in quegli indumenti da babu, sotto il topee preso al bazar, c’era una faccia scura che avrebbe dovuto riconoscere come diversa dalle altre».
Sono invisibile, disse Kumar, non solo ai bianchi poiché loro sono bianchi e io nero, ma anche al mio amico bianco, che non riesce più a riconoscermi tra la gente. “Sono tutti uguali”, è quello che pensa. E mi fa scomparire. Mi riduce a niente. Non è colpa sua. Ha ragione lui. Io sono un niente, un niente, un niente. Sono il figlio di mio padre, il cui padre se ne andò di casa con una ciotola per l’elemosina e un perizoma intorno ai fianchi dopo avere invocato la benedizione divina per i figli e affidato la moglie alle loro cure. Lei lo aveva seguito per un tratto, poi si era seduta sul ciglio della strada ed era tornata a casa a trascorrere il resto dei suoi giorni in una fantasia privata.
E così mi allontano dal maidan nei miei calzoni da bazar, nella mia camicia da bazar e col mio topee anglo-indiano in testa, sapendo di essere irriconoscibile perché sono un niente, e se venissi riconosciuto non sarei il benvenuto. E andandomene incrocio Vidyasagar. Anche lui è un niente. Il resto non lo ricordo. Fino a un certo punto sono rimasto lucido. Bevendo un liquore da strapazzo in una stanza senz’aria in una casa in un vicolo sulla nostra riva del fiume. E Vidyasagar che rideva e diceva agli altri che presto sarei diventato un buon indiano perché il liquore era distillato clandestinamente e lo stavamo bevendo alla faccia del governo. Gli altri erano giovani come Vidya, vestiti come lui in camicia e pantaloni uguali ai miei. Ma ricordo di averli aiutati a distruggere il mio topee, poiché era il marchio di tutti i leccapiedi del governo. Ricordo anche che loro continuavano a riempirmi il bicchiere. Volevano che mi ubriacassi. In parte per animosità, in parte per divertimento. In quella squallida stanzetta c’era disperazione, oltre che fervore.
«Solo in seguito scoprì che lo avevano riportato a Chillianwallah Bagh», dice sorella Ludmila, «e lasciato davanti al cancello di casa sua per evitare che venisse derubato o arrestato, pensando che sarebbe rientrato; invece lui si era allontanato di nuovo, riprendendo la strada verso il fiume e finendo sul terreno abbandonato. Lì doveva essere inciampato e caduto nel fosso, e mentre giaceva privo di sensi il suo portafogli era stato rubato da qualcuno che l’aveva adocchiato e pedinato.
“Chi è?”, chiesi a Mr de Souza. “Non lo so”, rispose lui, girandolo per controllare che non avesse ferite alla schiena e poi rimettendolo in posizione supina e illuminandogli il volto con la torcia. E questo è ciò che ricordo dell’inizio di Bibighar. Gli occhi chiusi, il ciuffo di capelli neri sulla fronte. Ah, che espressione torva! Che determinazione al rifiuto.
Lo caricammo sulla barella e lo portammo al Santuario. “Questo è solo sbronzo, sorella”, disse Mr de Souza. “Abbiamo dato rifugio a un semplice ubriaco”. “Per essere così ubriaco e così giovane”, risposi, “dev’essere anche infelice. Lasciamolo riposare”. E così lui riposò. E prima di dormire io pregai per la sua anima».