I
I militari

 

Brani scelti dalle memorie inedite del brigadiere A.V. Reid, DSO, MC: “Una vita semplice”.

 

Verso la fine di marzo del 1942, quando eravamo ancora a Rawalpindi e avevamo da poco avuto notizia che il nostro unico figlio Alan era disperso in Birmania, ricevetti l’ordine di recarmi a Mayapore e assumere il comando della brigata di fanteria che allora era ancora in fase di formazione in quella zona. La notizia dell’incarico mi venne comunicata al telefono dal generale “Tubby” Carter. Sarei dovuto partire al più presto, e Tubby sapeva che avrei avuto bisogno di tempo per dare la notizia a Meg, che non si era ancora ripresa e non avrebbe potuto accompagnarmi. Non avrei voluto lasciarla sola in un momento in cui sentivamo la morte nel cuore, sperando di ricevere notizie di Alan e al tempo stesso temendole. Dopo la telefonata con Tubby mi recai direttamente alla casa di cura e informai Meg dell’incarico che mi era stato assegnato.

Lei sapeva che in circostanze normali avrei accolto a braccia aperte l’occasione di riprendere a fare il soldato. Avevo cominciato a temere di dover passare il resto della guerra coi piedi sotto una scrivania, e quando anche nostro figlio aveva indossato l’uniforme suppongo che l’avessimo quasi accettato, insieme all’idea che a un certo punto età ed esperienza dovessero cedere il passo all’entusiasmo giovanile. Ma ora, con la sorte di Alan avvolta nell’incertezza, sembrava che una divinità comprensiva fosse intervenuta a ristabilire l’equilibrio e mi avesse chiamato a fare la mia parte, dandomi quanto meno la soddisfazione, se le notizie su Alan fossero state le peggiori possibili, di poter rispondere colpo su colpo al nemico.

Meg reagì alla notizia come aveva sempre fatto nei momenti di crisi e difficoltà: senza dare il minimo segno di pensare a se stessa. Nel vederla così pallida e malata avrei voluto poter chiamare Alan, facendolo entrare nella stanza sano e salvo e allegro come sempre, solo per veder sbocciare di nuovo le rose sulle guance di Meg. Sono grato che alla fine le sia stata risparmiata la notizia che Alan era morto lavorando alla famigerata ferrovia tra la Birmania e il Siam, notizia che per me avrebbe oscurato i giorni della Vittoria, ma anche che abbia vissuto abbastanza a lungo da condividere con me la speranza che si era ravvivata nei nostri cuori nel sapere che era stato fatto prigioniero e non era rimasto ucciso in combattimento come temevamo. Quando le dissi addio, alla vigilia della partenza per Mayapore, sentivo anche il peso della consapevolezza che erano tempi bui per il nostro paese. Che ci aspettava un compito molto difficile.

Arrivai a Mayapore il 3 aprile (1942) e cominciai subito a dedicarmi alla prima fase del mio compito, quella di trasformare l’(–esima) brigata di fanteria indiana in una macchina bellica ben addestrata con cui poter scendere fiduciosamente in battaglia e fare la propria parte in un teatro di guerra sul quale i giapponesi la stavano momentaneamente facendo da padroni. Non sarebbe stato un compito facile. Molti soldati erano inesperti, e le campagne circostanti, se potevano essere adatte a un normale addestramento, erano in realtà molto diverse dal terreno dove saremmo stati chiamati a confrontarci.

Ero già stato a Mayapore, molti anni prima. Lo ricordavo come un luogo delizioso, impreziosito da alcuni laghetti in una località chiamata Banyaganj che erano perfetti per la caccia all’anatra. La mensa degli artiglieri era un bell’esempio di architettura ottocentesca anglo-indiana, con una splendida vista sul maidan. Il caldo tendeva a diventare eccessivo da marzo in avanti, ma ci si poteva sempre rifugiare a Sud nel Mussoorie oppure a Nord nel Darjeeling. Non era neanche troppo distante da Calcutta, sicché, dovere permettendo, le opportunità di svagarsi non mancavano.

Non che questa volta nutrissi la minima illusione di potermi rilassare. C’era ovviamente una grossa differenza tra la guarnigione come poteva apparire a un giovane sottufficiale che aveva conosciuto da poco la ragazza della quale stava seriamente pensando di chiedere la mano e quella, per quanto identica, alla quale faceva ritorno quasi trent’anni dopo come ufficiale di comando in un momento in cui le fortune della sua patria erano in forte declino e in cui il paese al quale aveva dedicato la sua vita e che rappresentava il fondamento stesso dell’Impero aveva ottenuto considerevoli conquiste in materia di autogoverno e si trovava in pratica sulla soglia dell’indipendenza, un’indipendenza che per il momento era stata rinviata nell’interesse del mondo libero nel suo complesso.

Arrivavo a Mayapore con tutta la fiducia possibile nei riguardi delle truppe, pregando fervidamente di non risultare io stesso impreparato. Ero stato lieto di sentir dire a Tubby che c’era a disposizione un comandante di guarnigione che avrebbe sollevato lo stato maggiore dalle responsabilità amministrative del distretto, e anche che l’esattore (che in quella provincia “non regolamentata” era chiamato vicecommissario) era un uomo relativamente giovane benvoluto sia dagli europei che dagli indiani. In qualità di ufficiale di grado più alto, tuttavia, sapevo di essere io il responsabile ultimo della convivenza pacifica e del benessere sia dei soldati che dei civili, e l’ultima cosa che desideravo era lasciarmi coinvolgere nel genere di situazione che mi avrebbe distratto dall’incarico principale e costretto a impiegare i soldati in situazioni che con un minimo di accortezza si sarebbero potute evitare.

In considerazione delle crescenti agitazioni nel paese, una delle prima cose che feci al mio arrivo a Mayapore fu visitare il vicecommissario, Mr White, farmi spiegare la situazione del suo distretto e dirgli con franchezza che in prospettiva avremmo potuto risparmiare tempo ed energia se avessimo concordato di usare il pugno di ferro alle prime avvisaglie di problemi. Da parte mia, avevo già deciso di convocare a Mayapore il battaglione britannico della brigata (il –esimo Berkshire) e spostare il 4/5 Fucilieri di Pankot da Mayapore, dove si trovava al mio arrivo, nei pressi di Banyaganj, dove invece erano situati i Berkshire. Le ragioni erano due. I soldati britannici erano appena arrivati dall’Inghilterra e, sulla base di una prima ispezione, mi erano parsi meno che felici della loro sistemazione nei primitivi alloggi offerti da Banyaganj. Nei paraggi stavano costruendo un campo d’aviazione (che, mi ero accorto, aveva fatto sparire le anatre dai laghetti), e meno di un chilometro e mezzo separava il battaglione da quel luogo insalubre che era l’accampamento dei coolie. Vi erano in costruzione dei baraccamenti supplementari, ma molti uomini alloggiavano in tende, cosa che in aprile è tutt’altro che uno scherzo. Pur consapevole che fare distinzioni avrebbe potuto causare problemi, trovavo che a Banyaganj un Johnny Jawan si sarebbe sentito meno a disagio di un Tommy Atkins. In più, l’idea era che, trasferendo i Berkshire nella caserma di Mayapore, la loro presenza nell’acquartieramento avrebbe potuto agire da ulteriore deterrente contro possibili agitazioni civili, che volevo evitare a tutti i costi. Ad ogni modo, avevo deciso di usare soldati britannici nel caso i poteri civili avessero richiesto un intervento militare.

Trasferendo i Berkshire a Mayapore non ignoravo nemmeno l’effetto positivo che ciò avrebbe avuto sui nostri connazionali, uomini e donne che svolgevano lavori difficili in un tempo di crisi. Fu con questo in mente che ordinai l’istituzione di una Settimana dell’Esercito o della Guerra completa di banda militare per la fine di aprile, manifestazione che si tenne sul maidan e venne giudicata un gran successo. Sento di poter dire senza peccare di immodestia (poiché l’idea era stata mia, ma il merito della sua realizzazione va agli organizzatori e ai partecipanti) che l’eccitazione e il conforto arrecati a Mayapore dalla Settimana della Guerra riuscirono a distogliere l’attenzione dal fatto che la delegazione del gabinetto che Sir Winston, ai tempi ancora Mr Churchill, aveva inviato a Delhi, nel tentativo di mettere fine all’impasse tra il governo britannico e quei politici indiani che sostenevano di rappresentare il loro popolo e pretendevano misure ancora più radicali di autogoverno, non era riuscita a stringere alcun ragionevole accordo. Era nota come la Missione Cripps, dal nome del suo responsabile, Sir Stafford Cripps, il ministro socialista che in seguito sarebbe diventato cancelliere dello Scacchiere quando, dopo la guerra, la nostra isola pensò bene di ringraziare l’artefice della nostra vittoria bellica cacciandolo dal governo. Fu dopo il fallimento della Missione Cripps dell’aprile 1942 che Mr Gandhi lanciò la sua celebre campagna denominata “Quit India”, ‘Lasciate l’India’, che naturalmente a noi suonava come un invito all’imperatore del Giappone ad accomodarsi e assumere le redini di governo.

Sfortunatamente White, il vicecommissario, non mi parve del tutto consapevole della situazione che a mio modo di vedere ci si sarebbe presentata se avessimo continuato a permettere ai caporioni indiani di opporsi allo sforzo bellico e incitare le masse a adottare una politica che Mr Gandhi chiamava di non-collaborazione non-violenta e che avrebbe potuto immobilizzare il paese. White sembrava convinto che, quando parlava di non-collaborazione non-violenta, il Congresso Nazionale Indiano intendesse davvero qualcosa di pacifico. Evidentemente aveva più fiducia del sottoscritto nella capacità di una folla di dimostranti di resistere all’isteria in grado di trasformarla in un attimo in una bolgia inferocita intenzionata a vendicarsi di chissà quale atto di brutalità perpetrato dalla polizia o dai militari. In realtà non sembrava prevedere dimostrazioni di massa, a meno che non fossero organizzate allo scopo di fare satyagraha sfidando le leggi sulla Difesa dell’India e costringendo le autorità a compiere arresti di massa e riempire le carceri fino a farle traboccare. Il mio primo incontro con White si svolse prima che Mr Gandhi lanciasse la sua campagna, ma in un momento in cui era già chiaro che la missione del Gabinetto guidata da Cripps non stava giungendo ad alcun accordo riguardo al modo in cui i leader indiani avrebbero potuto riconoscersi meglio negli interessi della nazione. White sembrava ancora sperare che si potesse giungere a una soluzione in extremis. Da parte mia, non mi facevo illusioni. Era dall’inizio della guerra contro la Germania che i rapporti tra noi e gli indiani si stavano deteriorando. Allo scoppio delle ostilità, alcuni membri dell’assemblea centrale del Congresso avevano abbandonato le loro poltrone per protestare contro l’invio di truppe indiane in Medio Oriente e a Singapore, e i ministeri provinciali del Congresso si erano sciolti perché il viceré aveva dichiarato guerra senza consultarli. Qualunque fossero stati i nostri errori passati, il soldato semplice che era in me, dotato di una rudimentale visione politica, non poteva fare a meno di pensare che i sinceri sforzi che avevamo compiuto negli anni precedenti la guerra per dare più potere agli indiani non avevano fatto che rivelare con chiarezza che essi non avevano una maturità politica sufficiente a facilitare le concessioni necessarie all’autonomia. La legge del 1935, che prevedeva un governo federale centrale in grado di rappresentare tutti i ceti sociali indiani e governi statali eletti nelle province, sembrava a un uomo come me, che aveva tutto da perdere e niente da guadagnare da un’India indipendente, un concetto nobile e degno di uno statista, di cui la Gran Bretagna avrebbe potuto andare fiera a conclusione di un glorioso capitolo della sua storia imperiale. Sfortunatamente, però, aveva causato solo un gran lotta di potere, e l’idea del governo centrale federale si era risolta nel nulla. Osservando il parapiglia, e assistendo alle liti tra indù, musulmani, sikh, principi e tutti gli altri, non ci si poteva sottrarre all’impressione che a posteriori tutti gli appelli alla libertà fossero vacui. Il Congresso, per esempio, ammetteva apertamente di essersi insediato nelle province nel 1937 per provare che il programma federale era inapplicabile a livello centrale e che soltanto loro rappresentavano l’India. Sfortunatamente, questa loro convinzione, di essere cioè la maggioranza democratica, sembrò trovare conferma, quanto meno sulla carta, con il trionfo alle elezioni che si tennero prima del loro insediamento. Comunque sia, si sarebbe potuto pensare che due anni di amministrazione provinciale senza quasi alcuna interferenza da parte dei governatori, a cui il governo centrale e la Corona avevano ordinato di limitarsi a osservare, avrebbero formato degli statisti; ma le dimissioni generali dopo la dichiarazione di guerra, che costrinsero i governatori a riassumere personalmente il controllo delle province, vennero viste da molti dei miei connazionali, la cui preoccupazione principale era ormai quella di proteggere la madrepatria e combattere la tirannia, come la prova che a livello di responsabilità politica non era stato imparato un bel niente, e che pertanto non avremmo più potuto contare sul fatto che gli indiani “illuminati” rivelassero una visione più ampia dei rischi reali che stava correndo il mondo libero.

Penso sia corretto affermare che giungemmo a questa conclusione con riluttanza, e che la prova delle nostre residue speranze nella libertà dell’India e della nostra disponibilità a dimostrarci pazienti fino al punto di rottura sia il fatto che perfino nell’ora più buia, quella della sconfitta nel Sudest asiatico, su iniziativa di Mr Churchill fummo di nuovo noi a fare il primo passo per dare un’altra possibilità agli indiani, il che era ben più di ciò che avrebbe fatto Hitler e di quanto ci si potesse aspettare dai giapponesi. Ci era diventato chiaro, tuttavia, che personaggi come Gandhi ci avevano ormai fiutati e avevano cominciato ad abbaiare, incuranti delle fameliche orde gialle che avevano fiutato loro e in verità noi tutti. Il 6 aprile qualche bomba cadde su Madras, ma nemmeno questo parve far rinsavire gli indiani: anzi, davano la colpa più a noi che al nemico! Ispirati da Mr Gandhi, si erano fatti l’idea che tra India e Giappone non vi fossero problemi e che, se i britannici se ne fossero andati, i giapponesi non li avrebbero attaccati. Poco tempo dopo, questo è vero, Mr Gandhi avrebbe gentilmente concesso all’esercito britannico di restare in India e usarla come base per combattere i giapponesi, e avrebbe promesso che in porti come Bombay e Calcutta non ci sarebbero stati disordini a interrompere il flusso di armi e materiale bellico... naturalmente a condizione che allora avessimo lasciato il paese nelle sue mani e in quelle dei suoi colleghi! Considerando la situazione dal punto di vista dello stato maggiore giapponese, non era facile capire quale fosse, nella sua mente, la differenza strategica tra l’abbandono del governo dell’India e il suo uso continuato come base militare. Per molti di noi, le sue curiose teorie venivano finalmente smascherate per quello che erano: i sogni irrealizzabili di un uomo che credeva che tutti fossero, o dovessero essere, ignoranti e innocenti come lui. C’erano momenti, tuttavia, in cui si faceva fatica ad applicare questa benevola giustificazione ai suoi discorsi e ai suoi scritti.

Guardando il maidan dalla finestra della mia camera nella vecchia mensa degli artiglieri, o percorrendo in auto l’acquartieramento di Mayapore, non potevo fare a meno di sentirmi orgoglioso degli anni di dominio britannico. Anche in quei giorni turbolenti, le attrattive dell’acquartieramento ti aiutavano a tenere a mente tutto ciò che c’era di calmo, di saggio, di durevole. Bastava attraversare il fiume ed entrare nella città nativa per vedere come nei nostri centri abitati avessimo dato l’esempio da seguire, stabilendo dei criteri di vita civile che un giorno gli indiani avrebbero ereditato. Sembrava strano pensare che nell’imminente battaglia per evitare che tutto ciò cadesse nelle mani dei giapponesi gli indiani non fossero dalla nostra parte.

Ricordavo ancora con chiarezza gli anni che avevo trascorso a Mayapore da giovane, facendo fare esercizio a Rajah sul maidan e allenandomi a polo con Nigel Orme, che era l’aiutante di campo del generale Grahame e che avrebbe ottenuto una croce di Vittoria postuma a Passchendaele. Rajah, come forse i lettori ricorderanno di aver letto in un capitolo precedente, era il primo pony da polo di mia proprietà, e Nigel Orme, sebbene mi fosse superiore sia di grado che di anzianità di servizio, era uno degli amici migliori e più sinceri che avessi mai avuto. Era come se il destino mi avesse richiamato nel luogo in cui avevo avuto la prima percezione dell’India, in cui avevo capito che qualunque successo o fallimento mi aspettasse nella professione che avevo scelto, avrei sempre provato un senso di appartenenza a questo paese e di identificazione con quelle che erano le nostre aspirazioni per esso. Ricordavo Meg nello stesso modo in cui allora, molti anni prima, occupava i miei pensieri: così tranquilla, padrona di sé, gentile, generosa, sempre pronta al sorriso, ai miei occhi la ragazza più bella del mondo. E pensavo a nostro figlio Alan, e a nostra figlia Caroline, che grazie al cielo si trovava a Toronto da sua zia Cissie, al sicuro dalla minaccia giapponese. Loro erano davvero i miei ostaggi alla fortuna, e sembrava che il nostro caro ragazzo ci fosse già stato sottratto a parziale pagamento. Più di qualsiasi altra cosa al mondo speravo nella vittoria delle nostre forze, nella buona salute e felicità di Meg e nella possibilità di riunirmi con lei, la cara Caroline e il giovane Alan. Non penso che si possa rinfacciare a noi vecchi soldati se in quel momento provavamo amarezza nel vedere che il paese che aveva beneficiato in così tanti modi del governo britannico sembrava deciso a ostacolare i nostri sforzi di evitarne l’invasione, e proprio quando avevamo bisogno di tutte le nostre forze per farlo. Riflettendo su queste cose al livello in cui mi chiamavano personalmente in causa, non potevo fare a meno di rimpiangere che non mi si permettesse di concentrarmi sul mio incarico principale, lasciando che fossero i politici a cavarsela nei loro modi misteriosi. Ma ero consapevole che non poteva succedere. Ero responsabile della brigata, ma anche della sicurezza delle nostre donne e dei nostri bambini e della pace nel distretto. Quelli tra noi che avevano contatti ai “piani alti” sapevano che l’opinione lassù era che dovessimo aspettarci gravi problemi tanto dall’interno quanto dall’esterno; dal nemico nell’accampamento così come da quello alle sue porte; e che non era del tutto impossibile che il Congresso stesse pianificando il genere di aperta ribellione che avrebbe potuto degenerare in una campagna di terrore, sangue e guerra civile come non si vedeva dai tempi dei Moti. Gli eventi a venire avrebbero dimostrato che i nostri timori erano fin troppo fondati. Prima della fine dell’estate il paese si sarebbe ritrovato nella morsa della ribellione, e a Mayapore i disordini ebbero il peggiore degli inizi. Fu proprio in quel delizioso, vecchio distretto che vennero perpetrate due ignobili aggressioni ai danni di altrettante donne inglesi, a distanza di poche ore l’una dall’altra: della prima fu vittima un’anziana insegnante della missione, Miss Crane; della seconda una giovane donna, Daphne Manners, a cui fu usata violenza in un luogo chiamato giardini di Bibighar.

Sebbene sulle prime il signor vicecommissario White e io non ci fossimo “presi”, come si dice oggigiorno, cominciai presto ad ammirare la sua tenacia. Non avevo alcun dubbio sul suo coraggio fisico, e reputavo a ragione che non avrebbe mai permesso alle proprie possibili riserve personali nei riguardi delle politiche governative di impedirgli di applicarle com’era suo dovere. Per fare un esempio, quando gli chiesi con franchezza come avrebbe agito se avesse avuto l’ordine di arrestare i membri del sottocomitato locale del Partito del Congresso (sapevo che ai responsabili dei distretti era stato raccomandato di tenere d’occhio coloro la cui rapida incarcerazione avrebbe potuto fermare la marea della ribellione), lui rispose soltanto: «Be’, lo farei, naturalmente», aggiungendo però: «Pur sapendo che sarebbe la cosa peggiore che potremmo fare».

Gli chiesi il motivo di una simile opinione. «Perché gli uomini che dovrei arrestare sono quelli che credono sinceramente nella non-violenza», rispose, «e che hanno il potere di condurre la folla al sacrificio invece che all’aggressione. Mettendoli al fresco, si consegnerebbe la massa a leader di genere molto diverso».

Non ero d’accordo, ma riconoscevo la sincerità delle sue convinzioni. Per me, la satyagraha di massa era quasi altrettanto pericolosa dell’aperta rivolta. Naturalmente gli chiesi cosa sapeva o si proponeva di fare nei riguardi dei capipopolo pronti a prendere il posto dei membri del Congresso in cui riponeva così tanta fiducia. «Be’, nel loro caso è come cercare degli aghi nei pagliai», mi disse. «Alcuni sono personaggi noti, e quelli li si può arrestare. Ma gli altri resterebbero a piede libero, e tra loro probabilmente ci sarebbero i più abili, quelli che lo sono stati abbastanza da restare nascosti. Si potrebbe passare una vita a compilare un dossier segreto e lasciarsi comunque sfuggire i personaggi-chiave, poiché non sono noti né al Congresso né a noi. Non hanno niente a che vedere col Congresso. Sono giovani o uomini di mezz’età col chiodo fisso dell’indipendenza, convinti che il Congresso sia formato da leccapiedi del Raj. E chi ha una vita da sprecare alla ricerca di aghi come quelli in un pagliaio come questo? Non è meglio lasciare il controllo della popolazione a coloro che non hanno niente da guadagnare dalla violenza e che sono in grado di controllarla e indicare la via della vera satyagraha?».

Gli dissi che probabilmente ciò che diceva era sensato, a patto che ci si fidasse del concetto di base di non-violenza, che personalmente consideravo una fandonia. Quando insistetti a saperne di più, White ammise che quelli che lui chiamava “aghi in un pagliaio” li lasciava gestire dal suo sovrintendente di polizia, un certo Merrick, che avevo conosciuto in una precedente occasione e che mi era istintivamente piaciuto.

Malgrado le posizioni di White mi lasciassero qualche dubbio sulla determinazione che ci si sarebbe potuti aspettare dalle autorità civili in caso di problemi, ero sicuro di poter contare sull’azione rapida ed efficace della polizia.

Le opinioni di White erano del tutto “moderne”, tipiche delle amministrazioni di nuovo stampo degli anni Trenta che per risolvere qualsiasi problema sentivano di dover prendere in considerazione ogni idea, anche le più traballanti. Il giudice era un indiano di nome Menen, un indiano della vecchia scuola, potei notare con gioia, ma alquanto indipendente, in perfetto stile giudiziario. Del triumvirato solo il giovane Merrick, il sovrintendente di polizia, sembrava sfruttare di buon piglio le maggiori libertà di azione concesse alle autorità distrettuali dall’uscita del Congresso dalle province.

Organizzai un apposito incontro con Merrick e lo informai che contavo sul fatto che avrebbe agito a sua discrezione, soprattutto nei riguardi di quelli che il vicecommissario aveva definito “aghi in un pagliaio”. Gli dissi con schiettezza che avevo una brigata da comandare e addestrare al combattimento contro il nemico alle porte e non, se potevo evitarlo, contro quello interno. Gli sarei stato grato, aggiunsi, se si fosse occasionalmente esposto di persona. Non mi ero sbagliato a giudicarlo: era abbastanza giovane da reagire alle questioni semplici con il giusto miscuglio di probità ed entusiasmo. E non potei fare a meno di ammirarne la schiettezza. Proveniva, mi disse, da “un ambiente borghese molto ordinario”. Quella nella polizia indiana gli era sembrata la sola occupazione che faceva al caso suo. Sapevo cosa intendeva, e apprezzavo la sua totale assenza di arroganza. Il lavoro del poliziotto è sgradevole, ma qualcuno lo deve pur svolgere. Ora che eravamo in guerra contro l’Asse, rimpiangeva di avere scelto un servizio che gli impediva di indossare un’uniforme diversa. Arrivò perfino a chiedermi se non potessi mettere una buona parola per il suo arruolamento, “anche da soldato semplice”. Pensando ad Alan, a cui assomigliava fisicamente, ne apprezzavo i sentimenti patriottici, ma non potevo aiutarlo. E in ogni caso capivo che nella situazione corrente era più prezioso al suo paese come capo della polizia locale di quanto lo sarebbe stato da inesperto sottufficiale, men che meno da soldato semplice. Mi promise che avrebbe soddisfatto la mia richiesta e mi avrebbe tenuto informato, sub rosa, sul clima politico del distretto.

Dopo avere parlato con White e con Merrick, sentivo che per il momento avevo fatto tutto quello che potevo per prendere tempo e dedicarmi al mio lavoro senza dovermi distrarre troppo spesso con le minacce locali alla nostra sicurezza. In ogni caso, l’arrivo del mio terzo battaglione (il –esimo Ranpur) mi teneva già abbastanza occupato. Originariamente mi era stato promesso un battaglione di sikh, ma uno proveniente dal mio vecchio reggimento era, inutile dirlo, un grande incoraggiamento in più per il morale. Portai una compagnia di Ranpur nella caserma di Mayapore (sollevando così i Berkshire di una parte dei loro doveri) e inviai le restanti compagnie e il quartier generale nella zona di Marpuri, a nord-ovest di Mayapore, un’area che avevo scelto come la migliore delle due proposte dal mio stato maggiore. Ora che le mie truppe erano al completo, potevo davvero cominciare il mio lavoro.

 

I Berkshire si stavano adattando bene. Il trasferimento da Banyaganj all’acquartieramento aveva avuto successo. La vecchia caserma accanto alla mensa degli artiglieri era spaziosa e fresca, e gli uomini apprezzavano il lusso inconsueto di potersi avvalere, entro i limiti del ragionevole, della servitù nativa assegnata alla caserma, formata in prevalenza dai figli degli uomini che avevano servito la precedente generazione di soldati inglesi. Erano anche più vicini agli intrattenimenti domestici prontamente offerti dalle nostre signore. Erano molti anni che a Mayapore non era di guarnigione un reggimento di fucilieri, ma ai suoi tempi la mensa degli artiglieri era famosa, e per questo il nome era rimasto. Negli ultimi tempi, Mayapore aveva ospitato una scuola per ufficiali senza nomina regia e, nei mesi freschi dell’anno, la guarnigione Pankot. Dallo scoppio della guerra era praticamente diventata una stazione di sosta per la brigata. Sfortunatamente, dal punto di vista del mio stato maggiore, al mio arrivo il colonnello comandante della scuola ufficiali, che fungeva anche da comandante di guarnigione, era in licenza per malattia (licenza che poi si sarebbe rivelata permanente, poiché la scuola venne trasferita nel Punjab), e mi aveva lasciato in eredità, quanto meno sulla carta, il ruolo di comandante di guarnigione. L’ufficiale di stato maggiore, che riuscii a trattenere, avrebbe dovuto svolgere gran parte del lavoro che di norma sarebbe toccato al comandante di guarnigione, ma era un ufficiale venuto dalla gavetta e un gran lavoratore.

Avevo scelto di sistemarmi alla mensa degli artiglieri e non nell’alloggio che mi era stato messo a disposizione non solo perché la mia povera Meg non avrebbe potuto raggiungermi e trasformarlo in casa nostra, come aveva fatto così spesso e in parti così diverse dell’India, ma anche perché volevo essere sempre pronto a intervenire, in una posizione dalla quale avrei potuto far rigare dritto i miei uomini. I locali della vecchia suite per gli ospiti affacciata sul maidan erano spaziosi ma semplici. Lì, nel salottino che avevo trasformato in ufficio, potevo trovare rifugio dalle pressioni della routine e riflettere sulle soluzioni migliori ai molti problemi che mi si presentavano. Ma fu proprio in quella stanza, verso la fine di giugno, quando le piogge erano appena cominciate, che Tubby mi telefonò con la notizia che Alan era prigioniero dei giapponesi. Chissà come, avevo proseguito a sperare che il mio ragazzo sarebbe tornato in India sano e salvo insieme a uno dei gruppi di soldati e civili che riuscivano a rientrare, sfidando mille avversità ed enormi privazioni, per essere restituiti a coloro a cui più mancavano. Chiesi a Tubby la cortesia di informarne Meg. E Tubby si dimostrò di nuovo un vero amico malgrado la sua superiorità di rango, sempre pronto a usare la sua carica per il bene di un vecchio commilitone. Mi ordinò di rientrare a Rawalpindi, così da poter dare io stesso la notizia a mia moglie. Nel giro di neanche trentadue ore dalla sua telefonata ero di nuovo al capezzale di Meg.

Né lei né io ci facevamo illusioni su cosa potesse significare essere prigionieri dei giapponesi, ma ci consolavamo al pensiero che Alan fosse vivo e, se conoscevamo nostro figlio, probabilmente combattivo. Parlando di lui con Meg mi rendevo conto che il sollievo era dovuto alla possibilità di pensare a nostro figlio al presente e non al passato. Quella sera Tubby si presentò alla casa di cura con una bottiglia di champagne. In circostanze normali sarebbe forse parso sbagliato bere champagne mentre nostro figlio stava probabilmente soffrendo, ma Tubby mise tutto in prospettiva levando il calice e invitandoci a brindare al ritorno di Alan sano e salvo. Fui fiero di Meg quando alzò il bicchiere anche lei, limitandosi a dire: «Per Alan», sorridendo come se fosse presente anche lui e stessimo brindando a un’occasione lieta. Nelle poche, lunghe settimane della nostra separazione, Meg sembrava peggiorata in modo allarmante. Continuava a dimagrire, e i suoi occhi avevano perso la loro lucentezza. A un tratto mi resi conto che Tubby non mi aveva richiamato a Rawalpindi solo per informarla della cattura di Alan, ma perché potessi prepararmi a ricevere una notizia ancora più grave.

Dopo avere dato la buonanotte a Meg, Tubby mi condusse nello studio del colonnello “Billy” Aitken e mi lasciò da lui. «Temo che non ci siano più dubbi», mi disse Billy. «Meg ha il cancro». Conoscevamo Billy da anni. Da civile sarebbe potuto arrivare alle vette più alte della sua professione e diventare ricco, ma, come ripeteva spesso, preferiva dedicarsi alla cura dei suoi compatrioti, uomini e donne, che conducevano esistenze ordinarie svolgendo spesso lavori noiosi e poco gratificanti all’estero piuttosto che avere uno studio in Harley Street e prescrivere placebo alle eleganti e nevrasteniche signore della buona società. «Quanto le resta?», gli chiesi. Per un momento ci guardammo negli occhi, e lui capì che avrei preferito sapere la verità. «Forse sei mesi, forse tre, forse meno. La opereremo, ma il risultato non cambierà». Poi mi lasciò solo, cosa di cui gli fui grato. Facevo fatica a credere che nel giro di pochi minuti fossi stato costretto a adattarmi all’idea che la mia cara Meg dovesse essermi strappata da un destino ancora più crudele di quello che ci aveva strappato Alan. Se non altro, Alan aveva avuto la soddisfazione di rispondere al fuoco. Credo che fu in quel momento, seduto da solo nello studio di Billy Aitken, che capii che non avrei più rivisto nemmeno mio figlio.

Billy e Tubby ricomparvero insieme e mi condussero negli alloggi di Billy. Tubby mi chiese se volessi rinunciare al mio comando e rientrare a Rawalpindi. Mi fece capire che si stava liberando un posto che poteva essere mio, se l’avessi voluto, e che mi avrebbe portato alla nomina a generale di divisione. Gli chiesi tempo per riflettere. Al circolo era stata prenotata una stanza per me. Mi riaccompagnarono lì, e quella notte mi sforzai di dormire così da essere più lucido il mattino dopo al risveglio. Fu il giorno seguente che feci a Billy la domanda più importante e che la sera prima avevo dimenticato di porgli: se Meg fosse al corrente della gravità del suo male. Lui rispose che non glielo aveva detto, ma che era certo che se ne fosse resa conto. «Non dirle niente», lo pregai, e in quel momento lui capì che la mia decisione era presa: sarei tornato alla mia brigata, e l’avrei fatto al più presto, per evitare sia a Meg che a me stesso di dover fingere più a lungo di quanto fossimo capaci di fare. Sapevo che era quello il mio dovere. E sapevo anche che era quello che Meg avrebbe voluto per entrambi. Un uomo non può adottare un modo di vita senza accettarne le responsabilità. In quel momento era difficile accettarle, ma a sostenermi era la convinzione che Meg avrebbe compreso la mia decisione e ne avrebbe ricavato forza. Malgrado questo, il nostro addio fu tutt’altro che facile. Più tardi, sul volo per Calcutta dove Tubby mi aveva rimediato un posto, riflettei che sarebbe stato più semplice se Meg mi avesse chiesto di non tornare a Mayapore. Tra noi sembrava gravare il peso enorme di tutte le cose che non ci eravamo mai detti. Prima che partissi Tubby promise che mi avrebbe richiamato per essere accanto a Meg nei momenti finali, ma ciò si sarebbe rivelato impossibile. Non farò più il suo nome in queste pagine. Addio, cara Meg, moglie adorata e madre dei miei figli. Se Dio vorrà, ci ritroveremo in un luogo più felice.

 

Avevo stabilito che dall’inizio dei monsoni il nostro addestramento avrebbe dovuto procedere il più possibile senza interruzioni. Grazie a pressioni costanti negli ambienti giusti, ero riuscito a ottenere che anche l’ultima compagnia dei fucilieri di Pankot di stanza a Banyaganj si trasferisse dalle tende alle baracche prima che cominciassero le piogge. I Ranpur a Marpuri furono meno fortunati, ma se da un certo punto di vista tendevano a essere un po’ fradici, lo stesso non si poteva dire del loro morale.

A luglio cominciammo l’addestramento sul campo, e mi sentii rincuorato dall’entusiasmo con il quale le truppe affrontarono la sfida di uscire sul campo anche quando il “nemico” era solo immaginario. Il mio maggiore di brigata, il giovane Edward Mackay, dimostrò di valere tanto oro quanto pesava. Era un soldato dell’esercito regolare, e il suo entusiasmo era contagioso. Si diffuse in tutto lo stato maggiore della brigata. Allegro, efficiente e sportivo (con un talento speciale per il tennis), Mackay era anche un soldato coscienzioso e sapeva essere severo. Più in là nel corso della guerra avrebbe comandato con coraggio e distinzione il 2° Guide di Muzzafirabad, il suo vecchio reggimento. La sua graziosa moglie Christine, figlia maggiore del generale “Sporran” Robertson, era con lui a Mayapore, dove svolgeva il ruolo di padrona di casa con charme e grazia. Christine ed Ewart mi invitavano spesso nel delizioso bungalow che occupavano in Fort Road, ed era Christine a organizzare le cenette che in circostanze diverse sarebbero state date da un’altra e ancora più amata cara donna.

Pur rincuorato dalle due “uscite” di luglio in cui avevamo potuto mettere alla prova la mobilità e il livello di coesione della brigata, non potevo altresì perdere di vista il suo ruolo nel mantenimento dell’ordine locale. Non mi era sfuggito che, portando fuori i miei uomini e facendo sfoggio di forza militare (dimostrazione che avrebbe fatto più colpo sugli ignari che sugli informati), non potevo non impressionare una popolazione sempre più vittima della propaganda antibellica del Congresso. Uno degli aspetti più spregevoli di questa propaganda era la fandonia diffusa ad arte che nel corso della ritirata dalla Birmania e dalla Malesia le autorità si fossero mostrate indifferenti alle sorti dei soldati indiani e delle popolazioni native. Per chiunque conoscesse come me l’affetto che l’ufficiale inglese provava per i suoi sepoy e per gli ufficiali nativi privi di nomina regia, il quadro fantasioso dipinto dal Congresso di soldati indiani abbandonati senza alcun comando alla mercé del nemico e di gruppi di militari nativi e abitanti dei villaggi scaraventati giù dai camion, dai treni o dai traghetti per dare la precedenza ai “bianchi in fuga” era assolutamente ridicolo.

Fu a metà luglio che il mio comandante di divisione e di zona mi informò che le autorità civili locali avevano ricevuto l’ordine segreto dai governatori delle province di combattere con ogni possibile mezzo i veleni sparsi dall’insidiosa, mendace propaganda del Congresso Nazionale Indiano. E fu in questa occasione che chiesi un ulteriore incontro con il vicecommissario.

A mio modo di vedere, White era una vera e propria incognita. Quelli di cui ero sicuro erano la polizia e i nostri fedeli soldati dell’esercito indiano. Ogni singolo Berkshire era stato addestrato a intervenire in difesa dell’ordine pubblico, e le pattuglie e le squadre antisommossa erano pronte a entrare in azione al primo segno di disordini. I ragazzi inglesi che le formavano, e che in molti casi fino a poco più di un anno prima indossavano loro stessi abiti civili e avevano solo una vaga idea di cosa significasse amministrare i possedimenti imperiali all’estero, trovavano gli addestramenti alla difesa dell’ordine pubblico alquanto farseschi, per non dire sconcertanti, alla luce delle vite che i loro compatrioti avevano perso per proteggere l’India dalle tirannie naziste e giapponesi; tuttavia si abituarono rapidamente ad accettare quel possibile ruolo come un’ulteriore missione da compiere. Quando feci il mio discorso sugli aiuti militari alle autorità civili, mi rivolsi a quel battaglione di giovani inglesi “moderni” citando i versi immortali del poeta soldato Rudyard Kipling:

 

...è Tommy questo, e Tommy quello, e

«Tommy, resta indietro»,

ma è «Prego, signore, vada avanti lei»

quando tira aria di guai...

 

E suppongo che uno psicologo direbbe che non avrei potuto scegliere modo migliore di spiegar loro la situazione.

Si potrebbe dire che l’idea di base che sta dietro alle esercitazioni per la repressione di disordini civili sia molto semplice: nell’eventualità che la folla non batta in ritirata al cospetto di una forza militare perfino superiore a quella della polizia, la perdita di una vita tra i sobillatori equivale al risparmio di innumerevoli altre vite. Ma ci sono state occasioni, nella nostra storia, nelle quali, sul campo, questa equazione si è rivelata molto meno semplice che sui libri di testo. Mi riferisco ovviamente alla cause célèbre del generale Dyer, che nel 1919 ad Amritsar si era trovato in una situazione non dissimile da quella che io stesso anticipavo per il 1942.

Nel 1919, come nel 1942, il paese ribolliva di tensioni, e tutti i segni sembravano indicare un’aperta ribellione su una scala paragonabile ai Moti del 1857. Ricevuto l’ordine di recarsi ad Amritsar, Dyer era giunto a una conclusione che gli storici, fortificati dal senno di poi su cui hanno la fortuna di poter sempre contare, hanno definito fatale: la conclusione, cioè, che Amritsar fosse al centro di un’imminente rivolta armata che avrebbe potuto rivelarsi devastante per la nostra gente e le nostre proprietà e causare la fine del nostro dominio imperiale. Saputo che era stato indetto un raduno in un ampio piazzale chiuso chiamato Jillianwallah Bagh, Dyer lo aveva proibito con un proclama verbale e scritto, conformemente alle leggi in vigore. Ma il proclama era stato sfidato e i suoi avvertimenti ignorati. Dyer aveva preso personalmente il comando delle truppe incaricate di disperdere il raduno. Quando anche il suo ordine di disperdersi venne disatteso dalla folla, il generale fece aprire il fuoco. Dal punto di vista militare, Jillianwallah Bagh fu una trappola mortale e molti, tra cui donne e bambini, vi restarono uccisi.

A partire dal caso Dyer, che i “riformatori” avevano usato come pretesto per bacchettarci, l’esercito era ovviamente diventato ipersensibile a quel genere di situazioni, e ora ci trovavamo nell’infelice posizione di essere praticamente costretti in una sorta di camicia di forza.

In primo luogo, a meno che le autorità civili fossero cadute o per qualsiasi altro motivo non fossero operative e si fosse reso necessario proclamare la legge marziale, le forze militari potevano intervenire solo ricevendo richiesta scritta da parte del potere civile, di solito la maggiore autorità civile di zona. Una simile richiesta di aiuto era in un certo senso un semplice avvertimento a tenersi pronti.

Per esempio:

 

Per: Com. Esercito

Sono giunto alla conclusione che le Autorità Civili non sono in grado di controllare la situazione e che si rende necessario l’intervento dell’esercito. Richiedo pertanto tale intervento.

 

Luogo:

Data:              Ora:                  Firma:

                                                Carica:

 

Immaginiamo ora che, ricevuta una richiesta simile, io avessi a disposizione un plotone di fanteria. L’autorità civile avrebbe potuto chiedere il mio aiuto in una situazione in cui i disordini fossero imminenti o già in corso. Diciamo, ad esempio (usando uno dei molti incidenti che si verificarono a Mayapore nell’agosto del 1942), che una folla minacciosa si fosse assembrata davanti al tempio indù principale, nella piazza dove, attraversato il fiume sul ponte di Mandir Gate, sfociava la strada proveniente dal quartiere residenziale.

Il plotone dei Berkshire, arrivato di gran carriera sulle camionette dal quartier generale del distretto, scese dai mezzi a circa duecento metri dalla folla che stava attraversando il ponte e si schierò rapidamente a formare un quadrato (poiché su entrambi i lati della strada vi erano botteghe e fabbricati i cui tetti e le cui finestre rappresentavano un pericolo per fianchi e retroguardia). Al centro del quadrato formato dalle sezioni del plotone si trovava il seguente personale:

 

Comandante di plotone

Rappresentante della polizia

Magistrato

Trombettiere

Portabandiera

Attendente medico

Sergente di plotone

Attendente radio

Diarista.

 

Il significato del termine “aiuto” si chiarisce meglio ricordando che oltre al comandante di plotone era anche presente un magistrato. In quel caso il magistrato in questione era un certo Mr Poulson, che era anche l’assistente capo del vicecommissario.

Nell’esempio che stiamo considerando, le operazioni si svolsero in tre fasi distinte. La prima potremmo definirla fase di “prova”, la seconda di “decisione” e la terza di “azione”, conseguenza logica della decisione.

La fase di prova ebbe inizio con l’ordine dato dal comandante del plotone al trombettiere per avvertire la folla della presenza di una forza legale di opposizione. Dato il segnale di avvertimento, il primo portabandiera issò l’insegna che riportava gli ordini in inglese e in lingua nativa. L’ordine era quello di disperdersi. In certi casi ciò bastava perché la folla obbedisse. Dopo che la prima insegna era stata alzata, il trombettiere suonava una seconda nota e il comandante del plotone, se lo reputava necessario, faceva issare una seconda insegna con l’esplicito avvertimento, di nuovo in inglese e in dialetto locale, che se la folla non si fosse dispersa si sarebbe ricorsi all’uso della forza. Poiché di solito la gente faceva un baccano tremendo, non si poteva contare sul fatto che gli avvisi verbali venissero uditi: da qui l’uso delle insegne.

Fu proprio quando la minaccia di aprire il fuoco venne issata per la seconda volta che sia il comandante del plotone che il magistrato si trovarono nella relativa “terra di nessuno” caratterizzata dalla necessità di prendere una decisione su cui i regolamenti non lasciavano scelta.

Fortunatamente, nel caso dei disordini di Mandir Gate il magistrato presente, Mr Poulson, non ebbe esitazioni a consegnare al comandante una nota firmata nella quale gli si richiedeva di far fuoco se la folla non avesse mostrato l’intenzione di ritirarsi o disperdersi. Una volta espletate tutte le necessarie fasi preparatorie, solo pochi metri separavano la prima fila di fucilieri dall’avanguardia dei dimostranti, da cui proveniva un fitto lancio di pezzi di mattoni. Dal centro abitato sul lato opposto del fiume una cappa di fumo rivelava il punto in cui era stato appiccato un incendio doloso. (Si trattava della kotwali, la stazione di polizia nei pressi del tempio). Nello stesso tempo, all’insaputa delle truppe schierate sulla strada del ponte di Mandir Gate, una parte dei dimostranti stava puntando sulla stazione ferroviaria, seguendo i binari dal passaggio a livello dove la polizia non era riuscita a trattenerla, e un rinforzo di Berkshire stava accorrendo sul luogo dal quartier generale del distretto per dare manforte alla polizia al comando di Mr Merrick, il sovrintendente del distretto.

Tornando al nostro plotone sulla strada del ponte di Mandir Gate: come accadeva spesso, i dimostranti avevano schierato le donne anziane in prima fila per tenere a freno i soldati. Compito del comandante del plotone era quello di selezionare uno o due uomini che reputava, sulla base del loro comportamento, gli istigatori della folla e indicarli come bersagli. Ci sono occasioni in cui le munizioni vengono fornite soltanto a uno dei soldati, colui che si è più distinto come tiratore scelto; ma a Mayapore i disordini avevano ormai superato di molto il punto in cui una tale precauzione poteva essere considerata saggia. Ciò malgrado, nel nostro caso l’ufficiale responsabile parlò individualmente con ciascuno degli uomini in prima fila, indicò i bersagli specifici a due di essi e disse agli altri che al suo ordine avrebbero dovuto sparare sopra le teste dei rivoltosi. Svolgere una tale operazione con calma mentre si è sotto attacco richiede una dose considerevole di autocontrollo e compostezza, ma l’ufficiale, pur dolorosamente colpito a una spalla da una pietra, riuscì a portarla a termine. Dovette ricordarsi di non chiamare per nome i suoi uomini, nell’eventualità che qualcuno dei rivoltosi lo udisse e potesse poi identificarli. I fucilieri fecero fuoco, i due tiratori scelti colpirono i rispettivi bersagli e la folla vacillò, ma solo di quel tanto che bastò perché nuovi sobillatori irrompessero in prima fila con la nuova parola d’ordine del Mahatma, «Agire o morire». Questa volta l’ufficiale non poté fare altro che ordinare una seconda raffica, che causò la morte di due civili e il ferimento di altri cinque, tra cui una donna. Prendendo l’iniziativa, il comandante del plotone ordinò al distaccamento di avanzare continuando a sparare sopra le teste della folla in ritirata. La donna ferita fu la prima a essere soccorsa dall’attendente medico. La sua ferita era superficiale, senza dubbio perché il proiettile era in realtà destinato a un uomo che si era mosso al momento cruciale.

In situazioni come questa era presente un uomo, di solito membro dei servizi segreti della brigata o del battaglione, il cui compito era quello di “diarista”, ovvero quello di osservare gli avvenimenti e prenderne nota per poi includerli nel diario dell’unità o formazione. Il suo era un resoconto spassionato dei puri fatti e non teneva conto dei processi mentali a monte di questa o quella particolare decisione, come invece avrebbe fatto il rapporto del sottufficiale. Il rappresentante della polizia (un ispettore o viceispettore) sarebbe stato tenuto a fare lo stesso con il suo superiore. In questo modo sarebbero stati disponibili diversi resoconti degli stessi fatti, nell’eventualità che una corte fosse stata incaricata di far luce su accuse di brutalità e uso eccessivo della forza e li avesse richiesti. Devo tuttavia sottolineare che non sempre è possibile adempiere alla lettera le istruzioni relative al dispiego delle truppe. Come forse perfino i lettori meno dotati di immaginazione possono capire, è possibile che si verifichino condizioni in cui uno o addirittura diversi membri del personale “richiesto” non sono disponibili e in cui l’unica cosa innegabile è la necessità di entrare immediatamente in azione.

 

Profondendomi nei dettagli di cui sopra mi rendo conto non solo di divagare, ma anche di aver portato la mia storia, per quello che è, a un punto in cui il lettore si ritrova nel bel mezzo dell’azione senza conoscere le diverse fasi che vi hanno condotto. Per questo ora tornerò al giorno di giugno in cui ebbi un ulteriore incontro con Mr White, il vicecommissario, che da quanto sapevo aveva appena ricevuto l’ordine di combattere la propaganda antibellica del Congresso Nazionale Indiano e le cui posizioni andavano a mio parere rivalutate e, se necessario, riferite al mio comandante di divisione, il quale, nella sua carica di comandante di zona, esercitava la sua giurisdizione militare praticamente sull’intero distretto.

Scoprii che Mr White aveva cambiato sensibilmente posizione riguardo alla situazione corrente. Personalmente nutrivo pochi dubbi sull’inevitabilità di un confronto, e fui relativamente rincuorato nel vedere che anche il vicecommissario sembrava essersi reso conto che la situazione aveva probabilmente superato il punto di non ritorno. Ma White era ancora convinto che i “disordini”, quando fossero scoppiati, sarebbero stati di natura “non-violenta”, a meno che non si fosse proceduto all’arresto dei membri del Congresso, nel qual caso non era in grado di garantire la pace civile. Colsi l’occasione al volo e gli chiesi esplicitamente: «Dunque, nell’eventualità di simili arresti, trova opportuno che ci teniamo pronti a intervenire?». Lui ribatté all’istante che «lo avevo preso troppo alla lettera». Era inquieto, e capii che, sebbene mi sarebbe piaciuto arrivare a un’esplicita intesa, era inutile fare pressioni. In merito alla propaganda del Congresso disse di avere parlato con i direttori dei giornali locali e di avere avvertito coloro la cui recente tendenza era stata quella di appoggiare la linea antibellica. Questo mi parve soddisfacente. Gli chiesi di essere così gentile da sforzarsi di considerare la situazione dal mio punto di vista, quello di chi era interessato alle condizioni di Mayapore in primo luogo in relazione agli effetti che potevano avere sul programma di addestramento delle truppe e in secondo luogo sulla nostra gente.

Fu durante quell’incontro che White disse qualcosa che da allora mi è rimasto impresso come una dimostrazione della sincera vocazione che ha sempre mosso i nostri amministratori coloniali. «Brigadiere», disse, « la prego anch’io di tenere a mente una cosa, se il mio comportamento le desse motivo di insoddisfazione. Nel caso si rendesse necessario il suo intervento, so di poter contare su di esso e sulla sua efficacia. Per lei, a posteriori, rappresenterà un compito sgradevole portato a termine con efficienza, e nella sua scala di valori equivarrà a un successo. Ma per la mia scala di valori, il fatto stesso di averlo richiesto non potrà mai essere considerato altro che un fallimento personale». Obiettai che quel personale era una sottolineatura un po’ esagerata, ma lui sorrise e scosse la testa. Molti di coloro che avrebbe dovuto far arrestare, se il governo lo avesse ordinato, erano suoi amici.

Ma poi disse: «Ma non si preoccupi, brigadiere. Sono anche realista. Uso la parola “fallimento”, ma non sono il tipo da sguazzarci dentro».

E di questo dovetti accontentarmi, e nel complesso lo feci, poiché come ho già avuto modo di dire avevo imparato a rispettare White per quel senso di responsabilità che dopo diversi incontri riconoscevo nel suo stesso comportamento, riservato e alquanto “intellettuale” ma molto concreto e coi piedi per terra in termini di azione. Era un esponente piuttosto tipico, mi rendo conto, della nuova razza di ufficiali distrettuali che avevano raggiunto la maturità proprio quando il nostro Impero indiano sarebbe dovuto diventare maggiorenne e ricevere “la chiave della porta” dal nostro governo... forse prematuramente, ma di sicuro come prova della nostra pazienza e benevolenza e delle nostre conquiste storiche.

In seguito al fallimento della Missione Cripps e al conseguente lancio della campagna “Quit India” di Mr Gandhi, ricordo che l’interrogativo principale della maggioranza degli inglesi era se Gandhi sarebbe riuscito a condurre il Congresso Nazionale Indiano (di sicuro la forza politica più forte nel paese) a identificarsi collettivamente con la sua curiosa dottrina, dandole così la spinta di un movimento nazionale organizzato. Non ho mai seguito da vicino gli andirivieni dei politici, ma sapevo che Mr Gandhi era stato sia “dentro” che “fuori” il Congresso, perseguendo a volte una linea approvata dal partito e altre volte indipendente. Mr Nehru, il leader ufficiale del Congresso, era stato per un certo periodo considerato dai nostri come un esponente più ragionevole e centrista, un uomo che conosceva la lingua internazionale della politica e con cui si poteva ragionare. Di recente aveva passato diverso tempo in prigione, ma ricordo che era stato scarcerato perché potesse partecipare ai negoziati con la missione governativa, che era ancora libero e rappresentava una forza con cui fare i conti. Era chiaro che considerava Gandhi una fonte di imbarazzo, e per una certa fase avevamo riposto le nostre speranze sul fatto che le sue doti pratiche di statista potessero avere il sopravvento.

A questo punto dovrei forse riassumere quello che sapevamo essere in gioco e che calcolavamo di dover affrontare. In primo luogo, in Estremo Oriente eravamo con le spalle al muro e in Europa e Nord Africa non eravamo ancora riusciti a riprendere l’iniziativa e/o risolvere la situazione di stallo. In qualsiasi momento ci aspettavamo che i giapponesi attaccassero il baluardo orientale dell’India. Una loro vittoria in India sarebbe stata disastrosa. Perdendo l’India, il contributo bellico britannico a quello che era ormai diventato un conflitto globale sarebbe stato limitato alle nostre isole e al contingente nel Nord Africa, e il grosso del peso della resistenza al totalitarismo sarebbe ricaduto sull’America. “Ritirarci con ordine” dall’India, come ci pregava di fare Mr Gandhi, sarebbe stata una follia. A parte la necessità strategica di difenderla, c’era ovviamente la questione delle sue ricchezze e risorse naturali.

Questa era la posta in gioco. Per quanto riguardava l’opposizione, ammontava in primo luogo alla richiesta (ispirata da Gandhi) che lasciassimo l’India “a Dio o all’anarchia” e in caso contrario che affrontassimo una massiccia campagna di “non-collaborazione non-violenta”, in altre parole uno sciopero generale della popolazione nativa che ci avrebbe impedito di mantenere il paese in attività per poter addestrare, equipaggiare, approvvigionare e schierare sul campo le forze in grado di cacciare i giapponesi dall’arcipelago orientale.

La speranza era che uomini come Nehru si opponessero a un simile suicidio.

All’inizio di agosto pareva ormai scontato che Nehru avesse tradito la causa per ragioni note solo a lui. Non aveva trovato in sé la forza politica per contrastare il Mahatma. Tutto ormai dipendeva dal voto del Comitato Congressuale di tutta l’India sulla risoluzione di Gandhi. La votazione si svolse l’8 agosto. Gli storici hanno in seguito provato a dimostrare che l’approvazione della risoluzione non fosse nulla di più sinistro di una serie di parole sulla carta e che nemmeno Mr Gandhi avesse bene in mente la direzione precisa che avrebbe dovuto prendere una concreta iniziativa di non-collaborazione non-violenta. La mia opinione era e continua a essere che il movimento fosse stato pianificato nei dettagli da membri clandestini del Congresso che agivano su ordine di coloro che pubblicamente volevano presentarsi come il famoso trio di scimmie, “non vedo, non sento, non parlo”.

Come altro posso spiegare le violenze scoppiate nel mio distretto il giorno successivo all’approvazione della risoluzione e all’arresto dei membri del partito del Congresso? Violenze che coinvolsero immediatamente una donna europea, Miss Crane, l’insegnante della missione, e che quella stessa sera vennero inflitte a una giovane inglese indifesa, nipote di un famoso ex governatore della provincia, aggredita e violata da una banda di malfattori nella località chiamata giardini di Bibighar? Tali incidenti erano un segno premonitore del pericolo in cui versava la nostra gente, e il fatto che si fossero verificati a così breve distanza l’uno dall’altro non faceva che portarmi a una sola conclusione: che la sicurezza degli inglesi, e in particolare delle nostre donne, era in serio pericolo.

 

Mi trovavo a Marpuri con i Ranpur quando, alle prime ore della sera del 9 agosto, ricevetti un messaggio in cui il mio capitano di stato maggiore mi informava dei disordini avvenuti in due sottodivisioni periferiche del distretto, Dibrapur e Tanpur, e che un distaccamento delle forze di polizia di Mayapore, accompagnato da Mr Poulson, si era recato in quei luoghi nel tardo pomeriggio e aveva liberato una squadra di polizia e un gruppo di tecnici della compagnia dei telegrafi che erano stati fatti prigionieri nel posto di polizia di un villaggio chiamato Candgarh. Procedendo verso Tanpur, Mr Poulson aveva incontrato prima un’automobile bruciata e poi, poco più in là, l’insegnante inglese della missione che proteggeva il corpo di un indiano, uno dei suoi subalterni nella scuola della missione, morto per le percosse inflitte presumibilmente dalla stessa banda di delinquenti. Come Mr Poulson mi avrebbe confidato in seguito, era stata proprio la visione dell’insegnante seduta a bordo strada sotto la pioggia battente a fargli pensare che a Mayapore i problemi sarebbero stati più gravi di quanto lui o Mr White avessero previsto. Io avevo passato la notte a Marpuri insieme ai Ranpur, e rimasi all’oscuro sia del voto del Congresso che dell’arresto dei leader del partito fino alla telefonata del mio capitano di stato maggiore la mattina del 9. Aveva ricevuto una segnalazione dalla Divisione ed era stato informato dal vicecommissario che alcuni membri locali del Congresso erano stati trattenuti come da piano preventivo. Nel corso di quella prima telefonata il capitano mi disse che la situazione era tranquilla e che secondo il vicecommissario per il momento non c’era motivo di allarme. Per questo in un primo tempo scelsi di trattenermi a Marpuri per assistere all’addestramento del battaglione. Ma quella sera, quando ricevetti la seconda comunicazione riguardo agli incidenti nei pressi di Tanpur, decisi di tornare immediatamente alla base e diedi appuntamento al capitano nel bungalow del vicecommissario.

Vi arrivai intorno alle nove di sera. Nel frattempo erano sorti nuovi problemi. Mr White aveva appena saputo che una giovane donna inglese, Miss Manners, era “scomparsa”. Merrick, il capo della polizia, la stava cercando. White mi informò che, in seguito alle voci sulle violenze di Tanpur e all’aggressione all’insegnante della missione, diverse signore inglesi che abitavano nella zona residenziale si erano rifugiate al Gymkhana, uno dei luoghi prescelti come centri di raccolta in caso di gravi minacce all’incolumità e alle proprietà personali. Lo presi in disparte e gli chiesi se non fosse il caso di dare una dimostrazione congiunta di forza, schierando pattuglie di polizia e dell’esercito, quella sera stessa o il mattino successivo. Rispose che non lo reputava necessario, poiché la città era tranquilla. Molte botteghe del bazar avevano chiuso i battenti: questo era contro le regole, ma a suo parere era meglio lasciare che la popolazione restasse in casa e non venisse provocata. Gli chiesi notizie dei disordini a Dibrapur e Tanpur: secondo lui erano stati il risultato di una “reazione spontanea” alla notizia degli arresti da parte di uomini che avevano il tempo e la propensione a creare problemi. Nel frattempo, le linee con Tanpur e Dibrapur erano state ripristinate e la polizia aveva comunicato di avere ripreso il controllo delle sottodivisioni. A Tanpur erano stati effettuati diversi arresti, e si pensava che tra i fermati vi fossero uno o due di coloro che avevano aggredito l’insegnante della missione e ucciso il suo compagno di viaggio indiano. Miss Crane era ricoverata all’ospedale comune di Mayapore, in stato di shock e assideramento.

Più tardi, proprio mentre stavo per andarmene, arrivò il giovane Poulson. Aveva perlustrato l’acquartieramento fino al ponte di Mandir Gate, poi aveva attraversato il ponte e percorso Jail Road per sovrintendere al trasferimento dei leader del Congresso arrestati su un convoglio ferroviario speciale con destinazione segreta. Scambiai qualche parola con Poulson, il quale era palesemente meno ottimista del suo superiore riguardo all’immediato futuro. Era preoccupato per la moglie incinta. Avevano già una figlia piccola, che viveva con loro a Mayapore. I figli dei White, due gemelli maschi, erano tornati a studiare in Inghilterra l’anno prima che scoppiasse la guerra. Nelle circostanze attuali Mrs White doveva soffrire molto per quella separazione, ma era una donna instancabile e schietta e aveva una “presenza” molto più imperiosa di quella del marito, che aveva invece l’aria del “pensatore”. Mrs White non mostrava mai il minimo segno di autocommiserazione all’idea che non avrebbe più rivisto i figli fino alla conclusione vittoriosa della guerra, ma io sapevo quanto il pensiero doveva pesarle nel profondo.

Avevo sperato di vedere anche Merrick a casa del vicecommissario, ma questi era impegnato nella ricerca della ragazza scomparsa, Miss Manners, la quale abitava con una certa Lady Chatterjee in una delle antiche case nei pressi dei giardini di Bibighar. Lady Chatterjee era un’amica di Sir Henry e Lady Manners fin da quando Sir Henry era governatore della provincia. Sir Henry era morto, ma avevo avuto modo di conoscere Lady Manners a Rawalpindi, e ricordavo di avere visto la giovane Manners in diverse occasioni, sia a ’Pindi che a Mayapore. A ’Pindi era ospite a casa della zia, e da quando era venuta a stare da Lady Chatterjee a Mayapore faceva la volontaria all’ospedale comune. I suoi rapporti con un giovane indiano avevano fatto scalpore presso le signore dell’acquartieramento. Ricordavo il commento di Christine Mackay, la moglie del mio maggiore di brigata. Nel complesso, da quando ero arrivato a Mayapore ero stato troppo impegnato per prestare molta attenzione ai pettegolezzi locali, ma ora, nel rendermi conto di chi era la ragazza “scomparsa”, non potei fare a meno di provare un brutto presentimento.

Dopo avere chiesto a White di tenermi informato, feci ritorno ai miei alloggi e telefonai al comandante di zona. Mi sentii rincuorato nel sentire che nel complesso la provincia, e il paese in generale, sembravano pacifici e tranquilli. I comitati del Congresso erano stati messi all’indice dal governo britannico e molti dei loro membri arrestati come misura precauzionale in osservanza delle leggi sulla Difesa dell’India. Secondo il generale gli arresti erano riusciti a stroncare la rivolta sul nascere, consentendoci di concentrarci sull’addestramento e l’equipaggiamento dei nostri soldati. Gli riferii gli avvenimenti del giorno nella mia sfera di comando, ma lui rispose che gli sembravano episodi isolati e velleitari, poiché i loro ipotetici mandanti erano ormai sottochiave. Andai a letto in uno stato d’animo relativamente sereno e dormii bene, rendendomi conto di quanto ero stanco dopo la visita di ventiquattro ore ai Ranpur.

Il mio attendente mi svegliò alle sette come gli avevo chiesto di fare, annunciandomi la visita del sovrintendente distrettuale di polizia. Immaginando che fosse successo qualcosa, gli ordinai di accompagnarlo subito nella mia stanza. Pochi minuti dopo, Merrick entrò scusandosi per l’ora e l’intrusione. Abituato a vederlo sempre lindo e ordinato, giudicai dal suo aspetto che avesse passato la notte in bianco. «Bene, Merrick, qual è il problema stamattina?», gli chiesi.

Mi riferì che la sera prima nei giardini di Bibighar la ragazza scomparsa, Miss Manners, era stata aggredita e stuprata da una banda di furfanti. Per fortuna lui era tornato per la seconda volta a casa di Lady Chatterjee pochi minuti dopo che la povera ragazza vi era arrivata di corsa, sconvolta, dopo essere fuggita lungo strade deserte e male illuminate. Merrick si era precipitato in centrale, aveva messo insieme una pattuglia e aveva raggiunto la zona di Bibighar. Poco lontano, in una baracca sul versante opposto del ponte di Bibighar, aveva trovato cinque uomini che bevevano liquore distillato in proprio. Li aveva arrestati all’istante (la produzione e il consumo di liquori clandestini era in ogni caso illegale), dopodiché aveva avuto il colpo di fortuna di trovare la bicicletta di Miss Manners, che era stata rubata da uno dei colpevoli, in un fossato davanti a una casa di Chillianwallah Bagh. Nella casa, aveva scoperto, abitava il giovane indiano con cui Miss Manners aveva avuto rapporti. L’uomo, che a quanto ricordo si chiamava Kumar, mostrava tagli e abrasioni sul volto. Merrick lo aveva arrestato e poi aveva rinchiuso tutti e sei i membri del gruppo nelle celle della centrale di polizia.

Mi congratulai con lui per la prontezza con cui aveva agito, ma gli chiesi per quale motivo mi stesse facendo visita di primo mattino. Rispose che le ragioni erano molteplici. In primo luogo, voleva che venissi informato immediatamente dell’”incidente”, che considerava molto grave. In secondo luogo, voleva chiedermi il permesso di trasferire gli arrestati nella cella di detenzione dei Berkshire se avesse reputato di doverli rinchiudere in un posto più sicuro. In terzo luogo voleva farmi sapere che a suo parere il vicecommissario stava seriamente sottovalutando la gravità della situazione, situazione che nelle ultime ore aveva registrato violenze ai danni di ben due donne inglesi e l’assassinio di un indiano della missione cristiana. A quel punto mi rammentò che ero stato io stesso, all’inizio dell’estate, a chiedergli di esporsi di persona se l’avesse considerato necessario.

Non potei fare a meno di chiedergli quale fosse, a suo modo di vedere, il rischio a cui si stava esponendo in quel momento. Rispose di essere convinto che gli arrestati della notte prima fossero gli aggressori di Miss Manners, ma che forse sarebbe stato difficile provarlo. «Be’, magari la povera ragazza potrà identificarli», dissi, ma lui ne dubitava. Le aveva già chiesto se conoscesse qualcuno tra i responsabili, ma lei aveva risposto di no, poiché era avvenuto tutto “al buio” e non li aveva visti abbastanza chiaramente da poterli identificare. E poiché uno degli arrestati era l’uomo con cui aveva una relazione, Merrick pensava che stesse mentendo, quanto meno in quella fase, ma sperava che avrebbe smesso di farlo quando avesse superato lo shock e si fosse resa conto di chi era davvero suo amico. Nel frattempo i responsabili erano sotto chiave, e lui aveva trascorso quasi l’intera notte a interrogarli. Insistevano a dichiararsi del tutto innocenti, ma lui era convinto della loro colpevolezza, soprattutto nel caso di quel Kumar, il quale aveva palesemente rubato la bicicletta di Miss Manners ed era stato sorpreso mentre si lavava la faccia per ridurre o cancellare i segni dei tagli e dei lividi procuratigli dalla ragazza quando aveva cercato di reagire prima di essere ridotta all’impotenza.

Chiesi a Merrick se si conoscesse il motivo della presenza di Miss Manners a Bibighar. Rispose di temere che vi si fosse recata per incontrare Kumar, un aspetto del caso su cui sperava si potesse soprassedere per il bene della ragazza. Lui stesso l’aveva frequentata in diverse occasioni e si considerava suo amico, quanto meno a sufficienza da averla avvertita, non molto tempo addietro, che avrebbe fatto meglio a troncare la sua relazione con l’indiano. Ma lei sembrava completamente assoggettata. Kumar, mi spiegò, era già stato fermato e interrogato durante le ricerche di un detenuto evaso dal carcere. Nel corso dell’interrogatorio era venuto fuori che Kumar conosceva il fuggitivo, un certo Moti Lal, ma non era stato possibile provare che i loro rapporti fossero più che superficiali. Malgrado la sua “occidentalizzazione”, secondo Merrick Kumar era un losco figuro, consapevole dell’attrattiva che esercitava sulle donne e perfettamente capace di accalappiare una donna bianca per il gusto di umiliarla nei modi più subdoli. Lavorava per un giornale locale e in apparenza non creava problemi, ma aveva frequentato giovani sospettati di attività anarchiche o rivoluzionarie, giovani come i cinque arrestati. Alcuni di loro erano stati visti insieme a Kumar in diverse occasioni, ed erano tutti individui che la polizia teneva d’occhio. L’opinione di Merrick era che Kumar avesse cospirato con gli altri cinque per approfittare dei rapporti tra lui e Miss Manners. Quella sera, recatasi a Bibighar aspettandosi di incontrarvi Kumar, lei vi aveva trovato non solo lui ma anche gli altri cinque, i quali l’avevano aggredita nel modo più vile e spregevole.

Rimasi profondamente scosso da quella triste vicenda e convenni con Merrick sul fatto che meno si fosse detto dei rapporti tra la vittima e uno dei sospettati meglio sarebbe stato, specialmente se si fosse giunti a un processo pubblico. Nel frattempo mi pareva che ci fossero basi sufficienti a trattenere i sospettati, il che era una fortuna, poiché una volta che si fosse diffusa la voce che una ragazza inglese era stata violentata, in tutto il paese non ci sarebbe stato un solo bianco, uomo o donna che fosse, che non avrebbe esultato nell’apprendere che i sospetti responsabili erano già nelle mani della giustizia. E per quanto riguardava la popolazione indiana, sapere che per una cosa simile nessuno l’avrebbe passata liscia avrebbe avuto un effetto esemplare.

Merrick si disse lieto del fatto che approvavo le sue azioni. Pensava che gli eventi del giorno prima fossero solo un preludio a violenze che, se non peggiori, di sicuro sarebbero diventate più estese, richiedendo da parte nostra uno sforzo concertato per combatterle. Aveva saputo che avevo suggerito a White di schierare fin da subito pattuglie della polizia e dell’esercito, ed era dispiaciuto che la mia proposta fosse stata accantonata.

Lo invitai a fare colazione con me, ma lui declinò l’offerta dicendo che doveva rimettersi al lavoro. Prima che se ne andasse gli dissi che, se le circostanze lo avessero richiesto, avrebbe potuto trasferire uno o tutti e sei i prigionieri nella cella di detenzione dei Berkshire, a patto che fosse stata la polizia a fornire gli uomini di guardia e che i miei soldati non avessero avuto responsabilità dirette. Evidentemente Merrick temeva che un gruppo di facinorosi attaccasse la sua prigione al grido di «Agire o morire» per liberare gli arrestati. Non dubitava che entro la fine della mattinata l’intera città sarebbe giunta a conoscenza del fattaccio. In India era quasi impossibile conservare un segreto. Le voci partivano dai pettegolezzi sussurrati dalla servitù nativa e si diffondevano in fretta. Ma una masnada decisa a liberare i propri “eroi” avrebbe dovuto mostrare grande determinazione per provare a forzare le linee dei Berkshire, poiché ciò avrebbe significato un attacco diretto contro un insediamento militare, cosa che di solito i dimostranti indiani tendevano a evitare. Per quanto potessi trovare irritante il fatto di non poter assumere il controllo diretto di una simile, esplosiva situazione (cosa che un attacco diretto mi avrebbe permesso di fare senza alcuna firma delle autorità civili), l’ultima cosa che desideravo era farmi coinvolgere a quel livello, ed era per questo che al mio permesso di trasferire i prigionieri avevo aggiunto la frase «se le circostanze lo avessero richiesto». Di sicuro, però, ero d’accordo con Merrick sul fatto che gli arrestati dovessero essere trattenuti in condizioni di massima sicurezza. Bisognava evitare a tutti i costi che venissero liberati con la forza e si gloriassero della loro aggressione ai danni di una donna inglese.

Dopo colazione telefonai al vicecommissario e gli riferii che avevo parlato con Merrick e che questi mi aveva informato dell’aggressione a Miss Manners. Di nuovo offrii l’uso di pattuglie militari come misura precauzionale, ma White rispose che nel distretto regnava la pace e che lui stava facendo di tutto per mantenere un’atmosfera di normalità. Molti quartieri generali dei distretti utilizzavano i servizi di coloro che, suppongo, dovremmo chiamare spie o informatori. Quelli di White gli riferivano che la popolazione era più confusa che arrabbiata, non sapendo bene quali fossero le aspettative dei suoi leader incarcerati. Provocarla sarebbe stata, ne era sicuro, la cosa meno sensata. Fortunatamente, quanto meno per il momento, le comunità musulmane e indù convivevano pacificamente e malgrado in un certo senso questo fosse un brutto segno, dato che suggeriva un’alleanza contro gli inglesi, da un altro punto di vista era un bene, poiché non c’era quasi alcun pericolo che tra loro si scatenassero contrasti che avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di peggio.

Come sempre, parlando con il vicecommissario rimasi colpito dalla sua calma e dall’equilibrio dei suoi ragionamenti. Gli chiesi cosa pensasse dell’aggressione a Miss Manners e se non la vedesse come un preludio a un’ondata di violenze contro gli europei. Rispose che poteva benissimo essersi trattato di un incidente isolato come quello di Tanpur, opera di delinquenti, uomini che probabilmente erano venuti a Mayapore da uno dei villaggi circostanti sperando di trovarla in preda ai disordini e che, rimasti a bocca asciutta, potevano aver deciso di vendicarsi sulla prima persona indifesa. Obiettai che dal racconto di Merrick avevo avuto l’impressione che i colpevoli non provenissero dai villaggi ma fossero giovani anarchici di Mayapore. Sentendo che White non rispondeva, gli chiesi se nutrisse dei dubbi sulla colpevolezza degli arrestati. Rispose che avrebbe dovuto considerare la questione a mente aperta e che molto dipendeva dalla testimonianza della ragazza, quando fosse stata in grado di fornirla. Temeva che Merrick si fosse sbagliato, ma non poteva criticarlo per la prontezza delle sue azioni, quanto meno non alla luce di quanto Merrick stesso gli aveva riferito riguardo alle circostanze degli arresti.

Dopo avere parlato con il vicecommissario riunii il mio stato maggiore ed esposi la situazione (a) dal punto di vista di Merrick, (b) da quello di Mr White e infine (c) dal mio: una situazione potenzialmente grave ma per il momento sotto il controllo di coloro che avevano il compito di esercitarlo. In altre parole, per quanto ci riguardava era ordinaria amministrazione; per questo ordinai che la mia auto di servizio si presentasse alle 10 per fare una visita a sorpresa ai Pankot di stanza a Banyaganj. Quando gli altri se ne furono andati, Ewart Mackay mi prese da parte e mi confidò che lui e sua moglie erano già al corrente dell’aggressione ai danni di Miss Manners e che l’opinione personale della sua signora era che la povera ragazza se la fosse cercata, anche se ovviamente erano entrambi sconvolti e addolorati. Il punto era, tuttavia, che Christine Mackay voleva farmi sapere che, a suo parere, l’aggressione a Miss Manners non significava che le donne europee in generale fossero in pericolo. Aveva chiesto a Ewart se quel Kumar fosse coinvolto nella faccenda, ed era stata più che lieta di sapere che era addirittura già in carcere.

In altre parole, quella fonte privata giungeva a conferma tanto della ragionevolezza dei sospetti del giovane Merrick quanto della posizione di più generale distacco del vicecommissario. Pertanto mi recai a Banyaganj con la relativa certezza di avere quanto meno un attimo di respiro per potermi dedicare a cose più importanti. A Banyaganj i lavori per la costruzione del campo d’aviazione procedevano. Provai un moto di compassione per quei poveri, semplici manovali, uomini e donne, che avevano bisogno di ogni singola anna che potevano guadagnare e che non gettavano a terra i loro attrezzi e i loro cesti al primo comando di chicchessia. Non potei fare a meno di pensare che, se tutte le donne che vedevo lavorare con tanto impegno nel caldo e nell’umidità di quel mattino di agosto, avvolte nei loro laceri sari infangati, avessero preso alla lettera le parole del Mahatma e fossero tornate a casa a filare il cotone, avrebbero avuto difficoltà a nutrire i propri figli; quelli stessi figli per aiutare i quali, nonché le loro madri, le nostre donne avevano formato un comitato speciale che quel mattino era rappresentato dalla giovane Mavis Poulson e dalla moglie dell’ufficiale dello stato maggiore della postazione, impegnate a placare gli strilli dei neonati indù e musulmani di entrambi i sessi e soccorrere le madri gravide crollate sotto il peso dei cesti. Vedendo che per fortuna nelle vicinanze c’erano alcuni gagliardi giovani della RAF, decisi che Mrs Poulson e Mrs Brown non correvano gravi pericoli e proseguii verso il quartier generale dei Pankot, dove trascorsi una piacevole giornata assistendo alle esercitazioni sul campo.

Ma era la quiete prima della tempesta. Intorno alle 5 del pomeriggio feci ritorno a Mayapore e diedi un passaggio a Mrs Poulson e Mrs Brown per risparmiare loro i disagi del viaggio di ritorno sul pullmino della RAF. Anche Mrs Poulson sembrava condividere le opinioni di Christine Mackay riguardo a ciò che era accaduto a Miss Manners. Disse che l’intera faccenda doveva risultare molto sgradevole per Lady Chatterjee, la quale probabilmente si sentiva in colpa per l’accaduto, non solo perché Miss Manners era ospite a casa sua, ma anche perché lei stessa era indiana. Le domandai cosa sapesse di quel Kumar e, scoprendo che era stato arrestato, lei rispose all’istante: «Be’, avete preso l’uomo giusto. Un vero provocatore, quello». Se Miss Manners non fosse stata tanto “innocente” riguardo all’India, proseguì, quella brutta storia non sarebbe mai accaduta; ed era straordinario e al tempo stesso logico, aggiunse, che le vittime europee di violenze in quelle circostanze difficili fossero due donne e avessero entrambe opinioni radicali e pro-indiane. Notai che Mrs Brown sembrava meno convinta, ma lo attribuii alla timidezza. Suo marito, come forse i miei lettori ricorderanno, veniva dalla gavetta. Trovavo giusto cercare di coinvolgerla nella conversazione. Nutrivo grande rispetto per le capacità del marito come ufficiale di stato maggiore. Sono sicuro, tuttavia, che Mrs Brown la pensasse più o meno allo stesso modo di Mrs Poulson, e cioè che la ragazza era stata incauta, ma che erano entrambe sgomente dall’accaduto e determinate a sostenerla. Questa mi parve una toccante, ulteriore dimostrazione del nostro spirito di solidarietà. Così armato, chiunque sarebbe in grado di affrontare qualsiasi crisi.

Lasciai Mrs Brown al bazar dell’acquartieramento, dove aveva alcune commissioni da svolgere, e accompagnai Mrs Poulson al suo bungalow. Declinai la sua gentile offerta di entrare a bere qualcosa, la lasciai al compito di assicurarsi che la sua bambina, che mi pare si chiamasse Anne, venisse messa a letto e ordinai all’autista di fare ritorno al quartier generale della brigata. Il maidan sembrava immerso nella quiete, e guardandolo mi tornarono in mente i vecchi tempi, quando ero un giovane senza una preoccupazione al mondo. Quella sera dopo cena scrissi qualche lettera personale, poi mi ritirai presto per esaminare un programma di addestramento che il mio stato maggiore aveva steso per me. Leggendolo e trovandovi ben poco da criticare provai una calorosa sensazione di fiducia. Se solo quel programma fosse stato più di un programma, i giapponesi non avrebbero dormito sonni così tranquilli!

Anche per me, tuttavia, quella fu l’ultima notte di sonno indisturbato che avrei goduto per un bel po’.

 

Nel diario personale che tenevo in quei giorni, lo spazio destinato al giorno successivo, l’11 agosto, è vuoto, ma sulla pagina del 12 agosto c’è una breve annotazione, risalente alle 2 del mattino: «Un momento di tregua dopo una giornata di disordini diffusi nell’intero distretto. Alle ore 20 dell’11 agosto ho ricevuto una richiesta di aiuto da parte del vicecommissario. Magra consolazione, per le nostre truppe nell’Assam e in Birmania, sapere che coloro che dovrebbero approvvigionarle e rafforzarle vengono intralciati in questo modo».

Ripensando a quel giorno di agosto che segnò l’inizio dei disordini in quasi tutto il paese e ricordando la crescente sensazione, a mano a mano che arrivavano le notizie di tumulti, sommosse, incendi dolosi e sabotaggi, che si stesse verificando esattamente ciò che temevamo e avevamo cercato di fermare, non posso che essere perplesso dall’opinione, ancora diffusa in certi ambienti, che la rivolta fosse una manifestazione spontanea della rabbia del paese per l’incarcerazione dei suoi leader. A mio modo di vedere, la prova definitiva del contrario, se mai ce ne fosse bisogno, risiede proprio nelle parole rivolte dal Mahatma ai suoi seguaci al momento dell’arresto: «Agire o morire». Non si potrebbe essere, mi sembra, più chiari di così. Venni a conoscenza di quelle parole solo l’11 agosto, quando i gruppi di rivoltosi, scandendole, cominciarono ad attaccare le stazioni di polizia e gli uffici della compagnia dei telegrafi e a sabotare i collegamenti ferroviari.

Di nuovo, i primi disordini si verificarono a Tanpur e Dibrapur, mettendo la polizia locale in gravi difficoltà. Il pomeriggio dell’11 la polizia di Mayapore, al comando degli ufficiali a cavallo, era impegnata a disperdere gli assembramenti che si formavano a ripetizione. Diversi agenti rimasero feriti, e una ventina di dimostranti vennero arrestati e incarcerati. In un villaggio a sud di Mayapore, un impiegato indiano della pubblica amministrazione locale venne aggredito e fatto prigioniero nella stazione di polizia, e fu portato in salvo solo il giorno dopo, quando le nostre pattuglie liberarono la zona. La bandiera del Congresso era stata issata nel villaggio di cui sopra nonché sul tetto del Tribunale di Dibrapur, città che rimase isolata per diversi giorni. L’ufficio postale, che era stato oggetto di un attacco già il 9 agosto, lo stesso giorno dell’aggressione all’insegnante della missione, venne incendiato e distrutto dalle fiamme. Fino al 17 agosto, giorno in cui i nostri soldati risolsero la situazione, Dibrapur, a un centinaio di chilometri da Mayapore, rimase nelle mani degli insorti, al punto che uno di loro si autonominò vicecommissario e decretò che il quartier generale del distretto venisse trasferito da Mayapore a Dibrapur. Il funzionario legalmente e costituzionalmente responsabile della sottodivisione venne in un primo tempo imprigionato e poi liberato e nominato giudice distrettuale. In seguito sostenne di essere stato costretto con la forza a collaborare con l’autoproclamato vicecommissario e di avere nascosto gran parte dei fondi del Tesoro per evitare che finissero nelle mani dei ribelli. Furono probabilmente la restituzione del denaro e la sua precedente buona condotta a risparmiargli la punizione per l’apparente defezione. Sfortunatamente, in tutto il paese si verificarono diversi casi nei quali magistrati e perfino alti funzionari distrettuali di nazionalità indiana si rimisero agli ordini dei leader ribelli e somme considerevoli di denaro vennero sottratte dalle casse governative. In alcune zone i nuovi responsabili autoproclamati “multarono” gli abitanti delle città e dei villaggi e intascarono i proventi, insieme alle entrate dello Stato sequestrate “per l’India libera”. Non mi pare che si verificarono episodi di coercizione ai danni di funzionari inglesi, e grazie a Dio non vi furono quasi perdite di vite umane tra gli europei. L’unico episodio che ricordo è l’uccisione di due ufficiali dell’Aeronautica (non nel nostro distretto) a opera di una masnada di rivoltosi che, scambiandoli per i piloti di un aereo che aveva recentemente preso parte a una spedizione punitiva ai danni di un villaggio ribelle, li aggredì selvaggiamente e li fece a pezzi.

Ma tornando all’11 agosto e a Mayapore: nel corso della giornata il sovrintendente distrettuale di polizia dimostrò una considerevole abilità tattica. Era impossibile, per Merrick, avere uomini ovunque ve ne fosse bisogno, ma c’erano tre zone in cui i rischi erano maggiori: quella lungo l’estensione stradale di Chillianwallah Bagh, che dal lato meridionale della città portava direttamente al ponte di Bibighar, la “piazza” di fronte al tempio di Tirupati che conduceva al ponte di Mandir Gate e la strada diretta a ovest verso la prigione (quella sul versante “nero” del fiume, non le celle del quartier generale della polizia dov’erano rinchiusi i sei sospettati di stupro, che si trovavano nel quartiere residenziale). La previsione era che gli obiettivi principali sarebbero stati due: la prigione e il quartiere residenziale.

La giornata era iniziata come al solito, finché la polizia della città non riferì che era in corso un hartal. Ma alle 8 del mattino (orario che coincideva all’incirca con la ripresa dei disordini a Dibrapur) cominciò a formarsi un assembramento sull’estensione stradale di Chillianwallah Bagh. Venne disperso alle 9,30, ma immediatamente dopo si scoprì che ciò aveva dato adito alla formazione di una seconda adunata nelle vicinanze di Jail Road. Per fortuna Merrick aveva previsto le possibili mosse dei dimostranti in caso di azioni organizzate contro le forze dell’ordine e aveva già schierato i suoi uomini. Vi furono diversi tafferugli. L’ufficio postale di Jail Road rischiò l’occupazione, ma venne salvaguardato. Nel frattempo cominciavano ad arrivare notizie di atti di violenza “isolati” e sabotaggi nelle zone periferiche del distretto. Alle ore 12 il viceispettore di polizia responsabile della kotwali nei pressi del tempio di Tirupati ricevette l’”ultimatum” di unirsi alle “forze di liberazione dell’India” e collaborare al “rilascio dei sei martiri dei giardini di Bibighar”, ultimatum che gli venne recapitato sotto forma di opuscolo stampato. Il tentativo di identificare la ribellione a Mayapore con il caso dei giardini di Bibighar, quasi fosse soltanto una crociata per la liberazione di uomini che il popolo considerava innocenti, era a mio parere non solo una mossa astuta, ma anche prova dell’esistenza di leader clandestini di considerevole intelligenza. Tale opinione era condivisa da Merrick. Non appena aveva visto l’opuscolo, il sovrintendente di polizia aveva fatto irruzione nella sede di un giornale in lingua inglese chiamato «The Mayapore Hindu», dove la presenza di una pressa suggeriva che l’impianto fosse predisposto per stampare non solo il giornale in inglese, ma anche materiale in dialetto locale. I tipi che erano stati usati per realizzare l’opuscolo in inglese e in hindi erano già stati “dispersi”, ma Merrick si era sentito giustificato nell’arrestare ogni singolo membro del personale presente e distruggere l’impianto con cui potevano essere stati stampati opuscoli come quello che era stato distribuito.

L’operazione era stata completata entro le ore 13, solo 60 minuti dopo l’arrivo degli opuscoli alla kotwali sulla piazza del tempio, il che la diceva lunga sulla rapidità di azione di Merrick nonché sul suo sistema “spionistico”. Quel pomeriggio, quando feci visita al quartier generale del distretto, dove il vicecommissario era riunito con il suo intero stato maggiore, mi disse che uno degli arrestati del «Mayapore Hindu» era un caro amico di Kumar, il sospettato numero uno nel caso Manners. Era convinto che interrogando costui (la nota sul mio diario dice che si chiamava Vidyasagar) sarebbe stata provata la malafede di Kumar.

Confesso di essermi sentito nauseato nel rendermi conto di cosa fossero disposti a fare alcuni di quei cosiddetti indiani istruiti per sfidare e attaccare coloro grazie ai quali avrebbero potuto fare qualcosa di buono nella vita. A preoccuparmi era anche la loro predisposizione alla violenza nel sacro nome della satyagraha. Quando ne parlai con Merrick, lui mi rammentò che nel suo lavoro doveva affrontare individui simili quasi ogni giorno. Se era vero che ogni tanto faceva uno “strappo alle regole” e li ripagava con la loro stessa moneta, era anche convinto che il fine giustificasse i mezzi. Mi confidò di “ammattire” al pensiero che una brava ragazza come Daphne Manners, che aveva dalla sua tutti i vantaggi che una vita civilizzata poteva offrirle, fosse stata adescata da un tipo come Kumar, che aveva goduto del beneficio di avere studiato in una scuola privata inglese. Rimasi sbalordito da quell’informazione sul passato di Kumar e sentii che il mio sistema di valori era stato messo sottosopra.

In quell’occasione, mentre sorseggiavamo un tè in tutta fretta, Merrick definì Gandhi un “vecchio matto” che aveva completamente perso il contatto con il popolo che credeva ancora di guidare, che era diventato vittima dei “suoi sogni e folli illusioni” e che non aveva idea delle risate che si facevano alle sue spalle i giovani che lui, Merrick, era chiamato a tenere sotto controllo.

Quel pomeriggio al quartier generale del distretto il vicecommissario si dimostrò calmo e deciso nelle sue reazioni ai rapporti in arrivo. Gli dissi che ero pronto a ordinare al responsabile della polizia militare di collaborare al trasferimento dei sei prigionieri nel campo dei Berkshire. Questo lo colse di sorpresa, poiché a quanto pareva Merrick non gliene aveva parlato. Rispose che non aveva intenzione di aggravare le tensioni razziali mettendo sei uomini sospettati dello stupro di una donna inglese sotto il naso dei soldati inglesi. Interpretandola come una critica ingiustificata ai miei uomini e al loro autocontrollo, mi accalorai. Lui mi assicurò che non era stata sua intenzione fare delle critiche e che intendeva semplicemente dire che il compito di fare la guardia a prigionieri di quel genere non poteva che essere estremamente sgradevole e di conseguenza negativo per il morale dei soldati, che in caso di intervento avrebbero dovuto esercitare un notevole autocontrollo. Era già un problema sufficiente, proseguì, che si fosse sparsa la notizia dell’aggressione a Miss Manners. Non voleva che «la presenza dei sospettati rammentasse di continuo ai soldati una vicenda che poteva solo scatenare emozioni elementari».

Su quell’argomento non la vedevamo allo stesso modo, e interrompemmo la conversazione con una certa bruschezza. Alle 8 di quella sera ricevetti la prevista richiesta di aiuto, ordinai immediatamente a quella che avevamo cominciato a chiamare squadra antisommossa di presentarsi a rapporto al quartier generale del distretto e al resto dei Berkshire di tenersi pronti e mi recai in auto al bungalow di White, dove il vicecommissario aveva fatto ritorno, trovandolo in riunione con il giudice Menen e altri membri del suo stato maggiore. Il giudice Menen aveva la solita aria imperturbabile. Non potei fare a meno di chiedermi se quella seria facciata di uomo di giustizia celasse un cuore che batteva all’unisono con le speranze di “libertà” dei suoi connazionali.

A quanto pareva, era dalle 16 di quel pomeriggio che White si era reso conto con chiarezza che la polizia non aveva risorse sufficienti per disperdere gli assembramenti, specialmente dopo che un contingente di uomini era stato inviato come rinforzo a Tanpur nel tentativo di ristabilire i collegamenti con Dibrapur, riducendo in tal modo le sue forze a Mayapore. Intuendo dallo stato d’animo della popolazione cittadina che il giorno dopo si sarebbero potuti verificare tentativi di assalto ai quartieri residenziali, ed essendosi fatto un’idea delle dimensioni e della natura della rivolta grazie alla messe di rapporti provenienti dal distretto e da altre province che i membri del suo stato maggiore avevano raccolto per lui, intorno alle 19,30 il vicecommissario aveva deciso di chiedere rinforzi militari. Quando lo raggiunsi alle 20,15, venni ringraziato per la nostra pronta risposta. White disse che continuava a sperare che l’indomani il nostro intervento in forze si sarebbe rivelato superfluo. Decidemmo di comune accordo di tenere il plotone dei Berkshire in stato di allerta al quartier generale del distretto e inviare quella sera stessa un contingente a Dibrapur, accompagnato da un magistrato e un ufficiale di polizia, allo scopo di controllare la situazione e fare opera di pacificazione e riduzione dei danni. Non volevo dividere i Berkshire, e così decisi che il plotone destinato a Dibrapur sarebbe stato fornito dai Ranpur di stanza a Marpuri, la cui posizione facilitava l’attraversamento del fiume una decina di chilometri a ovest di Mayapore e l’avvicinamento a Dibrapur lungo una strada secondaria che avrebbe potuto permetterci di prendere i ribelli di sorpresa. Diedi immediatamente l’ordine per telefono all’ufficiale di turno a Marpuri.

Decisi di essere presente all’incontro tra i Ranpur e i due rappresentanti delle autorità civili e alle ore 22 partii insieme a loro a bordo della mia auto di servizio. Stabilito il contatto con i Ranpur, condussi il plotone fino al ponte di un villaggio chiamato Tanipuram, dove trovammo la polizia locale in stato di allerta. Il viceispettore riferì che al crepuscolo erano stati avvistati alcuni uomini nelle vicinanze del ponte, ma che, vedendo gli uomini di pattuglia, si erano allontanati. Malgrado le voci che la città di Mayapore fosse in tumulto, nel villaggio era regnata la pace per l’intera giornata. Lasciai i Ranpur, intenti ad avanzare in direzione di Dibrapur, e tornai al luogo di adunata, la piccola stazione ferroviaria che serviva i villaggi circostanti. Telefonai a Mayapore e riuscii a parlare con il quartier generale del distretto. Lasciai detto che i Ranpur erano in marcia verso la loro destinazione, dopodiché, sentendo di avere fatto il possibile per quella sera, mi feci riaccompagnare a casa. Erano ormai le prime ore del 12 e aveva cominciato a cadere una pioggia insistente, che avrebbe di sicuro placato gli ardori di qualsiasi potenziale incursore notturno.

 

Quella mattina venni svegliato dopo solo tre ore di sonno dall’ufficiale addetto alle trasmissioni con un messaggio dai Ranpur, i quali erano stati trattenuti da un blocco stradale a una quindicina di chilometri da Dibrapur. Se non era di ostacolo agli uomini, l’albero che era stato abbattuto per creare il blocco lo era ovviamente per i mezzi. L’ostacolo era stato rimosso con qualche difficoltà dovuta alla pioggia battente e alle condizioni scivolose del fondo stradale e dello sterrato lungo i margini. L’ufficiale di comando del plotone, un giovane indiano, aveva proposto di mandare avanti due squadre a piedi fino al villaggio successivo un chilometro e mezzo più in là, ma il magistrato e l’ufficiale di polizia avevano voluto tenere unito il plotone. Se l’ufficiale di comando non si fosse lasciato convincere suo malgrado, forse si sarebbe potuta evitare la distruzione del ponte dopo il villaggio, che attraversava un affluente del fiume principale che passava per Mayapore. Il ponte era stato sabotato una ventina di minuti dopo che i Ranpur si erano messi al lavoro sul blocco stradale. Il suono dell’esplosione era arrivato fino a loro. Quando il plotone aveva raggiunto il villaggio, trovandolo deserto a eccezione di qualche vecchio di entrambi i sessi, l’ufficiale di comando si era rimesso in contatto con l’ufficio trasmissioni della brigata, informandolo che la strada per Dibrapur era stata resa impercorribile per i mezzi di trasporto e chiedendo nuovi ordini.

Questa era la situazione che dovetti affrontare il mattino del 12 al mio risveglio. Una rapida occhiata alla mappa confermò che non vi erano percorsi alternativi per Dibrapur che non costringessero il plotone a tornare sui propri passi fin quasi al ponte di Tanipuram, e da quel punto il percorso alternativo per i mezzi meccanici era poco più di un sentiero. Se fosse saltato anche il ponte di Tanipuram, avrei perso momentaneamente l’uso di due autocarri da 3 tonnellate, un camion leggero da 750 chili di portata e un prezioso equipaggiamento radio.

Per fortuna il mio ufficiale dei servizi segreti di brigata, un riservato ma abilissimo giovane di nome Davidson, aveva previsto il rischio e anticipato i miei ordini per la polizia, che erano quelli di mettersi immediatamente in contatto con la postazione presso il ponte di Tanipuram, controllare la situazione e avvertire di fare attenzione alla possibile presenza di sabotatori. Telefonai al vicecommissario e lo informai che, se non avessi avuto carta bianca per mettere la strada in sicurezza, avrei rischiato di perdere mezzi di trasporto e materiale prezioso. Gliene spiegai i motivi e aggiunsi che sembrava chiaro che a condurre i ribelli di Dibrapur ci fossero uomini abili e che Dibrapur fosse stata scelta come il punto focale della ribellione nel distretto.

White rifletté per un momento o due e poi disse che nel complesso era d’accordo con me e mi diede carta bianca per occupare militarmente la strada mentre i Ranpur si “ritiravano”. Gli dissi che quella che avevo preso in considerazione non era tanto una ritirata quanto un sequestro della strada per il tempo necessario a ricostruire il ponte sabotato. Purtroppo eravamo a corto di equipaggiamento, ma anche se fossero passate ore prima che i Ranpur fossero stati in grado di avanzare, di sicuro era meglio tardi che mai.

La sua risposta mi sbalordì. «No, chiedo la ritirata ma accetto il blocco militare della strada finché i suoi uomini non saranno tornati da questa parte di Tanipuram», disse. «Glielo confermerò seduta stante per iscritto».

«E se venisse sabotato anche il ponte di Tanipuram?», domandai.

«In tal caso bisognerà riconsiderare la situazione, ma così su due piedi direi che lei ha perso l’uso di tre autocarri e un impianto radio». Detto questo, White riagganciò. Mi vestii in fretta e feci colazione, deciso a dare l’ordine, nel caso si fosse saputo che era caduto anche il ponte di Tanipuram, che i Ranpur si facessero sentire, magistrato o non magistrato. Ma poco dopo ricevetti con sollievo la chiamata con cui la polizia mi informava che il ponte di Tanipuram era ancora intatto e che non c’erano avvisaglie di pericolo.

Avevo deciso di ordinare la ritirata dei Ranpur solo quando mi fosse arrivata la richiesta scritta del vicecommissario. La ricevetti alle 8 e diedi immediatamente istruzione a Ewart di ordinare il rientro di uomini e mezzi.

A quel punto parlai della situazione a Dibrapur con Davidson, il mio ufficiale dei servizi segreti, il quale immaginava che il punto di vista del vicecommissario fosse che, se davvero Dibrapur era il centro della ribellione nel distretto, tanto valeva lasciarla cuocere nel suo brodo per un po’, visto che i ribelli non avevano un vero “esercito” e che Mayapore era più importante. A suo parere, il vicecommissario aveva deciso che la pacificazione nel distretto dovesse partire da Mayapore per poi espandersi verso l’esterno.

Tra tutti i membri del mio stato maggiore suppongo che Davidson fosse quello che aveva raggiunto il maggior grado di confidenza con me (a eccezione di Ewart, che era ormai quasi un amico). Quando avevo assunto il comando della brigata, l’ufficiale del servizio segreto era un giovane di nome Lindsey, che mi era piaciuto all’istante. Aveva combattuto in Francia con lo sfortunato corpo di spedizione britannico. La sua associazione con i Berkshire risaliva al servizio nell’esercito territoriale, prima della guerra. Era giunto in India con il nuovo battaglione e la carica di comandante di compagnia. Al suo arrivo era stato destinato all’addestramento nei servizi segreti militari, completato il quale aveva espresso il desiderio di servire in una formazione che comprendesse un’unità del suo vecchio reggimento ed era perciò stato messo a capo del servizio segreto della brigata. Ai primi di aprile, una settimana dopo il mio arrivo a Mayapore, aveva ricevuto l’ordine di trasferimento presso la Divisione. Sulle prime avevo protestato, ma Ewart mi aveva persuaso a non ostacolare il trasferimento. Gli sembrava che dal suo arrivo a Mayapore Lindsey avesse cominciato a manifestare dubbi e irrequietezze, e sospettava che avesse interpellato un amico nello stato maggiore per ottenere il trasferimento. In un primo momento Davidson non mi era parso un buon sostituto, e in diverse occasioni ci eravamo scontrati. Di origini ebraiche, era dotato di una sensibilità che sulle prime non avevo compreso.

Dopo aver parlato con Davidson decisi di fare visita a White. Mi recai in auto al suo bungalow, e quando Mrs White mi disse che il marito stava compiendo un giro di ispezione nell’acquartieramento e in città decisi di aspettarlo. Cominciammo a parlare della situazione, e scoprii che la posizione di Mrs White era di cauto equilibrio tra la mia e quella del marito. «Robin ha sempre cercato di valutare la situazione con almeno un anno di anticipo», disse. «Sa che quelli che ci combattono adesso sono gli stessi con cui dovremo convivere e di cui dovremo considerarci responsabili in futuro». «Sì», ribattei, «a patto che non arrivino i giapponesi». «Lo so», disse lei. «È quello che penso anch’io, personalmente. Ma in verità penso ai gemelli e alla possibilità di non rivederli mai più. Ci pensa anche Robin, ma sa anche di non essere pagato per questo».

Capii subito che tra i White c’era lo stesso bel rapporto di collaborazione che io stesso avevo potuto godere nella mia vita coniugale.

Quando fece ritorno insieme al giovane Poulson, White mi chiese subito scusa per l’irritazione che poteva avermi causato quella mattina in merito ai Ranpur e al ponte. Gli chiesi se fossi giustificato nel supporre che la sua posizione era quella di lasciare che Dibrapur cuocesse nel suo brodo, sperando che, sedando i disordini a Mayapore, la si sarebbe isolata e predisposta alla pacificazione. Lui parve sorpreso, ci rifletté per un momento e poi rispose: «Sì, suppongo che in termini militari si possa dire così».

Gli chiesi quali fossero i termini civili e lui replicò all’istante: «La salvaguardia delle vite e la protezione della proprietà». Dunque pensava che non ci si potesse fidare dei militari?, gli domandai. «I suoi uomini sono armati», disse. «La mia gente ha qualche risorsa dilatoria, come gli esplosivi, ma altrimenti può contare solo sulle proprie mani e sulle proprie passioni».

Rimasi sorpreso dal fatto che avesse definito i ribelli la “sua gente”, ma poi mi resi conto che White prendeva sul serio le proprie responsabilità allo stesso modo in cui prendevo sul serio le mie, e riconobbi la curiosa inimicizia che poteva stabilirsi, di pari passo con l’amicizia, tra due uomini con lo stesso retroterra per il semplice fatto che le loro sfere di responsabilità erano diverse. Eppure, pensai, alla resa dei conti il risultato in cui entrambi speravamo era lo stesso.

Le notizie di quel mattino riguardo la popolazione civile erano che gli impiegati della British-Indian Electrical Company erano scesi in sciopero e che gli studenti delle scuole superiori pubbliche e del Mayapore Technical College avevano programmato una satyagraha di massa per quel pomeriggio, una marcia che avrebbe attraversato il ponte di Bibighar e percorso la Grand Trunk Road fino al campo d’aviazione di Banyaganj, dove i lavori si erano fermati in seguito a intimidazioni ai danni di coloro, uomini e donne, che si erano inizialmente opposti all’appello del Congresso a cessare le attività.

White era profondamente contrario a qualsiasi azione contro gli studenti, la cui suscettibilità era imprevedibile. Forse si sarebbero accontentati di marciare ordinatamente, permettere l’arresto di uno di loro e poi disperdersi, soddisfatti di avere messo in difficoltà le forze dell’ordine e avere messo in pratica le idee del Congresso. Ma al primo accenno di “vento da un’altra direzione”, come si espresse White, avrebbero potuto scagliarsi disarmati contro la polizia o l’esercito in un gesto di isteria collettiva che avrebbe solo potuto causare tragiche perdite. Per questo chiese che i miei soldati agissero di rinforzo ai suoi poliziotti e che l’ufficiale al loro comando ricevesse istruzioni di controllare tanto le azioni della polizia quanto quelle dei suoi uomini. I poliziotti, spiegò, tendevano a essere “severi” con gli studenti. Poi mi confidò che la facilità con cui i suoi informatori erano venuti a sapere della dimostrazione studentesca lo induceva a sospettare che fosse un diversivo inteso a farci concentrare sul ponte di Bibighar e sulla zona dei college. In realtà si aspettava altri attacchi da parte dei dimostranti, uno al ponte di Mandir Gate e un altro alla prigione, e pensava che avrebbero coinciso con la manifestazione studentesca.

Non potei fare a meno di ammirare la sua valutazione equilibrata e sensata. Suggerii che forse sarebbe stato il caso di far rullare i tamburi e diffondere un proclama da parte delle autorità civili e militari, vietando qualsiasi assembramento. White ci aveva già pensato, e ora ci rifletté di nuovo. Ma alla fine disse no. «Rientra nella mia definizione di provocazione e mi ricorda troppo il preludio al massacro di Amritsar. E potrebbe ricordarlo anche a loro. Non hanno bisogno di proclami, sanno già cosa è permesso e cosa non lo è».

Credo che in quella conversazione, cominciata in un clima di freddezza che arrivava quasi alla sfiducia, scoprii più cose sui meccanismi mentali dei civili di quante ne avessi imparate in altri simili incontri nel corso del mio servizio in questo paese. Ne uscii con la profonda, durevole impressione dell’impegno assoluto che il vicecommissario si era preso nei riguardi del benessere della popolazione nel suo complesso, senza distinzioni di razza, fede o colore. Doveva avere avuto molti dubbi su quali azioni intraprendere, ma credo che li avesse affrontati tutti tenendo sempre a mente quella che sua moglie aveva definito la consapevolezza che quella era la gente con cui avremmo dovuto convivere in pace una volta che le rivolte si fossero spente. A quanto pare, in seguito agli incidenti di Mayapore White venne criticato per avere “perso la testa”. Se questo è vero, vorrei sgombrare il campo da ogni dubbio. White “fece da solo” finché poté, e io, nei pochi giorni in cui le circostanze glielo avevano ormai reso quasi impossibile, cercai di cavare il meglio da una brutta situazione. Vorrei anche che venisse messa agli atti la mia opinione che White avrebbe resistito fino allo stremo delle forze prima di ammettere la disfatta se la sera del 12 agosto non avesse ricevuto l’ordine diretto del suo commissario (che si trovava a trecento chilometri di distanza e che a sua volta agiva su ordine del governatore della provincia) di impiegare “al massimo” le forze militari a sua disposizione. Io stesso ricevetti una simile comunicazione dal mio comandante di divisione e di zona. La sera del 12 la provincia nel suo complesso si trovava di sicuro in preda a disordini così violenti da poter essere definiti senza remore una vera e propria rivolta, una situazione che nei nostri diretti superiori non poteva che suscitare i dubbi più gravi per l’immediato futuro.

L’incontro della mattina del 12 tra me e White fu praticamente l’ultimo che avrebbe lasciato un’impressione chiara nella mia mente. Ho già descritto, usandoli come esempio del tipo di intervento militare di sostegno alle forze civili, gli eventi che si svolsero quel pomeriggio sulla strada del ponte di Mandir Gate quando, come White aveva previsto, pensando che le forze dell’ordine fossero intente a sedare la dimostrazione studentesca la folla tentò di penetrare nel quartiere residenziale, diede fuoco alla kotwali nelle vicinanze del tempio e cominciò a puntare verso la stazione ferroviaria. Simultaneamente ai disordini su questo lato del ponte di Mandir Gate, la polizia cercava disperatamente di difendere il carcere. Due agenti persero la vita, e gli assalitori riuscirono a fare irruzione all’interno e liberare parte dei prigionieri prima che un contingente di Berkshire chiamato a rinforzo riprendesse il controllo.

Come i lettori potranno ricordare dalla mia precedente, dettagliata descrizione degli eventi sulla strada del ponte di Mandir Gate, le truppe militari “di sostegno” sfruttarono il vantaggio ottenuto sparando e disperdendo la folla e avanzarono. In questo modo il grosso dei rivoltosi venne respinto e costretto ad arretrare fino all’estremità opposta del ponte, anche se piccoli gruppi riuscirono a fuggire lungo le strade laterali.

Dopo avere dato l’alt sul versante del quartiere residenziale, il comandante del plotone chiese al magistrato, Mr Poulson, se dovesse mantenere la posizione oppure attraversare il ponte, entrare in città e occupare la piazza del tempio, dove nuovi “agitatori” stavano già esortando la folla in fuga a fermarsi e riorganizzarsi. Poulson, il cui intento era quello di tenere unite le forze dell’ordine seguendo le regole di ingaggio, richiese che i Berkshire si trattenessero all’imbocco del ponte. Si potevano già udire i primi spari provenienti dalla stazione, e Poulson aveva giustamente intuito che dopo avere attraversato il ponte la folla si fosse divisa in due, avanzando lungo la strada del ponte di Mandir Gate e allo stesso tempo disperdendosi lungo i binari verso la stazione. Spiegò all’ufficiale di comando che, se i soldati avessero attraversato il ponte e raggiunto la piazza, avrebbero potuto trovarsi intrappolati tra la folla che stava cercando di riaggregarsi in città e quella che stava battendo in ritirata dalla sparatoria alla stazione. Così, invece, quando gli uomini e le donne in fuga dalla stazione riapparvero, trovarono i Berkshire schierati sul ponte, la loro unica via di ritirata.

Sfortunatamente, malgrado la pronta richiesta di Mr Poulson e l’altrettanto pronta risposta dell’ufficiale di comando di “aprire un varco” per far passare i civili disarmati in fuga, alla vista dei soldati questi ultimi si fecero prendere dal panico e scambiarono il movimento del plotone, che era inteso a facilitarne il passaggio, per un segno di ostilità. Le prime file cercarono di battere in ritirata e vennero travolte e calpestate. Molti si lanciarono giù dagli argini e cercarono di attraversare il fiume a nuoto, e temo che diversi di loro, uomini e donne, annegarono. Questo incidente fu causa di un enorme malinteso. In seguito gli indiani ci accusarono di averli attirati in una trappola e di non aver mostrato alcuna pietà verso coloro che vi erano caduti. Qualcuno provò a dimostrare che i soldati avevano sparato ad altezza d’uomo e che proprio per questo molti civili si erano tuffati nel fiume. Per quanto possa capire, le uniche “prove” di ciò risiedevano nel fatto che in diversi casi i corpi degli annegati riportavano ferite di arma da fuoco. Ma tali ferite potevano essere solo il risultato dei disordini alla stazione ferroviaria, quando i rivoltosi, disobbedendo all’ordine di disperdersi e rispondendo con lanci di sassi e pezzi di mattone, avevano costretto i soldati ad aprire il fuoco su di loro. Come mi sembra di avere già detto, le forze di polizia alla stazione erano al comando di Merrick, il sovrintendente distrettuale, il quale aveva dimostrato grande energia, determinazione e sprezzo del pericolo. In sella al suo cavallo aveva continuato ad avanzare per disperdere la folla e impedirle di organizzarsi in un fronte unito. Solo quando era stato costretto alla ritirata aveva dato l’ordine ai suoi pochi agenti armati, e il permesso alle truppe, di aprire il fuoco.

Fu un pomeriggio amaro, e il culmine fu raggiunto quando al quartier generale del distretto giunse la notizia che la prigione era stata presa d’assalto e saccheggiata. Ormai cadeva una pioggia battente, e tra le 5 e le 6 di quella sera scoppiò un temporale, come a riecheggiare in cielo la tempesta che imperversava a terra. Fu in queste condizioni inclementi che un altro contingente di Berkshire, accompagnato da me e dal vicecommissario, attraversò il ponte a bordo degli autocarri scoperti e si diresse verso la prigione. La pioggia e la notizia che il tentativo di assalto al quartiere residenziale era fallito avevano ridotto il numero di persone sulla Jail Road, e senza dubbio la vista di una carovana di mezzi carichi di soldati lanciati a gran velocità diede uno scossone alla determinazione degli uomini e delle donne ancora presenti. Ciò malgrado, la zona immediatamente circostante la prigione dovette essere liberata facendo scendere i soldati dai mezzi e ordinando loro di sparare diverse raffiche sopra le teste dei civili. Una volta ripreso il controllo sull’ingresso della prigione, le enormi, pesanti porte di legno dovettero essere sfondate a picconate. I ribelli si erano asserragliati all’interno ed erano riusciti a penetrare nell’arsenale, ma per fortuna la loro familiarità con le armi che vi avevano trovato si era rivelata praticamente nulla: in caso contrario, i nostri uomini avrebbero dovuto forzare le porte del carcere sotto un intenso fuoco nemico. Già così, uno dei soldati rimase ferito quando i Berkshire, agli ordini del loro comandante, si riversarono nel cortile del complesso.

La resa della prigione fu il colpo finale alle speranze dei ribelli e, come succedeva spesso quando si subivano rovesci di quel genere, la rabbia venne sfogata internamente. La notte tra il 12 e il 13, quando non si poteva ancora dire con chiarezza chi stesse avendo la meglio in fatto di controllo sulla popolazione civile, alcune fazioni ribelli cessarono temporaneamente di prendersela con noi per saldare vecchi conti tra loro. In città vi furono saccheggi e incendi dolosi, ma diretti verso botteghe, abitazioni e addirittura membri della popolazione nativa. Il corpo di una vittima trovato il mattino dopo poteva sempre essere rivendicato come quello di un “martire della causa della libertà” picchiato a morte dalla polizia o dai militari. Si verificò anche qualche incidente nell’acquartieramento, dove piccoli drappelli di uomini che erano riusciti a fuggire e a nascondersi lungo le strade secondarie riemersero durante la notte e provocarono lievi danni alla ferrovia. E quella stessa notte scoppiò un incendio in uno dei magazzini allo scalo ferroviario.

A quel punto, il vicecommissario aveva ricevuto l’ordine di contrastare la ribellione con tutte le forze a sua disposizione, e io ne ero stato informato dal mio comandante di zona. Le mie istruzioni “riservate” erano che, se nelle ore successive avessi valutato che le autorità civili non erano più in grado di operare, avevo il potere discrezionale di assumere il comando della situazione e dichiarare la legge marziale. Tuttavia, a giudicare da quello che avevo visto nel pomeriggio, reputavo che White e io saremmo stati in grado di ristabilire l’ordine, a patto che fossimo d’accordo sul fatto che la situazione era deteriorata al punto che nessuno dei due avrebbe potuto rispondere a ogni singolo incidente attenendosi sempre e solo alle regole di ingaggio. Ne avevo parlato con il mio comandante, aggiungendo che a preoccuparmi più di ogni altra cosa era la situazione a Dibrapur, che dopo le esperienze di quella giornata a Mayapore mi sembrava sempre più seria.

Quella sera a tarda ora ebbi un altro breve incontro con White. Fu uno di vari colloqui che non ricordo nei dettagli, a causa della fretta e dell’atmosfera di emergenza in cui si svolsero, ma rammento la sua espressione tesa e la frase con cui mi accolse: «Bene, suppongo che a questo punto il comando passi a lei». «È una sua richiesta?», domandai. Lui scosse il capo, ma acconsentì alla mia decisione di inviare l’indomani un contingente a Dibrapur lungo la strada diretta a sud di Mayapore. Quella notte, tuttavia, il mio comandante di zona mi richiamò al telefono per chiedermi di puntare su Dibrapur a piedi da nord-ovest, il lato del ponte sabotato che nel frattempo avrebbe dovuto essere riparato al più presto dai genieri così che la strada potesse essere resa di nuovo agibile una volta che a Dibrapur fosse tornata la pace.

I Ranpur erano imprigionati in quel breve tratto di una quindicina di chilometri da blocchi stradali e mine artigianali che avevano già causato diverse perdite. Questo, a mio parere, confermava la mia opinione che Dibrapur fosse stata scelta come roccaforte della rivolta, e fu solo il mattino del 17 che potei informare il vicecommissario che la città era di nuovo sotto il controllo delle forze dell’ordine. A rinforzo dei Ranpur dovetti inviare una compagnia di Pankot lungo la strada diretta a sud che passava da Tanpur, e nel complesso l’operazione assunse la natura di un vero e proprio attacco militare. La notte del 13, quando i Ranpur fecero ingresso a Dibrapur, dichiarai la legge marziale. I miei uomini impiegarono tre giorni a ristabilire la legge e l’ordine. Il 17 un ufficiale dello stato maggiore del vicecommissario riprese il controllo della città a nome delle autorità civili, e i funzionari che avevano apparentemente collaborato con gli insorti (il responsabile indiano di sottodivisione, un magistrato e diversi agenti di polizia) vennero ricondotti a Mayapore, dove i loro casi sarebbero stati esaminati in prima istanza dal vicecommissario. Questa fu l’occasione in cui il responsabile di sottodivisione, dopo che ebbe restituito il denaro che sosteneva di avere nascosto per evitare che finisse nelle mani dei ribelli, non venne perseguito.

Nel frattempo, nel distretto la ribellione aveva ormai superato le fasi di crescente violenza in cui si pensava che fosse virtualmente incontrollabile per giungere a uno stadio in cui si cominciava ad avvertire che il suo impeto era stato contrastato con successo. In qualsiasi conflitto fisico, l’energia iniziale di cui c’è bisogno per entrare in azione sembra sempre fornire i ricordi più nitidi. In seguito subentrano e prendono piede disciplina e addestramento, che dimostrano la loro preziosità ma non forniscono ricordi indelebili. Rammento però che il 14 agosto venne fatto un altro serio tentativo di penetrare nel quartiere residenziale nel nome dei “Martiri di Bibighar e del ponte di Mandir Gate”.

Non si poteva non restare colpiti, in quell’occasione, alla vista di una folla nella quale così tante donne, giovani e vecchie, si esponevano al pericolo di restare ferite o perfino uccise. Si avvertiva, nei tentativi di ribellione del 14, un’osservanza più profonda dei principi di non-violenza del Mahatma. Era come se da un giorno all’altro tra quella gente semplice si fosse diffusa la disillusione nei riguardi dei sobillatori che l’avevano incoraggiata a impugnare qualunque arma e a credere di poter così sgominare polizia e soldati. Ora invece si presentavano nello spirito di una sfida pacifica, reggendo striscioni che ci dicevano «LASCIATE L’INDIA» e ci esortavano a liberare le “vittime innocenti” dei giardini di Bibighar. La folla che cercava di attraversare il ponte di Bibighar era composta principalmente da donne e bambini, ed era una visione così toccante che i nostri uomini erano restii ad aprire il fuoco, anche se gli ordini erano quelli di sparare sopra la testa dei dimostranti. Vidi un soldato dei Berkshire rompere i ranghi per dare conforto a una bambina che correva su e giù in cerca di sua madre, la quale era di sicuro una delle numerose donne che si erano coricate sulla strada così che i soldati, se avessero voluto avanzare sul ponte, sarebbero stati costretti a calpestarle.

Non ci sono molti dubbi sul fatto che la vicenda dell’aggressione a Miss Manners ai giardini di Bibighar avesse fornito al popolo un efficace grido di battaglia, ma personalmente non ho mai preso sul serio l’argomentazione che la rivolta in città fosse stata causata dal modo in cui la polizia si era “vendicata” dello stupro. Sono sicuro che i racconti sulle brutalità subite dai sei arrestati erano infondati, anche se vorrei ribadire che a eccezione degli ufficiali di grado superiore, come ad esempio il sovrintendente distrettuale, la polizia era formata da indiani e che nella sua storia ci sono state, bisogna ammetterlo, occasioni in cui gli ufficiali bianchi sono stati ingiustamente incolpati per le azioni dei loro subalterni nativi, che a norma di regolamento agivano sotto il loro controllo. Dubito tuttavia che ci sia stato qualcuno, indiani compresi, disposto a dare credito alle voci secondo le quali uno o diversi degli arrestati, che erano tutti indù, sarebbero stati “costretti a mangiare carne di manzo”. È vero che nella polizia c’è un numero alquanto ingente di musulmani, ma se la popolazione avesse reputato vera la storia dell’ingestione forzata di carne di manzo ne avrebbe incolpato gli agenti musulmani, scatenando il genere di disordini comunitari che per fortuna in quell’occasione non si verificarono. Tali voci, nel caso dei giardini di Bibighar, erano state senza dubbio diffuse dopo i fatti, quando ormai era stata ripristinata la pace. Di sicuro in quei giorni niente del genere giunse alle mie orecchie, e quando ciò avvenne non mi sembrò degno di approfondimento, cosa che in ogni caso non sarebbe spettata a me.

Quello che ritengo sia accaduto è che, sfortunatamente, la gravità dei disordini a Mayapore assorbì ogni briciolo delle nostre energie, impedendo alle autorità di approfondire le indagini e la ricerca delle prove della colpevolezza degli arrestati, e che l’incapacità della ragazza stessa di identificarli lasciò il caso in uno stato giudiziariamente insoddisfacente. Non vi fu mai bisogno di trasferire gli arrestati nelle celle della caserma dei Berkshire, ma se davvero erano colpevoli, e su tale argomento le mie opinioni restavano aperte, dovevano reputarsi fortunati per il trattamento ricevuto. Tutto quello che si poteva fare, basandosi sui loro trascorsi, era applicare le leggi sulla Difesa dell’India, e questo fu fatto. Per quanto riguarda invece l’aggressione all’insegnante della missione e l’assassinio del suo subalterno indiano, anche in questo caso, forse, l’impossibilità di identificare rapidamente i responsabili tra gli arrestati di Tanpur causò una simile inadempienza giudiziaria, sebbene alla fine a uno o due degli arrestati venisse comminata la pena capitale.

Secondo i comunicati ufficiali pubblicati in seguito ai fatti, in tutto il paese la polizia e/o l’esercito avevano dovuto aprire il fuoco sulla popolazione in più di 500 occasioni. C’erano stati più di 60.000 arresti, più di 1.000 vittime e più di 3.000 feriti gravi. Le autorità indiane, tuttavia, contestano il calcolo delle vittime, arrivando a enumerarne addirittura 40.000. Nel caso del mio contingente, le cifre sono le seguenti. Numero di occasioni in cui era stato necessario aprire il fuoco: 23 (12 delle quali a Dibrapur). Numero di vittime stimate: 12. Numero di feriti stimati: 53. Penso che questi dati siano prova della moderazione dimostrata dai nostri uomini. Non possiedo i dati relativi agli arresti, essendo questi compito della polizia. Né sono in possesso di quelli relativi alle punizioni corporali, come le fustigazioni, soggetto su cui gli indiani sono sempre stati sensibili. I danni nelle città e nelle aree circostanti erano gravi e ci erano volute settimane prima che venisse completamente ristabilito quello che si sarebbe potuto definire “ordine”, vale a dire un sistema ininterrotto di comunicazioni, la possibilità di spostarsi senza ostacoli da un punto all’altro lungo strade e ferrovie e comunità sotto il completo controllo delle forze di polizia e la giurisdizione di un magistrato legalmente incaricato. Come aveva detto White, in ultima analisi fu la popolazione stessa a pagare le conseguenze maggiori per gli sconvolgimenti subiti dalla sua pacifica, normale esistenza. Pare, ad esempio, che la carestia del 1943 nel Bengala si sarebbe potuta evitare, o se non evitare quanto meno alleviare, se la “ribellione” non fosse mai esplosa. Nel nostro caso vi furono numerosi episodi di sconsiderata distruzione di botteghe, magazzini ed empori alimentari.

Sono consapevole di essermi forse dilungato fin troppo su una serie di eventi che rispetto alla mia esistenza nel suo complesso non ha avuto né una durata né un’importanza particolare dal punto di vista militare. Forse l’impressione duratura che mi ha lasciato è legata al fatto che proprio in quella fase stavo affrontando una perdita di cui fatico ancora a parlare. C’erano momenti, mentre svolgevo i miei compiti quotidiani, in cui mi sembrava che la mia vita, pur nella sua semplicità, mi avesse crudelmente già assegnato tutte le sue ricompense; e in cui vedendo la forza e l’unità della marea che sembrava riversarsi su di noi non potevo evitare di chiedermi: Dove abbiamo sbagliato? Dove ho personalmente fallito?

Fu il 18 agosto, il giorno dopo che ebbi riferito al vicecommissario che a Dibrapur era stata ristabilita la sua autorità e che i miei ufficiali, ormai sparsi in diversi punti del distretto, mi ebbero espresso l’opinione che il peggio dell’insurrezione era passato, che ricevetti un telegramma in cui Tubby Carter mi ordinava di rientrare al più presto a Rawalpindi. Malgrado avesse usato canali militari, la comunicazione era stata rallentata dai disordini. Sapevo benissimo che “ordinandomi” di tornare Tubby me ne stava semplicemente comunicando la necessità. Telefonai immediatamente al comandante di zona, che mi diede il permesso di usare qualunque mezzo di trasporto a mia disposizione. Era già sera; lasciai la brigata nelle capaci mani del giovane Ewart Mackay e dell’ufficiale di comando dei Pankot e, diffidando della ferrovia, presi l’auto di servizio, mi armai (lo ammetto) di pistola e viaggiai per l’intera notte fino a Calcutta. Con me c’erano il mio attendente e ovviamente l’autista. L’attendente era un indù, l’autista un musulmano. Trovavo una salutare lezione di convivenza, per coloro che erano sempre pronti a sottolineare le “differenze”, nel fatto che a bordo dell’auto ci fossero, in un’atmosfera di perfetta amicizia, un rappresentante di ciascuno dei tre maggiori “poteri” in India: indù, musulmano e cristiano. Il viaggio in se stesso, tuttavia, mi parve interminabile. Nel buio, dopo essermi appena lasciato alle spalle tutti quei problemi, mi ritrovai a riflettere sull’immensità e sulla strana, irresistibile bellezza dell’India.

Ancora oggi quella notte mi sembra del tutto irreale. Quando arrivammo a Calcutta era ormai il mattino inoltrato del 19, malgrado l’autista, avvertendo che dietro quel viaggio vi fosse un mio problema personale, avesse guidato in modo spericolato. Anche lui era armato, e penso che se fossimo stati attaccati avrebbe contribuito a vendere cara la nostra pelle. Giunto a Calcutta, mi recai subito dal mio vecchio amico, il tenente colonnello “Pug” Jarvis, il quale era stato avvertito da Tubby e mi aspettava fin dal mattino precedente. Era quasi mezzanotte quando l’aereo della RAF che mi aveva procurato decollò da Dum Dum. Per fortuna mi avrebbe portato a Chaklala con un solo breve scalo a Delhi. Arrivai a Chaklala alle prime ore del mattino del 20, e Tubby mi accompagnò direttamente al suo bungalow e poi al luogo in cui lei era giunta al suo eterno riposo il giorno prima, troppo presto perché potessi essere presente come avevo sperato con tutte le mie forze.

Feci ritorno a Mayapore la seconda settimana di settembre, ma circa due settimane più tardi ricevetti l’ordine di assumere il comando di una brigata sul campo, in attesa di affrontare il vero nemico. Di questa brigata, e dei nostri preparativi all’azione contro i giapponesi, scriverò in un altro capitolo. Ma in quel gradito trasferimento a un ruolo più attivo intuii il comprensivo zampino del mio vecchio amico a Rawalpindi, il quale sapeva che per me a quel punto era possibile solo un tipo di dovere.

 

 

II

Civili

 

Trascrizione riveduta di osservazioni scritte e commenti

verbali di Robin White, CIE (ex ICS)

 

(1) Ho trovato interessante la parte che mi ha inviato delle memorie inedite in cui il defunto brigadiere Reid descrive i suoi rapporti con le autorità civili nel 1942 a Mayapore. Io non tenevo un diario, come a quanto pare fece Reid, ed è passato molto tempo dall’ultima volta che ho pensato agli eventi in questione, ma sono sicuro che dal punto di vista militare la sua è una ricostruzione sufficientemente fedele dell’accaduto. Dal punto di vista civile ci sono ovviamente alcune inesattezze, o meglio lacune narrative o interpretazioni alternative, che richiederebbero qualche attenzione se si volesse far emergere un quadro più complessivo e meno personale.

Dubito tuttavia che io possa dare un contributo, dopo tutto questo tempo. È dal 1948 che manco dall’India, e ormai da tempo ho perso i contatti sia con i vecchi amici che con i ricordi di allora. Posso confermare che Ronald Merrick alla fine riuscì a lasciare la polizia indiana, ma io non ebbi nulla a che fare con il suo esonero né ero a conoscenza di qualunque motivo che potesse giustificarlo. Venne assegnato a un reggimento indiano, mi sembra, e rimase ferito in Birmania nel 1944 o 1945. Da quanto ricordo, venne ucciso durante i tumulti seguiti alla spartizione del 1947.

È stato interessante sapere della sua recente visita a Mayapore, e sono lieto che Lili Chatterjee viva ancora nella MacGregor House, nome che avevo dimenticato pur ricordando la casa in sé. Mi fa altresì piacere che Srinivasan sia ancora in vita e si ricordi di me. Dopo il mattino in cui dovetti ordinare il suo arresto e quello di altri membri del sottocomitato locale del Congresso, non ebbi più occasione di rivederlo. Sapevo poco del “Santuario” diretto da sorella Ludmila, e a dire il vero avevo dimenticato anche lei, ma mi fa piacere sapere che l’Istituto Manners per bambini e bambine indiani perpetua la memoria di una famiglia un tempo altamente rispettata nella provincia. Nelle sue pagine non dice in che modo fu fondato l’Istituto. Presumo con i lasciti di Miss Manners o di sua zia, Lady Manners. A proposito, che ne è stato del bambino, sempre che sia sopravvissuto?

Le rimando il manoscritto del brigadiere Reid ringraziandola sentitamente. In certi momenti mi ha commosso. Né mia moglie né io sapevamo della malattia di Mrs Reid finché non vedemmo un necrologio pochi giorni dopo il suo ritorno a Rawalpindi. Sapevamo, naturalmente, che suo figlio era prigioniero di guerra. Era qualcosa che tenevo sempre a mente quando avevo a che fare con lui. Sapere che avesse perso anche il figlio mi è dispiaciuto. C’erano momenti in cui Reid mi irritava (ed è naturale che lui provasse la stessa cosa nei miei riguardi) e altri in cui suscitava il mio rispetto, ma nel complesso non era il mio genere di persona. L’impressione che avemmo riguardo all’assegnazione di una posizione di comando in prima linea era che le autorità militari avessero voluto allontanare da Mayapore una figura la cui reputazione, dopo la ribellione, era ormai diventata troppo controversa. Sono lieto di vedere che Reid non ebbe la stessa impressione. Poiché non mi ha inviato i capitoli successivi delle sue memorie, non so come prese il successivo ritorno a una carica amministrativa. Temo che non riuscì mai a raggiungere il suo obiettivo di “affrontare il vero nemico”. Per un certo periodo, com’è naturale, seguii come potei le sue sorti. Ma, come ho già detto, è ormai passato molto tempo e la mia carriera indiana ebbe termine pochi anni dopo.

Mi dispiace di non poterle essere di maggiore aiuto.

 

(2) Ho ricevuto una lettera di Lili Chatterjee, e immagino che sia stato lei a darle il mio indirizzo. Lili dice che al termine della sua recente permanenza a Mayapore le ha dato, oltre a due lettere di Miss Manners a sua zia, un diario da lei scritto durante il periodo trascorso nel Kashmir, in attesa di partorire. A quanto dice, sulle prime Lili le avrebbe tenuto segreta l’esistenza del diario, e non glielo avrebbe mai concesso se nel frattempo non avesse deciso che il suo interesse per quello che lei chiama “l’affare dei giardini di Bibighar” era sincero. Immagino che lo avesse ricevuto da Lady Manners diversi anni dopo gli eventi in esso descritti, e che Lady Manners, sentendosi ormai prossima alla morte, avesse deciso che tra tutti coloro che conosceva al mondo la sola Lili Chatterjee meritasse di entrarne in possesso. Lili mi dice che il diario chiarisce completamente l’accaduto.

Mi pare di aver capito che il suo interesse per questa vicenda sia sorto dalla lettura delle memorie inedite del brigadiere Reid, giunte in suo possesso come risultato del suo noto interesse per questo periodo della storia dei rapporti indo-britannici. Lili mi informa che ha cercato di rintracciare coloro che potrebbero descrivere per esperienza personale, o commentare sulla base di opinioni informate, gli eventi di quegli anni a Mayapore. So per esempio che nel tentativo di “ricostruire” la storia di Miss Crane, la direttrice scolastica della missione, ha visitato diversi luoghi tra cui il quartier generale dell’organizzazione e ha esaminato i suoi effetti personali. Ai tempi ebbi modo di incontrare Miss Crane in una o due occasioni, e mia moglie la conosceva abbastanza bene per averci lavorato insieme in qualche comitato. Conoscevo anche Miss Manners, ma di quel Kumar purtroppo non sapevo quasi nulla. Lo avevo incrociato per caso, al massimo in un paio di occasioni. Jack Poulson sarebbe forse in grado di dirle di più, poiché dopo gli arresti avevo incaricato proprio lui delle inchieste. Sfortunatamente non posso aiutarla a rintracciarlo. È emigrato in Nuova Zelanda, credo, e sono molti anni che non ho sue notizie. Lili mi dice però che lei è riuscito a rintracciare e parlare con un amico di Kumar in Inghilterra, un certo Lindsey... forse lo stesso Lindsey che nelle memorie di Reid aveva richiesto il trasferimento dal servizio segreto di brigata a Mayapore? Da quanto ricordo, all’inizio Kumar venne mandato in prigione nella capitale della provincia, ma se come dice lei sua zia lasciò Mayapore anni fa e né il vecchio zio né Srinivasan hanno più avuto notizie di lui, è possibile che dopo il rilascio si sia rifatto una vita in India o, forse, in Pakistan.

Alla luce di quello che mi ha detto Lili Chatterjee, e a condizione che non si faccia affidamento sulla mia memoria, sono disponibile a un incontro.

 

(3) Grazie per avermi dato l’opportunità di leggere, prima di incontrarci, una copia del breve estratto dal diario di Daphne Manners, nel quale viene descritto ciò che davvero accadde a Bibighar, e la lettera a sua zia concernente la “proposta di matrimonio” di Merrick. Grazie anche per avere condiviso la deposizione di Vidyasagar. Ai tempi non lo conoscevo, e dopo tutti questi anni il suo nome non significa nulla. Ricordo però Laxminarayan e il giornale. È interessante sapere che Laxminarayan vive ancora a Mayapore, e sono lieto che abbia potuto metterla in contatto con Vidyasagar prima che lei ripartisse dall’India. Miss Manners stava ovviamente dicendo la verità (o meglio, scrivendola sul suo diario), e se è vera anche la “testimonianza” di Vidyasagar (e sembrerebbero esserci scarsi motivi per dubitarne, visto che mentire a questo punto sembra alquanto inutile) posso solo esprimere un senso di profondo turbamento. È una responsabilità che non è facile scrollarsi di dosso. Forse dovrei cercare di bilanciare un ritratto così negativo illustrando i motivi per cui consideravo Merrick un ufficiale responsabile e volonteroso. Ma da quello che lei mi dice sulla base della sua documentazione (le memorie di Reid, il diario e le lettere di Miss Manners e i ricordi di sorella Ludmila, per non parlare della testimonianza di Vidyasagar) capisco che lei si sia già fatto un’opinione in merito ai personaggi principali della vicenda, in particolare riguardo a Merrick, e che il mio contributo alle sue indagini farebbe meglio a limitarsi alle questioni più generali. La lettura di questi documenti, che ora le restituisco, ha di sicuro avuto su di me l’effetto che lei prevedeva. Mi trovo a ricordare cose a cui non pensavo più da anni, sicché forse, dopo tutto, potrò esserle di aiuto.

 

(4) Trascrizione orale

Aree di pericolosa fallibilità tra una linea politica e la sua applicazione? Sì, sembrano proprio parole di Srinivasan. È questo genere di area di cui lei vuole provare a tracciare una mappa? Non solo? Capisco. Bene, concentriamoci sui miei rapporti con Reid. Ma dovrà essere lei a farmi le domande.

Be’, ho preso nota di un paio di inesattezze nel racconto di Reid, ma in ultima analisi a colpirmi è stato, al di là dell’atteggiamento da soldato semplice con cui Reid è tornato a infastidirmi sulla carta come faceva di persona, il fatto che in qualche modo sia riuscito a dare una spiegazione logica dell’accaduto dal suo punto di vista, facendomi tornare in mente con maggiore chiarezza la sensazione che avevo, in quei giorni, di non riuscire a ricostruire mentalmente la sequenza di eventi che aveva portato a una situazione che appariva logica ma che non lo era affatto.

Ogni volta che Reid entrava nel mio ufficio con quell’espressione in volto, quella di chi era pronto e ansioso di metterci tutti in riga, mi sentivo come un pescatore con una preda all’amo che poteva essere tanto un’acciuga quanto una balena, e l’arrivo di Reid, o anche solo una telefonata da parte sua o di un membro qualsiasi del suo stato maggiore, era come se qualcuno mi stesse dando di gomito nel bel mezzo di un mio discorso per dirmi, in maniera del tutto inesatta, dove stavo sbagliando. Reid aveva la dote di soffocare qualsiasi tuo istinto a eccezione dei più grossolani, cosa che in un’occasione mi spinse a perdere la pazienza e a dirgli scortesemente di lasciarmi in pace. Nel suo libro non ne fa cenno, ma non sono così sicuro che l’omissione non sia da imputarsi al fatto che avesse una corazza da rinoceronte e che il mio scatto d’ira non avesse avuto più effetto della puntura di un moscerino. So che il suo libro dà l’impressione di un uomo non del tutto insensibile, ma in generale la sua sensibilità si applicava solo ai problemi più gravi e alle emozioni più grandiose. Nei rapporti quotidiani con il prossimo, tendeva più o meno a esercitare una forza pari a quella di un martello pneumatico su una puntina da disegno.

Al nostro primo incontro mi parve un uomo per contenere il quale sarebbe stata necessaria una grande quantità di pazienza ed energia. Come spesso accade quando qualcuno viene sollevato di peso da dietro una scrivania, si era formato un’opinione su quello che insisteva a chiamare il suo compito o il suo ruolo, quasi fosse qualcosa di prestabilito e avesse la precedenza su quello di chiunque altro, e temevo che essendosene fatta un’idea ben precisa fosse anche determinato a metterla in pratica in toto, senza badare all’attinenza di certi suoi aspetti con la situazione corrente. Ricordo che dissi a mia moglie che, se gli indiani non avessero scatenato una ribellione, Reid si sarebbe sentito costretto a inventarne una per poterla reprimere e sentire di aver svolto il proprio dovere fino in fondo. Lei mi raccomandò di essere gentile nei suoi confronti, poiché, come sapevamo ormai tutti, suo figlio era disperso in azione in Birmania. In realtà speravo quanto lui che il povero ragazzo venisse ritrovato, e quando seppi che era stato catturato dai giapponesi rimasi ancora più turbato di lui.

Si può dire che i miei rapporti con Reid fossero abbastanza tipici del conflitto tra autorità civili e militari, tanto che forse fui colpevole quanto lui di essermi conformato a un generico modello di comportamento.

No, ha ragione a correggermi. Non sto dicendo che le autorità civili fossero sempre progressiste e quelle militari reazionarie. Sono caduto nella mia stessa trappola, giusto? Mi permetta di correggermi. Reid e io inscenammo il classico conflitto tra quegli inglesi che apprezzavano e ammiravano gli indiani e li credevano capaci di autogovernarsi e quelli che ne provavano avversione, paura, disprezzo o indifferenza a livello individuale, che li consideravano estranei alla vita e al lavoro se non nel loro ruolo di servitori, soldati o puntini su una mappa. In generale, gli esponenti delle autorità civili erano meglio informati in merito alla questione indiana dei loro corrispettivi nel settore militare. Nelle ultime fasi della nostra amministrazione sarebbe stato raro trovare un membro delle autorità civili con una visione politica semplicistica come quella di Reid.

Indicarle il punto più debole della sua analisi politica dell’India dall’inizio degli anni Trenta? No, perché “analisi” è il termine sbagliato. Reid aveva una posizione, nient’altro. Ce l’avevamo tutti, ma la sua mi pareva alquanto infantile. Era emotiva e per nulla analitica. D’altra parte mi è sempre stato insegnato che la politica è fatta dalle persone, e molti inglesi la pensavano come Reid e condividevano le sue impressioni, ed è per questo che, anche quando mi faceva imbufalire con i suoi discorsi sul fatto che indiani e inglesi avrebbero dovuto seppellire l’ascia di guerra e unirsi per sconfiggere i giapponesi, riconoscevo la forza della sua posizione. Dopo tutto, i giapponesi stavano praticamente bussando alla porta, e sebbene quello che Reid intendeva con seppellire l’ascia di guerra fosse che a seppellirla avrebbero dovuto essere gli indiani, mettendo fine alle loro rivendicazioni politiche mentre gli inglesi mantenevano lo status quo e non seppellivano un bel niente, non si poteva non ammettere che la situazione fosse molto simile a quella di una famiglia litigiosa che guarda fuori dalla finestra e vede i ladri che cercano di penetrare in casa o i vandali che si preparano a darvi fuoco. In una simile situazione, il capofamiglia si sentirebbe automaticamente in dovere di assumere il comando senza tante discussioni.

Ma per quanto semplice la situazione possa sembrare, una banale questione di dare un taglio ai bisticci e fare fronte unito contro i giapponesi all’arrembaggio, la sua semplicità dipende dalla natura dei contrasti dentro casa, giusto? In generale le analogie non mi piacciono, ma portiamo avanti questa ancora un po’. Proviamo a immaginare che la famiglia in questione sia un gruppo alquanto eterogeneo e che quelli che hanno meno voce in capitolo sulla gestione casalinga siano proprio coloro a cui la casa apparteneva originariamente. L’attuale padrone di casa, autonominatosi tale, ripete da anni che quando si sarà finalmente convinto che loro hanno imparato a riparare il tetto, assicurarsi che le fondamenta reggano e mantenere il tutto in buone condizioni, se ne andrà e restituirà loro la casa, poiché il suo compito è questo: insegnare agli altri a fare qualcosa della loro vita e delle loro proprietà. Queste cose le sta dicendo da talmente tanto tempo che ormai ci crede lui stesso, ma il suo modo di governare la casa è un tale miscuglio di parole di incoraggiamento e misure repressive da aver creato l’impressione in “famiglia” che in realtà stia scherzando e che l’unica lingua che capisca sia la sua, una combinazione di pressioni fisiche e morali. In più, sono talmente tanti anni che ripete che se ne andrà senza mai muoversi che ai piani inferiori sono nate fazioni tra quelli che sperano di ereditare, o meglio di riprendersi la casa. In realtà non era sua intenzione crearle, ma a quanto pare la loro esistenza gli fa comodo. Se neghi a qualcuno ciò che vuole per un periodo abbastanza lungo, questo qualcuno comincerà a litigare su cosa vuole di preciso. Ed è perciò che l’attività preferita del capofamiglia è ricevere privatamente le delegazioni delle diverse fazioni e poi usare le argomentazioni della minoranza per indebolire le rivendicazioni della maggioranza. Ha preso l’abitudine di chiudere in cantina i membri più infervorati delle varie fazioni, liberandoli solo quando questi fanno ricorso allo sciopero della fame come Gandhi.

Eravamo in India per quello che potevamo ricavarne. Questo non lo nega più nessuno, ma credo ci siano due aspetti fondamentali della vicenda anglo-indiana che preferiamo dimenticare o ignorare. Il primo è che all’inizio eravamo stati in grado di sfruttare l’India perché il primo confronto, per usare un luogo comune di Reid, era avvenuto tra una vecchia, stanca civiltà che si stava esaurendo sotto il dominio dei Moghul e una civiltà relativamente più nuova e vitale che era stata in crescita fin dai tempi dei Tudor. Gli inglesi tendono a vedere l’India come una conquista vittoriana, ma in realtà aveva origini elisabettiane. E basta considerare le differenze tra elisabettiani e vittoriani per farsi un’idea dei cambiamenti che c’erano stati nel modo in cui vedevamo il nostro tesoro, e di conseguenza del secondo risvolto della questione che scordiamo o ignoriamo: la confusione intorno alla questione morale. La quale è destinata a nascere e crescere, e alla fine ad avere la precedenza, in qualunque rapporto duraturo tra esseri umani, specialmente se le loro condizioni sociali sono disuguali. L’onus della responsabilità etica ricade naturalmente sui privilegiati, allo stesso modo in cui i detentori di un potere esagerato possono giustificare quel potere come un dono divino e parlare di moralità e della necessità di elevare i poveri e gli ignoranti, e cioè coloro su cui esercitano il potere, un popolo che ha sopportato troppo a lungo quella che oggigiorno chiamiamo una condizione svantaggiata scarica le responsabilità sul suo dio. Quasi esattamente nello stesso momento in cui gli inglesi sviluppavano le loro teorie sul “Fardello dell’Uomo Bianco” perché li aiutassero a reggere il peso delle loro responsabilità, indù e musulmani cominciavano a rivolgersi alle proprie religioni, non per spiegare la loro servitù ma perché li aiutassero a porvi fine. Sono state dette molte sciocchezze riguardo ai conflitti comunitari in India, come se durante i secoli del nostro governo avessimo atteso vanamente che indù e musulmani appianassero i loro contrasti, ma la verità è che i conflitti comunitari divennero un problema solo quando, nel diciannovesimo secolo, i revivalisti e riformisti indù e musulmani si misero d’impegno, allo stesso modo in cui lo stavano facendo i nostri, per cercare conforto e indicazioni nelle loro vecchie filosofie. Credo che siano stati gli inglesi, seppure in modo inconsapevole e involontario, a creare la divisione tra l’India musulmana e l’India industana. Di recente, in Kenya, abbiamo accusato i Kikuyu di barbarie per la ribellione dei Mau Mau, ma prendi a schiaffi un uomo abbastanza a lungo e lui farò appello alla sua memoria razziale e alle sue divinità tribali. Gli indù si sono appellati alle loro, i musulmani anche. Non fu per coscienza sociale che Gandhi si identificò con i reietti della religione induista. L’intoccabilità era estranea all’induismo originario, ma nel tentativo di risalire alla fonte della sua ispirazione religiosa da parte di un popolo assoggettato era destino che venisse scelta come la vittima predestinata di un risveglio religioso, e che la non-violenza riemergesse come il dogma principale della sua rinascita. La rivisitazione religiosa musulmana era più pericolosa, poiché Maometto predicava la Guerra Santa contro gli infedeli. Penso che gli inglesi provassero un fascino perverso per quell’idea di pericolo. Ho sempre trovato interessante che nel complesso la maggioranza degli inglesi si trovasse più a suo agio con i musulmani che con gli indù; d’altra parte, nel profondo abbiamo sempre provato una punta di imbarazzo per la “debolezza” del cristianesimo. Nell’induismo vedevamo la stessa debolezza, laddove la religione di Allah aveva in sé una sorta di variante orientale della cristianità più muscolare.

A quei tempi ero profondamente confuso da Gandhi. Nel complesso diffido dei grandi uomini, e penso che dovrebbero farlo tutti. Di sicuro non mi fidavo di Gandhi, ma non allo stesso modo di Reid, tanto per fare un esempio. Diffidavo di Gandhi perché non capivo come un uomo dotato di tanto potere e influenza non ne fosse inibito e potesse sempre prendere la decisione giusta per le ragioni giuste. Eppure, malgrado i miei dubbi sulle sue intenzioni, anche i più severi, avvertivo sempre il suo appello alla coscienza.

C’è una storia, riguardo a Gandhi, che ai tempi ignoravo, e che da quando l’ho scoperta mi è sempre parsa interessante. Forse la conosce anche lei?

Esatto, proprio quella. La trova pertinente? A me sembra fondamentale per capire l’uomo. Voglio dire, essere dichiarato un paria dalla propria comunità solo per aver espresso l’intenzione di studiare legge in Inghilterra! E lo sapeva, che i leader della comunità dichiararono che chiunque gli avesse fatto visita o augurato buona fortuna sarebbe stato multato? Una rupia o qualcosa del genere. E pensi a tutto il tempo che Gandhi trascorse all’estero tra la prima partenza e il ritorno definitivo. Complessivamente quasi un quarto di secolo. Mi chiedo cosa avesse pensato dell’India quando vi rientrò dopo tutti quegli anni trascorsi in Inghilterra e in Sudafrica. Secondo lei, si sentì mancare il cuore? Anche se tornò come un eroe per ciò che aveva fatto per gli indiani in Sudafrica, introducendo la satyagraha? Voglio dire, l’India è ben lontana dall’essere salubre, come direbbe il brigadiere Reid. Forse Gandhi vi diede un’occhiata e si chiese: “Buon Dio, e questo è il luogo a cui non vedevo l’ora di fare ritorno?”. Lo dico perché tra poco arriveremo all’importante questione del dubbio nella vita pubblica.

Suppongo che sia anche rilevante che Gandhi rientrò in India nel momento in cui la cooperazione amichevole tra britannici e indiani stava giungendo al culmine della sua ultima fase degna di nota, all’inizio della prima guerra mondiale. Se ricordo bene, Gandhi affrontò il viaggio in nave dal Sudafrica all’Inghilterra nell’estate del 1914, arrivando più o meno mentre noi dichiaravamo guerra alla Germania. Agli studenti indiani a Londra disse che la difficile situazione dell’Inghilterra non era un’opportunità per l’India, opinione salutare che Nehru avrebbe fatto sua venticinque anni dopo, e in India per l’intera durata della Grande Guerra si dichiarò a favore dell’arruolamento dei giovani indiani nelle forze armate. Nel complesso, l’India fece del proprio meglio per aiutarci e non ostacolare il nostro sforzo bellico. C’era nell’aria un forte sentore di libertà, di autogoverno o di misure emancipatorie che sarebbe stato possibile imparare combattendo i nemici della Gran Bretagna, cosa che gli indiani sembravano lieti di fare in ogni caso. Fu nel 1917, se non erro, che dichiarammo ufficialmente che l’obiettivo per l’India era quello di diventare un dominio, giusto? Mi pare che Gandhi rientrò in India all’inizio del 1915 e che incrociò le spade (come avrebbe detto Reid) con gente come Annie Besant. Ma già allora si rivelava una sorta di enigma. Nel suo primo discorso pubblico disse di vergognarsi di dover parlare in inglese per farsi capire dal maggior numero possibile di indiani. Quando invece la maggioranza dei leader indiani si gloriava del proprio inglese. Criticò un principe che aveva appena fatto riferimento alla povertà dell’India e fece sarcasticamente notare lo splendore del paesaggio circostante, dove si stavano posando le fondamenta di una nuova università. Benares? Sì, l’Università Indù di Benares. Poi proseguì dicendo che c’era ancora molto da fare prima che l’India potesse pensare di autogovernarsi. In barba ai politici più boriosi. Allo stesso tempo additò le spie governative tra la folla e chiese perché si diffidasse tanto degli indiani. E quello fu uno smacco al Raj. Parlò dei giovani anarchici indiani e disse di essere lui stesso un anarchico, ma non del genere che credeva alla violenza, anche se ammetteva che senza violenza gli anarchici non sarebbero mai riusciti a ribaltare la decisione di dividere il Bengala. Sembrava tutto un gran guazzabuglio di idee. Mrs Besant provò a interromperlo, ma gli studenti in platea gli chiesero di proseguire. Il presidente dell’assemblea lo pregò di esprimersi in modo più chiaro, e lui disse che ciò che voleva fare era sbarazzarsi degli orribili sospetti che circondavano ogni mossa compiuta in India. Voleva amore e fiducia, e la libertà di dire quello che si provava senza temerne le conseguenze. A quel punto quasi tutti gli esponenti politici abbandonarono il palco (suppongo che si sentissero compromessi, o scandalizzati, o semplicemente imbarazzati al cospetto del pubblico), e lui smise di parlare. Poco dopo arrivarono i britannici e la polizia lo bandì dalla città.

Probabilmente fu come se, durante un dibattito politico o un’intervista televisiva qui in patria, un personaggio ben noto fosse salito sul podio o avesse fronteggiato la telecamera dicendo esattamente quello che gli passava per la mente, senza badare alle frequenti, apparenti contraddizioni e di sicuro senza pensare alla propria reputazione, nel genuino, creativo sforzo di spezzare la barriera di emozioni e reazioni predefinite che accompagna automaticamente qualsiasi raduno di folla. In India quella sensazione di artificialità era sempre particolarmente forte, perché di norma gli indiani sono le persone più educate del mondo, il che è probabilmente il motivo per cui quando è necessario possono diventare tra le più isteriche e sanguinarie. Suppongo che l’adozione diffusa di una lingua straniera abbia esagerato la loro naturale gentilezza. Mi sono spesso chiesto se non sarebbe stato infinitamente meglio per noi se i nostri funzionari pubblici fossero stati costretti a parlare perfettamente sia l’hindi che il linguaggio predominante della loro provincia e condurre gli affari governativi in quella lingua. Gandhi aveva ragione, naturalmente: era una vergogna che per rivolgersi agli studenti universitari dovesse usare una lingua straniera. Il motivo per cui doveva farlo non era solo che tutti i giovani presenti erano arrivati a quel punto studiando e imparando l’inglese, ma che l’inglese era probabilmente l’unica lingua che avevano in comune. Non avevamo fatto niente per l’integrazione delle comunità, a parte costruire ferrovie tra l’una e l’altra perché le loro ricchezze arrivassero più rapidamente nelle nostre tasche.

Sa, Gandhi mi è sempre parso l’unico uomo pubblico al mondo a possedere uno sviluppatissimo istinto e una capacità di pensare ad alta voce, doti che venivano di rado soffocate da altri istinti. Sono sicuro che fu questo, alla fine, a far sì che venisse completamente frainteso. I personaggi pubblici devono proiettare quella che oggi si definisce un’immagine, e idealmente l’immagine deve mantenersi costante. Quella di Gandhi non lo fu mai. Le fasi che attraversò già solo nei pochi anni tra il 1939 e il 1942 furono sufficientemente discontinue da farlo passare alla storia come politicamente confuso, uno che seguiva il carro o al massimo una mezza spina nel fianco. Penso invece che in realtà stesse cercando di far uscire allo scoperto l’elemento di dubbio insito in ogni idea e posizione, che tutti proviamo ma preferiamo mettere a tacere.

E non crede che ciò possa essere fatto risalire almeno in parte alla depressione che doveva aver provato nel diciannovesimo secolo, quando era riuscito a lasciare il suo paese solo in qualità di paria? Non pensa che l’elemento di dubbio possa essergli penetrato nel profondo in quel momento, prima ancora del suo ritorno? “Sto facendo la cosa giusta?”, doveva essersi chiesto. Dopo tutto, aveva diciannove anni o poco più. Era riuscito ad andare a studiare legge in Inghilterra soltanto facendosi espellere pubblicamente dalla sua comunità di casta. Probabilmente, a quei tempi, l’appartenenza a una casta aveva per lui un profondo significato religioso. La trasferta inglese era significativa solo per le sue ambizioni temporali. Non esistono uomini privi di ambizioni, ma forse pochi sono stati costretti a dubitare della loro positività come lo fu Gandhi. Alla fine l’impressione che mi feci fu che stesse costantemente cercando di ottenere una salvezza personale in pubblico. E naturalmente i dubbi che un uomo ha su se stesso, sulle proprie azioni e sui propri pensieri svolgono un ruolo importante ma invariabilmente segreto in ciò che accade nella realtà. Era giusto esporli, una volta tanto. Gandhi non aveva mai paura di dire apertamente che aveva cambiato idea, o che si era sbagliato, o che stava riflettendo su un problema e che avrebbe espresso le sue opinioni solo dopo essere giunto a una conclusione.

Che cosa sarebbe successo, mi domando, se avessi pubblicamente dichiarato i miei dubbi riguardo all’incarcerazione dei leader del Congresso nell’agosto del 1942? Dio solo lo sa. Non potevo essere l’unico responsabile distrettuale a pensare che fosse la cosa meno saggia che potessimo fare, o l’unico a scrivere lunghe comunicazioni riservate al suo superiore. Ma non ebbi il coraggio di espormi ed esprimere pubblicamente i pro e i contro di ciò che mi era stato ordinato di fare.

A volte rimpiango di non essermi recato, quel 9 agosto, nella piazza del tempio oltre il ponte di Mandir Gate, di non essermi rivolto alla folla armato di megafono e di non aver detto questo: «Ascoltate, il governo mi ha ordinato di imprigionare X, Y e Z perché il Congresso Nazionale Indiano ha appoggiato la mozione del Mahatma che ci intima “Lasciate l’India” a Dio o all’anarchia, che in altre parole per noi significa ai giapponesi. Ma se io imprigiono questi uomini, chi vi guiderà? Sarete felici di esservi sbarazzati di loro, o vi sentirete smarriti? Il Congresso parla di non-collaborazione non-violenta, ma cosa significa? Come farete a non collaborare senza difendervi quando noi cercheremo di costringervi a farlo? E noi ci proveremo, perché siamo convinti di lottare per la nostra sopravvivenza. Quando vi difenderete, come lo farete senza ricorrere alla violenza? Se io gettassi a terra questo megafono e colpissi al volto uno dei vostri giovani, che cosa fareste? Lui come reagirebbe? Se non reagisse e io lo colpissi di nuovo, cosa succederebbe? E se continuassi a colpirlo fino a farlo sanguinare? Fino a ucciderlo? Restereste a guardare senza fare nulla? Il Mahatma sembra dire di sì, ma voi cosa dite?».

Ma ovviamente non andai mai nella piazza del tempio con un megafono. Malgrado i miei dubbi, imprigionai X, Z e Z. E penso tuttora che fu un errore. Probabilmente coloro che me lo ordinarono ebbero gli stessi dubbi prima di dare il via all’operazione, ma una volta partita nessuno di noi poté fare altro che procedere.

Suppongo che nella vita pubblica la vera anarchia abbia origine dall’inazione derivante dal dubbio, in contrapposizione all’azione che segue l’elemento decisionale. E naturalmente tra il dubbio, la decisione, l’azione e le conseguenze di essa suppongo si trovi ciò che Srinivasan definisce aree di pericolosa fallibilità. Be’, non è una scoperta sconvolgente. Lo sappiamo tutti. Ma Gandhi ha avuto il coraggio di operare apertamente sul terreno delle aree pericolose, giusto? È a questo che vuole arrivare? Con tutto il senno di poi che possiamo avere adesso, nessuno in quel momento sottolineò che era questo che Gandhi stava facendo: quando varcava in modo troppo evidente il limite accettabile veniva rinchiuso, per poi essere rilasciato quando si pensava che i suoi talenti sarebbero stati più preziosi dal punto di vista politico se avesse avuto carta bianca.

Ciò che mi è chiaro oltre ogni dubbio è che fondamentalmente lo trasformammo in una forza per noi pericolosa quando facemmo ricorso alle misure repressive della legge Rowlatt immediatamente dopo la Grande Guerra, in un momento in cui lui e tutti gli indiani avevano ogni motivo di aspettarsi un grande passo avanti verso l’autogoverno come ricompensa per averci dato spontaneamente manforte nella guerra con la Germania. Eravamo pazzi? O semplicemente stupidi? O soltanto perfidi? O terrorizzati? O normalmente arroganti dopo la vittoria, insensibili e determinati a non concedere nulla? Che senso aveva dichiarare nel 1917 che la trasformazione a dominio era il nostro obiettivo per l’India e poco più di un anno dopo istituire processi senza giuria per crimini politici e poteri di detenzione a livello provinciale secondo le leggi della Difesa dell’India, apparentemente per affrontare i cosiddetti anarchici ma in pratica per rendere tecnicamente punibile qualsiasi espressione di libero arbitrio e libertà di opinione? Che razza di “dominio” era quello?

Be’, il risultato lo ricorda: rivolte, il generale Dyer ad Amritsar e un ritorno di sfiducia, paura e sospetti, e Gandhi che riemerge come il Mahatma, l’unico uomo in grado di fornire una risposta. Ma una risposta indiana, non britannica. Mi perdoni. Perdo ancora le staffe, nel pensare al 1919. E me ne vergogno ancora profondamente, dopo tutti questi anni.

No, all’epoca ero troppo giovane. Ero andato in India come giovane civile, come ci definivamo nel 1921. Non avevo quasi un pensiero in testa. Avevo sgobbato e superato gli esami e letto tutto sul mito e sulla leggenda dell’India. Ai tempi non sognavo altro che uscire dagli uffici della mia prima sottodivisione e rifugiarmi all’ombra di un albero di pipul, fumando la mia pipa e dipingendomi come il promettente amministratore che avrebbe messo in riga grandi e piccini e sarebbe stato chiamato Sahib Bianco, diventando una leggenda di cui si sarebbe parlato anche cinquant’anni dopo la sua dipartita come di colui che aveva portato pace e prosperità nei villaggi.

Ma ovviamente dovetti subito affrontare la realtà. Semplicemente, non ero tagliato per il paternalismo. I miei superiori erano gli ultimi di quella razza. Il mio primo superiore distrettuale non mi piaceva. Probabilmente non se lo meritava. Ma odiavo l’India, la vera India che si celava dietro il mito della pipa fumata sotto l’albero. Odiavo la solitudine e la sporcizia, l’odore, la consapevolezza della propria superiorità senza ammantarsi della quale, come di una sorta di purdah protettivo, non si riusciva a superare la giornata. Odiavo gli indiani perché erano il bersaglio più immediato e non potevano contrattaccare se non in modi sottili che me li facevano odiare ancora di più.

Finché un giorno, lo ricordo chiaramente, stavo visitando il distretto con il funzionario degli affari fondiari, andando di villaggio in villaggio. A cavallo, alla vecchia maniera. Ero stufo marcio dei servili contabili di villaggio e dei tahsildar che riuscivano a essere umili e al tempo stesso presuntuosi, e disapprovavo il funzionario che ovviamente si sentiva e comportava come Dio durante una passeggiata, dando con la mano destra e prendendo con la sinistra. Ma a un certo punto ci fu un problema di bandobast. Restammo bloccati in un villaggio abbandonato da Dio, e dovetti passare la notte in una capanna di fango. Ero sul punto di piangere per la frustrazione e il senso di inadeguatezza. Il funzionario beveva vino di palma insieme agli anziani del villaggio, recitando ancora la parte di Cristo con gli apostoli, e io ero solo nella capanna. Le mie viscere erano in condizioni terribili e non potevo mandare giù nulla, men che meno il vino di palma. Ero sdraiato su un charpoy, senza zanzariera, quando improvvisamente vidi una donna indiana di mezza età che mi guardava dalla soglia. Appena i nostri occhi si incontrarono, lei mi rivolse il segno di namasté e poi scomparve per un momento, ricomparendo con una ciotola di cagliata e un cucchiaio.

In un accesso di dignità le feci cenno di allontanarsi, ma lei si avvicinò al mio capezzale, immerse il cucchiaio nella cagliata e mi imboccò, come se fossi suo nipote o suo figlio e avessi bisogno di nutrimento. Non disse nulla, e non potevo vederla: distinguevo solo le sue mani nere e la cagliata bianca. Mi addormentai, e al risveglio, sentendomi meglio, mi chiesi se non avessi sognato tutto, finché non vidi la ciotola con gli avanzi di cagliata coperta con un panno su un vassoio di ottone posato sul comodino e un fiore accanto alla ciotola. Era mattino, e il comandante dell’insediamento russava nell’altro letto. Sentivo che quell’anonima indiana di mezz’età mi aveva restituito la mia umanità. Sentivo che la cagliata e i fiori erano un gesto di affetto, non un tributo; un affetto abbastanza profondo da includere un pizzico di benevola critica materna, il suggerimento che la mia indisposizione potesse essere superata abbastanza facilmente una volta che avessi capito di non avere veri nemici. Ricordo di essermi fermato sulla soglia della capanna, di aver tratto un gran respiro e di averlo sentito: il profumo dietro l’odore. Qualcuno aveva preparato vasi di ottone pieni di acqua calda per il mio bagno. Prima del bagno venni fatto sistemare su una vecchia sedia di legno e venni rasato dal nai, il barbiere, senza sapone: solo le sue dita, l’acqua calda e un rasoio a mano libera. Mi passava la lama sul viso, sulla fronte e perfino sulle palpebre. Io trattenevo il respiro, aspettando il taglio che mi avrebbe accecato. Ma il tutto fu fatto con delicatezza ed efficienza, una specie di puja mattutina, e dopo, con la sensazione di avere una nuova faccia, entrai nel recinto dei bagni e raccolsi l’acqua calda dalle pentole di ottone pronte per me. Brooke aveva la definizione giusta: la benedizione dell’acqua calda. Più tardi cercai tra le donne, ma non riuscii a riconoscere quella che era entrata nella capanna la sera prima e mi aveva imboccato come avrebbe fatto con suo figlio. Trovai un altro fiore sul pomello della mia sella. Ne fui imbarazzato, ma mi fece anche un profondo piacere. Guardai il funzionario degli affari fondiari. Lui di fiori non ne aveva, né si era accorto del mio. Quando ripartimmo mi guardai indietro e salutai con la mano. La gente del villaggio non fece alcun cenno di risposta, ma lo avvertii lo stesso: il buon auspicio, la sfida a far bene per loro e per me stesso. Non me ne sono mai dimenticato. Immagino che in seguito la ciotola e il cucchiaio da cui avevo mangiato vennero gettati via.

No. La tendenza era quella di trascorrere l’intera carriera nella stessa provincia, ma quel villaggio non si trovava nel distretto di cui alla fine divenni vicecommissario. Perché? Pensava che fosse nei paraggi di Dibrapur?

 

(5) Grazie di avermi inviato la trascrizione riveduta e corretta del nostro colloquio. Vedo che ha appianato molte incoerenze e ripetizioni, ma che non è riuscito a mascherare il modo in cui ho continuato ad allontanarmi dal punto essenziale. Ha fatto ovviamente bene a mettere fine al colloquio quando siamo finalmente giunti ai fatti di Dibrapur, evento che probabilmente necessita di una discussione più approfondita di quanto avrebbe ottenuto in quel momento.

Per quanto riguarda Maria Tudor e Calais non saprei, ma di sicuro mi ricordo di Dibrapur. Vi regnava una terribile povertà, del tipo che si impadronisce di qualsiasi regione da cui una vecchia fonte di ricchezza si è sempre più allontanata. Nel diciannovesimo secolo era il centro del distretto. Non ricordo esattamente quando aveva avuto inizio l’estrazione del carbone, ma le vene si erano gradualmente esaurite e a ereditare ricchezza e prosperità era stato il distretto adiacente. La forza-lavoro continuava a provenire da Dibrapur, ma in quantità decrescenti.

In qualsiasi area depressa, in qualunque parte del mondo, si può dare per scontata la presenza di emozioni e posizioni esacerbate. Da un certo punto di vista, Reid aveva ragione nel dire che a Dibrapur fosse attivo un movimento organizzato, ma non fu mai chiaro quanto di esso fosse pianificato e quanto invece fosse dovuto soltanto all’abile sfruttamento di un’opportunità. Dove aveva torto, ne sono certo, era nell’attribuire queste forze a un settore clandestino del Congresso, cosa che penso venga confermata dalla deposizione di Vidyasagar, e dove invece sospetto che la ragione fosse dalla mia parte era nel credere che tutte le forze della vita nazionale indiana avrebbero potuto essere controllate dal Congresso. La maggioranza degli indiani (esclusi i giovani ribelli come Vidyasagar) ha sempre rispettato l’autorità: in quale altro modo avremmo potuto governare milioni di persone con le nostre poche migliaia? Il Congresso era il loro governo-ombra. Se non avessimo bandito i suoi comitati e imprigionato i suoi leader a livello centrale e nella maggior parte delle province, sono convinto che non si sarebbe verificata alcuna ribellione di tale entità. Sa, Gandhi questa volta non si aspettava di essere arrestato. Dal punto di vista politico, “Lasciate l’India” era il suo modo di tastare il polso dell’opinione pubblica. Da quello etico, era un appello, un grido nel buio. Ma anche se in luoghi come Dibrapur ci fosse stata una ribellione, sono ugualmente convinto che per contenerla mi sarebbe bastato chiedere a uno come Srinivasan, per esempio, di recarsi sul posto, parlare con la gente ed esortarla alla non-collaborazione non-violenta. Scioperi, hartal e iniziative simili. Credo sinceramente che l’indiano sia emotivamente contrario alla violenza. Ciò spiegherebbe l’isteria che di solito contraddistingue i momenti in cui si vi abbandona. In quei momenti oltrepassa ogni limite come se fosse impazzito, poiché insieme al resto sta distruggendo anche la propria fede. Noi, al contrario, siamo emotivamente portati alla violenza e dobbiamo impegnarci a fondo per mantenere il controllo. Questo è il motivo per cui all’inizio delle nostre guerre proviamo sempre un senso di sollievo e ci diciamo frasi come: “Ora sappiamo come stanno le cose”. L’altro aspetto da ricordare degli indiani, perlomeno degli indù, è che la loro religione insegna che l’uomo in quanto tale è un’illusione. Non dico che ci credano davvero, non più di quanto i cristiani credano che Cristo sia il figlio di Dio o che ci sia qualche senso pratico nel suo precetto di porgere l’altra guancia. Ma esattamente come l’ideale cristiano lavora sulla nostra coscienza cristiana mentre siamo impegnati a massacrarci o a farci saltare in aria a vicenda, dicendoci che è sbagliato, penso che quando gli indiani cominciano a darsele di santa ragione sentano nel profondo che le loro violenze non siano del tutto reali. E penso che ciò spieghi in parte il fatto che ci fossero sempre folle disarmate pronte a fronteggiare i nostri soldati e poliziotti. Loro stessi non erano reali, i militari non lo erano, i proiettili non venivano davvero sparati e le persone non morivano se non in un mondo che era esso stesso illusione. Ma è anche vero che tutto ciò non spiega perché in un mondo inesistente come questo valesse la pena di affrontare l’esercito.

Per me, naturalmente, la popolazione di Dibrapur era reale. Erano agricoltori inesperti e poveri commercianti. Non era colpa loro. L’apogeo delle miniere di carbone risaliva a prima della Grande Guerra, ma era stato un rigoglio che aveva denudato per sempre una parte di quelle terre, lasciando in eredità campi incolti e famiglie divise. Diversi villaggi, in quella zona, erano rimasti praticamente privi di giovani. Si erano tutti trasferiti nelle aree minerarie del distretto vicino. Sa bene anche lei come vanno queste cose. In quella zona avevamo compiuto sforzi speciali (ricordo che una volta parlai di quella gente con Miss Crane, che aveva una delle sue scuole nei paraggi di Dibrapur), ma a regnarvi erano l’apatia e un profondo risentimento. Il giovane indiano che avevo destinato al quartier generale della sottodivisione era un ragazzo molto intelligente e capace. Doveva gestire la sottodivisione più difficile del distretto. Aveva molti problemi, ma anche una grande intelligenza. Il tizio che si era autoproclamato suo vice era uno dei tahsildar locali, nonché un proprietario terriero della zona. Il mio uomo aveva sempre avuto molti problemi con lui. Nel suo racconto Reid semina un’ombra di dubbio nella mente del lettore sul comportamento del funzionario indiano di sottodivisione durante la ribellione. So che all’epoca si era sparsa la voce che il giovane, interrogato nel mio ufficio, fosse crollato e avesse pianto per ore chiedendo mercé. Ma non accadde niente del genere. Parlammo della situazione in modo alquanto sereno, e mi convinsi che a meno di sacrificare la sua vita (cosa che non mi sarei mai aspettato da un uomo sano di mente) non avrebbe potuto fare altro e che in realtà fosse riuscito a trattenere il sedicente vicecommissario nonostante il fatto che in qualità di cosiddetto giudice fosse più o meno prigioniero. E di sicuro aveva risparmiato al Tesoro una considerevole perdita di denaro. Immagino che le voci sulle sue lacrime fossero dovute al fatto che quando ci stringemmo la mano e ci salutammo aveva gli occhi lucidi, dettaglio che probabilmente venne notato mentre lasciava il mio bungalow. Con lui non fui clemente ma spero semplicemente equo, però gli indiani non si sono mai vergognati di rispondere all’equità in modi che farebbero vergognare un inglese.

Ma sto correndo troppo. So che la nostra rete di informatori non fu in grado di individuare in anticipo gli uomini che avrebbero poi fomentato la rivolta di Dibrapur, riuscendo a isolare la città per diversi giorni. Suppongo che con Reid usai l’espressione “aghi in un pagliaio” riferendomi a quegli individui, ma in realtà non ricordo di averlo fatto. La polizia della sottodivisione di Dibrapur (forse non inaspettatamente, vista la difficoltà del compito) aveva il morale particolarmente a terra. Alcuni uomini disertarono, e uno o due agenti si schierarono con i ribelli. Come avrà capito, accadde tutto abbastanza rapidamente, e i nostri uomini, che non erano mai stati numerosi, erano sparpagliati in modo inadeguato alle dimensioni dell’area e alla sua popolazione. La sera dell’11 acconsentii all’invio dei rinforzi militari di Reid, nella speranza che la loro semplice presenza si sarebbe rivelata un deterrente, come di norma accadeva. Reid minimizza i precedenti tentativi delle autorità civili di entrare a Dibrapur con polizia e i magistrati e non dice nulla dei blocchi sulla strada principale. Non era stato fatto saltare alcun ponte, ma una serie di alberi abbattuti impediva il passaggio dei mezzi di trasporto, e più la polizia si avvicinava a Dibrapur meno aiuti riceveva dagli abitanti del villaggio per sgombrare la via. La sera in questione, il messaggio che avevo ricevuto da Tanpur diceva che una camionetta carica di agenti era “scomparsa”. In seguito si scoprì che gli uomini erano stati rinchiusi nella kotwali di uno dei villaggi vicini a Dibrapur. Naturalmente, le linee telefoniche tra Dibrapur e Tanpur erano state sabotate.

Il ponte fatto esplodere sulla strada secondaria di Reid fu sicuramente un brutto colpo, ma non potei fare a meno di sorridere: aveva fatto sembrare l’idea della strada secondaria così professionale e intelligente e ora rischiava di perdere due autocarri da 3 tonnellate, un camion da 750 chili di portata e un impianto radio. Ed era imbufalito. Spero che il divertimento non abbia influenzato la mia decisione. Richiesi il ritiro delle truppe perché pensavo che, se i ribelli avevano avuto l’intraprendenza e i mezzi per far saltare un ponte (impresa di per sé abbastanza innocua, la distruzione di una tonnellata di mattoni e malta!), un incontro tra loro e un distaccamento di soldati incattiviti sarebbe probabilmente sfociato proprio nel bagno di sangue che volevo evitare. So che fu una decisione discutibile, ma fu quella che presi e la rivendico, e credo ancora che fosse quella giusta. Se non ci fossero state pressioni dall’alto per usare tutte le risorse militari a disposizione, di sicuro avrei lasciato che Dibrapur bollisse ancora più a lungo nel suo brodo. L’agente dei servizi segreti militari, Davidson, aveva avuto ragione nel suggerire a Reid che la mia idea era che la pacificazione si diffondesse a macchia d’olio da Mayapore. Ma Reid era sui carboni ardenti. Non sto accampando scuse, ma forse questo fu un fattore che contribuì a qualsiasi mia decisione su cui possa ancora nutrire dei dubbi. Quando hai una spina nel fianco come Reid, tendi a perdere la concentrazione. Penso che avrei resistito alle sue insistenze se a un certo punto anche le autorità civili provinciali non avessero cominciato a fare pressioni. In verità è difficile rievocare la reale sensazione di urgenza che prese piede in poche ore, quando i rapporti in arrivo cominciarono a descrivere una rivolta che ci stava sfuggendo di mano. In ogni caso, c’erano le pressioni di Reid, quelle del quartier generale provinciale e quelle dei miei stessi dubbi. E così lasciai che a Dibrapur Reid facesse di testa sua. La sua piccola battaglia fu tutt’altro che incontrollata; da quel punto di vista non ho lamentele o accuse da fargli. Ma a mio parere non mostrò alcuna speciale moderazione, e penso ancora, come allora, che le morti di uomini, donne e bambini a Dibrapur avrebbero potuto essere evitate se la città fosse stata abbandonata a se stessa fin quando la popolazione non si fosse calmata da sola (cosa che non impiegava mai molto a fare) al punto da far diventare il suo riallineamento (è questo il termine giusto) parte della routine quotidiana.

Forse fu un’ingiustizia che le azioni dei soldati di Reid a Dibrapur (di cui il suo libro non fornisce alcuna descrizione dettagliata) venissero viste come la causa principale della sua controversa reputazione nel distretto “durante l’attuale fase di pacificazione”. (Il gergo ufficiale per “torniamo a essere amici”). Il mio commissario mi chiese confidenzialmente cosa pensassi di lui. Come sa, qualsiasi reclamo contro di noi, civili o militari che fossimo, giungeva molto rapidamente ai piani alti. Espressi l’opinione che Reid non aveva mai abusato dei propri doveri ed era stato per me una costante rassicurazione nell’esecuzione dei miei. Ma aggiunsi che, se ci fosse stato consentito di agire da soli, senza l’ordine di utilizzare l’intero spiegamento di forze a nostra disposizione, forse avremmo potuto essere meno aggressivi ottenendo lo stesso risultato, se non qualcosa di meglio. Non vedevo perché Reid dovesse pagare di persona per chi si era fatto prendere dal panico al quartier generale provinciale. Temo che le mie osservazioni non piacquero a nessuno, dal commissario in su. Per un po’ mi aspettai di essere trasferito io stesso, ma le conseguenze, fortunate o sfortunate che fossero, ricaddero solo su Reid (a meno che il suo trasferimento non fosse davvero da addurre all’influenza di amici convinti che sarebbe stato più felice, in seguito alla morte di sua moglie, in un ruolo più attivo). È fin troppo facile, in particolare quando cerchi un capro espiatorio per qualcosa a cui hai preso parte tu stesso, indicare un particolare incidente come prova che il capro espiatorio è stato trovato, laddove in realtà le autorità hanno semplicemente scrollato le spalle e a determinare lo schema previsto di colpa e punizione è intervenuta una considerazione puramente personale.

 

(6) Grazie per la sua risposta ai miei commenti sulla trascrizione del nostro colloquio. È vero, non mi piace il tono da “assegnazione delle colpe” che emerge in modo fin troppo evidente. Reid aveva le sue posizioni e le sue opinioni, io avevo le mie. Non si può andare avanti in eterno a giustificare le proprie e confutare appassionatamente quelle degli altri, ma mi dispiace che i punti di cui negli ultimi giorni ho preso nota in risposta a specifiche dichiarazioni nel libro di Reid non abbiano più un loro contesto. Posso riprenderne uno, tuttavia, per eliminare qualsiasi idea che Reid possa aver seminato sul fatto che Menen, il giudice distrettuale, fosse bendisposto verso i ribelli? Menen era bendisposto solo verso il regolare processo della giustizia, in cui non riponeva alcuna speciale fiducia, ma nei confronti del quale riconosceva di certo il suo dovere. Sono anche leggermente preoccupato dall’impressione che potrebbe essere sorta di una mia collusione con Merrick, o quanto meno del fatto che avessi chiuso un occhio riguardo al trattamento riservato ai sospettati di Bibighar. Sento di dover dire qualcosa in merito, se deciderà di pubblicare la testimonianza di Vidyasagar. Vidyasagar ha già confessato i suoi reati, sicché la cosa è ininfluente.

Nella sua testimonianza, Vidyasagar è palesemente restio a fare nomi; pertanto né io né lei possiamo dire fino a che punto gli si possa credere quando dice che Hari Kumar non era tra i suoi complici. L’immagine che se ne ricava dal diario di Miss Manners (o piuttosto da quella breve sezione che lei mi ha dato in lettura) non è di per sé prova dell’estraneità di Kumar alle attività di Vidyasagar, ed è del tutto possibile, leggendo la deposizione, immaginare che Vidyasagar diede davvero a Merrick motivo di non credergli nel corso dell’interrogatorio. Ciò che mi preoccupa è che si pensi che in qualsiasi momento, allora o in seguito, fossi al corrente del trattamento riservato da Merrick ai prigionieri sospettati di stupro. Ammetteva di aver commesso qualche “strappo alle regole” per spaventare i sospettati e spingerli a dire la verità, ad esempio minacciando di prenderli a vergate, e in un caso di aver “preparato alla punizione” uno di loro: mi pare che l’espressione che usò fosse questa. Mi fornì volontariamente queste informazioni la mattina dopo gli arresti, e quando Menen in seguito mi interpellò dicendo che girava voce che i giovani fossero stati fustigati, potei rispondergli che credevo di conoscerne il motivo, aggiungendo di avere già intimato a Merrick di smetterla. Più grave, a mio parere, era la seconda voce, e cioè che fossero stati forzati a mangiare carne di manzo. Merrick promise di indagare, e in seguito mi disse che era una falsità, probabilmente dovuta a un errore commesso in carcere, quando uno dei poliziotti musulmani di guardia aveva fatto consegnare il proprio pasto a un prigioniero. Reid ha ragione nel dire che il compito di reprimere le rivolte distrasse la nostra attenzione dai giovani sospettati di stupro e alla fine rese impossibile trovare prove concrete a loro carico. Menen continuò a indagare sulle voci di fustigazioni e consumo forzato di manzo. Gli diedi il permesso di far interrogare i giovani detenuti a quel riguardo. Mi disse che il suo rappresentante legale gli aveva riferito che nessuno di loro, Kumar compreso, si lamentava di essere stato frustato o costretto a mangiare carne di manzo. E nessuno di loro ne fece mai cenno a Jack Poulson, che aveva il compito di esaminare i loro casi durante la preparazione del processo politico. Ma ancora oggi, dopo tutto questo tempo, provo disagio al pensiero di non aver indagato più a fondo. Sembra ormai abbastanza chiaro che i prigionieri vennero maltrattati. Non credo, tuttavia, che vi sia stato un errore giudiziario. Quella di Merrick fu palesemente una reazione a caldo, determinata dal fatto che li riteneva colpevoli di aver aggredito una giovane donna a cui era affezionato. Non impiegammo molto a capire che l’accusa di stupro non avrebbe retto, ma le prove raccolte sulle loro attività politiche erano sufficienti a giustificare il ricorso alle leggi sulla Difesa dell’India. Il caso fu rinviato al commissario di divisione, e in realtà giunse fino all’ufficio del governatore. Non ricordo più nei dettagli quali fossero le prove a loro carico, ma erano piuttosto conclusive. Perciò sono ancora dell’opinione che i cinque giovani arrestati fossero colpevoli del tipo di reati per cui erano state istituite quelle leggi. Solo Kumar rimane un enigma. Se venne maltrattato come sosteneva l’”informatore” di Vidyasagar, perché non lo disse al rappresentante legale di Menen? Perché non denunciò il fatto a Jack Poulson durante l’interrogatorio ufficiale? Si può capire il silenzio degli altri giovani, se è vero quello che Vidyasagar dice sulle minacce della polizia. Ma Kumar le violenze le aveva giù subite, e presumibilmente poteva provarle, e sicuramente era un soggetto di calibro diverso rispetto agli altri. Forse le parti del diario di Miss Manners che non mi ha mostrato fanno luce su questo problema?

Suppongo che sia questo suo silenzio a cui lei pensa quando scrive che «Kumar sentiva ormai di aver perso tutto, perfino il suo retaggio inglese, e di poter quindi affrontare qualsiasi situazione, anche la più dolorosa, in silenzio, nella speranza di riguadagnare così un minimo di dignità».

Capisco, da quello che lei mi ha detto della sua “ricostruzione” della vita di Hari Kumar e da ciò che ho letto nel diario di Daphne Manners, come Kumar possa essere arrivato a quel tipo di reazione, ma se fosse stato vero quello che aveva rivelato l’informatore di Vidyasagar, e cioè che la notte del suo arresto Merrick aveva dato ordine di prendere Kumar a vergate «fino a farlo gemere», continuo a pensare che questi avrebbe colto l’occasione di denunciare il fatto quando il rappresentante legale di Menen lo aveva interrogato e gli aveva esplicitamente chiesto se fosse vero. Denunciare di essere stato selvaggiamente picchiato senza motivo non sarebbe stato un tradimento della richiesta di Miss Manners di «non dire niente». Esisterà pure un limite all’imperturbabilità britannica, giusto?

D’altra parte, immagino che le mie obiezioni alle sue conclusioni si basino su una certa reticenza ad accettare i racconti non provati sulla condotta di Merrick, o ad ammettere che ai tempi non mi fossi accorto di nulla. Non ho commenti sul dato, proveniente a suo dire da fonti “ufficiali”, secondo il quale, a esclusione delle Province Unite, in seguito alla rivolta vi furono 958 sentenze di fustigazione, se non per ribadire che si trattava di una punizione prevista dalla legge per coloro che avessero preso parte a un’insurrezione. Se Kumar fosse stato arrestato durante una sommossa, avrebbe potuto essere preso a vergate. Suppongo che quello che intende dire è che quel tipo di punizione “era nell’aria” e che Merrick ne approfittò per fare uno strappo alle regole e la passò liscia.

Detto ciò, a questo punto mi limiterò, come lei mi chiede di fare, al quadro generale, anche se prima di mettere del tutto da parte l’”assegnazione delle colpe” vorrei puntualizzare, forse inutilmente, che non bisognerebbe confondere le incertezze che circondano azioni e avvenimenti con le “aree di pericolosa fallibilità” che esistono tra dubbio, decisione e azione. Prendendo a esempio la questione dell’ingestione forzata di manzo: i casi sono due, o accadde, oppure no. Nel tentativo di delineare l’”area pericolosa” non soppesiamo forse fatti che, per quanto non possano essere più appurabili, un tempo erano noti a qualcuno?

Ho riflettuto a fondo sulla vera “area pericolosa” e devo ammettere mio malgrado di non avere una visione abbastanza chiara dei fattori per poterne cavare qualcosa che assomigli anche alla lontana a una premessa da cui lei potrebbe partire. Mi ritrovo subito a rifugiarmi nel vecchio meccanismo di affermazione, confutazione e controaffermazione. Per esempio, nel caso del puerile racconto di Reid riguardo al progetto federativo del 1935 (nonché del suo commento sul fatto che avesse “causato solo un gran lotta di potere”, che crea nel lettore non informato l’impressione che avessimo formulato una magnifica proposta e poi fossimo stati costretti ad assistere con sgomento mentre gli indiani si dimostravano troppo immaturi sia per capirla che per approfittare dell’occasione), tutto quello a cui riesco a pensare sono le interpretazioni alternative della questione, che mostrano i motivi per cui gli indiani, in quanto statisti, avevano rifiutato la Federazione, la quale poteva essere vista come l’offerta da parte nostra di una Costituzione che avrebbe soltanto prolungato, e forse addirittura perpetuato, il nostro potere e la nostra influenza, anche nel semplice ruolo di arbitri imperiali.

Analogamente, prendendo come base le osservazioni di Reid, ci si potrebbe dilungare nel demolire la superficialità con cui asserisce che la Missione Cripps del 1942 sarebbe fallita a causa dell’intransigenza indiana, o magari obiettare (con altrettanta brevità, inaccuratezza e leggerezza) che si trattò di una classica mossa di Churchill, uno specchietto per le allodole inteso a creare alleanze e influenzare l’opinione pubblica all’estero dopo la disfatta asiatica che di per sé non era altro che una semplice, riluttante ripetizione di vecchie promesse e ancora più vecchie riserve.

Ma non è questo il nostro obiettivo, giusto? Anche se la tentazione sarebbe quella di abbattere le fondamenta del piccolo, solido e apparentemente incrollabile edificio di semplici cause e semplici effetti eretto dal brigadiere Reid, ristabilire l’equilibrio e presentare il quadro opposto e altrettanto impreciso di un potere tirannico e imperialista intento a premere i volti dei suoi sudditi di colore nella polvere.

In realtà, quello che vogliamo non è un resoconto dettagliato delle scelte politiche che determinarono le azioni. Nessuno sarebbe in grado di fornirlo nei dettagli. Erano talmente tanti che ci vorrebbe più di un’esistenza per riportarli tutti. Per far sì che la stesura di qualsiasi resoconto diventi un’impresa ragionevole, dovrebbe assumere una posizione nei confronti del materiale a disposizione. L’esercizio di una tale posizione è simile all’azione di un colabrodo. A filtrare è solo ciò che è pertinente alla posizione di partenza. Il resto viene scartato. Di conseguenza, la pertinenza e la verità di ciò che filtra dalla reticella dipendono dalla pertinenza e dalla verità della posizione di partenza, non crede? Ma se si accetta questo, ci si ritrova sul terreno delle preferenze e addirittura dei pregiudizi personali, che potrebbero non aver nulla a che fare con la cosiddetta “verità”.

Comunque, immaginiamo (come ha utilmente suggerito nelle sue righe) che io stia per imbarcarmi nella stesura di una storia delle relazioni indo-britanniche. Prima di farlo dovrei prendere posizione verso la messe di materiale che mi si presenta.

Penso che la mia posizione sarebbe molto semplice, addirittura infantile: partirei dalla premessa che gli indiani volevano essere liberi e che lo desideravamo anche noi, ma che loro lo volevano da prima che noi giungessimo a pensarlo e approvarlo; e che data questa situazione, il conflitto era nato in parte da una mancanza di sincronizzazione tra le due aspirazioni, ma anche dal fatto che questa col tempo si era trasformata in una mancanza di sincronizzazione tra le aspirazioni stesse. Essendo umani, più la libertà veniva loro negata più gli indiani la pretendevano alle loro condizioni, e più loro volevano diventare liberi alle loro condizioni più noi, essendo altrettanto umani, pretendevamo che inizialmente ottenessero la libertà alle nostre. E più questo conflitto si dilungava, più astrusi diventavano i termini di un possibile accordo, da entrambe le parti. Finché non era diventato un conflitto di sistemi morali in cui il più forte avrebbe battuto alla distanza il più debole. Il che, naturalmente, era il motivo per cui gli indiani alla fine avevano avuto la meglio.

Ora che ho espresso la mia posizione in termini così semplici (a formare un retino in grado di filtrare un’enorme quantità di dettagli), ricordo quello che lei ha detto nel nostro colloquio riguardo alla «corrente morale della Storia», e capisco che forse la sua spinta originaria nasce principalmente dalle nostre coscienze e che l’area pericolosa è l’ambiente naturale in cui le nostre coscienze lavorano con o senza di noi, di solito senza. Il problema è che la parola “pericoloso” suggerisce di solito qualcosa di sinistro, come se alla fonte esistesse uno stretto rapporto tra “pericolo” e “negatività”. È vero che il termine “pericolo” ha questa connotazione, ma suppongo che la perda se ci ricordiamo che lo usiamo solo per esprimere la nostra paura di conseguenze personali, il pericolo in cui ci troveremmo se seguissimo sempre i dettami della coscienza.

Ricordo che nel corso del nostro incontro lei ha parlato di «battiti» e «intervalli», definendoli, mi pare, i momenti non scritti della Storia. Vorrei poter applicare questa teoria a uno specifico episodio della mia vita e vedere se ne esco dalla parte della ragione o del torto, o magari applicarla alla vita di Reid. Ma anche in questo caso mi ritrovo nell’universo degli eventi descrivibili. E quando cerco di applicare la teoria a tutti gli episodi nelle esistenze di tutti coloro che ebbero a che fare con gli eventi, in modo diretto o indiretto, la mia mente si rifiuta di abbracciare il complesso di emozioni e ambizioni e reazioni che condusse a una qualsiasi delle singole azioni che vanno a comporre il quadro generale. Ma forse la mente può reagire a un senso di giustizia cumulativa e impersonale? Il tipo di giustizia la cui importanza risiede non solo nella linea d’azione apparentemente e generalmente intrapresa, ma nella sua esposizione ai pericoli di là da venire che minacciano di deviarne ancora una volta la corrente?

 

 

III

(Appendice a “Civili e militari”)

 

Una deposizione di S.V. Vidyasagar

 

All’età di sedici anni venni bocciato all’esame di ammissione e lasciai la Scuola Superiore Pubblica di Mayapore, con la disapprovazione dei miei genitori e senza una sola prospettiva di carriera. Per quasi un anno condussi una vita di vergogna e depravazione, frequentando donne di facili costumi e mettendo a repentaglio la mia salute. Arrivai al punto di essere cacciato di casa da mio padre. Mia madre mi diede segretamente cento rupie che aveva accantonato per mesi dalle spese di casa. Mi rincresce dire che sperperai anche quella dimostrazione di amore e fiducia materna nell’alcol e nella fornicazione. Per mesi rischiai la vita negli squallidi ambienti che frequentavo, ma anche quando mi ripresi i miei pensieri andavano solo all’alcol e alle donne. Pregavo spesso per trovare una guida e un senso di autodisciplina, ma mi bastava vedere una bella ragazza perché la seguissi e le rivolgessi proposte immorali davanti a tutti, tanto da compromettere la mia reputazione al punto che nessuno mi si avvicinava più a eccezione dei giovani come me, con i quali i genitori non volevano più avere a che fare oppure dei quali non sapevano nulla finché non venivano informati dai vicini o dagli amici.

In queste condizioni compii i diciassette anni e, in preda al disgusto per come vivevo e alla volontà di migliorare sia a livello morale che fisico, feci ritorno nella casa paterna e chiesi perdono. Mia madre e mia sorella piansero vedendomi tornare, ma mio padre fu severo e mi chiese conto delle mie depravazioni. Risposi che potevo soltanto spiegarle come una manifestazione di follia e che ora riponevo fiducia in una guarigione per grazia di Dio e per la mia stessa determinazione. Vedendomi così pentito e umile di modi, mio padre spalancò le braccia e mi riaccolse. Diedi così inizio a una nuova vita di rettitudine e con l’aiuto e il consiglio di mio padre presi un lavoro impiegatizio, versando l’intero stipendio mensile a mia madre e tenendo solo qualche anna per le mie spese quotidiane. Nel frattempo mi ero anche amaramente pentito dell’irresponsabilità e della cattiva condotta che avevano causato la meritata bocciatura alle superiori. Facevo le ore piccole a leggere nella mia stanza, finché mia madre non mi pregò di avere più cura della mia salute e non correre il rischio di perdere il posto addormentandomi sul lavoro.

Fu così che, deciso a non dare altre preoccupazioni ai miei genitori, tracciai una tabella, che poi appesi alla parete sopra il letto, nella quale ripartii le mie ore libere tra lo studio, il sonno e l’esercizio fisico. Nelle belle serate mi recavo a piedi fino all’estensione stradale di Chillianwallah Bagh per guardare le belle case dei vicini più abbienti e passeggiare lungo il fiume. Adocchiavo e incrociavo gli sguardi di numerose ragazze, ma ogni volta mi ritraevo prima che la tentazione di rivolgere loro la parola o seguirle diventasse troppo forte. Evitavo le zone della città in cui avrei rischiato di incontrare i miei ex compagni, specialmente la strada in cui viveva un gran numero di prostitute le cui occhiate dalle finestre potevano essere la rovina di qualsiasi giovane retto e innocente di passaggio.

Avevo ormai fermamente sposato uno stile di vita sano e spiritualmente edificante, e anche in quelle passeggiate mi portavo dietro un libro e mi sedevo a leggere in riva al fiume, lanciando solo qualche occhiata alle trecce nere e ai sari di seta delle ragazze nei paraggi. Fu così che feci la conoscenza di Mr Francis Narayan, che insegnava alla scuola della missione cristiana del Chillianwallah Bazar ed era una figura nota a Mayapore, dove lo si vedeva sempre girare in bicicletta e parlare con chiunque. Cominciando a conversare con lui mi ritrovai a raccontargli del mio brutto passato, del modo in cui mi ero riabilitato e delle mie speranze per il futuro. Venendo a sapere che lavoravo come umile impiegato e provando dispiacere per la mia bocciatura scolastica, Mr Narayan disse che mi avrebbe tenuto in considerazione se fosse stato al corrente di un’opportunità. Da parte mia, non aspettandomi nulla da quel semplice incontro amichevole, continuai ad applicarmi quotidianamente nel lavoro e nel mio programma di automiglioramento e istruzione. Cominciavo a provare una certa impazienza, lanciando occhiate bramose verso i libri del Mayapore Book Depot, sulla strada nei pressi del tempio di Tirupati che percorrevo ogni pomeriggio per tornare a casa. Mio padre era capo contabile in un’impresa di costruzioni, e l’ufficio in cui lavoravo apparteneva a un amico del suo datore di lavoro, un mercante con due figlie in età da marito. Un giorno mi fermai al Book Depot, come facevo spesso per curiosare tra i numerosi volumi. Fingendo di sfogliarli, in realtà stavo leggendo capitolo per capitolo un libro sulla Dichiarazione di Autogoverno del 1917. Avevo cominciato a interessarmi di politica e avrei tanto voluto possedere quel volume; ma il suo prezzo andava al di là dei miei mezzi, anche se sapevo che, se gliel’avessi chiesto, mia madre mi avrebbe dato i soldi necessari. Quella sera, mentre leggevo, vidi che il proprietario del negozio e il suo assistente non mi stavano guardando, e senza rifletterci uscii col libro sottobraccio. Euforico e al tempo stesso timoroso di essere inseguito e catturato come un ladruncolo qualsiasi, mi allontanai senza una destinazione precisa e alla fine mi ritrovai nella mia vecchia zona. Mi sentii chiamare e, voltandomi, vidi uno dei miei amici di un tempo, un giovane di qualche anno più vecchio di tutti noi che ci rivolgeva la parola e ci frequentava, senza però mai seguirci nelle nostre bisbocce e cattive azioni. Si chiamava Moti Lal. Vedendo il libro che avevo sottobraccio me lo prese, lesse il titolo e disse: «Bene, finalmente stai diventando adulto». Mi invitò a bere un caffè nella bottega in cui sedeva e io accettai. Mi chiese cosa avessi combinato in quei mesi, e io glielo dissi. Era un impiegato anche lui, nel magazzino di Romesh Chand Gupta Sen. Gli chiesi se avesse visto qualcun altro dei nostri vecchi amici, ma lui rispose che anche loro erano diventati rispettabili come me.

In quell’occasione mi resi conto che la mia vecchia vita non era stata poi così disdicevole come mi stava dicendo la mia coscienza. Era senza dubbio da viziosi bere una tale quantità di cattivo liquore e frequentare donne immorali senza andare per il sottile, ma ora capivo che lo facevamo perché le nostre energie avevano bisogno di uno sfogo. Armato di questa consapevolezza, feci ritorno al Mayapore Book Depot, restituii il volume rubato al suo proprietario e dissi che l’avevo portato via in un momento di distrazione. In seguito a quell’episodio, lui mi permise di trattenermi per ore sul retro del negozio a leggere i nuovi volumi arrivati da Calcutta e Bombay.

Avevo ormai diciott’anni quando Mr Narayan, l’insegnante della missione, fece visita a casa nostra per dirmi che il direttore della «Mayapore Gazette» stava cercando un giovane energico in possesso di un buon inglese per ricoprire il ruolo di fattorino e apprendista giornalista. Mr Narayan mi confidò di essere lui il “Girovago”, ossia l’autore per la «Gazette» degli articoli intitolati “Argomenti Topici”, che scriveva per integrare i propri emolumenti di insegnante. Mio padre era contrario all’idea che lasciassi il mio impiego attuale. Disse che a tempo debito, se avessi continuato a fare il mio dovere, avevo buone possibilità di diventare capufficio e, se avessi mostrato applicazione e diligenza, addirittura di sposare una delle figlie del mio datore di lavoro. Nel corso di quegli ultimi mesi, la salute di mio padre era molto peggiorata. Ogni giorno usciva di casa e si recava a piedi in ufficio senza tardare di un solo minuto, ma spesso lavorava fin dopo l’ora di chiusura e al ritorno doveva sentire le lamentele di mia madre sul fatto che la sua cena era diventata immangiabile. Da quando avevo adottato un’attitudine più adulta nei confronti della mia vita, avevo imparato a rispettare mio padre, laddove prima mi limitavo a criticarlo. E provavo affetto per lui, perché era ovvio che mi voleva bene. Non volevo dargli dispiaceri, ma desideravo anche fare domanda per il posto al giornale per il quale Mr Narayan mi aveva già spianato la strada, parlando di me al direttore. Alla fine mio padre acconsentì. Avevo una gran paura che morisse, cosa che accadde sei mesi più tardi, e non volevo contrariarlo nel crepuscolo della sua esistenza, o pensare che potesse lasciare questo mondo senza che un figlio celebrasse i suoi riti funebri. Per questo temevo la mia reazione a un suo divieto, il litigio che ne sarebbe seguito e la mia conseguente, seconda cacciata. Ma ringrazio Dio di averlo spinto ad arrendersi ai miei desideri. A tempo debito diventai un dipendente della «Mayapore Gazette».

Dopo la morte di mio padre divenni “capofamiglia” e dovetti combinare le nozze della mia unica sorella sopravvissuta, che aveva sedici anni. Nel 1937-38 questi doveri familiari occuparono gran parte del mio tempo. Mia madre e io vivevamo ormai da soli, e lei cercava di persuadere anche me a sposarmi. A quei tempi, sotto questo aspetto ero alquanto innocente. Credevo che le mie esperienze con donne immorali rendessero pericoloso diventare un marito e un padre, anche se grazie a Dio non avevo contratto malattie incurabili. In più, dopo la scomparsa di mio padre stavo dedicando la mia vita alla politica e alla mia carriera di “promettente” giornalista.

Il lavoro mi portava ogni giorno nell’acquartieramento, dove si trovavano gli uffici della «Gazette», e stavo cominciando a conoscere le vita su quella riva del fiume. Già da studente attraversavo ogni giorno il fiume per recarmi alle scuole superiori pubbliche, ma ora, in veste di “apprendista giornalista” per Mr Laxminarayan, stavo imparando cose che prima ignoravo o non mi interessavano. Per esempio, avevo cominciato ad avere una certa familiarità con la gestione dell’ordine pubblico e con la vita sociale degli inglesi.

Poiché ero un indiano di nessun peso, subivo una quantità di umiliazioni sociali che mi amareggiavano al ricordo della cura che mio padre aveva dovuto prestare a ogni singolo centesimo e al suo timore di mancare anche un solo giorno dal lavoro. Feci amicizia con diversi miei coetanei, tra i quali Moti Lal, e spesso parlavamo di queste cose fino a tarda notte, a casa mia mentre mia madre dormiva. Ma fu solo quando Mr Laxminarayan prese al mio posto Hari Kumar, il nipote del ricco mercante Romesh Chand Gupta Sen che era stato anche il datore di lavoro di Moti Lal, e io trovai impiego al «Mayapore Hindu» che cominciai a frequentare gruppi di giovani che la pensavano come me, privi di guida in un mondo in cui i nostri padri avevano paura di perdere un solo giorno di lavoro e anche i politici indiani esistevano su un piano diverso dal nostro. Decidemmo di stare all’erta e sfruttare qualsiasi opportunità che avrebbe potuto avvicinare il giorno della nostra liberazione.

In quel tempo gli inglesi erano in guerra con la Germania, i ministri del Congresso si erano dimessi e solo noi capivamo che il nostro paese sarebbe stato di nuovo costretto a pagare un costo sproporzionato per una guerra che non avevamo cercato e dalla quale non ci aspettavamo alcun guadagno, ma soltanto vuote promesse. In quei giorni dovevamo stare attenti a evitare l’arresto, a meno che naturalmente non fossimo noi a provocarlo deliberatamente infrangendo le regole. E dovevamo anche scegliere con cura amici e conoscenti. Molti individui dall’aria innocente erano in realtà spie della polizia, e un paio di miei amici vennero arrestati proprio a causa delle informazioni fornite da simili figuri, spesso spinti dal solo desiderio di regolare vecchi conti in sospeso e pronti a inventare fandonie per toglierci di mezzo. Venne arrestato anche Moti Lal, per avere trasgredito alla sezione 144 del codice che gli proibiva di parlare a un’assemblea di studenti. Fu incarcerato, ma poi riuscì a fuggire.

Quando i giapponesi invasero la Birmania e sconfissero gli inglesi, credemmo di intravedere finalmente la libertà. Né io né i miei amici temevano i giapponesi. Sapevamo di poter causare problemi anche a loro, se avessero invaso l’India e ci avessero maltrattato come gli inglesi. Molti dei nostri soldati che erano stati abbandonati dai loro ufficiali britannici e catturati dai giapponesi in Birmania e Malesia erano stati liberati e avevano formato l’“Esercito Nazionale Indiano” al comando di Subhas Chandra Bose. Se i giapponesi avessero vinto, i nostri connazionali dell’Esercito Nazionale sarebbero stati considerati degli eroi; invece molti di loro, a guerra finita, vennero severamente puniti dai britannici senza che i nostri “leader nazionali” muovessero un dito per salvarli.

In quei giorni eravamo consapevoli che solo i giovani pronti a morire e uccidere per l’India potevano farla diventare una “grande potenza”. Non capivamo le chiacchiere e le indecisioni dei nostri leader politici. Sfortunatamente non potevamo fare altro che formare piccoli gruppi. Ci dicevamo che, se quando il popolo fosse insorto contro l’oppressore noi giovani ci fossimo uniti e avessimo dato un esempio di coraggio e determinazione, l’avremmo trasmesso a tutti.

Questa era la situazione al momento della ribellione del 1942. Insieme a diversi altri giovani mi ero preparato a qualunque tipo di sacrificio. In seguito all’arresto venni interrogato per ore riguardo alla “struttura clandestina”, ma se una simile struttura esisteva io ne ero all’oscuro; sapevo solo di giovani come me, pronti a schierarsi in prima linea contro il nemico. Proprio quando venni arrestato, l’11 agosto, io e altri avevamo in programma di unirci ai dimostranti che quel giorno sarebbero scesi nelle strade ed esortarli a marciare sul quartiere residenziale. La voce di un piano simile si era sparsa rapidamente in tutta la città. Quella mattina si era formato un assembramento sull’estensione stradale di Chillianwallah Bagh ma era stato disperso dalla polizia, che sembrava sbucare dappertutto nel giro di pochi istanti. Io e i miei compagni non facevamo parte di quella folla poiché in quel momento eravamo impegnati a stampare opuscoli che esortavano il popolo a contribuire alla liberazione dei giovani ingiustamente accusati dell’aggressione a una donna bianca. Uno di questi opuscoli lo recapitammo al posto di polizia nelle vicinanze del tempio di Tirupati, avvolgendolo attorno a un sasso e lanciandolo attraverso una finestra aperta in modo che quello di noi che era stato prescelto per svolgere la pericolosa missione potesse poi allontanarsi senza farsi vedere. Fatto questo, ci disperdemmo, recandoci ciascuno a casa propria o al suo posto di lavoro. Non passò un’ora che il sovrintendente di polizia del distretto, accompagnato da numerosi agenti, calò sugli uffici del «Mayapore Hindu» dove lavoravo. Io e i colleghi presenti venimmo arrestati su due piedi dopo che la polizia trovò una vecchia pressa a mano in una stanza sul retro e decise che era stata usata per stampare letteratura sediziosa.

Non era vero, e che io sapessi ero l’unico in quel gruppo a essere colpevole di un simile reato, ma negai tutto. Tra gli arrestati c’era anche il direttore, il quale disse alla polizia che quella mattina non ero andato al lavoro e che la pressa a mano era stata usata solo per la stampa di innocenti volantini pubblicitari. Fu soltanto in seguito che giunsi a conoscenza delle parole del direttore, visto che quel giorno venimmo tenuti separati, alla fine però seppi che erano stati tutti rilasciati ma che il «Mayapore Hindu» era stato costretto a chiudere. Da parte mia continuai a non parlare, sperando di poter mantenere il segreto su dove si trovava la pressa da stampa e sui nomi dei miei complici. Dalla kotwali venni trasferito nelle celle del quartier generale di polizia nella zona residenziale, dove si trovavano i giovani arrestati due giorni prima nei paraggi di Bibighar. Non vidi nessuno di loro, poiché venni rinchiuso in una cella isolata dalle altre e poi, dopo l’interrogatorio, fui trasferito nella prigione sulla Jail Road. Mi trovavo lì quando i dimostranti attaccarono, sopraffecero i poliziotti e le guardie al cancello e fecero irruzione nel carcere. Numerosi prigionieri vennero liberati, ma per mia sfortuna l’azione liberatoria avvenne in un altro braccio, e poco dopo l’esercito mise fine alle nostre speranze di libertà. Molti innocenti persero la vita, cosa che le autorità cercarono di nascondere denunciando un numero molto inferiore di morti e feriti.

Ero stato trasferito dalla kotwali alle celle del quartier generale nel tardo pomeriggio dell’11, e lì venni interrogato dal sovrintendente in persona. Fu molto abile con le sue domande, ma io ero deciso a mantenere un silenzio assoluto. Sapevo che sarei rimasto comunque in galera, poiché mi ero accorto che il sovrintendente aveva un dossier sulle mie attività sospette. Inoltre conosceva i nomi di molti miei amici e conoscenti, tanto che mi chiesi quale spia si fosse infiltrata tra noi. Insisteva a chiedermi di Moti Lal, di Kumar e degli altri arrestati dopo l’“aggressione” alla donna inglese. Era inutile negare di conoscere Moti Lal e diversi di quei giovani, poiché il sovrintendente era addirittura in possesso di un elenco di date e luoghi in cui alcuni di noi erano stati visti o si sapeva che si erano incontrati, a cominciare dalla sera di febbraio in cui bevendo insieme a noi Hari Kumar si era ubriacato al punto che lo avevamo riportato a casa, per scoprire poi che si era allontanato di nuovo da solo e che in seguito era stato arrestato e interrogato. Due dei giovani arrestati per lo “stupro” erano stati presenti quella sera di febbraio, e non potei evitare di chiedermi se, dopo il suo interrogatorio, Hari Kumar avesse accettato di spiarci e se fosse lui che dovevamo ringraziare per la situazione in cui ci trovavamo. In seguito mi sarei vergognato di simili pensieri, ma devo essere sincero e ammettere che per un certo periodo dubitai di lui.

Nessuno dei giovani arrestati per lo “stupro” aveva mai partecipato alle mie attività illegali, ma il sovrintendente aveva “in archivio” anche i nomi di tre miei complici, i quali si trovavano con me il mattino in cui, dopo l’arresto di Moti Lal, ci eravamo impossessati della pressa clandestina. La pressa si trovava a casa di una prostituta. La polizia vi faceva spesso visita, ma era troppo occupata in altre faccende per rendersi conto che vi veniva anche stampata letteratura clandestina.

Quando il sovrintendente fece i nomi di alcuni dei giovani con cui avevo passato la mattinata, risposi (come eravamo d’accordo di fare in caso di arresto) che non ci vedevamo da due o tre giorni. Non feci alcuna ammissione. Dissi che quella mattina non stavo bene e che per questo ero arrivato tardi al lavoro, temendo per la mia stessa incolumità a causa dei disordini in città.

Uscito dalla casa in cui si trovava la nostra pressa clandestina con gli opuscoli stampati che i miei complici avrebbero distribuito, avevo preso la precauzione di passare dalla mia abitazione e raccomandare a mia madre di dire che non ero stato bene e che ero uscito di casa solo a quell’ora. Mia madre era molto spaventata, essendo questa la prova che svolgevo attività contro le autorità, ma accettò di farlo se qualcuno le avesse chiesto qualcosa. Era la prima volta che non mi recavo al lavoro per svolgere quel genere di attività, ed era stato per questo che avevo preso quella precauzione. Quando il sovrintendente mi chiese dov’ero stato quel mattino, sapevo che il direttore o uno dei miei colleghi al «Mayapore Hindu» dovevano aver menzionato la mia assenza, ma gli dissi che non ero stato bene, e quando lo vidi infastidito capii che aveva già fatto interrogare mia madre. Pregai che anche i miei veri complici, nell’eventualità di un interrogatorio, fossero riusciti a fornire racconti soddisfacenti.

L’interrogatorio mi spaventava molto per le cose orribili che avevamo sentito dire su come erano stati trattati i giovani arrestati per l’aggressione alla donna inglese. Era stato proprio nell’udire quei racconti che avevamo deciso di stampare e distribuire quel giorno stesso il nostro opuscolo. Le informazioni sull’agghiacciante comportamento della polizia verso quei giovani ci erano giunte da qualcuno che aveva parlato con uno degli attendenti al quartier generale, il quale aveva riferito che i prigionieri erano stati percossi fino a perdere i sensi e costretti a mangiare carne di manzo. Ma noi credevamo alla loro innocenza e sospettavamo che la storia dell’aggressione alla donna inglese fosse stata esagerata o addirittura inventata di sana pianta a causa dell’amicizia tra lei e il giovane Kumar e dell’odio che gli inglesi provavano per lui. Non sapevo nulla dei movimenti di Kumar durante la notte in questione, ma un amico degli arrestati disse che, a eccezione di Kumar, i membri del gruppo si erano semplicemente ritrovati in una vecchia baracca per bere liquore distillato in casa e che non sapevano niente della “violenza” prima che la polizia li arrestasse. Anche lui aveva bevuto insieme a loro, ma se n’era andato pochi istanti prima degli arresti, a cui aveva assistito tenendosi nascosto. Pensava che a tradirli fosse stato il custode del passaggio a livello del ponte di Bibighar, il quale sapeva che il gruppo usava la baracca per bere liquore clandestino e spesso si presentava e li costringeva a dargli da bere in cambio del suo silenzio. So che tutto questo è vero perché io stesso a volte frequentavo quella baracca. Non era la stessa in cui avevamo bevuto la sera in cui Hari Kumar si era ubriacato. Per poter bere quel liquore, dovevamo cambiare continuamente luogo di ritrovo allo scopo di ingannare la polizia. La ragione per cui bevevamo quella robaccia era che non potevamo permetterci i costi dei liquori legali.

Nel corso dell’interrogatorio, il sovrintendente mi chiese: «Non è vero che sei intimo amico di Kumar, che la sera del 9 agosto tu, lui e i vostri amici stavate bevendo nella baracca nei pressi del ponte di Bibighar e che te ne sei andato quando loro hanno cominciato a parlare di entrare nell’acquartieramento e procurarsi una donna?».

Capii che mi stava dando l’opportunità di ingraziarmi le autorità tramite una falsa testimonianza, e per quanto avessi una gran paura di essere picchiato dissi che no, non era vero che conoscevo Kumar e alcuni dei giovani che aveva nominato ma che la sera del 9 agosto mi ero trattenuto negli uffici del «Mayapore Hindu» a correggere gli articoli sugli incidenti che si erano svolti a Dibrapur e Tanpur, e che ero certo che il mio direttore avrebbe potuto confermarlo. Era la verità, e il sovrintendente lo sapeva e per questo provava una gran rabbia. «Quando avrò finito con te, ti sarai pentito delle tue menzogne», disse. Poi mi lasciò solo nella stanza. Mi guardai intorno in cerca di vie di fuga, ma non c’era nemmeno una finestra da cui poter riguadagnare la mia agognata libertà. La stanza era illuminata da una nuda lampadina. C’erano un tavolo, la sedia che fino a poco prima aveva occupato il sovrintendente e lo sgabello su cui sedevo io stesso. In un angolo c’era una transenna di ferro.

Quando capii che non c’era modo di fuggire, pregai di avere la forza di sopportare le torture senza rivelare i nomi dei miei complici. Credevo che le guardie sarebbero arrivate da un momento all’altro e che il sovrintendente sahib stesse ordinando di preparare i loro strumenti. Ma lui rientrò da solo, si sedette ancora al tavolo e mi rifece le stesse domande di prima. Non so per quanto andò avanti tutto questo. Ero affamato e assetato. Dopo un po’, quando non riuscì a farmi aggiungere altro, il sovrintendente se ne andò di nuovo, poi arrivarono due agenti che mi condussero fuori, mi caricarono su una camionetta e mi portarono al carcere sulla Jail Road. Durante il tragitto speravo che la nostra gente mi liberasse, ma la camionetta procedette a gran velocità e senza incidenti fino alla prigione. Lì rimasi una settimana, dopodiché venni condotto in tribunale e accusato di stampa e pubblicazione di letteratura sediziosa. Una spia della polizia testimoniò di avermi visto lanciare l’opuscolo nella kotwali, il che non era vero, ma non potevo provarlo. Nel frattempo era stata trovata anche la pressa clandestina, senza dubbio grazie a qualche spia, e tutti i miei complici erano stati arrestati. Venni condannato a due anni di carcere duro. Fui spedito a scontare la pena in una prigione nei pressi di Dibrapur, e in un primo momento venni rinchiuso in una cella lurida. Ero convinto che il sovrintendente avesse dato ordine di riservarmi un trattamento particolarmente severo. Sulle prime, malgrado la fame, non riuscivo nemmeno a ingerire il cibo disgustoso che mi davano. Un giorno persi il controllo e scaraventai il piatto a terra. Il giorno dopo venni condotto fuori dalla cella e mi venne comunicato che avrei ricevuto quindici staffilate per aver violato il regolamento carcerario. Mi portarono in una stanzetta minuscola, dove notai lo stesso tipo di transenna di ferro che avevo visto in quella in cui mi aveva interrogato il sovrintendente. Mi mostrarono la verga che avrebbero adoperato. Era lunga più di un metro e spessa più di un centimetro. Mi spogliarono completamente, mi fecero piegare in avanti sulla transenna, mi legarono polsi e caviglie ed eseguirono la “sentenza”. Verso la fine non riuscii più a sopportare il dolore e svenni.

In seguito venni trasferito in un altro penitenziario. Non mi era permessa alcuna comunicazione, nemmeno con la mia famiglia. Un giorno mi dissero che mia madre era morta. Piansi e pregai Dio di perdonarmi per le sofferenze che le avevo provocato a causa di quell’impegno per la libertà che avevo sentito di dovermi assumere. Non provavo rancore per le punizioni che stavo subendo poiché ero colpevole di tutti i “crimini” per cui venivo punito. Ma non li consideravo dei crimini, e così anche le mie punizioni non erano punizioni ma parti del sacrificio che ero stato chiamato a fare.

Fu verso la fine della mia detenzione che uno dei giovani che erano stati accusati dell’aggressione alla donna inglese venne trasferito nel mio stesso carcere. Erano stati sparsi in prigioni diverse, di sicuro perché le autorità temevano che potessero confermare i rispettivi racconti riguardo alle ingiustizie che avevano subito. Quando vidi quel giovane proruppi in un’esclamazione di sorpresa, poiché ero convinto che fossero stati tutti processati e condannati da tempo. In carcere mi era addirittura giunta voce che fossero stati impiccati. Ma lui mi disse che non era mai stata trovata alcuna prova contro di loro. Era convinto che fosse stata tutta “una montatura” e che probabilmente a Bibighar non ci fosse stato alcuno stupro. Alla fine le autorità li avevano incarcerati tutti come indesiderabili, rei o sospettati di attività sovversive. Non potemmo dirci molto, e lui sembrava troppo intimorito per confermarmi le voci di torture e umiliazioni che mi erano giunte.

Quando venni rimesso in libertà, non avevo più una casa. Dovevo presentarmi periodicamente alla polizia. Il mio ex datore di lavoro, Mr Laxminarayan, mi trovò una sistemazione e un impiego affinché potessi restare a galla. Le mie condizioni di salute non erano buone, pesavo meno di 45 chili ed ero perseguitato dalla tosse. Ma col passare del tempo riuscii a recuperare in parte le forze.

Dei giovani arrestati dopo l’aggressione di Bibighar, solo uno tornò a vivere a Mayapore. Era lo stesso che era stato trasferito nel mio stesso penitenziario. Quando seppi che era tornato a casa gli feci visita e gli chiesi: «Perché avevi paura di parlarmi?». Ma lui era ancora restio a dirmelo. Aveva sofferto molto e temeva la polizia, che a suo dire continuava a tenerlo d’occhio. I britannici erano ancora al potere dopo aver vinto la guerra, e malgrado si dicesse che questa volta si stessero preparando ad andarsene, da parte nostra nutrivamo scarse speranze per il futuro.

Una sera, verso la fine del 1946, io e quel giovane stavamo conversando quando a un tratto lui sbottò: «Ti dirò tutto». Poi mi fece un lungo racconto. Disse che la notte di Bibighar, dopo che lui e gli altri quattro erano stati arrestati nella baracca, erano stati immediatamente condotti e rinchiusi al quartier generale di polizia. Credendo di essere stati semplicemente sorpresi a bere liquore illegale, stavano ancora ridendo e scherzando. Ma poi avevano visto arrivare anche Hari Kumar. Era stato arrestato anche lui, e la sua faccia era piena di lividi e tagli. Credettero che a causarli fossero stati i poliziotti. «Ciao, Hari», lo aveva salutato uno di loro, ma Kumar non gli aveva risposto. Dopo quel momento, nessuno tranne il mio informatore lo aveva più rivisto. E poiché questi mi stava rivelando tutto ciò in via confidenziale, preferisco rispettare la sua volontà e non divulgarne il nome. Di questi tempi certe cose sono ormai cadute nel dimenticatoio, e le nostre vite sono cambiate. I giovani d’oggi non si interessano di queste faccende. Per questo al mio amico darò il nome di “Sharma”, che non è né il suo né quello di nessuno dei suoi compagni. Sharma era un ragazzo energico e attraente, e come me era un “gran donnaiolo” redento. Lui e i suoi amici, tutti tranne Kumar, erano stati rinchiusi in una cella comune e poi tirati fuori uno dopo l’altro. A mano a mano che gli altri uscivano senza più rientrare, quelli rimasti avevano smesso di ridere e scherzare. Avevano un gran mal di testa e una sete terribile a causa della sbronza. Alla fine era restato solo Sharma. Quando era giunto il suo turno, era stato condotto nei sotterranei da due agenti e gli era stato ordinato di spogliarsi. Una volta rimasto completamente nudo, uno dei due agenti aveva bussato alla porta in fondo al locale e questa si era aperta a rivelare il sovrintendente distrettuale, che era entrato nella stanza. Sharma aveva provato una profonda umiliazione per essere costretto in una posizione così indecente, specialmente di fronte a un bianco. I due agenti gli avevano immobilizzato le braccia dietro la schiena e il sovrintendente gli si era avvicinato reggendo in mano una piccola verga, aveva allungato il bastone e gli aveva sollevato i genitali, osservandoli per alcuni istanti. Sharma non capiva perché lo stessero umiliando in quel modo. «Perché mi fa questo, sovrintendente sahib?», aveva chiesto. Il poliziotto non aveva risposto. Aveva ispezionato gli indumenti che Sharma si era dovuto togliere, continuando a usare il bastone per rivoltarli ed esaminarli, e poi era uscito dalla stanza. In seguito, naturalmente, Sharma si sarebbe reso conto che stava cercando le prove di una violenza durante la quale una donna potesse aver perso del sangue. Dopo che il sovrintendente se n’era andato, gli agenti avevano ordinato a Sharma di rimettersi le mutande, ma non gli avevano restituito gli altri indumenti. Lo avevano condotto fuori dalla stanza attraverso un’altra porta, e lì aveva ritrovato i suoi compagni di bevute, anche loro in mutande. Kumar non era tra loro. Avevano cercato di scherzare di nuovo, chiedendosi ad alta voce come mai il sahib fosse così interessato a certe parti anatomiche, ma ormai non avevano più molta voglia di ridere. Dopodiché erano stati ricondotti fuori uno per uno, senza più fare ritorno nella cella comune. Quando era giunto il suo turno, di nuovo dopo tutti gli altri, Sharma era stato riportato nella stanza in cui gli avevano intimato di spogliarsi e vi aveva trovato il sovrintendente seduto a una scrivania. Credo che fosse lo stesso locale in cui due sere dopo il sovrintendente sahib avrebbe interrogato anche me. Ma a Sharma non era stato dato uno sgabello su cui sedersi. Era stato costretto a stare in piedi davanti alla scrivania e lì era stato interrogato. Non capiva le domande, poiché immaginava che l’accusa fosse solo quella di consumo di liquore illegale. Ma a un tratto il sovrintendente gli aveva chiesto: «Come sapevate che lei si sarebbe trovata ai giardini di Bibighar?», e a causa di quel «lei», nonché della recente umiliazione che gli era stata inflitta, Sharma aveva cominciato a intuire cosa poteva esserci dietro a quella trafila di interrogatori. Ma continuava a non capire cosa stesse cercando di scoprire il poliziotto, finché questi non gli disse: «Sto indagando sull’aggressione e sulle violenze subite questa sera dalla giovane inglese, la ragazza che credeva che il vostro amico Kumar fosse anche amico suo». A quell’affermazione era seguita una sfilza di domande: «Quando è arrivato il suggerimento di Kumar di recarvi lì tutti insieme? Lei si trovava già lì al vostro arrivo? Quanto l’avete aspettata? Chi è stato il primo ad aggredirla? È stato Kumar a istigarvi, vero? Se non fosse stato per Kumar non vi sarebbe mai venuto in mente di andare a Bibighar, giusto? Tu eri solo quello che doveva stare di guardia senza potersela godere? Perché dovresti pagare per gli altri, se eri solo di guardia? Quante volte te la sei goduta, allora? Quante volte se l’è goduta Kumar? Perché hai tanta paura? Quando uno ha bevuto molto liquore comincia a immaginare di spassarsela con una donna, giusto? Perché farsi una colpa di una cosa perfettamente naturale? Non avresti dovuto bere ma l’hai fatto, e guarda com’è finita. Sii uomo e ammettilo, avevi bevuto ed eri eccitato. Non sei un rammollito, sei un ragazzo sano. Perché vergognarsi dei propri desideri naturali? Anch’io, se bevo troppo, vengo assalito da questi pensieri. Non ci sono tracce di sangue, né su di te né sui tuoi indumenti intimi. Lei non era vergine, vero? E tu sei stato il primo, perché eri il più eccitato e non ce l’hai fatta ad aspettare. Non è così? O magari ti sei lavato con cura? O ti sei cambiato le mutande? Sapendo di aver fatto qualcosa di sbagliato? Sapendo che se fossi stato preso avresti dovuto pagarla? Ebbene, sei stato preso e ora devi pagare. Sii uomo e ammetti di meritare una punizione. Se lo ammetterai te la caverai con poco, perché io queste cose le capisco. E poi lei non era vergine, giusto? Andava con chiunque fosse capace di soddisfarla. E le piacevano quelli di pelle scura. Fu questo che vi disse Hari Kumar, non è vero? Non è vero?».

Questo è ciò che Sharma ricordava più di tutto. Il modo in cui il poliziotto continuava a ripetere: Non è vero? Non è vero?, percuotendo la scrivania con la verga, infuriato perché Sharma continuava a dirgli che non ne sapeva nulla di ciò di cui il sovrintendente sahib gli parlava.

Poi il poliziotto aveva gettato il bastone sulla scrivania, aveva detto: «Ho capito, con te c’è solo un sistema che funziona», e aveva chiamato gli agenti, che avevano preso Sharma e lo avevano condotto nella stanza accanto e poi in quella successiva. Era un locale poco illuminato, ma nella penombra Sharma aveva visto Kumar, nudo e legato a una transenna di ferro, in una posizione in cui, lo so anch’io, diventa difficile respirare. Sharma non sapeva da quanto Kumar fosse immobilizzato in quella posizione, ma poteva sentire che respirava a fatica. In un primo momento non lo aveva riconosciuto. Aveva visto solo il sangue sulle natiche. Ma poi il poliziotto, il sovrintendente, era entrato nella stanza e aveva detto: «Kumar, qui c’è un suo amico che è venuto a sentire la sua confessione. Non deve fare altro che dire: “Sì, sono stato io a organizzare lo stupro”, e verrà slegato da questo arnese e non verrà più percosso». Sharma disse che Kumar aveva emesso solo una “specie di verso”, al che il sovrintendente sahib aveva dato un ordine e un agente si era fatto avanti e aveva ripreso a sferzare Kumar. Rivolto a Kumar, Sharma aveva gridato che non sapeva niente e non aveva detto niente. Poi si era appellato ai poliziotti: «Perché lo trattate in questo modo?». Ma loro avevano continuato a percuotere Kumar fino a farlo gemere. Sharma aveva dovuto distogliere lo sguardo. In seguito era stato condotto via e rinchiuso da solo in cella. Una decina di minuti più tardi era stato riportato nella stanza in cui prima si trovava Kumar. Il trespolo era libero. Le guardie lo avevano denudato e legato all’arnese. Poi gli avevano posato sulle natiche una pezza bagnata o qualcosa di simile e gli avevano dato nove vergate. Disse che il dolore era così tremendo che non sapeva come avesse fatto Kumar a sopportarlo così a lungo. Il panno bagnato serviva a evitare che si aprissero tagli sulla pelle e che i colpi lasciassero segni permanenti. Alla fine lo avevano ricondotto in cella, e più tardi in quella dove si trovavano i suoi compagni. Kumar non era tra loro. Sharma aveva riferito quello che lui e Kumar avevano subito. Gli altri non erano stati maltrattati, ma temevano che prima o poi sarebbe toccato anche a loro. I più giovani si misero a piangere. Non riuscivano a capire cosa stesse succedendo. Ormai si era quasi fatto mattino. Il sovrintendente era entrato nella cella insieme a due agenti e aveva ordinato loro di mostrare a tutti cosa potevano fare nove semplici fustigate su una superficie del corpo coperta da un panno bagnato. Le due guardie avevano immobilizzato e denudato Sharma, e il sovrintendente aveva detto che se uno qualunque tra loro avesse anche solo alluso, nel corso dei “prossimi interrogatori, del processo e della pena” che li attendevano, al fatto che fossero stati “percossi” o maltrattati, avrebbero subito punizioni ancora più severe di quelle che Sharma poteva descrivere per esperienza personale e per avere assistito a quelle che erano state comminate a qualcun altro.

Mezz’ora dopo era arrivato del cibo. I prigionieri erano affamati, stanchi e spaventati. Avevano cominciato a mangiare, ma dopo pochi bocconi avevano vomitato tutto. Il “montone” nel curry era manzo. I due secondini musulmani che li stavano guardando avevano riso di loro, dicendo che a quel punto erano diventati dei paria e che perfino Dio gli aveva voltato le spalle.