Ground Zero in galleria

 

Si va in Emilia sulla vecchia Porrettana per evitare la Direttissima dell'Appennino: linea di stragi e bombe

 

Quindicesimo giorno: Firenze-Pistoia-Bologna-Parma

 

Per toglierti di dosso 220 chilometri di pioggia e carbone non ti basta una doccia sola. Noi, dopo il viaggio in locomotiva, siamo finiti a mollo per ore.

Rintanato in ogni ruga, c'era un impasto tenace di catrame. Eravamo impregnati dentro. La "Signorina" ci aveva distrutti. Durante la notte, poi, il cuore stantuffava come un matto, era come se gli fosse entrata dentro la vaporiera.

Sembrava di sentirlo per la prima volta. Era diventato una macchina sotto pressione. Pompava nerofumo, faceva del pigiama una Sindone.

 

Paolini è più felice di un bambino; ha trovato il "muso nero" che è in lui.

Quando lo chiamo, non risponde. É lontano, nella sua segreta Transiberiana.

Sta viaggiando dalle parti del Lago Bajkal, a Nord delle montagne del Sinkiang.

Sta viaggiando: è entrato in quel misterioso gerundio dell'anima che è l'eterno presente del viaggio. Oggi si è alzato presto, per correre a Pistoia.

C'è un pranzo della sua setta carbonara, i macchinisti d'élite, in un deposito dove restaurano nel tempo libero alcuni gloriosi locomotori.

 

Quando lo raggiungo a mezzogiorno, alla stazione la banda pistoiese sta suonando "Yellow Submarine" e la "Marcia dei lavoratori". Sul mio treno arrivano trionfalmente anche i ferrovieri del sindacato autonomo e un tripudio di ottoni e grancasse dà loro il benvenuto. Li guida Ezio Gallori, "un tipo tosto dicono - che non si è mai fatto comprare dai padroni". E mentre la banda attacca la "Marcia dei clown" da "Fellini Otto e mezzo", nella baraonda apprendo che il primo Cobas italiano è nato così. Sulla ferrovia.

Le masse sindacali traslocano rumorosamente verso tavolate imbandite e un'orchestrina, cantano "Guantanamera" guidati sul palco da una moracciona col cappello da cowboy. Attacco discorso, ma Paolini mi cattura e mi trascina altrove: dall'aristocrazia dei macchinisti. Il loro Sancta Sanctorum è altrove, in una rimessa, oltre gli scambi arroventati dal sole.

Saranno una quarantina. Tra loro si chiamano col numero di matricola, come la Banda Bassotti. E difatti sono una confraternita di simpatiche canaglie.

"362436" travasa il Chianti, viene da Napoli-Smistamento, ha fatto vent'anni di trazione a vapore. "428075", al secolo Bruno Maurri, prepara porchetta e fegatini tra un tender e una motrice e racconta come è diventato ferroviere negli anni Cinquanta. "Lavoravo in aeronautica, poi un giorno ho visto passare un treno a vapore e mi sono detto: che ci sto a fare qui? L'aereo fa schifo. Se volevo volare, mi' madre mi faceva le ali".

 

"Quella volta, entrare in ferrovia voleva dire cercare qualcosa". Gli chiedo: che cosa? "Il sogno che passa". Spiega: "Noi non s'era impiegati del catasto".

Com'è cominciata? "Quand'ero piccino, per farmi star bono mi portavano a vedere i treni". Intanto Gabriele Gori, quello che ieri ha fatto morire la "Signorina" spalando una tonnellata di carbone, entra con una pentolaccia di penne, spinaci, salsiccia e mascarpone. Non riesce a vivere lontano dal fuoco, se non c'è la locomotiva gli van bene i fornelli.

 

E quando Bruno, l'uomo che vedeva passare i treni, mi porta tra i locomotori, mi accorgo che l'elettricità ha cambiato il sesso alla ferrovia. La locomotiva ansima, è calda, ti cattura con le sue curve, è femmina. Il mostro freddo ringhia, è un parallelepipedo corazzato, maschio. Ha anche un dannato profilo bellico. Al punto che sui due musi simmetrici del "428" Prima Serie scopro, inconfondibile e ovviamente volitiva, la mascella del Duce.

 

L'avrete capito. I locomotori son figli del fascismo: del tempo, cioè, in cui l'Europa ci negò il carbone e l'Italia fu obbligata, in anticipo su tutti, a scegliere l'elettrificazione della rete. 25Poi l'autarchia finì in tragedia, coi soldati in treno che andavano a morire. Ma i mostri elettrici rimasero, insuperati. Oggi invece, con la deregulation, il Made in Italy su roiaia scompare dal paesaggio. Come le littorine, geniale invenzione del dopoguerra.

Si danno le tratte in affitto a gestori privati, nella rete arrivano macchine straniere, e nessuno progetta più treni.26

 

"Chi s' estranea dalla lotta è un gran figlio di mignotta", tra pignatte e compressori echeggia il motto ribaldo, mentre il Chianti di Poggio Gherardo scorre a fiumi. Paolini-740 afferra il bidone dell'olio da macchina e finge di condire l'insalata. La tavolata di toscani, liguri, umbri e romagnoli emana una felicità primordiale e rumorosa, tipicamente appenninica. Arriva il vin santo "di quello bono", e Bruno spiega in versi perché il treno è democratico: "Saranno grandi a papi, saranno grandi i re, ma quando son qui sopra, son tutti eguali a me". Applausi, comizio, pensierino finale al Presidente Ferroviere.

E si riparte.

 

Andiamo in Emilia sulla vecchia Porrettana, un altro mito italiano. Niente Direttissima dell'Appennino. Tutti e due sappiamo perché. É agosto, il mese nero delle stragi ferroviarie: la bomba sull'"Italicus" e l'attentato alla stazione di Bologna, sempre su quella linea maledetta. Anche per arrivare a Firenze l'abbiamo evitata, preferendole la Faentina. L'Italicus: anche noi abbiamo il nostro "Ground Zero". É ancora lì, in quella galleria piantata nella pancia del Paese. Mi accorgo che il nostro viaggio è stato solo un periplo attorno a quella notte d'agosto. Il buco nero della coscienza nazionale.

 

Curve spettacolari, ma piove, porca Porretta. In vettura fricchettoni tatuati, ragazzi lunatici e pensionati. Fuori, una Toscana che inselvatichisce. Certe stazioni sono così incastrate tra due gallerie che allo scoperto non c'è spazio abbastanza per il treno. A Pracchia, sei binari: un tempo tutto il traffico italiano passava di qui. Sulla pensilina vedo un tipo vestito con una tunica bianca, i capelli pure bianchi, splendenti, raccolti a coda. Sembra Terzani, l'autore di "Un indovino mi disse". So che ha queste parti. L'ultima volta l'ho visto a Kabul, sbarcava da un aeroplanino tra le montagne. Vorrei chiamarlo, ma non c'è tempo, il treno riparte.

 

Si scollina, la macchina accelera e tutto cambia, anche la lingua del macchinista. L'uomo ai comandi è un bolognese simpaticissimo, ma inquieto.

L'efficientismo della regione rossa lo perseguita: appena sgarra di un minuto, un "ranger" gli telefona dalla Centrale. Che rottura lavorare così, col Grande Fratello che incombe. Poi è Bologna, che non è una stazione, è un delirio. Le masse vanno, s'ingolfano nel sottopassaggio, si fanno risucchiare a ritmi da film muto nel più fantastico collo d'oca del Paese.

 

Non c'è tempo, non c'è tempo. Correre, correre. Soccorro tre spagnole in lacrime, nel pandemonio hanno perso il treno. Che succede? La stazione che fu il cuore delle ferrovie italiane non governa più il traffico, lo subisce. In un sistema che diventa "aeronautico", contano solo i terminal di partenza e arrivo.

Il resto è vissuto come un intralcio, a partire dalle coincidenze. E poiché Bologna è la coincidenza per antonomasia, lì il sistema si imballa.

Perché funzionano meno scambi? Perché i ritardi si accumulano? Perché il deposito macchine è semivuoto? Ma non c'è tempo, non c'è tempo. Correre, correre.

Partiamo pieni di domande verso Parma, nella sera punteggiata di zanzare.

(mancano 2425 chilometri - 17 agosto 2002)