Un capolavoro italiano

 

Un bruco di ferro che si attorciglia su se stesso E solo sul traghetto si ritrova l'Italia di sempre

 

Terzo giorno: Arbatax-Cagliari

 

Arbatax, notte lunga di streghe, pioggia e fulmini sul mare. Poi un'alba nitida, spettacolare, con Arzana e Lanusei che luccicano sui monti come fioche nebulose. Noi si va lassù, sui picchi più misteriosi della Sardegna. Liberi per davvero, senza check-in, metal detector, passaporti o forbicine da consegnare.

Mettiamo gli zaini accanto alle rotaie, siamo vagabondi da Nuova Frontiera.

"740" fuma la pipa e recita: "A piedi e a cuor leggero mi avvio per la strada aperta / sano, libero, il mondo davanti a me". É di Walt Whitman, altro adoratore di ferrovie, amico di "musi neri" e notturno frequentatore di binari.

 

Cerco nella bisaccia di "740", per capire qualcosa di lui. Due orari ferroviari, l'ultimo numero di "Tex Willer", una pipa, una miscela dolce di tabacco, un libro del primo Tabucchi, liquirizia, tre penne nere sottili, un blocco di strane note su un caso giudiziario, cinque quadernini per i primi appunti vagabondi, un vecchio registro ferroviario a copertina rigida, dove riordinare il tutto. "740" lo chiama canovaccio; anzi "canovaggio", a far rima con viaggio. E poi un piccolo registratore per andare a caccia di voci.

Ci avvertono che la vaporiera s'è rotta, una 402 delle Officine Reggiane. Ma fa niente, questa è una linea che si fa perdonare. Un diesel elettrico è già lì che rantola, le donne del club con mariti al seguito aspettano l'imbarco sotto una cascata di bouganvillee procaci, quasi oscene. La motrice ci mostrerà egualmente come due rotaie possono prendersi gioco delle montagne più ripide del Mediterraneo. Un capolavoro italiano.

 

Un fischio, un brivido di ferraglia, si parte. E subito il bruco di ferro s'impenna, si contorce, si attorciglia su sé stesso. "É pazzesco - commenta "740" - in ferrovia puoi vedere curve così solo nell'Almanacco di Topolino". Il macchinista non vede mai oltre i cinquanta metri, sfiora cactus, asfodeli, trincee, strapiombi, attraversamenti di sentieri, gallerie, greggi, ponti, ginestre, passaggi a livello incustoditi. Ma il colmo è l'incrocio con la Statale, dove perdiamo la precedenza come un bus.

Conquistiamo di nuovo la cabina di guida, il posto proibito, e la nostra fuga illegale prosegue in una natura grandiosa, ruspante, abbandonata. C'è un casello-fantasma ogni mille metri e, in mezzo, intervalli di nulla. "Una volta ci vivevano anche in quindici racconta il capotreno - andavano a letto presto, facevano solo figli. Sulla linea vivevano almeno tremila persone". Si sale fra sterpaglia, ruggine, segni di incendi, traversine bruciate. In mano agli svizzeri, dicono, la linea sarebbe un gioiello. Ma a noi quest'incuria piace. Lascia intatta l'avventura.

Sei in un labirinto che disorienta: credi di avere il paese sulla destra, poi entri in galleria e quando ne sbuchi te lo ritrovi a sinistra. Scopri che dentro la montagna la talpa ha fatto un giro intero su se stessa per guadagnar quota. Sull'orlo del nulla c'è un muro enorme, l'anno messo perché un giorno il vento ha rovesciato il treno. L'Ogliastra è ai tuoi piedi. Poi scollini a quota mille, il Mediterraneo sparisce e tutto cambia. Oltre un bosco di tassi secolari, le sorgenti del Flumendosa e le nubi, riecco il Gennargentu.

Guglie, strapiombi, muraglie tipo Arizona, la strana impressione di essere seguiti da qualcuno. Nella galleria della Verdeliana ci fermiamo, ci sono mucche che si riparano dal caldo, bisogna spingerle fuori. Oltre il Bucunieddu, la Valle Nera, per poco non centriamo un muflone. Ne hanno presi sette, un giorno.

Ma il peggio sono le pecore. "Il rischio - ride il macchinista - è che se una decide di morire, tutte le altre le vengono dietro".

 

Corbezzoli, ginestre. Sulla massicciata, ciclamini. Sono gli unici fiori, mi spiegano, che resistono ai diserbanti. Il treno entra in gole lunghissime, ne esce. Sembrano le Dolomiti, solo che sulle Dolomiti se la sognano una linea simile. 5 Fino a Mandas sono 159 chilometri così. Un lavoro bestiale, compiuto in tempo record: due anni e mezzo, con soli mille uomini. "Ma allora non c'erano i sindacati - spiega il macchinista - e i geometri erano bestie".

Ecco Seui, così solitaria che la chiamano "Passa e fui", passa e fuggi. La stazione ha un nomignolo ammonitore: Spielberg, perché far deposito qui era l'esilio.

Penso che treni così hanno unito l'Italia. Ma i sardi la pensano altrimenti; non sono sardi per niente. Ti dicono: "La ferrovia l'hanno fatta i piemontesi solo per rapinarci di legname e carbone". Dopo Mandas comincia la discesa a precipizio verso le greggi del Sud. Pecore a milioni, tra tumuli, nuraghi e fili di fumo. Le orecchie si turano, il treno accelera, compie curve lunghe, quasi aeronautiche, diventa una macchina del tempo. Viaggia all'indietro nei millenni della civiltà mediterranea.

 

"Dove andate?" chiedono i gitanti. Già. Dove andiamo? Bella domanda. Torniamo a casa, nel Grande Nord, oltre la Linea Gotica. Solo che passeremo per Lercara Friddi, Soveria Mannelli, Baronessa, Roccasecca, Antrodoco, Pracchia, Rovasenda e Piàdena; vedete un po' voi. Ci guardano strano. Non capiscono questo demenziale Grand Tour alla rovescia, che non va verso i limoni ma le risaie.

Un'anabasi lunga come l'Asia. E più incasinata di quella di Senofonte.

Cagliari, sera viola e vento forte. Il traghetto per Trapani e Tunisi aspetta in mezzo a una flotta da guerra. É un ordine solo apparente: a bordo ci investe un pandemonio di genitori affranti e bambini-tiranni con chewing gum e telefonino. Viva l'Italia. Siamo già alieni su questa nave che il Mistral spinge verso la notte africana. Nuotiamo verso la branda, finché le vibrazioni della nave diventano un narcotico, mescolano in testa la Tunisia, Hammamet, Craxi, le ville sarde di Berlusconi, l'esilio di Garibaldi a Caprera.

(mancano 6158 chilometri - 4 agosto 2002)