CAPITOLO 42

 

L'indomani mattina, sin dalle sette, una folla pazzesca si accalcava nel metrò, nei tram e negli autobus diretti dalle parti di Vincennes. Lungo avenue Daumesnil, intere file di veicoli si affrettavano, taxi, carrozze, torpedoni, i ciclisti zigzagavano, i pedoni acceleravano il passo. Senza rendersene conto, Albert e Pauline offrivano un curioso spettacolo. Lui camminava con lo sguardo fisso a terra, un tipo caparbio, si sarebbe detto, un individuo scontento o pensieroso, mentre lei, gli occhi al cielo, continuava ad avanzare scrutando il dirigibile fissato al suolo che oscillava lentamente al di sopra del campo di manovre.

 

«Tesoro, sbrigati!» lo esortava con garbo. «Sennò ci perdiamo l'inizio!»

Ma lo diceva senza convinzione, tanto per parlare. Comunque, le tribune erano state prese d'assalto.

 

«A che ora saranno arrivati, quei mostri?» esclamò Pauline ammirata.

 

Si vedevano già allineate in bell'ordine, immobili e frementi, come se fossero impazienti, le truppe speciali e quelle delle Accademie, le truppe coloniali e, a seguire, l'artiglieria e la cavalleria. Non essendoci più posti se non a una certa distanza, qualche astuto venditore ambulante forniva delle casse di legno per sopraelevare i ritardatari, i prezzi andavano da uno a due franchi; Pauline contrattò per averne due a un franco e cinquanta. Il sole splendeva già su Vincennes. I colori degli abiti eleganti delle donne e delle uniformi risaltavano sulle redingote nere e i cilindri delle autorità. Sarà stato il semplice effetto dell'immaginazione popolare, ma i rappresentanti delle élite apparivano molto preoccupati. Forse lo erano, alcuni di sicuro, perché tutti avevano letto di buon'ora "Le Gaulois" e "Le Petit Journal"; la storia del monumento ai caduti sconvolgeva tutti. Che divampasse esattamente il giorno della festa nazionale non sembrava per nulla casuale, era un segno, una sorta di sfida. La Francia oltraggiata! titolavano alcuni. I nostri Gloriosi Morti insultati! rincaravano altri a suon di maiuscole. Era ormai certo: una società ignominiosamente denominata il Ricordo Patriottico aveva venduto centinaia di monumenti prima di scappare con la cassa; si parlava di un milione di franchi, se non due, nessuno era stato capace di quantificare i danni. Lo scandalo era in balia delle voci: in attesa della sfilata, la gente si scambiava informazioni di provenienza ignota: non c'erano dubbi, si trattava di "un altro colpo dei crucchi!" No, secondo altri, che però non ne sapevano di più, i truffatori erano partiti con oltre dieci milioni, era sicuro.

 

«Dieci milioni, ti rendi conto?» domandò Pauline ad Albert.

 

«A mio parere, è esagerato» rispose lui con una voce così bassa che lei a malapena sentì.

 

Com'era consuetudine in Francia, si chiedeva la testa dei responsabili, ma anche perché il governo "aveva le mani in pasta". "L'Humanité" lo spiegava benissimo: "Poiché la realizzazione di quei monumenti ai caduti richiedeva quasi sempre la partecipazione dello Stato sotto forma di sovvenzioni, peraltro odiosamente modeste, chi crederà mai che nessuna autorità fosse al corrente?",

«In ogni caso» asseriva un uomo dietro Pauline «ci vogliono dei maledetti professionisti per fare un colpo simile.»

A tutti, la sottrazione di fondi sembrava indegna, ma nessuno poteva impedirsi di provare una certa ammirazione, che faccia tosta!

 

«E' vero» disse Pauline «sono comunque in gamba, bisogna riconoscerlo.»

Albert non si sentiva affatto bene. «Che succede, tesoro» indagò Pauline posandogli la mano sulla guancia «ti stai annoiando? Il fatto di vedere le truppe, i militari, ti smuove dei ricordi, è così?»

«Sì» rispose Albert «è così.»

E mentre riecheggiavano le prime note di Sambre-et-Meuse suonata dalla guardia repubblicana e il generale Berdoulat, che comandava la sfilata, porgeva il saluto con la spada al maresciallo Pétain, circondato da uno stato maggiore di alti ufficiali, Albert si diceva: dieci milioni di utile, col cavolo, finiranno per tagliarmi la testa per un decimo di quella cifra. Erano le otto, aveva appuntamento con Édouard alla Gare de Lyon a mezzogiorno e mezzo ("Non più tardi" aveva insistito "sennò, lo sai, finisce che mi preoccupo..."), il treno per Marsiglia partiva alle tredici. E Pauline sarebbe stata sola. E Albert senza Pauline. Bel guadagno!

 

Tra gli applausi, sfilarono allora gli allievi dell'École Polytechnique, dell'Accademia Militare Saint-Cyr con il pennacchio sul cappello, la Guardia repubblicana e i pompieri, dopodiché fu la volta dei soldati con l'uniforme blu orizzonte, accolti dalla folla con un'ovazione. Tutti gridavano «Viva la Francia!».

 

Édouard era davanti allo specchio quando risuonarono i gloriosi colpi di cannone esplosi all'Hotel des Invalides. Da qualche tempo, si preoccupava di constatare quel rosso carminio che tingeva le mucose in fondo alla gola. Si sentiva stanco. La lettura dei giornali della mattina non gli aveva procurato la stessa gioia del giorno prima. Come invecchiavano in fretta, le emozioni, e come invecchiava male la sua gola!

 

Con gli anni, che faccia avrebbe avuto? La voragine occupava quasi tutto lo spazio destinato alle rughe, rimaneva solo la fronte. Édouard si divertì all'idea che le rughe, non trovando posto sulle guance assenti, intorno alle labbra assenti, sarebbero emigrate compatte verso la fronte come quei fiumi deviati che cercano uno sbocco e s'incanalano lungo la prima via che si presenta. Da vecchio, sarebbe stato una fronte solcata come un campo di manovre sopra una voragine carminio. Guardò l'ora. Le nove. E una stanchezza incredibile. Sul letto, la cameriera aveva steso la sua tenuta coloniale. Giaceva lì, in tutta la sua lunghezza, come un morto svuotato della sostanza.

 

"Era così che la voleva?" gli aveva domandato esitante.

 

Con lui, non ci si stupiva più di nulla, però quella giacca coloniale con le grandi piume verdi cucite dietro la schiena...

 

"Per uscire... fuori?" si era stupita.

 

Aveva risposto infilandole in mano una banconota stropicciata.

 

"Allora" aveva continuato lei "posso chiedere al cameriere ai piani di venire a prendere il suo baule?"

Il bagaglio sarebbe partito prima di lui, verso le undici, per essere caricato sul treno. Avrebbe tenuto giusto lo zaino, quel pezzo di antiquariato in cui aveva ficcato quel poco che gli apparteneva. Le cose importanti, le portava sempre Albert: ho troppa paura che tu le perda, gli diceva.

 

Pensare all'amico gli fece bene, sentì anche un'incomprensibile fierezza, come se, per la prima volta da quando si conoscevano, fosse lui il genitore e Albert il figlio. Perché, in fondo, Albert con le sue fobie, gli incubi, le crisi di panico non era altro che un ragazzino.

Come Louise, tornata ieri all'improvviso, che gioia rivederla!

 

Tutta trafelata.

 

Un uomo era andato all'impasse Pers. Édouard si era chinato, raccontami.

 

Vi cerca, ha rovistato dappertutto, ha fatto un sacco di domande, noi ovviamente non abbiamo detto nulla. Un uomo, da solo. Sì, in taxi.

Édouard aveva accarezzato la guancia di Louise e seguito con l'indice il contorno delle labbra, be', grazie mille, hai fatto bene, adesso fila, è tardi. Avrebbe voluto darle un bacio in fronte. Anche lei. Louise aveva scrollato le spalle esitante, poi si era decisa ad andarsene.

 

Un uomo, da solo, in taxi, non era la polizia. Un giornalista più sveglio degli altri? Aveva trovato l'impasse, e allora? Senza i nomi. cosa poteva fare? E anche con i nomi? Come sarebbe risalito ad Albert nella sua pensioncina, e a lui al Lutetia? Con il treno tra qualche ora, per giunta?

 

Solo un po', si disse. Niente eroina, quella mattina, solo un'ombra di morfina. Doveva rimanere lucido, ringraziare il personale, salutare il portiere, salire nel taxi, raggiungere Albert. E lì... sarebbe arrivata la sorpresa che lo colmava di gioia. Albert gli aveva mostrato solo il suo biglietto, ma Édouard aveva frugato e scoperto l'altro, emesso a nome dei coniugi Évrard.

 

C'era dunque una signora. Édouard lo sospettava da tempo, perché diavolo Albert faceva tanto il misterioso su quel punto? Un ragazzino.

 

Édouard procedette con l'iniezione. Il benessere fu immediato, si sentiva calmo, leggero, era stato attento alla dose. Andò a stendersi sul letto e con l'indice percorse lentamente la voragine del viso. Io e il mio completo coloniale siamo come due morti uno accanto all'altro, si disse, uno vuoto e l'altro cavo.

 

Tranne che per l'andamento della Borsa, che seguiva minuziosamente mattina e sera, e per qualche notizia di economia qui e là, Péricourt non leggeva i giornali. Qualcuno lo faceva per lui, gli stilava i resoconti, gli segnalava le informazioni importanti. Non aveva voluto derogare alla regola.

 

Sul tavolino dell'ingresso, aveva scorso il titolo del "Gaulois".

Cazzate. Aveva previsto che lo scandalo era imminente, inutile sfogliare i quotidiani per scoprire le loro chiacchiere.

 

Il genero era andato a caccia per nulla, e troppo tardi.

 

Ma forse non era ancora detto, perché, ora, erano faccia a faccia.

 

Péricourt non fece domande, si limitò a incrociare le mani davanti a sé.

Avrebbe aspettato il tempo necessario, ma senza chiedergli nulla. In compenso, poteva dare un'informazione succulenta: «Ho sentito al telefono il ministro delle Pensioni riguardo al suo caso».

 

Henri non aveva immaginato il colloquio in quel modo, ma perché no.

L'essenziale era cancellare il torto. «Mi ha confermato» proseguì Péricourt «che si tratta di una cosa seria, ho avuto alcuni dettagli...

Molto seria, direi.»

Henri s'interrogò. Il vecchio provava ad alzare la posta, a negoziare ciò che lui, Henri, era tenuto a dargli in cambio?

 

«Ho trovato il suo uomo» sibilò.

 

«Chi è?»

La risposta era stata fulminea. Buon segno.

 

«E cosa dice il suo amico ministro del mio caso "serio"?»

I due lasciarono scorrere il silenzio.

 

«Che è difficile da risolvere. Cosa vuole... sono circolati dei rapporti, non è più un segreto...»

Per Henri, era impensabile rinunciare, non ora; avrebbe venduto la sua pelle al prezzo dovuto.

 

«Difficile, non vuol dire "impossibile".»

«Dov'è quell'uomo?» domandò Péricourt.

 

«A Parigi. Per il momento.»

Quindi tacque e si guardò le unghie.

 

«Ed è sicuro che sia proprio lui?»

«Assolutamente.»

Henri aveva trascorso la serata al bar del Lutetia, indeciso se avvisare Madeleine ma a che pro, lei non lo cercava mai.

 

Le prime informazioni erano arrivate dal barista, non si parlava d'altro che del signor Eugène, arrivato quindici giorni prima. La sua presenza cancellava tutto, le ultime notizie, le celebrazioni del 14 luglio, quell'uomo monopolizzava tutte le attenzioni. E suscitava il rancore del barista: "Si figuri che questo cliente lascia le mance solo a quelli che vede, così, quando ordina champagne, sgancia solo a chi glielo porta su, mentre a chi prepara, nemmeno un centesimo, un villano, se vuole il mio parere. Lei non è mica uno dei suoi amici, spero? Ah! La ragazzina pure, se ne parla eccome in hotel, ma lei non passa mai di qui, il bar non è un posto per bambini".

 

In piedi dalle sette, sin dal mattino Henri aveva interrogato il personale, il cameriere ai piani che gli serviva la colazione, la donna addetta alla pulizia della camera, aveva anche ordinato dei giornali, un'occasione per vedere ancora qualcuno, e i rispettivi commenti concordavano. In realtà, era un cliente tutt'altro che discreto. Sicuro della propria impunità.

 

La ragazzina passata la sera prima corrispondeva esattamente a quella che lui aveva seguito: andava lì a trovare un solo cliente, sempre lo stesso.

 

«Sta per lasciare Parigi» disse Henri.

 

«Destinazione?» domandò Péricourt.

 

«Secondo me, lascia la Francia. Parte a mezzogiorno.»

Aspettò che l'informazione facesse il suo corso, quindi aggiunse: «A me mi sa che, scaduto quel termine, sarà difficile trovarlo».

 

"A me mi sa." Solo uomini di quella risma usavano frasi del genere.

Stranamente, e benché non fosse molto ferrato in campo linguistico, Péricourt fu scioccato da quell'espressione così popolare sulla bocca di un individuo a cui aveva dato sua figlia.

 

Dalle finestre si udì una musica militare, che costrinse i due uomini a pazientare. Doveva esserci una piccola folla a seguire la sfilata, si sentivano dei piagnucolii di bambini, dei petardi.

 

Tornata la calma, Péricourt decise di tagliare corto: «Interverrò presso il ministro e...».

 

«Quando?»

«Non appena lei mi avrà detto quello che voglio sapere.»

«Si chiama o si fa chiamare Eugène Larivière. E' sceso al Lutetia...»

Conveniva dare corpo all'informazione, ripagare al meglio il vecchio.

Henri entrò nei dettagli: le stravaganze di quel buontempone, le orchestre da camera, le maschere fantasiose per non svelare mai il suo vero viso, le mance stratosferiche, si diceva che si drogasse. La cameriera aveva visto l'abito coloniale, la sera prima, ma soprattutto il baule...

 

«Come sarebbe» lo interruppe Péricourt «delle piume?»

«Sì. Verdi. Come delle ali.»

Péricourt si era fatto una sua idea del truffatore, basata su tutto ciò che sapeva di quel tipo di malfattori, e non collimava in nulla con il ritratto dipinto dal genero. Henri capì che Péricourt non ci credeva.

«Ha un tenore di vita elevato, spende e spande, ostenta una generosità rara.»

Bel colpo. Parlare di denaro riportava il vecchio sul suo terreno, tralasciamo le orchestre e le ali d'angelo, parliamo di soldi. Un tizio che ruba e sgancia, ecco qualcosa di comprensibile per un uomo come suo suocero.

 

«Lo ha visto?»

Ah, per questo aveva un rimpianto. Che cosa rispondere? Henri si era trovato al posto giusto, conosceva il numero della suite, il 40, istintivamente, aveva avuto voglia di guardarlo in faccia, quell'uomo, e magari catturarlo, essendo lì da solo, non sarebbe stato difficile: bussava alla porta, il tizio apriva, si ritrovava per terra, dopodiché, una cintura per i polsi... ma poi?

 

Che cosa desiderava Péricourt esattamente? Consegnarlo alla polizia? Dal momento che il vecchio non aveva rivelato le sue intenzioni, Henri era tornato in boulevard de Courcelles.

 

«Lascia il Lutetia a mezzogiorno» disse. «Fa in tempo a farlo arrestare.»

Péricourt non ci aveva mai pensato. Quell'uomo, aveva voluto trovarlo per se stesso. Avrebbe persino preferito proteggere la sua fuga anziché doverlo spartire con gli altri; gli venivano in mente le immagini di un arresto spettacolare, di un'istruttoria interminabile, di un processo...

 

«Bene.»

Ai suoi occhi, il colloquio era finito, ma Henri non si muoveva. Anzi, riaccavallò le gambe per mostrare che si accomodava stabilmente, che intendeva ottenere in quel preciso momento ciò che si era guadagnato e non aveva certo intenzione di andarsene a mani vuote.

 

Péricourt alzò la cornetta, chiese alla centralinista di metterlo in comunicazione con il ministro delle Pensioni, a casa sua, al ministero, da qualunque parte, era urgente, voleva parlargli immediatamente.

 

Bisognò attendere in un silenzio pesante.

 

Finalmente il telefono squillò. «Bene» disse con calma Péricourt. «Mi faccia richiamare subito dopo. Sì. Estremamente urgente.»

Poi, a Henri: «E ministro è alla sfilata di Vincennes, sarà a casa tra un'ora».

 

Henri non poteva sopportare l'idea di rimanere lì ad aspettare un'ora o più. Si alzò. I due uomini, che non si stringevano la mano, si guardarono, si misurarono un'ultima volta e si lasciarono.

 

Péricourt sentì i passi del genero sempre più lontani, tornò a sedersi, si girò e guardò la finestra: il cielo era di un azzurro perfetto.

 

Lui, Henri, si chiedeva se non dovesse passare da Madeleine.

 

Ma sì, per una volta.

 

Suonarono le trombe, la cavalleria spostò tonnellate di polvere, poi sfilò l'artiglieria pesante, dei pezzi enormi trainati da alcuni trattori; fu quindi il turno delle piccole fortezze mobili degli autocannoni, delle automitragliatrici, infine i carri d'assalto, si fecero le dieci ed era tutto finito. La sfilata lasciava una strana impressione di pienezza e di vuoto al tempo stesso, quello che si sente dopo aver visto alcuni fuochi d'artificio. La folla se ne tornò lentamente, quasi in silenzio, tranne i bambini, felici di poter finalmente scorrazzare.

 

Pauline strinse il braccio di Albert camminando.

 

«Dove lo troviamo un taxi?» domandò lui con voce atona.

 

Dovevano passare alla pensione, dove Pauline si sarebbe cambiata prima di andare a prendere servizio.

 

«Bah» disse lei «abbiamo già speso abbastanza. Prendiamo il metrò, il tempo lo abbiamo, no?»

Péricourt aspettava la telefonata del ministro. Erano quasi le undici quando il telefono squillò.

 

«Ah, caro amico, mi dispiace...»

Ma la voce del ministro non sembrava appartenere a un uomo dispiaciuto.

Temeva quella telefonata da diversi giorni, stupito di non averla ancora ricevuta: prima o poi, Péricourt sarebbe intervenuto in favore del genero, per forza. E sarebbe stato terribilmente imbarazzante: il ministro gli doveva molto, ma, questa volta, non avrebbe potuto nulla, la storia dei cimiteri era sfuggita al suo controllo, lo stesso presidente del Consiglio era rimasto turbato, non poteva più fare nulla...

 

«La chiamo per mio genero» esordì Péricourt.

 

«Ah, che cosa spiacevole, amico mio...»

«Grave?»

«Gravissima. E'... l'incriminazione.»

«Ah, sì? Siamo a questo punto?»

«Eh, sì. Appalti pubblici truccati, copertura di malfattori, furti, tentativo di corruzione, non c'è niente di più grave!»

«Bene.»

«Come, bene?» n. ministro non capiva.

 

«Volevo conoscere l'entità della catastrofe.»

«Gigantesca, caro Péricourt, uno scandalo assicurato. Senza contare che in questo momento ci piove addosso di tutto! Con questa storia dei monumenti ai caduti, capirà che attraversiamo un periodaccio... Così, mi creda, ho pensato di intervenire per suo genero, ma...»

«Non faccia nulla!»

Il ministro non credeva alle sue orecchie... Nulla?

 

«Volevo solo essere informato» riprese Péricourt. «Ho delle disposizioni da prendere per mia figlia. Ma, riguardo a d'Aulnay-Pradelle, che la giustizia faccia il suo corso. E' la cosa migliore.»

E aggiunse quelle parole cariche di significato: «Migliore per tutti».

 

Per il ministro, cavarsela così a buon mercato rappresentava un miracolo.

 

Péricourt riagganciò. La condanna del genero, che aveva appena avallato senza la minima esitazione, gli strappò un solo pensiero: ora devo avvisare Madeleine?

 

Guardò l'orologio. Lo avrebbe fatto più tardi.

 

Ordinò che gli fosse portata l'auto.

 

«Senza autista, guiderò io stesso.» Alle undici e mezzo, Pauline era ancora immersa nell'euforia della parata, della musica, delle esplosioni, di tutti quei rombi di motore. Erano tornati alla pensione.

 

«Comunque» disse togliendosi il cappello «chiedere un franco per una misera cassa di legno!»

Albert rimaneva immobile, nel bel mezzo della stanza,

«Ma cos'hai, tesoro, sei pallidissimo, sei malato?»

«Sono stato io» disse lui.

 

Quindi si sedette sul letto, rigido, gli occhi fissi su Pauline, l'aveva fatto, aveva confessato, non sapeva cosa pensare di quella decisione improvvisa, né quello che avrebbe dovuto aggiungere. Le parole gli erano uscite di bocca senza che lui intervenisse. Come se a parlare fosse stato qualcun altro.

 

Pauline lo guardò, il cappello ancora in mano.

 

«Come sarebbe, sono stato io?»

Albert sembrava sofferente, Pauline appese il soprabito, tornò da lui.

Bianco come la neve. Malato, a tutti gli effetti. Gli posò la mano sulla fronte, e be', sì, aveva la febbre.

 

«Hai preso freddo?» domandò.

 

«Me ne vado, Pauline, parto.»

Aveva un tono terrorizzato. Il malinteso sulla salute non durò un secondo di più.

 

«Parti...» ripeté lei con le lacrime agli occhi. «Come sarebbe, parti?

Mi lasci?»

Albert afferrò il giornale ai piedi del letto, ancora piegato sull'articolo riguardante lo scandalo dei monumenti, e glielo tese.

 

«Sono stato io» ripeté.

 

Le ci volle ancora qualche attimo prima di realizzare. Allora si morse il pugno.

 

«Dio mio...»

Albert si alzò, aprì il cassetto del comò, afferrò i biglietti della Compagnia marittima e le porse il suo.

 

«Vuoi venire con me?»

Pauline aveva gli occhi fissi, come le pupille di vetro dei manichini di cera, la bocca socchiusa. Guardò i biglietti, il giornale, sempre immersa nel suo stupore.

 

«Dio mio...» ripeteva.

 

Allora Albert fece la sola cosa possibile. Si alzò, si chinò, estrasse la valigia da sotto il letto, la posò sul copriletto e l'aprì su un'enorme quantità di banconote di grosso taglio raccolte in mazzette.

 

Pauline lanciò un grido.

 

«Il treno per Marsiglia parte tra un'ora» disse Albert.

 

Lei aveva tre secondi per scegliere se diventare ricca o rimanere una donna di servizio.

 

Ne utilizzò uno solo.

 

C'era, naturalmente, la valigia piena di denaro ma, curiosamente, ciò che determinò la sua decisione furono i biglietti sui quali c'era scritto in blu: "Cabina di prima classe". Con tutto quello che rappresentava...

 

Con un gesto, sbatté il coperchio della valigia e corse a infilarsi il cappotto.

 

Per Péricourt, l'avventura del monumento era terminata. Non sapeva perché andava al Lutetia, non aveva intenzione di entrarvi, né di incontrare quell'uomo o di parlare con lui. Neanche quella di denunciarlo, di opporsi alla sua fuga. No. Per la prima volta nella sua vita, accettava la sconfitta.

 

Aveva perso, indiscutibilmente.

 

Stranamente, provava quasi sollievo. Perdere significa essere umani.

 

E poi, era una conclusione, e lui ne cercava una.

 

Andava al Lutetia come avrebbe firmato in calce a un riconoscimento di debito, perché era un atto dovuto, e andava eseguito.

 

Non era un picchetto d'onore - non si addice a un grand hotel -, ma ci assomigliava molto: tutti quelli che erano stati al servizio del signor Eugène lo aspettavano ai piano terra. Lui uscì dall'ascensore urlando come un matto, conciato con la sua giacca coloniale. dietro la schiena le ali d'angelo fatte di piume, ora lo si vedeva chiaramente.

 

Non portava una di quelle stravaganze che fino ad allora avevano tanto allietato il personale, ma la sua maschera da "uomo normale", fissa, eppure così realistica. Quella con cui era arrivato.

 

Senza dubbio, una cosa simile non l'avrebbero mai più rivista, Il portiere rimpianse di non aver chiamato un fotografo. L'ospite in partenza, gran signore come non mai, distribuiva banconote, gli dicevano: "Grazie, signor Eugène", "A presto", grosse banconote, per tutti, come un santo, saranno state quelle ali. Ma perché verdi? si chiedevano.

 

Già, un paio di ali, che idea sciocca, ruminava Péricourt ripensando alla conversazione con il genero. Percorreva il boulevard Saint-Germain poco trafficato, solo qualche auto, delle carrozze, c'era un tempo splendido. Il genero aveva parlato di atteggiamenti "eccentrici", aveva menzionato quelle ali, naturalmente, ma anche le orchestre, no? Il sollievo, Péricourt finalmente lo capiva, era dovuto al fatto di aver perso una battaglia che non poteva vincere, perché quel mondo, quell'avversario, non erano i suoi. Non si può vincere contro qualcosa che non si capisce.

 

Quello che non si capisce, bisogna semplicemente accettarlo, avrebbero potuto filosofare i dipendenti del Lutetia intascando le benedizioni del signor Eugène che, sempre urlando, si dirigeva a grandi falcate, ginocchia alte, zaino in spalla, verso le porte spalancate sul boulevard.

 

Persino quello spostamento, Péricourt avrebbe potuto risparmiarselo.

Perché si era inventato quella ridicola corvée? Ma sì, decretò, meglio rientrare a casa. Trovandosi già in boulevard Raspail, avrebbe oltrepassato il Lutetia, svoltato subito a destra e sarebbe tornato. Era ora di finirla. Quella decisione fu una liberazione.

 

Il portiere del Lutetia, a sua volta, aveva fretta che quella commedia finisse: gli altri clienti trovavano "molto di cattivo gusto", quel carnevale nella hall. E quella pioggia di denaro trasformava il personale in mendicanti, era indecente, che se ne andasse finalmente! Il signor Eugène dovette sentirlo perché si fermò di colpo, come la preda che avverte istantaneamente la presenza del cacciatore. La sua postura scomposta smentiva l'impassibilità della maschera dai tratti fissi, come paralizzati.

 

All'improvviso, tese le braccia dritte davanti a sé, rafforzando il gesto con un urlo netto e deciso: rraaahhhrrl Indicò poi l'angolo della hall dove una cameriera finiva di spolverare i tavolini. Si precipitò verso di lei, che si spaventò vedendo quell'uomo dal viso marmoreo, in tenuta coloniale e con delle grandi ali verdi, piombarle addosso. "Dio mio, che paura, ma poi quanto abbiamo riso, voleva... la mia scopa. - La scopa? - Già, proprio così." Il signor Eugène, in effetti, l'afferrò, accostò il manico alla spalla come una lunga carabina e marciò segnando il passo, marziale e claudicante, continuando a urlare, al ritmo di una musica silenziosa che tutti avevano l'impressione di sentire.

 

Fu così, con passo militare, le grandi ali che scuotevano l'aria, che Édouard varcò le porte del Lutetia e spuntò sul marciapiede inondato di sole.

 

Girando la testa a sinistra, vide un'auto sfrecciare verso l'angolo del boulevard. Allora, lanciò in aria la scopa e si precipitò.

 

Péricourt aveva appena accelerato quando notò il piccolo assembramento davanti all'hotel; transitava proprio all'altezza dell'ingresso nell'istante in cui Édouard si lanciò. La sola cosa che vide, non fu, come si potrebbe immaginare, un angelo che gli volava davanti, perché con quella gamba da trascinarsi dietro Édouard non riuscì realmente ad alzarsi da terra. Si piantò nel mezzo della carreggiata, allargò completamente le braccia all'arrivo dell'auto, gli occhi al cielo, tentò di librarsi nell'aria, e fu tutto.

 

O quasi.

 

Péricourt non avrebbe potuto fermarsi. Però avrebbe potuto frenare.

Paralizzato da quella sorprendente apparizione sorta dal nulla - non l'angelo in tenuta coloniale, ma il viso di Édouard, di suo figlio, intatto, immobile, scolpito, come una maschera funebre con quegli occhi strizzati che esprimevano un'immensa sorpresa - non reagì. La macchina investì in pieno il giovane. Si sentì un rumore sordo, lugubre. Allora, l'angelo spiccò davvero il volo. Édouard fu sbalzato in aria. Benché fosse un volo assai sgraziato, come quello di un aereo che stenta a decollare, per un secondo molto breve tutti videro chiaramente il corpo del giovane inarcarsi, lo sguardo al cielo, le braccia leggermente aperte, come per elevarsi. Poi ricadde, si sfracellò sulla carreggiata, il cranio urtò violentemente lo spigolo del marciapiede, e fu tutto.

 

Albert e Pauline salirono in treno giusto prima di mezzogiorno. Erano i primi viaggiatori a prendere posto, lei lo sommerse di domande a cui ricevette risposte semplici.

 

Ad ascoltare Albert, la realtà era davvero disarmante.

 

Pauline lanciò di tanto in tanto delle rapide occhiate alla valigia che aveva sistemato sul portabagagli di fronte.

 

Lui, Albert, stringeva gelosamente sulle ginocchia la grande cappelliera di cartone contenente la testa di cavallo.

 

«Ma chi è, questo tuo amico?» sussurrava Pauline con impazienza.

 

«Un mio compagno...» rispondeva evasivamente Albert.

 

Non disponeva dell'energia necessaria per descriverlo, fra un po' lo avrebbe visto; non voleva che si spaventasse, che scappasse via, che lo abbandonasse proprio ora, perché aveva perso tutte le forze. Era allo stremo. La confessione, e poi il taxi, la stazione, i biglietti, i facchini, i controllori, aveva pensato a tutto Pauline. Se avesse potuto, Albert si sarebbe addormentato lì, subito.

 

Intanto il tempo passava.

 

Altri viaggiatori salirono a bordo, il treno si riempì, valzer di valigie e bauli afferrati dai finestrini, le grida dei bambini, la febbre della partenza, gli amici, le coppie di sposi, i genitori sul binario, le raccomandazioni, ognuno cercava il proprio posto, ecco, è qui, permette? Albert si era sistemato vicino al finestrino completamente abbassato, la testa sporta fuori, sul marciapiede, rivolta verso la coda del treno, assomigliava a un cane che spia l'arrivo del padrone. Lo urtarono per passare nel corridoio, di traverso perché era d'intralcio; lo scompartimento si era riempito, rimaneva solo un sedile libero, quello dell'amico in ritardo.

 

Ancor prima dell'ora della partenza, Albert capì che Édouard non sarebbe arrivato. Provò un dolore immenso.

 

Pauline, comprensiva, si era accoccolata vicino a lui e gli stringeva le mani nelle sue.

 

Quando i controllori iniziarono a camminare lungo il binario gridando che il convoglio stava per partire, che bisognava allontanarsi dal treno, Albert scoppiò in un pianto dirotto, irrefrenabile.

 

Aveva il cuore a pezzi.

 

La signora Maillard avrebbe raccontato in seguito: "Albert è voluto partire per le colonie, bene, buon per lui. Ma se fa come qui e si mette a frignare davanti agli indigeni, non ottiene granché, ve lo dico io! Ma insomma, questo è Albert. Cosa volete, lui è fatto così!".