CAPITOLO 10
Henri d'Aulnay-Pradelle, sprofondato in un'ampia poltrona di pelle, la gamba destra distrattamente appoggiata al bracciolo, tendeva il braccio facendo lentamente ruotare alla luce un immenso bicchiere di acquavite.
Ascoltava i discorsi degli uni e degli altri con un distacco studiato, per mostrare che lui era un "tipo scafato". Adorava le espressioni del genere, un po' colloquiali. Fosse dipeso da lui, sarebbe stato persino scurrile e si sarebbe deliziato a pronunciare tranquillamente qualche volgarità davanti a consessi che non avrebbero avuto la possibilità di sentirsi offesi. Per questo, gli mancavano cinque milioni di franchi.
Con cinque milioni, si sarebbe potuto stravaccare in completa intimità.
Pradelle andava al Jockey Club tre volte alla settimana. Non che il posto gli piacesse particolarmente - trovava il livello abbastanza deludente rispetto alle sue aspettative -, ma rappresentava il simbolo della sua ascesa sociale e non si stancava di ammirarlo. Gli specchi, i rivestimenti, i tappeti, le dorature, il decoro studiato del personale e lo spaventoso ammontare della quota annuale gli procuravano una soddisfazione amplificata dalle innumerevoli occasioni di incontri che gli venivano offerte. C'era entrato quattro mesi prima, in extremis, i capi del Jockey diffidavano di lui. Ma se avessero dovuto rifiutare tutti i nuovi ricchi, vista l'ecatombe degli ultimi anni, al club sarebbero rimasti quattro gatti. E poi Pradelle disponeva di alcuni agganci difficili da ignorare, a cominciare dal suocero al quale non si poteva rifiutare nulla e all'amicizia con Ferdinand, il nipote del generale Morieux, gioventù declassata e alquanto decadente, ma che condensava tutto un insieme di relazioni. Respingere un anello significava privarsi di tutta la catena, impossibile, la penuria di uomini costringe a volte a delle cose... Lui, Aulnay-Pradelle, almeno aveva un nome. Una mentalità da corsaro, ma con quarti di nobiltà. E così, alla fine, era stato ammesso. D'altronde, La Rochefoucauld, il presidente in carica, riteneva che non facesse poi tanto male al paesaggio quel baldo giovane che attraversava le sale al passo di carica, un perpetuo colpo di vento. Con un'arroganza che giustificava l'adagio secondo cui un vincitore è sempre qualcosa di brutto. Piuttosto volgare, dunque, ma un eroe. E' come per le belle donne: nella buona società ce ne vogliono sempre. E in un'epoca in cui era difficile trovare uomini della sua età ai quali non mancasse almeno una mano o una gamba, se non entrambe, uno come lui era molto decorativo.
Finora, Aulnay-Pradelle poteva ritenersi ampiamente soddisfatto della Grande Guerra. Appena congedato, si era lanciato nel recupero e nella rivendita degli stock militari. Centinaia di veicoli francesi o americani, motori, rimorchi, migliaia di tonnellate di legna, tela, teloni, attrezzi, ferraglia, pezzi sparsi, che allo Stato non servivano più e di cui doveva disfarsi. Pradelle comprava intere partite che rivendeva alle compagnie ferroviarie, alle società di trasporti, alle aziende agricole. L'utile era ancor più vantaggioso dal momento che in quelle zone di stoccaggio la vigilanza era estremamente sensibile alle bustarelle, alle mance e mazzette varie, e sul posto ti portavi facilmente via tre camion per uno e cinque tonnellate per due.
La protezione del generale Morieux e il proprio status di eroe nazionale avevano aperto ad Aulnay-Pradelle diverse porte, e il suo ruolo all'Unione nazionale combattenti - che aveva mostrato la propria utilità aiutando il governo a sabotare gli ultimi scioperi operai - gli era valso altri numerosi appoggi. Grazie a ciò, sì era già aggiudicato importanti appalti di liquidazione di stock, comprando intere partite per poche decine di migliaia di franchi presi a prestito e che, dopo la rivendita, lievitavano a centinaia di migliaia di franchi di utile.
«Salve, amico!» Leon Jardin-Beaulieu. Un uomo di valore, che però era nato basso, dieci centimetri meno degli altri, poco e molto al tempo stesso, una cosa terribile per lui, sempre a caccia di riconoscimenti.
«Salve, Henri» rispose ondeggiando lievemente le spalle, come per guadagnare qualche centimetro.
Per Jardin-Beaulieu, avere il diritto di chiamare Aulnay-Pradelle per nome era una voluttà per la quale si sarebbe venduto padre e madre, cosa che del resto aveva fatto. Assume il tono degli altri per credersi come gli altri, pensò Henri tendendogli una mano molle, quasi disfatta, e gli domandò con voce bassa, tesa: «Allora?».
«Ancora niente» rispose Jardin-Beaulieu. «Non trapela nulla.»
Pradelle alzò un sopracciglio irritato; eccelleva nei messaggi senza parole rivolti al personale di servizio.
«Lo so» si scusò Jardin-Beaulieu «lo so...»
Pradelle era terribilmente impaziente.
Alcuni mesi prima, lo Stato si era deciso ad affidare ad alcune imprese private il compito di estimare le spoglie dei soldati seppelliti al fronte. Il progetto era di riunirle in vaste necropoli militari, dal momento che il decreto ministeriale raccomandava "la costituzione del minor numero possibile dei più grandi cimiteri possibili". E' che di cadaveri di soldati ce n'erano un po' ovunque. In cimiteri improvvisati a qualche chilometro, se non a poche centinaia di metri dalla linea del fronte. Su terre che era ora di restituire all'agricoltura. Già da diversi anni, quasi dall'inizio della guerra, le famiglie reclamavano di potersi raccogliere sulla tomba dei figli. Quella concentrazione di sepolture non escludeva di restituire un giorno a chi lo desiderasse il corpo dei propri soldati, ma il governo sperava che, una volta realizzate, quelle immense necropoli dove gli eroi avrebbero riposato "accanto ai compagni morti in battaglia" avrebbero placato gli ardori familiari. E, rinunciando al trasporto individuale, avrebbero evitato di gravare di nuovo sulle finanze dello Stato, senza contare le questioni sanitarie, un vero grattacapo che sarebbe costato un occhio della testa mentre le casse erano destinate a rimanere vuote finché la Germania non avesse pagato i suoi debiti.
Questa vasta impresa morale e patriottica di raggruppamento dei cadaveri comportava tutta una catena di operazioni altamente lucrative. Centinaia di migliaia di bare da fabbricare, visto che moltissimi soldati erano stati sepolti direttamente nella terra, a volte semplicemente avvolti nel cappotto. Centinaia di migliaia di esumazioni scavando con la pala (il testo prevedeva esplicitamente che bisognava usare la massima precauzione), altrettanti trasporti di spoglie messe nelle casse fino alle stazioni di partenza e altrettante nuove tumulazioni nelle necropoli di destinazione...
Se Pradelle si aggiudicava solo una parte di quell'affare, per pochi centesimi a corpo, i suoi cinesi avrebbero dissotterrato migliaia di cadaveri, i suoi veicoli trasportato migliaia di spoglie in putrefazione, i suoi senegalesi avrebbero inumato il tutto in tombe ben allineate con una bella croce venduta a un prezzo elevato, di che ricostruire da cima a fondo, in meno di tre anni, la proprietà familiare della Sallevière, che pure era un pozzo senza fondo.
A ottanta franchi a cadavere e con un prezzo di costo reale intorno ai venticinque, Pradelle sperava in un utile netto di due milioni e mezzo.
Se poi, oltre alle gare, il ministero avesse assegnato qualche appalto tramite un accordo privato, dedotte le tangenti si sarebbero sfiorati i cinque milioni.
L'affare del secolo. Per il commercio, la guerra presenta molti vantaggi, anche dopo.
Ben informato da Jardin-Beaulieu, figlio di un deputato, Pradelle aveva saputo giocare d'anticipo. All'indomani della smobilitazione, aveva creato la società Pradelle & C. Jardin-Beaulieu e il nipote di Morieux avevano contribuito con cinquantamila franchi ciascuno e i loro preziosi contatti, Pradelle, da solo, quattrocentomila. Per essere il capo. E per prendersi l'ottanta per cento del profitto.
La Commissione degli appalti pubblici si riuniva quel giorno, era in conclave da quattordici ore. Grazie ai suoi interventi e a centocinquantamila franchi sottobanco, Pradelle l'aveva blindata: tre membri, due dei quali suoi dipendenti, dovevano pronunciarsi sulle diverse proposte, decidendo in tutta imparzialità che la società Pradelle & C. presentava il miglior preventivo, che il suo modello di bara, depositato presso il magazzino dell'Ufficio sepolture, era il più conforme sia alla dignità dei francesi caduti per la patria sia alle finanze dello Stato. Motivo per cui Pradelle sperava di vedersi attribuire diverse partite, una decina, se tutto andava bene. Forse di più.
«E al ministero?»
Un gran sorriso si allargò sul viso stretto di Jardin-Beaulieu, che aveva la risposta: «l'affare è in tasca!».
«Sì, questo lo so» sbottò Pradelle, esasperato. «La questione è quando.»
La sua ansia non era legata solo alle decisioni della Commissione.
L'Ufficio di stato civile, delle successioni e delle sepolture militari dipendente dal ministero delle Pensioni, in caso di urgenza o se ritenuto necessario, era autorizzato ad attribuire gli appalti tramite accordo privato, senza passare per un bando pubblico. In tal caso, si sarebbe profilata un'autentica situazione di monopolio per la Pradelle &
C, che avrebbe potuto fatturare praticamente quanto voleva, fino a centotrenta franchi per cadavere...
Pradelle fingeva il distacco che gli esseri superiori adottano nelle circostanze più tese, ma era in realtà di un nervosismo pazzesco. Alla sua domanda, Jardin-Beaulieu non aveva ahimè ancora una risposta. Perse immediatamente il sorriso.
«Non sappiamo...»
Era livido. Pradelle distolse lo sguardo, era il suo arrivederci.
Jardin-Beaulieu batté in ritirata, finse di riconoscere un socio del Jockey e si precipitò miseramente al capo opposto dell'ampia sala.
Pradelle lo vide allontanarsi, portava dei soprattacchi. Se non fosse stato minato dal complesso della statura, che gli faceva perdere tutto il sangue freddo, sarebbe stato intelligente, peccato. Non era per questa qualità che Pradelle lo aveva arruolato nel suo progetto.
Jardin-Beaulieu aveva due meriti inestimabili: un padre deputato e una fidanzata al verde (altrimenti, chi lo avrebbe voluto un nanerottolo simile!), ma splendida, una ragazza molto bruna con una bella bocca che Jardin-Beaulieu doveva sposare nel giro di qualche mese. Alla prima presentazione, Pradelle aveva intuito che quella ragazza soffriva in silenzio di quell'unione vantaggiosa che avrebbe offeso la sua bellezza.
Il genere di donna che aveva bisogno di una rivalsa e, vedendola vagare nel salotto dei Jardin-Beaulieu - Pradelle aveva un occhio infallibile per quello, come per i cavalli, diceva -, c'era da scommettere che, appellandosi alle sue migliori risorse, lei gli avrebbe ceduto senza neanche aspettare la cerimonia.
Pradelle tornò a osservare il suo bicchiere di acquavite, valutando per l'ennesima volta la strategia da adottare.
Per fabbricare tante bare, avrebbe dovuto subappaltare a diverse aziende specializzate, il che era rigorosamente proibito dal contratto con lo Stato. Ma se le cose procedevano normalmente, nessuno sarebbe andato a verificare. Perché tutti avevano interesse a chiudere un occhio. Quello che contava - l'opinione era unanime - era che il paese disponesse, entro un termine decente, di bei cimiteri poco numerosi ma molto grandi, permettendo a chiunque di archiviare, finalmente, quella guerra tra i ricordi peggiori.
E in più Pradelle si sarebbe guadagnato il diritto di brandire il suo bicchiere di acquavite e di ruttare in piena sala del Jockey senza che nessuno trovasse da ridire.
Assorto nei suoi pensieri, non aveva visto entrare il suocero. Era dalla qualità del silenzio che sentiva di aver commesso una gaffe, un silenzio improvviso e ovattato, fremente, come all'entrata del vescovo nella cattedrale. Quando lo capì, era troppo tardi. Restare in quella posizione disinvolta in presenza del vecchio rappresentava una mancanza di rispetto che non gli sarebbe stata perdonata. Ricomporsi troppo precipitosamente voleva dire ammettere la sua sottomissione davanti a tutti. Una soluzione peggiore dell'altra. Alla provocazione, Pradelle preferì la vessazione che gli sembrò costargli di meno. Si tirò indietro con la massima naturalezza possibile, spazzandosi dalla spalla un granello di polvere invisibile. Il piede destro scivolò a terra, lui si raddrizzò sulla poltrona assumendo un'aria felice e contenta e iscrisse mentalmente quella circostanza sulla lista delle rivincite da prendere.
Péricourt era entrato nella sala del Jockey con un passo lento e bonario. Finse di non aver notato nulla nel comportamento del genero e registrò quel momento nella colonna dei debiti da far saldare. Passò tra i tavoli tendendo qui e là una mano molle da monarca benevolo, sibilando il nome dei presenti con la nobiltà di un doge, buongiorno caro amico, Ballanger, ah, Frappier, c'è anche lei, buonasera Godard, azzardando delle battute da par suo, ma... quello è Palamede de Chavigne se non erro!, e quando arrivò a Henri si limitò a calare le palpebre con aria d'intesa, una sfinge, e a proseguire la sua traversata della sala fino al camino verso il quale tese le mani ben distanti con esagerato compiacimento.
Quando si girò, vide suo genero di spalle. La posizione era deliberatamente strategica. Doveva essere molto irritante sentirsi così, osservato da dietro. A vedere le mosse dei due uomini, s'intuiva che la partita a scacchi era appena iniziata animandosi ricca di colpi di scena.
Tra loro, l'avversione era stata spontanea e tranquilla, quasi serena.
La promessa di un odio di lungo corso. In Pradelle, Péricourt aveva immediatamente fiutato la canaglia, ma non aveva resistito davanti all'infatuazione di Madeleine. Era impossibile dirlo a parole, ma bastava guardarli insieme un secondo per capire che Henri sapeva farla godere moltissimo e lei non si sarebbe certo fermata lì: quell'uomo lo voleva, lo voleva terribilmente.
Péricourt amava sua figlia, a modo suo, naturalmente, che non era mai stato troppo espansivo, e sarebbe stato felice di saperla felice se lei non avesse avuto la sciagurata idea di invaghirsi di un Henri d'Aulnay-Pradelle. Ricchissima, Madeleine Péricourt era stata un ghiotto oggetto di desiderio e, sebbene fosse solo carina, poteva fregiarsi di un gran numero di spasimanti. Non era stupida, aveva un carattere irascibile, come la sua defunta madre, donna di polso, di quelle che non si lasciano travolgere, che non cedono alla tentazione. Prima della guerra, li aveva stanati a mille miglia gli ambiziosi da strapazzo che la trovavano banale vista di fronte, ma molto bella vista di dote. Aveva un modo efficace quanto discreto di liquidarli. Le diverse proposte di matrimonio ricevute le avevano dato molta sicurezza, anche troppa, perché aveva venticinque anni quando la guerra era stata dichiarata, trenta quando si era conclusa con la morte del giovane fratello, lutto terribile, e, nel frattempo, aveva cominciato a invecchiare. Una cosa forse spiegava l'altra. Aveva incontrato Henri d'Aulnay-Pradelle in marzo e lo aveva sposato in luglio.
Gli uomini non vedevano cosa potesse avere di tanto magico quell'Henri per giustificare una fretta simile, sì, non era male, ma insomma...
Questo dall'ottica maschile. Perché invece le donne afferravano benissimo. Guardavano quell'andatura, quei capelli ondulati, quegli occhi chiari, quelle spalle larghe, quella pelle, oddio, e capivano che Madeleine Péricourt, avendoli assaporati con voluttà, ne fosse rimasta incantata.
Péricourt non aveva insistito, battaglia persa in partenza. Prudente, si era limitato a imporre dei punti fermi. Quello che tra i borghesi si chiama contratto di matrimonio. Madeleine non aveva trovato nulla da ridire. Il bel genero, in compenso, aveva messo il broncio scoprendo l'accordo stabilito dal notaio di famiglia. I due uomini si erano guardati senza dire una parola, saggia risoluzione. Madeleine rimaneva unica detentrice dei suoi beni e diveniva comproprietaria di tutto ciò che sarebbe stato acquisito dopo il matrimonio. Lei capiva la riserva sospettosa di suo padre nei confronti di Henri, di cui il contratto era la prova tangibile. Con una fortuna simile, la prudenza diviene una seconda pelle. A suo marito spiegava sorridendo che quello non avrebbe cambiato nulla. Lui, Pradelle, sapeva che invece cambiava tutto.
In primo luogo, si sentiva beffato, molto mal ricompensato dei suoi sforzi. Nell'esistenza di tanti suoi amici, il matrimonio aveva risolto tutto. Certo, non era facile da ottenere, bisognava tramare sottilmente, ma quando poi la cosa andava in porto, era la pacchia, dopo potevi permetterti di tutto. Per lui invece il matrimonio non aveva cambiato nulla. A livello sociale, niente da dire, il vantaggio era notevole, principesco. Henri era un povero dal tenore di vita smodato (dai suoi risparmi personali, aveva prelevato in poco tempo quasi centomila franchi, subito investiti nella ristrutturazione della proprietà di famiglia, ma c'era tanto da fare, crollava tutto, era una rovina).
Henri non aveva trovato la ricchezza, ma il suo era stato comunque un bel colpo. Intanto perché quel matrimonio metteva il punto finale a quella vecchia storia di Quota 113 che lo aveva un po' logorato. Se mai fosse rispuntata (come a volte capitava alle antiche questioni che si credevano dimenticate), non era più un rischio, perché ora era ricco, anche se per procura, legato a una famiglia potente e prestigiosa.
Sposare Madeleine Péricourt lo aveva reso quasi invulnerabile.
In secondo luogo, aveva potuto accedere a un vantaggio colossale: la rubrica di famiglia. (Era il genero di Marcel Péricourt, intimo di Deschanel, amico di Poincaré, di Daudet e di tanti altri.) Ed era molto soddisfatto dei primi risultati dell'investimento. Nel giro di qualche mese avrebbe potuto guardare il futuro suocero dritto negli occhi: si scopava la figlia, vampirizzava i suoi contatti e, fra tre anni, se tutto fosse andato come sperava, al Jockey, all'ingresso del vecchio nel fumoir, si sarebbe stravaccato ancora di più.
Péricourt si teneva informato sul modo in cui il genero si arricchiva.
Quell'uomo si rivelava indubbiamente sveglio ed efficiente; a capo di tre società, aveva già realizzato quasi un milione di utile netto in pochi mesi. Su quel piano, era in perfetta sintonia con i tempi, ma Péricourt diffidava istintivamente di un simile successo. Troppo verticale, sospetto. Un nugolo di uomini, suoi clienti, si affollavano intorno al notabile: non c'è ricchezza che non abbia la sua corte.
Henri guardava il suocero all'opera. Prendeva lezioni, ammirato. Il vecchio testone ci sapeva fare, era lampante. Che aplomb. Distribuiva con una generosità selettiva i commenti, gli apprezzamenti, le raccomandazioni. Il suo entourage aveva imparato a interpretare i consigli come ordini, le riserve come divieti. Il genere d'uomo con il quale era impossibile infuriarsi quando ti negava qualcosa, perché poteva anche toglierti ciò che ti restava.
In quell'istante, Labourdin entrò finalmente nel fumoir, grondante di sudore, l'ampio fazzoletto in mano. Henri represse un sospiro di sollievo, vuotò il bicchiere di acquavite tutto d'un fiato, si alzò e, afferrandolo per la spalla, lo trascinò nella sala attigua. Labourdin arrancava dietro Pradelle, affrettandosi con le sue grosse gambe corte, come se non avesse già sudato abbastanza...
Labourdin era un imbecille con un surplus di stupidità. Questa si manifestava sotto forma di una tenacia eccezionale, virtù incontestabile in politica, benché la sua risiedesse unicamente nell'incapacità di cambiare parere e in una totale mancanza di immaginazione. Quella stupidità era considerata pratica. Mediocre in tutto, quasi sempre ridicolo, Labourdin era il genere d'uomo che potevi piazzare ovunque, che si mostrava devoto, una bestia da soma, gli potevi chiedere di tutto. Tranne di essere intelligente, vantaggio enorme. Portava tutto scritto in faccia, la bonarietà, la passione per il cibo, la codardia, l'insignificanza e soprattutto, soprattutto la concupiscenza. Incapace di resistere alla voglia di dire una porcata, lanciava a ogni donna sguardi volgari e cupidi, in particolare alle giovani cameriere alle quali palpava il culo non appena si giravano. Prima andava al bordello fino a tre volte alla settimana. Dico "prima" perché, da quando la sua reputazione si era progressivamente estesa oltre l'arrondissement di cui era sindaco, molte questuanti si accalcavano davanti al suo ufficio dove aveva raddoppiato le ore di presenza, e se ne trovavano sempre una o due disposte a evitargli lo spostamento fino al casino in cambio di un'autorizzazione, di un favoritismo, di una firma, di un timbro. Era felice, Labourdin, si vedeva subito. Pancia piena, coglioni pieni, sempre pronto ad allungare le mani sulla prossima tavola, sulle prossime chiappe. Doveva la sua elezione a un manipolo di uomini influenti sui quali Péricourt regnava sovrano.
"Lei sarà nominato alla Commissione appalti" gli aveva annunciato un giorno Pradelle.
Labourdin adorava far parte di commissioni, comitati, delegazioni, ci vedeva una prova della sua importanza. E, imposta dal genero di Péricourt, non aveva dubitato che la nuova nomina venisse dal vecchio in persona. Aveva registrato scrupolosamente, annotandole a grandi lettere, le istruzioni precise che doveva seguire. Dopo aver dato tutti i suoi ordini, Pradelle aveva indicato il foglio di carta.
"Ma che fa, mi manda tutto a puttane..." aveva detto. "Non vorrà mica che questo lo mettano in vetrina al Bon Marche!"
Per Labourdin era stato l'inizio di un incubo. Terrorizzato all'idea di fallire la sua missione, aveva passato le notti a ripetersi le istruzioni una per una, ma più le ripeteva, più si confondeva, quella nomina era diventata il suo martirio, quella commissione la sua bestia nera.
Quel giorno, aveva speso nel corso della riunione più energie di quante ne disponesse, aveva dovuto riflettere, esprimersi, ne era uscito stremato. Stremato ma felice, perché tornava con la soddisfazione di aver fatto il suo dovere. Nel taxi, aveva ripassato alcune frasi che secondo lui "facevano presa", tra le quali la sua preferita era: "Mio caro amico, non per vantarmi, ma credo di poter dire...".
«Compiègne, quante?» lo interruppe immediatamente Pradelle.
Avevano appena chiuso la porta della sala e quel baldo giovane dallo sguardo fisso lo trafiggeva, senza lasciarlo parlare. Labourdin aveva immaginato tutto tranne quello, cioè non aveva pensato proprio a niente, come sua abitudine.
«E be', ehm...»
«Quante?» tuonò Pradelle. Labourdin non lo sapeva più. Compiègne...
Lasciò cadere il fazzoletto, frugò precipitosamente nelle tasche, trovò i suoi fogli piegati in quattro, su cui aveva scritto i risultati delle delibere.
«Compiègne...» farfugliò. «Allora, Compiègne, vediamo...»
Niente era mai abbastanza veloce per Predelle, che gli strappò il foglio di mano e si allontanò di qualche passo, lo sguardo teso verso le cifre.
Diciottomila bare per Compiègne, cinquemila per la comunità di Laon, più di seimila per la piazza di Colmar, ottomila per la comunità di Nancy e Lunéville... E poi c'erano anche le partite per Verdun, Amiens, Épinal, Reims... I risultati superavano le sue speranze. Pradelle non riuscì a trattenere un sorriso di soddisfazione che non sfuggì a Labourdin.
«Ci riuniamo di nuovo domattina» aggiunse il sindaco dell'arrondissement. «E sabato!»
Ritenne allora che il momento della sua frase fosse finalmente giunto: «Mio caro amico...».
Ma la porta si aprì di colpo, si sentì chiamare «Henri!», lì vicino c'era rumore, agitazione.
Pradelle avanzò. Ai piedi del camino, all'estremità opposta della sala, c'era un gruppo in fermento, continuavano ad accorrere un po' da ogni parte, dalla sala da biliardo, dal fumoir... Pradelle sentì delle esclamazioni, fece ancora qualche passo, accigliato, più curioso che preoccupato.
Il suocero era seduto per terra, la schiena contro lo stipite del camino, le gambe allungate davanti, gli occhi chiusi, il viso cereo e la mano destra contratta sul gilet, all'altezza del petto, come se avesse voluto strapparsi un organo o trattenerlo. «I sali!» urlò una voce, «aria!» disse un'altra, il maggiordomo si precipitò, chiedendo di farlo passare.
Dalla biblioteca, il medico arrivò a grandi passi, cos'è successo, era di una calma impressionante, gli fecero largo, il collo teso per vedere meglio; mentre gli sentiva il polso. Bianche diceva: «Insomma, Péricourt, che le succede?». E voltandosi discretamente verso Pradelle: «Chiami subito un'auto, mio caro, è una cosa seria». Pradelle uscì in fretta. Dio santo, che giornata!
Nel giorno in cui diventava milionario, il suocero stava tirando le cuoia.
Una fortuna simile aveva quasi dell'incredibile.