CAPITOLO 1
Novembre 1918.
Chi pensava che quella guerra sarebbe finita presto, era già morto da molto tempo. In guerra, per l'appunto. Così, in ottobre, Albert accolse con un certo scetticismo le voci di un armistizio imminente. Non diede loro maggior credito di quanto non ne avesse dato alla propaganda iniziale secondo cui, per esempio, le pallottole crucche erano così molli da spiaccicarsi sulle uniformi come pere troppo mature, facendo crepare dal ridere i reggimenti francesi. In quattro anni, Albert ne aveva vista una marea di gente morta dal ridere beccandosi una pallottola tedesca.
Se ne rendeva perfettamente conto, il suo rifiuto di credere all'approssimarsi di un armistizio era dovuto a una sorta di scaramanzia: più si spera nella pace, meno si confida nelle notizie che l'annunciano, un modo insomma per scongiurare la malasorte. Solo che, di giorno in giorno, queste informazioni giungevano a ondate sempre più frequenti, e ovunque si cominciò a ripetere che la guerra stava davvero per finire. Si lessero anche dei discorsi, c'era quasi da non crederci, sulla necessità di richiamare i soldati più vecchi che erano al fronte da anni. Quando l'armistizio divenne finalmente una prospettiva ragionevole, la speranza di uscirne vivi cominciò a tormentare i più pessimisti. Di conseguenza, l'ipotesi di un'offensiva lasciava tutti piuttosto freddi. Si diceva che la 163'ma Divisione fanteria avrebbe tentato di passare di forza dall'altra sponda della Mosa. Alcuni parlavano anche di azzuffarsi con il nemico. ma generalmente, nell'ottica comune, che era quella di Albert e dei suoi compagni, dopo la vittoria degli Alleati nelle Fiandre, la liberazione di Lille, lo sfacelo austriaco e la capitolazione dei turchi, ci si sentiva molto meno esaltati degli ufficiali. Il successo dell'offensiva italiana, gli inglesi a Tournai, gli americani a Chàtillon... Il vantaggio era evidente. Il grosso dell'unità intendeva gestirlo e fu individuata una spaccatura molto netta tra chi, come Albert, avrebbe atteso volentieri la fine della guerra, seduto lì tranquillamente con tutto l'equipaggiamento, a fumare e a scrivere lettere, e chi fremeva per approfittare degli ultimi giorni per scannarsi ancora un po' con i crucchi. Questa linea di demarcazione corrispondeva esattamente a quella che separava gli ufficiali dagli altri uomini. Niente di nuovo, si diceva Albert. I capi vogliono guadagnare terreno il più possibile, così da presentarsi in posizione di forza al tavolo delle trattative. Ancora un po' e vi facevano credere che conquistare trenta metri poteva realmente cambiare l'esito del conflitto e che morire oggi era ancor più utile che morire il giorno prima. E' a questa categoria che apparteneva il tenente d'Aulnay-Pradelle. Tutti, parlando di lui, tralasciavano il nome di battesimo, la particella, d'"Aulnay", il trattino e dicevano semplicemente "Pradelle", il che lo mandava notoriamente in bestia. Si andava sul velluto, perché lui si faceva un punto d'onore di non darlo mai a vedere. Riflesso di classe. Ad Albert non piaceva affatto. Forse perché era bello. Un tipo alto, asciutto, elegante, con folti capelli ondulati di un bruno intenso, naso dritto, labbra sottili mirabilmente disegnate. E gli occhi di un azzurro scuro. Per Albert, una vera faccia di bronzo. In più, con l'aria sempre stizzita. Uno di quegli uomini smaniosi, sprovvisti di velocità di crociera: accelerava o frenava, nessuna via di mezzo. Avanzava con una spalla in avanti come se volesse spingere un mobile e, quando ti aveva raggiunto a tutta velocità, all'improvviso si bloccava, era il suo ritmo abituale. Il miscuglio era persino curioso: con la sua aria aristocratica, sembrava al tempo stesso terribilmente raffinato e profondamente brutale. Un po' come quella guerra. Ecco perché forse ci si trovava così bene. E ancora, un bel paio di spalle: canottaggio e tennis, senza dubbio. Un'altra cosa che Albert detestava erano i suoi peli. Dei peli neri, dappertutto, persino sulle falangi, con ciuffi che spuntavano dal collo proprio sotto il pomo d'Adamo. In tempo di pace, doveva sicuramente radersi più volte al giorno per non sembrare un tipo losco. C'erano certamente donne su cui tutti quei peli, quell'aspetto maschio, feroce, virile, vagamente spagnolo, sortivano un certo effetto. Cécile, per esempio... Insomma, anche senza parlare di Cécile, Albert non lo poteva sopportare, il tenente Pradelle. E, soprattutto, diffidava di lui, perché era uno che amava caricare. Dare l'assalto, attaccare, conquistare: tutte cose che gli piacevano parecchio. Da qualche tempo, infatti, era meno pimpante del solito. Visibilmente, la prospettiva di un armistizio lo avviliva, lo stroncava nel suo slancio patriottico. L'idea della fine della guerra lo stecchiva, il tenente Pradelle. Mostrava delle smanie inquietanti. La mancanza di brio della truppa lo infastidiva molto. Quando percorreva i camminamenti e si rivolgeva agli uomini, nonostante i suoi discorsi traboccassero di tutto l'entusiasmo di cui era capace, nonostante evocasse l'annientamento del nemico cui un'ultima sventagliata avrebbe inferto il colpo di grazia, spesso otteneva solo dei mugugni alquanto vaghi; i soldati annuivano prudentemente col berretto, affondando il naso fra i loro scarponi. Non era solo il timore di morire, era l'idea di morire proprio in quel momento. Morire per ultimo, si diceva Albert, è come morire per primo, nulla di più idiota. Ed era esattamente quanto stava per accadere. Mentre fino ad allora, in attesa dell'armistizio, si erano vissuti giorni tranquilli, all'improvviso erano tutti elettrizzati. Un ordine piovuto dall'alto esigeva che si andasse a sorvegliare da vicino cosa succedeva dai crucchi. Non ci voleva un generale per accorgersi che loro facevano come i francesi: aspettavano la fine. Eppure, bisognava ugualmente andare a controllare. Da quel momento, nessuno riuscì più a ricostruire l'esatta concatenazione degli eventi.
Per compiere quella missione di ricognizione, il tenente Pradelle scelse Louis Thérieux e Gaston Grisonnier, difficile dire perché, un giovane e un vecchio, forse per unire il vigore all'esperienza. In ogni caso qualità inutili, visto che entrambi sopravvissero meno di mezz'ora al loro mandato. In teoria, non dovevano spingersi molto lontano. Bastava costeggiare una linea a nord-est per duecento metri dando qualche colpo di cesoia, dopodiché raggiungere strisciando la seconda barriera di filo spinato, dare un'occhiata e tornare indietro dicendosi che era tutto a posto, dato che certamente non c'era niente da vedere. I due soldati, d'altronde, non erano molto preoccupati di avvicinarsi così tanto al nemico. Visto lo status quo degli ultimi giorni, se anche li avessero scoperti, i crucchi li avrebbero lasciati guardare e poi tornarsene indietro, sarebbe stato una sorta di diversivo. Solo che nel momento in cui avanzavano, curvi il più possibile, i due osservatori si fecero sparare addosso come conigli. Si sentì tre volte un boato di colpi, poi un grande silenzio; per il nemico, la faccenda era chiusa. Tentarono subito di vederli, ma essendo partiti da nord, non si riusciva a individuare il luogo in cui erano caduti. Intorno ad Albert, rimasero tutti senza fiato. Poi vi fu un'esplosione di grida. Bastardi. I crucchi erano sempre gli stessi, che gentaglia! Razza di barbari eccetera eccetera. Un giovane e un vecchio, per giunta! Non che cambiasse qualcosa ma, nella mente di tutti, i crucchi non si erano limitati a uccidere due soldati francesi, insieme a loro avevano abbattuto due emblemi. Insomma, un autentico furore. Nei minuti che seguirono, con una prontezza di cui li si sapeva appena capaci, dalle retrovie gli artiglieri lanciarono una pioggia di granate da 75 sulle linee tedesche, chissà chi li aveva informati. Il meccanismo era innescato. I tedeschi risposero. Da parte francese, non ci volle molto per radunare tutti.
Gliel'avrebbero fatta pagare, a quei bastardi. Era il 2 novembre 1918.
Mancavano meno di dieci giorni alla fine della guerra, ma nessuno ancora lo sapeva. E attaccare nel giorno dei Morti, per giunta. Per quanto non si tenga troppo ai simboli...
Ed eccoci di nuovo bardati, pensò Albert, pronti a salire al patibolo (le chiamavamo così le scalette utilizzate per uscire dalla trincea, bella prospettiva!) e a fiondarci a capofitto verso le linee nemiche.
Tutti gli uomini, in fila indiana, tesi come archi, stentavano a mandare giù la saliva. Albert era in terza posizione, preceduto da Berry e dal giovane Péricourt che si voltò, come per controllare che ci fossero proprio tutti. I loro sguardi s'incrociarono, Péricourt gli sorrise, il sorriso di un monello che sta per combinarne una delle sue. Albert tentò di sorridere a sua volta ma non ci riuscì. Péricourt riprese la sua posizione. In attesa dell'ordine di attaccare, la tensione era quasi palpabile. I soldati francesi, scandalizzati dalla condotta dei crucchi, erano tutti concentrati sul loro furore. Sulle loro teste, le granate striavano il cielo nei due sensi e squassavano la terra fin dentro i camminamenti.
Albert alzò lo sguardo sopra la spalla di Berry. Il tenente Pradelle, salito su un piccolo avamposto, scrutava le linee nemiche con un binocolo. Albert riprese il suo posto nella fila. Senza tutto quel rumore, avrebbe potuto riflettere su ciò che lo assillava, ma era un susseguirsi di sibili acuti, interrotti da esplosioni che facevano tremare dalla testa ai piedi. Impossibile concentrarsi, in quelle condizioni. Così, con gli uomini in attesa dell'ordine di attaccare, l'occasione per osservare Albert non è affatto malvagia. Albert Maillard. Un ragazzo esile, di indole lievemente fiacca, riservata. Poco loquace, se la cavava bene con le cifre. Prima della guerra, era contabile in una filiale della Banque de l'Union parisienne. Quel lavoro non gli piaceva molto, ci era rimasto per sua madre. La signora Maillard aveva un solo figlio e adorava i capi. Allora ovviamente il pensiero del suo Albert a capo di una banca l'aveva mandata in estasi, convinta che "con la sua intelligenza" avrebbe bruciato le tappe. Quella venerazione per l'autorità le veniva da suo padre, vice di un vice capoufficio al ministero delle Poste, che concepiva la gerarchia della sua amministrazione come una metafora dell'universo. La signora Maillard amava indistintamente tutti i capi. Non badava né alle qualità né alla provenienza. Aveva diverse foto di Clemenceau, Maurras, Poincaré, Jaurès, Joffre, Briand... Da quando aveva perso il marito, che comandava un drappello di sorveglianti in divisa al museo del Louvre, i grandi uomini le procuravano sensazioni inaudite. Albert non era entusiasta della banca, ma l'aveva lasciata parlare, con sua madre era ancora la strategia migliore. Aveva comunque iniziato a fare progetti. Voleva partire, gli era venuta voglia di Tonchino, anche se vaga, è vero. In ogni caso lasciare il suo impiego di contabile in banca, fare altro. Ma Albert non era un tipo svelto, tutto gli richiedeva tempo. E ben presto era arrivata Cécile, passione a prima vista: gli occhi di Cécile, la bocca di Cécile, il sorriso di Cécile, e poi, logicamente, i seni di Cécile, il culo di Cécile, impossibile pensare ad altro. A noi, oggi, Albert Maillard non sembrerebbe molto alto, col suo metro e settantatré, ma per i suoi tempi andava benissimo. All'epoca le ragazze lo guardavano. Cécile soprattutto. Insomma... Albert aveva guardato molto Cécile e, dopo un po', a forza di vedersi fissata così, praticamente in continuazione, lei si era accorta che lui esisteva e aveva iniziato a guardarlo a sua volta. Il suo viso inteneriva. Una pallottola lo aveva ferito alla tempia destra durante la battaglia della Somme. Si era preso un grosso spavento, ma se l'era cavata con una cicatrice a forma di parentesi che gli tirava leggermente l'occhio da un lato rendendolo interessante. Alla licenza seguente. Cécile, sognante e affascinata, l'aveva accarezzata con la punta dell'indice, il che non gli aveva tirato su il morale. Da bambino, Albert aveva un visetto pallido, quasi tondo, con delle palpebre pesanti che gli davano un'aria da Pierrot triste. La signora Maillard si privava del cibo per potergli dare la carne rossa, convinta che fosse bianco per carenza di sangue. Per quanto Albert le avesse spiegato mille volte che quello non c'entrava affatto, sua madre non era tipo da cambiare idea facilmente, trovava sempre degli esempi, delle ragioni, non tollerava di aver torto, persino nelle lettere tornava su cose che risalivano ad anni addietro, era davvero pesante. C'è da chiedersi se non fosse per questo che Albert si era arruolato appena scoppiata la guerra. Quando lo aveva saputo, la signora Maillard si era messa a urlare, ma con una donna così eccessiva era impossibile distinguere il panico reale dalla scena. Aveva gridato, si era strappata i capelli e si era subito ricomposta. La sua concezione abbastanza classica della guerra l'aveva convinta in fretta che Albert, "con la sua intelligenza", non avrebbe tardato a brillare, a salire di grado, lo vedeva partire all'assalto, in prima linea. Lo immaginava compiere un atto eroico, divenire all'istante ufficiale, capitano, comandante, o ancora di più, generale, tutte cose che si vedono in guerra. Albert la lasciava parlare e intanto preparava la valigia. Con Cécile fu molto diverso. La guerra non la spaventava. Era anzitutto un dovere patriottico" (Albert fu sorpreso, non l'aveva mai sentita pronunciare quelle parole), e poi non c'era davvero ragione di aver paura, era quasi una formalità. Lo dicevano tutti. Albert, un piccolo dubbio lo covava, ma Cécile alla fine era un po' come la signora Maillard, aveva le idee abbastanza chiare. A sentire lei, la guerra non sarebbe durata a lungo. Albert non stentava a crederle; qualunque cosa dicesse. Cécile, con le sue mani, con quella bocca, con tutto il resto, insomma, poteva dirgli davvero ciò che voleva. Chi non la conosce non può capire, pensava Albert. Per noi, quella Cécile sarebbe stata una bella ragazza, niente di più. Per lui, era un'altra cosa. Ogni poro della sua pelle era costituito da una molecola speciale, il suo alito aveva un profumo speciale. Aveva gli occhi azzurri, e allora? A voi questo non dirà nulla, ma per Albert quegli occhi erano una voragine, un precipizio. Ecco, prendete la sua bocca e mettetevi un attimo nei panni del nostro Albert. Da quella bocca, lui aveva ricevuto baci tanto caldi e teneri da essere esplosivi, aveva sentito la sua saliva scorrergli dentro, l'aveva bevuta con tanta passione, era stata capace di prodigi tali che Cécile non era solo Cécile. Era... E così lei poteva affermare che di quella guerra ne avrebbero fatto un solo boccone: quanto aveva sognato, Albert, di essere un boccone per Cécile...
Ora, evidentemente, lui vedeva le cose in modo molto diverso. Sapeva che la guerra non era altro che un'immensa roulette in cui le palline erano pallottole, e sopravvivere quattro anni rappresentava fondamentalmente un miracolo. E finire sepolto vivo con la guerra agli sgoccioli, francamente, sarebbe stato davvero il colmo. Eppure, succederà proprio questo. Il giovane Albert sepolto vivo. Il torto di "non aver fortuna", avrebbe detto sua madre. Il tenente Pradelle si è girato verso la truppa guardando intensamente i primi uomini che, da destra e sinistra, lo fissano come se fosse il Messia. Ha scosso la testa e ha preso un respiro profondo. Pochi minuti dopo, leggermente curvo, Albert corre in uno scenario da fine del mondo, sommerso dalle granate e dal sibilo dei proiettili, stringendo il fucile con tutte le forze, il passo pesante, la testa incassata nelle spalle. Il terreno è molle sotto gli scarponi, dopo tutta la pioggia di quei giorni. Accanto a lui, alcuni urlano come pazzi, per inebriarsi, per farsi coraggio. Altri, invece, avanzano come lui, concentrati, con i crampi allo stomaco e la gola secca. Si scagliano tutti contro il nemico, armati di una collera definitiva, di un desiderio di vendetta. Sarà un effetto perverso dell'annuncio dell'armistizio. Hanno subito così tanto che a vedere quella guerra concludersi così, con molti compagni morti e molti nemici vivi, viene quasi voglia di un macello, di finirla una volta per tutte. Massacrando chiunque. Persino Albert, terrorizzato all'idea di morire, scannerebbe il primo venuto. Certo, gli ostacoli non sono mancati; correndo, ha dovuto deviare sulla destra. All'inizio, ha seguito la linea fissata dal tenente, ma tra il sibilo dei proiettili e le granate, è stato impossibile non avanzare a zigzag. E quando Péricourt, che lo precedeva immediatamente, si è beccato una pallottola e si è accasciato quasi tra le sue gambe, Albert ha appena il tempo di scansarlo con un balzo. Perde l'equilibrio, corre parecchi metri sullo slancio e s'imbatte nel corpo del vecchio Grisonnier, la cui morte inattesa ha dato il via a quell'ecatombe finale. Nonostante il sibilo delle pallottole attorno a lui, vedendolo così, orizzontale, Albert si ferma di colpo. E' dal cappotto che lo riconosce, perché portava sempre quell'affare rosso all'occhiello, la "legion d'orrore", diceva. Non era un tipo brillante, Grisonnier, né raffinato, ma una brava persona, e gli volevano tutti bene. E' lui, nessun dubbio. Il suo capoccione si è come incrostato nel fango e il resto del corpo sembra disarticolato. Proprio lì vicino, riconosce il più giovane, Louis Thérieux, Anche lui è in parte coperto di fango, accovacciato, quasi in posizione fetale. E' commovente morire a quell'età, con una postura simile... Albert non sa cosa gli prende, ha un'intuizione, afferra il vecchio per una spalla e lo spinge. Il morto oscilla pesantemente e si rovescia sul ventre. Albert ha bisogno di qualche secondo per realizzare. Poi la verità gli balza agli occhi: quando si avanza verso il nemico, non si muore con due pallottole nella schiena. Scavalca il cadavere e fa qualche passo, sempre chino, chissà perché, le pallottole colpiscono tanto in piedi che abbassati, ma per riflesso si cerca di offrire la minima superficie possibile, come se si facesse costantemente la guerra nel timore del cielo. Eccolo davanti al corpo del giovane Louis. Così, i pugni stretti vicino alla bocca, è incredibile, sembra un ragazzino, insomma, ventidue anni, Albert non vede il viso imbrattato di fango. Vede solo la schiena. Un proiettile.
Con i due del vecchio, fanno tre. I conti tornano. Quando si alza, Albert è ancora inebetito per la scoperta. Per quello che significa. A qualche giorno dall'armistizio, gli uomini non avevano tanta fretta di andare a stuzzicare i crucchi, il solo modo di spingerli all'assalto era farli inferocire: dov'era Pradelle quando i due soldati si sono fatti sparare alle spalle? Dio santo! Allibito per la constatazione, Albert si gira e vede, a qualche metro di distanza, Il tenente Pradelle che si lancia verso di lui correndo più che può, considerato l'equipaggiamento.
Il movimento è deciso, la testa perfettamente dritta. Ma, del tenente, Albert nota soprattutto lo sguardo vitreo e risoluto. Totalmente risoluto. All'improvviso gli appare tutto chiaro, tutta la storia. E' in quell'istante che Albert capisce che sta per morire. Accenna qualche passo, ma non gli funziona più nulla, né il cervello, né le gambe, nulla. E' tutto troppo veloce. Come sappiamo, Albert non è un tipo svelto. In tre falcate, Pradelle è su di lui. Proprio lì accanto, un'ampia buca aperta, una buca di granata. Albert riceve una spallata del tenente in pieno petto che gli mozza il respiro. E' stordito, tenta di riprendersi e cade all'indietro, nella buca, le braccia in croce. E man mano che sprofonda nella melma, come al rallentatore, vede allontanarsi il viso di Pradelle e quello sguardo di cui ora comprende la sfida, la convinzione, la provocazione. In fondo alla fossa, Albert rotola su se stesso, leggermente frenato dall'equipaggiamento. Le gambe s'impigliano nel fucile, riesce a rialzarsi e s'incolla subito alla parete spiovente, come chi si appiattisce in fretta contro una porta temendo di essere sentito o sorpreso. Piantato sui talloni (la terra argillosa scivola come sapone) cerca di riprendere fiato. I suoi pensieri, brevi e confusi, tornano di continuo allo sguardo gelido del tenente Pradelle. Sopra di lui, la battaglia sembra essersi moltiplicata, il cielo è costellato di ghirlande. La volta lattiginosa s'illumina di lampi tra l'azzurro e l'arancio. Le granate, nei due sensi, cadono come a Gravelotte in un fracasso denso e perpetuo, un tuono di sibili ed esplosioni. Albert solleva lo sguardo. Lassù, a strapiombo sull'orlo della buca come l'angelo della morte, si staglia l'alta silhouette del tenente Pradelle. Albert ha l'impressione di aver fatto un bel ruzzolone. In realtà, tra loro ci saranno non più di due metri, forse meno. Ma quei due metri fanno la differenza. Il tenente Pradelle è in alto, le gambe divaricate, le mani saldamente piantate sul cinturone. Alle sue spalle, le luci intermittenti della battaglia.
Guarda placidamente in fondo al pozzo. Immobile. Fissa Albert con un vago sorriso sulle labbra. Non farà un solo gesto per tirarlo fuori da lì. Albert soffoca, ha il cuore in gola, afferra il fucile, scivola, si regge per un soffio, prende la mira, ma quando l'arma è finalmente puntata verso l'orlo, non c'è più nessuno. Pradelle è sparito. Albert è solo. Lascia il fucile e tenta di trovare nuove energie. Non dovrebbe aspettare ma scalare subito la pendenza della buca, rincorrere Pradelle, sparargli a tradimento, piombargli addosso. O raggiungere gli altri, parlare con loro, urlare, fare qualcosa, ma non sa neanche lui cosa. E' stremato. Vinto dalla stanchezza. Perché è tutto di una stupidità inaudita. E' come se si fosse fermato, come se fosse arrivato. Anche a volerlo, non riuscirebbe mai a salire lassù. Era a un passo dal finirla con quella guerra e ora eccolo in fondo alla buca. Più che sedersi, crolla e si prende la testa tra le mani. Tenta di analizzare correttamente la situazione ma il suo morale si può raccogliere con il cucchiaino. Come un sorbetto sciolto. Di quelli che Cécile adora, al limone, che le fanno digrignare i denti con la mimica di un gattino, e allora Albert ha una voglia matta di stringerla a sé. Già, Cécile: a quando risale la sua ultima lettera? Anche questo lo ha logorato. Non ne ha parlato con nessuno: le lettere di Cécile sono diventate più brevi.
Visto che la guerra volge alla fine, lei gli scrive come se fosse già finita, per cui non vale più la pena dilungarsi. Per quelli che hanno famiglie intere non è così, ci sono sempre lettere in arrivo, ma per lui, che ha solo Cécile... C'è anche sua madre, sì, ma lei è estenuante più di ogni altra cosa. Le sue lettere assomigliano ai suoi discorsi, se lei potesse decidere tutto al posto suo... E' questo insieme di cose che ha logorato Albert, che lo ha roso più di tutti i compagni morti e ai quali vorrebbe non pensare troppo. Momenti di sconforto ne ha vissuti, certo, ma questo qui non ci voleva. Proprio quando avrebbe bisogno di tutte le sue energie. Neanche lui sa perché, ma qualcosa dentro ha ceduto all'improvviso. Lo sente nel profondo. E' come un'immensa fatica e pesa quanto un macigno. Un rifiuto ostinato, un qualcosa di infinitamente passivo e sereno. Come la fine di qualcosa. Quando si è arruolato, quando provava a immaginare la guerra, pensava segretamente, come molti, che in caso di difficoltà avrebbe dovuto semplicemente fare il morto. Stramazzare al suolo o addirittura, per essere più verosimile, lanciare un urlo simulando di aver preso una pallottola in pieno cuore.
Dopodiché gli sarebbe bastato rimanere sdraiato e aspettare che le acque si calmassero. Calata la notte, avrebbe strisciato fino al corpo di un altro compagno, morto per davvero, e gli avrebbe rubato i documenti. A quel punto, avrebbe continuato il suo cammino da rettile, per ore e ore, fermandosi e trattenendo il respiro nel caso in cui si fossero udite delle voci nella notte. Tra mille precauzioni, sarebbe avanzato fino a trovare finalmente una strada da seguire verso nord (o verso sud, secondo le versioni). Durante il tragitto, avrebbe imparato a memoria ogni dettaglio della sua nuova identità. Poi si sarebbe imbattuto in una unità smarrita il cui caporalmaggiore, un omone con... Insomma, è evidente che, per essere un contabile bancario, Albert ha una mente abbastanza romanzesca. Sarà stata la fantasia della signora Maillard a influenzarlo. All'inizio del conflitto, quella visione sentimentale la condivideva con molti altri. Vedeva le truppe fasciate in belle uniformi rosse e blu avanzare in file serrate verso un esercito nemico in preda al panico. I soldati puntavano davanti a loro le baionette scintillanti mentre i fumi sparsi da una serie di granate confermavano la disfatta del nemico. In fondo, Albert si è arruolato in una guerra stendhaliana e si è ritrovato in un massacro prosaico e barbaro che ha provocato mille morti al giorno per cinquanta mesi. Per farsi un'idea, basterebbe issarsi un po', guardare il paesaggio intorno alla sua buca: un suolo su cui la vegetazione è completamente scomparsa, crivellato da migliaia di buche di granate, cosparso di centinaia di corpi in decomposizione il cui odore pestilenziale ti stringe la gola tutto il giorno. Alla prima tregua, dei topi grossi come lepri saltellano con ferocia da un cadavere all'altro per contendere alle mosche i resti che i vermi hanno già intaccato. Tutto questo Albert lo sa perché è stato barelliere nell'Aisne e, quando non trovava più feriti che gemevano o strepitavano, raccoglieva ogni sorta di corpo, a ogni stadio di putrefazione. La sa lunga, in questo campo. Era un lavoro ingrato per uno come lui, fin troppo sensibile.
E, colmo della sfortuna per uno che tra pochi attimi sarà sepolto vivo, soffre di una leggera claustrofobia. Da ragazzino, al pensiero che la madre, uscendo, rischiasse di chiudere la porta della sua camera, sentiva montare la nausea. Non diceva niente, rimaneva a letto, non voleva affliggere la madre che spiegava sempre di avere già abbastanza preoccupazioni. Ma di notte, il buio gli faceva impressione. E anche in seguito, non molto tempo fa, con Cécile, mentre giocavano tra le lenzuola. Quando si ritrovava tutto coperto, gli mancava il respiro e andava nel panico, anche perché a volte Cécile lo stringeva tra le gambe per trattenerlo. Giusto per vedere, diceva lei ridendo. Insomma, morire soffocato è la morte che lo spaventerebbe di più. Per fortuna non ci pensa, perché, in confronto a quello che lo aspetta, essere prigioniero delle cosce seriche di Cécile, anche con la testa sotto le lenzuola, è il paradiso. Se ci pensasse, Albert vorrebbe morire. Il che non guasterebbe, essendo ciò che sta per accadere. Non subito, però. Tra un attimo, quando la granata fatidica si abbatterà a qualche metro dal suo rifugio e solleverà uno spruzzo di terra alto come un muro che crollerà all'istante e lo ricoprirà tutto, non gli resterà molto da vivere, ma abbastanza per rendersi davvero conto di cosa gli sta succedendo. Albert sarà preso da un desiderio selvaggio di sopravvivere, lo stesso che devono provare i topi di laboratorio quando li si afferra per le zampe posteriori, o i maiali in procinto di essere sgozzati, le mucche a un passo dal macello, una sorta di resistenza primitiva... Bisognerà aspettare un po' per questo. Aspettare che i polmoni si sbianchino cercando l'aria, che il corpo esaurisca le forze residue nell'estremo tentativo di liberarsi, che la testa minacci di esplodere, che la mente sia invasa dalla follia, che... ma non anticipiamo.
Albert si gira, guarda un'ultima volta verso l'alto, dopotutto la distanza non è così eccessiva. Semplicemente, è eccessiva per lui. Tenta di raccogliere le forze, di pensare solo e soltanto a risalire, a uscire da quella buca. Riprende l'equipaggiamento, il fucile, si aggrappa e, nonostante la fatica, comincia a scalare la pendenza. Mica facile. I piedi scivolano, scivolano sull'argilla fangosa, non trovano presa, per quanto affondi le dita nella terra, martelli con tutte le sue forze con la punta del piede per tentare di crearsi degli appoggi, niente da fare, ricade giù. Allora si libera del fucile, dello zaino. Se dovesse spogliarsi del tutto, non esiterebbe. Si getta sulla parete e comincia a strisciare sul ventre, i suoi movimenti sono quelli di uno scoiattolo in gabbia, gratta nel vuoto e ricade giù sempre nello stesso pianto.
Ansima, geme, alla fine urla. E' in preda al panico. Gli occhi gli si riempiono di lacrime, batte il pugno contro il muro di argilla. Il bordo non è così lontano, cazzo, tendendo il braccio potrebbe quasi toccarlo, ma le suole scivolano, ogni centimetro conquistato è subito perso. Devo assolutamente uscire da questa fottuta buca! urla. E ce la farà. Morire sì, certo, un giorno, ma ora no, sarebbe troppo stupido. Uscirà da lì e andrà a cercare il tenente Pradelle fino dai crucchi, se necessario, lo troverà e lo ucciderà. Gli dà coraggio l'idea di accoppare quella merda.
Si sofferma un attimo su questa triste constatazione: i crucchi ci provano da più di quattro anni e non sono mai riusciti a ucciderlo, e alla fine a farlo sarà un ufficiale francese. Cazzo.
Albert s'inginocchia e apre lo zaino. Lo vuota completamente, posa la gavetta tra le gambe; stenderà il cappotto lungo la parete scivolosa, pianterà nella terra tutto quello che ha sotto mano per servirsene da rampone, si volta ed è in quel momento preciso che una granata si fa sentire ad alcune decine di metri sopra di lui. Preoccupandosi all'improvviso, alza la testa. In quattro anni, Albert ha imparato a distinguere le granate da 75 da quelle da 95, e da 105 e 120... Su quella, esita. Forse per la profondità della buca, o per la distanza, è annunciata da uno strano rumore, come inedito, insieme più sordo, più smorzato degli altri, un ronzio attutito che termina in una spirale potentissima. Il cervello di Albert ha appena il tempo di interrogarsi.
La detonazione è incommensurabile. Presa da una convulsione fulminea, la terra trema ed emana un boato massiccio e lugubre prima di sollevarsi.
Un vulcano. Destabilizzato dalla scossa, e anche sorpreso, Albert guarda in aria perché di colpo si è oscurato tutto. E lì, al posto del cielo, una decina di metri sopra di lui, vede srotolarsi, quasi al rallentatore, un'immensa onda di terra scura la cui cresta mobile e sinuosa va curvandosi lentamente nella sua direzione, apprestandosi a ridiscendere verso di lui per travolgerlo. Una pioggia leggera, quasi indolente, di sassi, zolle di terra, frammenti di ogni sorta ne annuncia l'arrivo imminente. Albert si accovaccia e smette di respirare. Non è affatto ciò che dovrebbe fare, anzi, bisogna estendersi al massimo, tutti i sepolti vivi lo confermeranno. Ci sono poi due o tre secondi sospesi durante i quali Albert fissa la coltre di terra che fluttua nel cielo e sembra esitare sul momento e sul luogo della caduta. Tra un attimo, quella coltre gli crollerà addosso e lo coprirà tutto. Di norma, a volerlo immaginare, Albert assomiglia abbastanza a un ritratto del Tintoretto. Ha sempre avuto dei lineamenti dolenti, con una bocca ben disegnata, un mento sporgente e delle occhiaie profonde accentuate da sopracciglia arcuate di un nero intenso. Ma in questo frangente, poiché ha lo sguardo rivolto verso il cielo e vede avvicinarsi la morte, è più simile a un san Sebastiano. I tratti si sono bruscamente tirati, il viso è increspato dal dolore, dalla paura, in una sorta di supplica tanto più inutile perché da vivo Albert non ha mai creduto in nulla e non è certo con la rogna che gli è capitata che comincerà a credere in qualcosa.
Ammesso che ne abbia il tempo. Con un tremendo crepitio, la coltre si abbatte su di lui. C'era forse da aspettarsi un impatto che lo avrebbe ucciso sul colpo, Albert sarebbe morto ed ecco tutto. Invece accade di peggio. I sassi e le pietre continuano a piovergli addosso come grandine poi arriva la terra che lo ricopre tutto, sempre più pesante. Il corpo di Albert è incollato al suolo. Progressivamente, man mano che la terra si accumula su di lui, è immobilizzato, schiacciato, compresso. La luce si spegne. Tutto si ferma. Un nuovo ordine del mondo s'instaura, un mondo dove non ci sarà più Cécile.
La prima cosa che lo colpisce, immediatamente seguita dal panico, è l'assenza del rumore della guerra. Come se tutto si fosse taciuto all'improvviso, come se Dio avesse fischiato la fine della partita.
Naturalmente, se prestasse un po' di attenzione, capirebbe che niente si è fermato, che il suono gli giunge semplicemente filtrato, attutito dalla massa della terra che lo imprigiona e lo ricopre, quasi impossibile da udire. Ma al momento Albert ha ben altri pensieri che tendere l'orecchio per sapere se la guerra continua perché per lui, quel che conta, è che si sta concludendo.
Non appena il frastuono si attenua, Albert è disorientato. Sono sottoterra, si ripete in continuazione, ma è solo un'idea piuttosto astratta. E' quando comincia a dirsi sono sepolto vivo che la cosa assume una dimensione terribilmente concreta.
E quando realizza la portata della catastrofe, il genere di morte che lo attende, quando capisce che morirà soffocato, asfissiato, Albert impazzisce, istantaneamente, completamente. Nella sua testa, regna il caos più totale. Urla, e in quel grido inutile spreca quel poco di ossigeno che gli resta. Sono sepolto, si ripete in continuazione, e la sua mente frana in quella spaventosa evidenza al punto che il pensiero di riaprire gli occhi non lo ha nemmeno ancora sfiorato. Tutto ciò che fa è tentare di muoversi in una direzione qualsiasi. Tutta la forza che gli resta, tutto il panico che lo invade, si trasforma in uno sforzo muscolare. Nel dibattersi, spende un'energia incredibile. Invano,
E all'improvviso, si ferma.
Perché ha capito che muove le mani. Pochissimo, ma le muove. Trattiene il respiro. Cadendo, la terra argillosa e impregnata d'acqua ha formato come una sorta di conchiglia al livello delle braccia, delle spalle, della nuca. Il mondo in cui Albert è come pietrificato gli ha concesso qualche centimetro qua e là. In effetti, la terra sopra di lui non è molta. Albert lo sa. Una quarantina di centimetri, forse. Ma lui è lì sotto, disteso, e quello strato è sufficiente a paralizzarlo, a impedire ogni movimento e a condannarlo. Intorno, la terra trema. Lassù, in lontananza, la guerra prosegue, le granate continuano a scuotere la terra, a squassarla.
Albert apre gli occhi, dapprima timidamente. E' notte, non buio pesto.
Dei raggi di luce infinitesimali, biancastri, filtrano a malapena. Un riflesso di un pallore estremo, un filo di vita.
Si costringe a respirare a piccoli scatti. Sposta i gomiti di qualche centimetro, riesce a stendere un po' i piedi, e così preme la terra all'estremità opposta. Tra mille precauzioni, lottando senza tregua contro il panico che lo assale, prova a liberare il viso per respirare.
Un blocco di terra cede immediatamente, come una bolla che scoppia. Ha una reazione istantanea, i muscoli si tendono tutti, il corpo si contrae. Ma non accade nient'altro. Chissà quanto tempo rimane così, in quell'equilibrio precario dove l'aria si rarefa lentamente, a immaginare quale morte si avvicina, come sarà trovarsi senza ossigeno ed esserne consapevole, sentire i vasi esplodere a uno a uno come tanti palloncini, sgranare gli occhi il più possibile come per cercare di vedere l'aria che manca. Millimetro dopo millimetro, sforzandosi di respirare il meno possibile, e non pensare, non vedersi com'è, sposta in avanti la mano, tocca davanti a sé. Allora sente qualcosa sotto le dita, il bagliore biancastro benché un po' più forte, non permette di distinguere ciò che lo circonda. Le dita toccano qualcosa di soffice, non è terra, non è argilla, è quasi serico.
Ci mette un bel po' a capire di cosa si tratta.
Man mano che si ambienta, distingue cosa ha di fronte: due gigantesche labbra di animale da cui cola un liquido viscoso, immensi denti gialli, grandi occhi bluastri che si dissolvono...
Una testa di cavallo, enorme, ripugnante, una mostruosità.
Albert non può reprimere un violento movimento a ritroso. Il suo cranio urta la conchiglia, crolla di nuovo un po' di terra, gli sommerge il collo, lui solleva le spalle per proteggersi, smette di muoversi, di respirare. Lascia scorrere i secondi.
La granata, perforando il suolo, ha dissepolto uno di quegli innumerevoli ronzini morti che marciscono sul campo di battaglia e ne ha appena consegnato una testa ad Albert. Eccoli uno di fronte all'altro, il giovane uomo e il cavallo morto, quasi nell'atto di abbracciarsi, n crollo ha permesso ad Albert di liberare le mani, ma la terra è molto, molto pesante, gli comprime la cassa toracica. Riprende pian piano a respirare a scatti, i polmoni sono già allo stremo. Riesce a reprimere le lacrime che sente salire. Dice a se stesso che piangere è accettare di morire.
Farebbe meglio a lasciarsi andare, perché ormai è questione di poco.
Non è vero che nel momento della morte tutta la nostra vita ci scorre davanti in un istante folgorante. Ma qualche immagine, sì. immagini vecchie. Suo padre, con un viso così nitido, così preciso che Albert giurerebbe che è lì, sottoterra insieme a lui. Sarà perché stanno per ritrovarsi. Lo vede giovane, alla sua stessa età. Trent'anni o poco più, e naturalmente è quel poco più che conta. Indossa la divisa del museo, ha i baffi lucidi di cera, non sorride, come sulla fotografia della credenza. Ad Albert manca l'aria. Ha male ai polmoni, è in preda a movimenti convulsi. Vorrebbe riflettere. Niente da fare, l'ansia ha il sopravvento, il terribile terrore della morte gli sale dalle viscere. Le lacrime scorrono suo malgrado. La signora Maillard lo fissa biasimandolo con lo sguardo, decisamente Albert è il solito inetto, cadere in una buca, morire giusto prima della fine della guerra, passi, sarà anche stupido ma in fondo ci può stare, però morire sepolto vivo, vale a dire nella posizione di un uomo già morto! Questo sì che è lui, Albert, mai come gli altri, sempre un gradino più in basso. A ogni modo, se non fosse morto in guerra, che ne sarebbe stato di lui? La signora Maillard finalmente gli sorride. Con la morte di Albert, almeno in famiglia c'è un eroe, non è poi tanto male.
Il viso di Albert è quasi livido, le tempie pulsano a un ritmo impensabile, si direbbe che tutte le vene stiano per scoppiare. Chiama Cécile, vorrebbe trovarsi tra le sue gambe, stretto da non poterne più, ma i tratti di Cécile non risalgono fino a lui, come se lei fosse troppo lontana per raggiungerlo, ed è questo che gli fa più male. non vederla in questo momento, il fatto che lei non lo accompagni. C'è solo il suo nome. Cécile, perché il mondo in cui sta sprofondando non ha più corpo, soltanto parole. Vorrebbe implorarla di andare con lui, ha una paura tremenda della morte. Ma è inutile, morirà da solo, senza di lei.
Allora, arrivederci, ci rivediamo lassù, mia Cécile, un giorno lontano.
Poi il nome di Cécile si cancella a sua volta per lasciare il posto al viso del tenente Pradelle e al suo insopportabile sorriso.
Albert gesticola in tutte le direzioni. I polmoni si riempiono sempre di meno, fischiano appena lui forza. Comincia a tossire, contrae il ventre.
Gli manca l'aria.
Agguanta la testa del cavallo, riesce ad afferrare le grosse labbra la cui carne sembra sfuggirgli sotto le dita, acciuffa i grandi denti gialli e, in uno sforzo sovrumano, schiude la bocca che esala un soffio putrido che Albert respira a pieni polmoni. Guadagna così qualche secondo di sopravvivenza, lo stomaco sottosopra, vomita, il corpo intero è scosso di nuovo da convulsioni, ma tenta di girarsi su se stesso in cerca di un'oncia di ossigeno, è senza speranza.
La terra è così pesante, la luce quasi svanita, non resta che il sussulto della terra schiantata dalle granate che continuano a piovere lassù, dopodiché in lui non entra più nulla. Nulla. Solo un rantolo.
Poi è invaso da una grande pace. Chiude gli occhi.
E' colto da un malore, il cuore cede, la ragione si spegne, lui sprofonda.
Albert Maillard, soldato, è appena morto.