Cahill alzò le braccia in segno di frustrazione. «Alex, mi sembra una follia, sai. Continuiamo a girare in tondo. Sono troppo vecchio per queste stronzate.»
«Le ultime due settimane sono state dure per tutti. Sono successe un sacco di cose brutte, non hai idea.» Mi ero stufato delle balle che mi raccontava lo «zio» Joe Cahill. Tirai fuori una fotografia.
«Dai un'occhiata a questa. È la donna che ha sparato al direttore della CIA, Weir, allo Hoover Building.»
Cahill scosse la testa. «Okay. E allora?»
«Si chiamava Nikki Williams ed è una ex militare. Per un po' ha fatto anche la mercenaria. Un'ottima tiratrice. Lavorava per moltissimi privati. So già cosa stai per dire, Joe. Allora?»
«Appunto. Allora?»
«Molto tempo fa, lavorò anche per te e per il tuo collega Hancock. La CIA e l'FBI adesso si scambiano i dati, Joe. È iniziata una nuova era di cooperazione. Ma il dato sorprendente è questo, Joe: ho il sospetto che sia stato tu ad assoldarla perché uccidesse Weir. Forse lo hai fatto tramite Geoffrey Shafer, ma sei stato tu. Secondo me, tu lavori per il Lupo. E da un bel po', temo. Forse anche questo faceva parte delle condizioni che pose per venire via dalla Russia.»
«Tu sei pazzo! Non è vero niente!» Joe Cahill si alzò di scatto e scosse via le briciole di torta dai pantaloni. «Sai una cosa? Sarà meglio che tu te ne vada subito. Sono amaramente pentito di averti fatto entrare in casa mia. La nostra chiacchierata è finita.»
«No, Joe, è appena cominciata», ribattei.
94
Feci una telefonata con il cellulare e pochi minuti dopo arrivarono gli agenti da Langley e da Quantico e arrestarono Joe Cahill. Lo ammanettarono e lo trascinarono via dalla sua bella casa in campagna.
Adesso avevamo una pista, e forse era valida.
Joe Cahill venne trasferito in una casa sicura della CIA in una località segreta sulle Allegheny Mountains. Era una casa abbastanza anonima: colonica, a due piani, di pietra, con un glicine all'ingresso, circondata da vigne e frutteti. Per lo zio Joe non si sarebbe rivelata abbastanza sicura, tuttavia.
L'ex agente fu lasciato solo in una stanza per parecchie ore, legato e imbavagliato.
A meditare sul futuro, e sul passato.
Arrivò un medico della CIA: alto, panciuto, prossimo ai quaranta, con faccia cavallina e look da WASP. Si chiamava Jay O'Connell. Ci disse di essere stato autorizzato a somministrare a Cahill un nuovo siero della verità. Altre varianti dello stesso farmaco erano in fase di sperimentazione su terroristi detenuti in varie carceri.
«È un barbiturico, come l'amobarbitale sodico e il metoexitale», spiegò. «Il soggetto si sentirà di colpo leggermente ubriaco, perderà lucidità e non sarà più in grado di difendersi dalle domande che gli farete. Questo è ciò che speriamo, perlomeno: non tutti i soggetti reagiscono allo stesso modo. Vedremo come risponderà. È anziano, quindi sono abbastanza sicuro che riusciremo a inchiodarlo.»
«Qual è la conseguenza peggiore che si può verificare?» chiesi a O'Connell.
«L'arresto cardiaco. Ma no, non è vero... Invece sì.»
All'alba Joe Cahill venne fatto uscire dalla stanza in cui era rinchiuso e trasferito in una più grande, in cantina, senza finestre. Gli furono tolti la benda sugli occhi e il bavaglio, ma non le manette. Lo facemmo sedere su una sedia dallo schienale dritto.
Cahill sbatté gli occhi varie volte prima di capire dove si trovava e chi altri era con lui nella stanza.
«Le vostre tecniche di disorientamento con me non serviranno a un cazzo», disse. «Tutte balle. Stronzate.»
«Sì, anche secondo noi non funzionano», disse il dottor O'Connell. Poi si rivolse a uno degli agenti, Larry Ladove. «Tiragli su la manica, per favore. Ecco fatto. Sentirai pizzicare la pelle, poi una puntura e vuoterai il sacco.»
95
Per le successive tre ore e mezzo, Cahill continuò a biascicare e a comportarsi come uno che ha bevuto troppo e non intende smettere.
«So che cosa state facendo», disse lo zio Joe, scuotendo il dito con fare ammonitore a noi tre, che eravamo nella stanza con lui.
«Anche noi sappiamo che cosa stai facendo tu», disse Ladove, quello della CIA. «E cosa hai già fatto.»
«Non ho fatto un fico secco. Sono innocente, fino a prova contraria. E poi, se sapete già tutto, com'è che stiamo parlando?»
«Dov'è il Lupo, Joe?» gli domandai. «In quale Paese? Dicci qualcosa.»
«Non lo so», rispose Cahill. Poi rise, come se avesse appena fatto una battuta. «In tanti anni, non ho mai saputo niente. Zero assoluto.»
«L'hai visto, però?» chiesi.
«Mai, neppure agli inizi. È furbo, scaltro. Un tantino paranoico, forse. Non gli sfugge niente. L'Interpol potrebbe averlo visto durante il trasporto. Tom Weir? Gli inglesi, magari. L'hanno tenuto un po', prima che arrivassimo noi.» Avevamo già contattato Londra, che però pareva non avere niente di significativo riguardo alla defezione. Gli inglesi non sapevano niente neppure del misterioso «errore» commesso a Parigi.
«Da quanto tempo lavoravi con lui?» domandai.
Cahill sembrò cercare la risposta sul soffitto. «Per lui, vorrai dire.»
«Sì. Da quanto?»
«Tanto. Mi sono venduto presto. Gesù, un sacco di tempo.» Scoppiò di nuovo a ridere. «Eravamo tanti. Della CIA, dell'FBI, della DEA. O almeno così diceva lui. Io gli credo.»
«Sei stato tu a dare l'ordine di uccidere Thomas Weir», dissi. «Lo hai già ammesso.» Non era vero.
«Okay», disse. «Se l'ho fatto, l'ho fatto. Come dici tu.»
«Perché il Lupo voleva uccidere Thomas Weir?» continuai. «Perché proprio lui? Ce l'aveva con lui per qualcosa?»
«Non funziona così. Si porta a termine il proprio compito. Stop. Non si conosce il piano generale. Però, sì: fra lui e Weir non correva buon sangue. Io non sono mai stato contattato, comunque. Parlava sempre con il mio collega, Hancock. Fu lui a far uscire dalla Russia il Lupo. Corky, i tedeschi, gli inglesi. Ve l'ho detto, no?» Cahill strizzò l'occhio. «Buona, 'sta roba. Il siero della verità. Bevetene un po' anche voi, ragazzi.» Guardò O'Connell. «Anche lei, dottor Mengele. Beva: la verità la renderà libero.»
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Eravamo riusciti a farci dire la verità da Joe Cahill? C'era qualcosa di significativo nelle sue farneticazioni?
Corky Hancock, i tedeschi, gli inglesi... Thomas Weir...
Qualcuno doveva pur sapere qualcosa a proposito del Lupo. Dov'era, chi era, che cosa aveva intenzione di fare...
Ero di nuovo on the road, a dare la caccia al Lupo. Il collega di Joe Cahill si era trasferito nell'Idaho quando era andato in pensione e abitava nei pressi di Hailey, nella Wood River Valley, una ventina di chilometri a sud di Sun Valley. Bel posto, per un'ex spia.
Per andare dall'aeroporto a Hailey attraversammo quello che il nostro autista chiamò «il deserto alto». Evidentemente Hancock, come Joe Cahill, amava la caccia e la pesca. La famosa riserva di Silver Creek era poco distante da lì.
«Non irromperemo in casa sua. Lo sorveglieremo per un po', per vedere cosa fa. In questo preciso momento è a pescare in montagna. Passiamo da casa sua, così date un'occhiata», disse l'agente, che era un giovane intraprendente di nome Ned Rust. «Hancock è un ottimo tiratore, a proposito. Meglio che lo sappiate.»
Salimmo sulle alture, dove c'erano villette con ampi giardini intorno. Alcuni avevano prati verdissimi, in contrasto con la vegetazione desertica circostante.
«Recentemente ci sono state diverse valanghe», ci spiegò Rust. Era una miniera di informazioni. «Potremmo vedere cavalli selvaggi. O Bruce Willis, con Demi e Ashton e i bambini. Ecco, la casa di Hancock è là. Quella con la facciata in pietre di fiume. Va molto, da queste parti. Una villetta niente male, per un agente in pensione senza famiglia.»
«Avrà più soldi da spendere per sé», gli feci notare.
La villa era grande e molto bella, con una vista stupenda su tre lati. La stalla era più grossa di casa mia. Poco lontano c'erano due cavalli. Corky Hancock non c'era, invece. Era andato a caccia.
Be', anch'io ero a caccia.
Nei giorni successivi a Hailey successe poco o niente. L'agente William Koch mi fece un breve aggiornamento. La CIA aveva mandato un pezzo grosso da Washington, Bridget Rooney. Hancock tornò dalla sua battuta di caccia e noi controllammo ogni sua mossa. A occuparsi della sorveglianza statica era una squadra mandata apposta da Quantico, mentre un'altra seguiva Hancock ovunque andasse. Stavamo prendendo la cosa molto sul serio. Dopo tutto il Lupo era a piede libero, con alcuni miliardi di dollari a disposizione.
Forse avevamo finalmente trovato una persona che poteva portarci a lui: l'agente della CIA che l'aveva aiutato a espatriare. E che forse sapeva qualcosa sul mistero che legava il Lupo e Thomas Weir.
L'errore di Parigi.
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Non sarebbe successo quella notte, e neppure l'indomani. Avremmo dovuto aspettare un po'.
Il venerdì venni autorizzato ad andare a trovare mio figlio a Seattle. Chiamai Christine, che mi disse che andava bene. Alex sarebbe stato contento di vedermi, e lei pure. Notai che non aveva più la voce tesa, quando mi parlava. A volte mi ricordavo persino che eravamo stati bene assieme. Non era necessariamente una buona cosa, tuttavia.
Arrivai da lei nella tarda mattinata e rimasi colpito di nuovo da quanto fosse bello il posto. Sia la casa che il giardino erano tipici di Christine: accoglienti e tranquilli. Normalissima staccionata bianca, scalini di pietra davanti alla porta, rosmarino, timo e menta nel giardino. Tutto molto grazioso.
Venne ad aprirmi con Alex in braccio. Anche se cercavo di trattenermi, non riuscivo a smettere di pensare che le cose tra noi sarebbero potute andare diversamente, se io avessi fatto un lavoro diverso.
Ero sorpreso di trovarla a casa e lei se ne accorse.
«Non mordo, Alex, sta' tranquillo. Sono andata a prendere Alex a scuola prima perché potesse essere qui al tuo arrivo», spiegò. Mi diede il piccolo e io mi concentrai su di lui.
«Ciao papi», mi disse, ridendo un po' timido. Sorrisi. Conosco una donna che mi chiama «il santo», e non lo intende come un complimento. No, sono tutt'altro che un santo, ma cerco di cogliere il meglio dalle cose. Al contrario di lei, forse.
«Ma come sei cresciuto!» esclamai sorpreso, ma anche orgoglioso e felice. «Quanti anni hai adesso? Sei? Otto? Dodici?» gli chiesi.
«Due. Quasi tre», mi rispose. E rise della mia battuta. Mi inteneriva da morire.
«È tutta la mattina che non parla altro che di te. Oggi viene papà. Oggi viene papà'», disse Christine. «Divertitevi.» Poi fece una cosa che mi stupì grandemente: mi diede un bacio su una guancia. Mi sciolsi. Sono un uomo prudente al limite della paranoia, ma non sono di ghiaccio. Prima Kayla Coles, adesso Christine... Dovevo proprio avere l'aria di quello che ha un estremo bisogno d'affetto.
Be', io e Alex ci divertimmo davvero. Io mi comportai come se vivessimo insieme a Seattle. Prima di tutto andammo a Fremont, dove qualche anno prima ero andato a trovare un mio amico, un ispettore in pensione. Fremont era una zona molto caratteristica, piena di edifici storici, negozietti di antiquariato e di vestiti d'epoca.
Entrammo nella Touchstone Bakery a mangiare uno scone con burro e marmellata di more e poi riprendemmo la passeggiata. Osservammo per bene il Fremont Rocket, la ricostruzione di un razzo degli anni Cinquanta che si ergeva alto sedici metri all'angolo di un negozio. Poi comprai ad Alex un aquilone, che andammo a far volare al Gas Works Park, da dove si godeva una splendida vista su Lake Union e Seattle. A Seattle c'è un sacco di verde ed è una delle cose che mi piacciono di più di quella città. Mi chiesi come fosse viverci. Mi chiesi anche perché me lo stavo chiedendo: solo perché Christine mi aveva dato un castissimo bacio sulla guancia? Ero davvero così bisognoso di affetto? Mi facevo pena da solo.
Andammo ancora un po' in giro a guardare le bizzarre sculture nel parco e ammirammo il gigantesco Fremont Troll. Facemmo un picnic. Naturalmente a base di alimenti biologici: insalata, pane, burro e gelatina di frutta. Paese che vai... dicono.
«Si vive bene qui, vero?» dissi ad Alex mentre mangiavamo. «Si sta d'incanto.»
Alex annuì, contento. Poi mi guardò con gli occhioni spalancati e mi chiese: «Quando torni a casa, papà?»
Oddio! Quando sarei mai tornato a casa?
98
Christine mi aveva chiesto di riportare Alex a casa prima delle sei e io fui puntuale. Sono così responsabile, così Alex, che a volte mi faccio rabbia da solo. Ci aspettava in veranda, vestita di azzurro e con i tacchi alti. Gestì tutto nel migliore dei modi, come mi aspettavo. Sorrise nel vederci e si lasciò abbracciare dal piccolo Alex, che le corse incontro lanciando gridolini di gioia. «Mamma!»
«Vi siete divertiti, vedo», disse, accarezzandogli la testa. «Mi fa piacere. Sapevo che avreste passato una bella giornata. Alex, adesso papà deve andare a casa sua. Deve tornare a Washington. E io e te dobbiamo andare a cena da Theo.»
Ad Alex venne da piangere. «Non voglio. Non andare via, papà!»
«Deve andare, tesoro. Ha tanto da fare. Salutalo, ora. Verrà di nuovo a trovarti presto.»
«Certo», dissi, chiedendomi chi fosse Theo. «Prestissimo.»
Alex mi buttò le braccia al collo e io lo strinsi forte forte, riluttante a lasciarlo andare. Mi piaceva il suo profumo, la sua pelle liscia, il fatto di sentirgli battere il cuore contro il mio. Ma non volevo che si accorgesse di quanto mi addolorasse separarmi da lui.
«Torno presto», ripetei. «Appena posso vengo di nuovo. Non crescere troppo nel frattempo, mi raccomando.»
Alex mi implorò sottovoce: «Non te ne andare, papà. Per favore».
Continuò a ripeterlo anche mentre io salivo in macchina e andavo via, facendogli ciao con la mano. Diventò sempre più piccolo e, quando svoltai dietro l'angolo, scomparve. Mi sembrava di sentirlo ancora abbracciato a me. E mi sembra lo stesso tuttora.
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Quella sera, poco prima delle otto, ero seduto da solo al Kingfish Café di Nineteenth Street, a Seattle. Nella penombra del bar, pensavo a mio figlio Alex. E anche agli altri miei figli. Arrivò Jamilla.
Aveva un giaccone di pelle nera, una gonna nera e una camicetta scura e mi fece un sorriso non appena mi vide seduto al bar. Forse le sembravo bello quanto lei sembrava bella a me. Chissà. Jamilla è una bella donna, ma non si rende conto di esserlo. O forse non ci crede. Le avevo detto che pensavo di fare una puntata a Seattle e lei mi aveva proposto di raggiungermi, per cenare insieme.
All'inizio ero stato titubante, ma era stato un errore: ero felicissimo di vederla. Soprattutto dopo l'addio ad Alex.
«Ti trovo in gran forma», mi sussurrò nell'orecchio. «Un po' stanco, forse. Lavori troppo. Ti verrà l'esaurimento.»
«Mi sento molto meglio, adesso che ci sei tu», le dissi. «Sei molto più in forma di me.»
«Dici? Grazie. Avevo bisogno di sentirmelo dire.»
Il Kingfish era un ristorante estremamente democratico, che non accettava prenotazioni. Tuttavia, senza farci aspettare, ci diedero un bel tavolo tranquillo. Ordinammo, tenendoci per mano e chiacchierando.
«Venire a trovare Alex è una tortura ogni volta», dissi a Jamilla mentre cenavamo. «Va contro me stesso, e tutto quello che Nana mi ha insegnato. Non sopporto di lasciarlo qui.»
Jamilla si incupì. Forse si era arrabbiata. «Non lo tratta bene?»
«No, non è questo: Christine è una brava mamma. È la lontananza che mi addolora. Voglio bene ad Alex e mi manca da morire. Vorrei vederlo camminare, parlare, fare gli scherzetti tutti i giorni. Andiamo così d'accordo...»
«Quindi, per esorcizzare il dolore, ti rifugi nel lavoro», disse Jamilla guardandomi negli occhi.
«Sì, è vero.» Annuii. «Ma questa è un'altra storia. Andiamo, dai.»
«Che cosa ha in mente, dottor Cross?»
«Nulla di illegale, ispettore Hughes.»
«Davvero? Mi spiace.»
100
Avevo preso una camera al Fairmont Olympic Hotel in University Street, di fronte a Ranier Square, e non vedevo l'ora di arrivarci. Anche Jamilla sembrava piuttosto impaziente di chiudercisi dentro. Entrammo nella sontuosa hall dell'albergo e Jamilla alzò gli occhi a guardare il soffitto altissimo. C'era silenzio quando arrivammo, alle dieci passate.
«Stile Rinascimento italiano, antichi lampadari in cristallo: sono molto impressionata», disse, sorridendo. Il suo entusiasmo mi contagiava.
«Nella vita bisogna concedersi qualche lusso ogni tanto», dissi.
«Be', lusso è la parola giusta», disse lei, dandomi un rapido bacio. «Sono contenta che tu sia qui. E soprattutto di esserci anch'io. Stiamo bene insieme.»
E continuammo a stare bene. La nostra camera era al decimo piano e aveva tutto ciò che ci serviva: era luminosa, ariosa, bene arredata e aveva un letto enorme. C'era persino la vista su Bainbridge Island, con un traghetto che si allontanava lentamente dalla riva. Non avrei potuto scegliere un panorama migliore. Dovevo farmi perdonare.
Il letto era coperto da una trapunta a righe verdi e dorate. Non mi premurai di toglierla. Ci lasciammo cadere sopra ridendo e chiacchierando, felici di essere lì insieme. Non ci eravamo resi conto di quanta nostalgia avevamo l'uno dell'altra.
«Non vuoi metterti comodo, Alex?» mi sussurrò Jamilla, tirandomi la camicia fuori dai pantaloni. «Non va meglio, così?»
«Molto meglio. Adesso tocca a te», le dissi. «Un pezzo per uno non fa male a nessuno.»
Cominciai a sbottonarle la camicetta e lei a sbottonare la mia. Non avevamo fretta: sapevamo che era meglio andare piano. Volevamo che durasse, facendo attenzione a ogni dettaglio, ogni bottone, assaporando la morbidezza della stoffa e della pelle, il respiro sempre più ansimante, il brivido di eccitazione, l'elettricità, le scintille e tutto quello che la notte insieme ci avrebbe riservato.
«Mi sembri allenato», mi sussurrò, ansante. Mi piaceva sentire la sua eccitazione.
Risi. «Sono allenato a sognarti», risposi.
«Slaccio anche questo bottone?» domandò.
«Meraviglioso.»
«E il prossimo?»
«Non so quanto ancora posso aspettare, Jamilla. Non sto scherzando.»
«Vedremo, vedremo. Neanch'io scherzo, sai?»
Quando ci fummo tolti le rispettive camicie, continuammo a baciarci e ad accarezzarci. Sentii che indossava Calèche Eau Delicate: sapeva che quel profumo mi piaceva. Siccome adorava farsi grattare, lo feci. Le spalle, poi la schiena, e quindi le braccia, il viso, le lunghe gambe, i piedi e di nuovo su lungo le gambe.
«Sei sempre più caldo», sospirò, e rise.
Scendemmo dal letto e ci abbracciammo, in piedi, dondolando e accarezzandoci. Poi le tolsi il reggiseno e le presi i seni fra le mani. «Non so quanto riesco ancora ad aspettare, ti ripeto.»
Era vero. Ero eccitatissimo, talmente turgido che mi faceva male. Scivolai in ginocchio sul tappeto persiano e le baciai il sesso. Era una donna forte e sicura e forse mi piaceva inginocchiarmi davanti a lei per questo. Ammirazione? Rispetto? Qualcosa del genere.
Mi rialzai in piedi. «Okay?» le sussurrai.
«Okay. Come vuoi tu: sono la tua schiava. O preferisci che sia la tua padrona? Facciamo tutte e due.»
La penetrai mentre eravamo ancora in piedi, ma poi ci lasciammo cadere sul letto. Ero perduto dentro di lei, in quel momento dolcissimo, dove era giusto che fossi. Lei ansimava e gemeva, proprio come piaceva a me.
«Mi sei mancata», le sussurrai. «Avevo voglia di vederti sorridere, di sentire la tua voce. Tutto.»
«Anch'io», mi rispose. E rise. «Ma soprattutto, mi mancava questo.»
Una decina di minuti dopo il telefono cominciò a squillare.
Per una volta, feci la cosa giusta: lo sbattei per terra, coprendolo con un guanciale. Se anche era il Lupo, che richiamasse la mattina dopo.
101
L'indomani mattina tornai nell'Idaho. Jamilla e io andammo all'aeroporto insieme, ma poi prendemmo voli diversi per destinazioni diverse. «Sbaglio enorme. Mossa stupida», mi disse, quando ci salutammo. «Dovresti venire a San Francisco con me. Hai bisogno di un po' di relax.» Aveva ragione.
Ma non era possibile. Corky Hancock era la pista migliore che avevamo e lo stavamo tenendo d'occhio: non c'era posto in tutto lo Stato in cui non potessimo vederlo e sentirlo. Sorvegliavamo continuamente la sua casa, il giardino e persino la stalla. Quattro unità mobili lo seguivano, supportate da altre quattro. Da quando ero partito, si era aggiunta anche la sorveglianza aerea.
Partecipai a una riunione con i quasi trenta agenti impegnati nell'operazione. Ci riunimmo in un piccolo cinema di Sun Valley. La sera era in programmazione Ventun grammi con Sean Penn e Naomi Watts, ma durante il giorno non c'erano spettacoli.
L'agente William Koch prese la parola per primo. Alto e dinoccolato, abbastanza imponente, indossava una camicia di cotone, jeans e vecchi stivali da cowboy. Faceva l'ingenuo provinciale, ma non ingannava nessuno. Lo stesso valeva anche per Bridget Rooney, una mora molto intelligente e sicura di sé.
«Parliamoci chiaro: o Hancock sa che lo teniamo d'occhio, oppure è un uomo straordinariamente prudente», disse Koch. «Non ha rivolto la parola a nessuno da quando è qui. Si è collegato a Internet: è andato su e-Bay a controllare le canne da pesca, è entrato in un paio di siti porno e in uno di fantabaseball. Ha una donna che si chiama Coral Lee e che abita a Ketchum. Di origini asiatiche, molto graziosa. Corky però è un cesso, quindi abbiamo pensato che le facesse dei gran bei regali. Abbiamo controllato ed è vero. Finora la ragazza gli è costata poco meno di duecentomila dollari in un anno. Viaggi, gioielli, una spider di quelle che piacciono tanto alle ragazze.»
Si interruppe e si guardò intorno. «Nient'altro. Ma sappiamo per certo che Hancock è legato al Lupo e che ha ricevuto un sacco di soldi per i servizi che gli ha fornito. Perciò a mezzanotte entreremo in casa sua a dare un'occhiata. Sono stufo di aspettare», concluse.
Qualcuno sorrise. Mi sentii dare una pacca sulla spalla, come se la decisione di entrare in azione fosse dipesa da me.
«Io non c'entro», dissi all'agente che si stava congratulando con me. «Sono un soldato semplice, qui.»
La squadra incaricata di entrare nella villa di Hancock era formata in prevalenza da agenti FBI, ma c'era anche qualcuno della CIA. Responsabile dell'operazione sarebbe stata Bridget Rooney. La CIA era nell'Idaho per dovere di cortesia, in virtù della nuova collaborazione fra le due agenzie, ma anche perché Hancock era legato all'omicidio di Thomas Weir. Tuttavia dubitavo che quelli della CIA desiderassero prendere quel bastardo più di quanto lo volevo io. Volevo arrivare al Lupo e, prima o poi, l'avrei beccato. Dovevo continuare a crederci.
102
Koch e la Rooney, che comandavano l'operazione, finalmente ci diedero l'okay e all'ora prestabilita circondammo la casa di Hancock. Ovunque girassi gli occhi, c'erano giacche a vento e maglie con l'emblema dell'FBI. Probabilmente spaventammo qualche lepre o qualche cervo, ma non sparammo neppure un colpo.
Hancock era a letto con la fidanzata. Aveva sessantaquattro anni, mentre Coral risultava averne ventisei. Aveva un fisico da modella, lunghi capelli corvini, lucentissimi, e molti anelli e monili. Dormiva nuda, sulla schiena.
Hancock aveva avuto la decenza di infilarsi una felpa degli Utah Jazz e dormiva raggomitolato in posizione fetale.
Ci gridò di tutto, cosa che fu piuttosto divertente. «Cosa cazzo fate? Uscite da casa mia!»
Ma si dimenticò di fare la faccia sorpresa, o forse era un pessimo attore. Fatto sta che ebbi la netta sensazione che si aspettasse il nostro arrivo. Ci aveva forse visto nei giorni precedenti? Oppure aveva ricevuto una soffiata da qualcuno all'interno delle forze dell'ordine? Il Lupo sapeva che tenevamo d'occhio Hancock?
Durante le prime ore di interrogatori, provammo su Hancock il siero della verità del dottor O'Connell. Non funzionò bene come su Joe Cahill. Hancock divenne tutto allegro, ma si appoggiò allo schienale e non disse quasi niente. Non confermò neppure le cose che Cahill aveva già confessato.
Nel frattempo perquisimmo la casa, le stalle e il giardino. Hancock possedeva un'Aston Martin decappottabile, e sapevamo che il Lupo amava le macchine veloci; a parte questo, non trovammo nulla di sospetto. La perquisizione andò avanti per tre giorni interi, nel corso dei quali un centinaio di agenti controllarono accuratamente tutta la proprietà, centimetro per centimetro. La squadra dei tecnici informatici, che comprendeva alcuni esperti dell'Intel e dell'lBM, cercò di entrare nei due computer di Hancock. Alla fine stabilirono che Hancock si era avvalso dell'aiuto di esperti per proteggere il contenuto dei suoi computer.
Non ci restava che aspettare. Lessi tutte le riviste e i quotidiani che trovai in casa di Hancock, compresi alcuni vecchi numeri dell'Idaho Mountain Express, andai a fare lunghe passeggiate e riflettei su cosa fare della mia vita. Non conclusi nulla, ma l'aria di montagna mi fece bene.
Quando finalmente i tecnici riuscirono a superare le barriere di sicurezza dei computer di Hancock, scoprimmo che non contenevano nulla di utile. Non c'era niente che potesse farci arrivare al Lupo o agli altri sospettati. O perlomeno non sembrava.
Il giorno successivo, invece, un informatico della sede di Austin, nel Texas, trovò un file all'interno di un altro file criptato, che conteneva una serie di comunicazioni regolari con una banca di Zurigo. Anzi, con un paio di banche svizzere.
A quel punto avevamo la conferma del fatto che Hancock era molto, molto ricco. Disponeva di oltre sei milioni di dollari. Come minimo. Era la notizia migliore che ricevevamo da molto tempo a quella parte.
E così partimmo per Zurigo. Non mi aspettavo di trovarci il Lupo. Non si sa mai, però. E comunque non ero mai stato in Svizzera. Jannie mi pregò di portarle un vagone di cioccolata e io le dissi di sì. Te ne porto una valigia piena, tesoro. È il minimo che io possa fare, non essendo stato con te quasi per niente, nell'ultimo anno.
103
Nei panni del Lupo, sarei andato a vivere a Zurigo. È una città bellissima e pulitissima, sull'omonimo lago, con tanto verde, bei sentieri panoramici e l'aria buona. Quando arrivai, minacciava un temporale e l'aria odorava di ottone. I palazzi erano tinteggiati di chiaro, sui toni del beige e del bianco. Molti avevano bandiere svizzere che sventolavano nella brezza che soffiava dal lago.
Mentre giravo in macchina per la città, notai binari del tram dappertutto. La potenza dei vecchi tempi! C'erano anche mucche in fibra di vetro di dimensioni naturali ovunque, dipinte con scene alpine, che mi fecero venire in mente Mu, il pupazzo preferito del piccolo Alex. Che cosa avrei fatto con lui? Che cosa potevo fare?
La banca di Zurigo era in un edificio anni Sessanta tutto acciaio e cristalli, vicinissimo al lago. Sandy Greenberg mi aveva dato appuntamento davanti al portone. Indossava un tailleur grigio, aveva una borsa nera a tracolla e sembrava un'impiegata della banca, più che un agente dell'Interpol.
«È la prima volta che vieni a Zurigo, Alex?» mi chiese, abbracciandomi e baciandomi.
«Sì. Ma ho avuto un coltellino svizzero, da piccolo.»
«Dobbiamo mangiare insieme: promettimelo. Adesso andiamo perché ci aspettano e gli svizzeri sono un popolo puntuale. Specie i banchieri.»
Gli interni della banca erano lussuosissimi, lucidissimi e più puliti di una sala operatoria. Gli sportelli erano di marmo e legno, i cassieri efficienti e gentili e parlavano sottovoce. Mi sfuggiva il branding, finché non vidi una serie di opere d'arte contemporanea alle pareti e capii che l'immagine della banca era quella.
«Zurigo è un paradiso per gli intellettuali e la cultura d'avanguardia», mi spiegò Sandy, senza abbassare la voce. «Il dadaismo è nato qui. E Wagner, Strauss e Jung ci hanno vissuto.»
«James Joyce ci ha scritto l'Ulisse», dissi, strizzandole l'occhio.
Sandy scoppiò a ridere. «Mi ero dimenticata che sotto sotto sei un intellettuale pure tu.»
Ci accompagnarono nell'ufficio del presidente della banca, che era sobrio e perfettamente in ordine: sulla scrivania c'era un'unica pratica. Tutte le altre erano archiviate in appositi classificatori.
Sandy porse al signor Delmar Pomeroy una busta. «È un mandato», spiegò. «Per esaminare il vostro conto corrente numero 616479Q.»
«Abbiamo già predisposto tutto», disse Pomeroy. E ci congedò. Il suo assistente ci mostrò tutte le operazioni del conto, entrate e uscite. E meno male che le banche svizzere erano famose per la loro riservatezza: era già stato predisposto tutto.
104
Le indagini sembravano procedere in maniera efficiente e ordinata, a quel punto. Peccato che io sapessi che non era propriamente così. Con Sandy e altri due agenti dell'Interpol esaminai tutte le operazioni sul conto di Corky Hancock in una saletta senza finestre nei sotterranei della banca. Il saldo dell'ex agente della CIA era salito da duecentomila dollari a poco più di sei milioni. Però.
I quattro versamenti più consistenti, per un totale di tre milioni e mezzo, erano stati effettuati tutti quell'anno.
Provenivano da un conto intestato a tal Y. Jikhomirov. Impiegammo un paio d'ore per ricostruire tutto. Erano oltre cento pagine di documenti, dal 1991. Che era l'anno in cui il Lupo era espatriato dalla Russia. Una semplice coincidenza? Non ci credevo. Non più.
Analizzammo con cura le uscite del conto di Jikhomirov. C'erano bonifici a favore di una ditta che noleggiava jet privati, pagamenti di biglietti aerei della British Airways e dell'Air France, di conti alberghieri presso il Claridge's e il Bel-Air a Los Angeles, lo Sherry-Netherland a New York, il Four Seasons a Chicago e Maui. E poi bonifici in America, Sudafrica, Australia, Parigi e Tel Aviv. Che dietro ci fosse il Lupo?
Un'operazione mi incuriosì particolarmente. Riguardava l'acquisto di quattro fuoriserie da un concessionario di Nizza, la Riviera Motors. Una Lotus, una Jaguar Special Edition e due Aston Martin.
«Il Lupo ama le macchine da corsa», dissi a Sandy. «Forse questo acquisto vuole dire qualcosa. Magari siamo più vicini di quanto ci aspettiamo. Che cosa ne pensi?»
Sandy assentì. «Già. Penso che dovremmo fare una visitina alla Riviera Motors. Nizza è una bella città. Prima, però, andiamo a pranzo. Me l'hai promesso, Alex.»
«Me l'hai fatto promettere tu», precisai. «Dopo la mia pietosa battuta a proposito del coltellino svizzero.»
Avevo fame, in ogni caso, e quindi l'idea di andare a pranzo mi allettava. Sandy scelse uno dei suoi locali preferiti, il Veltliner Keller, che secondo lei avrei apprezzato.
Entrando, mi spiegò che quel ristorante esisteva dal 1551, che era un bel record, per un esercizio commerciale. Per un'ora e mezzo ci dimenticammo del lavoro e gustammo una zuppa d'orzo tipica dell'Engadina, un gratin della casa e un ottimo vino. Era tutto molto curato, a cominciare dalle tovaglie candide fino alle rose nei vasi d'argento e alle saliere di cristallo.
«Hai avuto un'idea fantastica», dissi a Sandy quando stavamo finendo di mangiare. «Ci voleva proprio una piccola pausa.»
«Si chiama pranzo, Alex. Dovresti farlo più spesso. Dovresti venire in Europa con la tua fidanzata Jamilla. Lavori troppo.»
«Si vede?»
«No, a dire la verità sembri in ottima forma. Sei meglio di Denzel, sai? Negli ultimi film mi è sembrato un po' invecchiato. Tu invece sei sempre uguale. Non so come fai. Ma ho la sensazione che tu sia tormentato dentro. Be', ora finiamo di mangiare tranquilli e andiamo a Nizza a controllare quel concessionario. Ci faremo una piccola vacanza e chissà che nel frattempo non prendiamo anche l'assassino. Finisci il vino, dai.»
«Okay», dissi. «Ma prima devo comprare del cioccolato per Jannie. Le ho promesso che gliene avrei portato una valigia piena.»
«Hai promesso anche di catturare il Lupo?» chiese Sandy.
«Sì, certo.»
105
Prossima tappa, Nizza. La Riviera Motors, «concessionaire exclusif Jaguar, Aston Martin, Lotus». Mi sembrava di essere in un film di Hitchcock.
Nella showroom erano allineati macchinoni neri e lucenti, visibili dalla strada attraverso enormi vetrine. Il pavimento era bianco, a dare maggior risalto a quelle auto da sogno.
«Che cosa ne pensi?» chiese Sandy scendendo dalla Peugeot che avevamo noleggiato e lasciato di fronte all'autosalone.
«Penso che dovrei comprare una macchina nuova», risposi. «E che è noto che il Lupo ama le auto di grossa cilindrata.»
Entrammo e ci fermammo al banco della reception, dove una signorina molto elegante, abbronzata e con una coda di cavallo biondo platino, ci soppesò. Alti, lui nero e lei bianca: chi mai saranno 'sti due?
«Vorremmo parlare con Monsieur Garnier», disse Sandy in francese.
«Avete un appuntamento, Madame?»
«Sì. Siamo rispettivamente dell'Interpol e dell'FBI. Monsieur Garnier ci sta aspettando, penso. Dobbiamo parlare di alcune cose molto importanti.»
Mentre aspettavamo, ci demmo un'occhiata in giro. Le auto erano sistemate a spina di pesce e intervallate da piante in vaso. Nell'officina adiacente, alcuni meccanici in tuta verde Jaguar lavoravano con attrezzi di una pulizia impeccabile.
Il concessionario si fece attendere soltanto qualche minuto. Indossava un elegante completo grigio, piuttosto sobrio ma evidentemente firmato, che gli stava a pennello.
«Siete qui per due Aston Martin, una Jaguar e una Lotus?»
«Esattamente», disse Sandy. «Possiamo andare a parlare nel suo ufficio? Non vorremmo spaventarle i clienti.»
L'uomo sorrise. «Mi creda, Madame, la nostra reputazione è a prova di bomba.»
«Vedremo», replicai io, in francese. «Stiamo indagando su un assassino.»
106
Monsieur Garnier divenne subito più gentile e collaborativo. Le quattro automobili in questione erano state acquistate da un certo M. Aglionby, che apparentemente aveva una casa a Cap Ferrat. «Sulla Basse Comiche, la strada lungo la costa che porta a Monaco», ci spiegò. «Non potete sbagliare. State tranquilli, non è una residenza che passi inosservata.»
«Caccia al ladro», disse Sandy, mentre andavamo verso Cap Ferrat, due ore dopo. Avevamo perso un po' di tempo ad aspettare rinforzi.
«Le scene più memorabili di quel film sono state girate lassù», proseguì Sandy, indicandomi la strada parallela alla nostra, ma un centinaio di metri più in alto. Sembrava molto pericolosa.
«Caccia all'assassino senza scrupoli», dissi io. «Molto meno spiritoso e affascinante di Cary Grant.»
«Giusto», fece Sandy. «Non lasciarmi perdere la concentrazione: questo luogo tende a distrarmi.» Ma io sapevo perfettamente che invece era concentratissima. Lo era sempre: per questo andavamo d'accordo.
La villa di Aglionby era a ovest del capo, a Villefranche-sur-Mer. Dietro a muri di pietra imbiancati si intravedevano ville e parchi lungo tutto il Boulevard Circulaire. Avevamo dietro una decina di macchine e furgoni. Anche loro si godevano il panorama, senza dubbio: la Rolls-Royce decappottabile blu, lucidissima, che stava uscendo da una delle proprietà con al volante una bionda con un foulard e occhiali scuri; i turisti che prendevano il sole sulla terrazza del Grand-Hotel du Cap-Ferrat, la piscina scavata nella roccia dello stabilimento Piscine de Sun Beach.
«Pensi che sarà un viaggio a vuoto, Alex?» mi chiese Sandy.
«È possibile. Per una che se ne azzecca, se ne fanno un sacco inutili. Ma questa volta il mio istinto mi dice che andrà bene. Ho la sensazione che Monsieur Aglionby sia coinvolto in questa sporca faccenda.»
Lo speravo, comunque. Sul conto svizzero di Corky Hancock c'erano un sacco di soldi, la maggior parte dei quali erano stati versati di recente. Che cosa poteva sapere lui del Lupo, però? Chi ne sapeva qualcosa?
Vedemmo subito la villa che cercavamo. Sandy passò oltre. «Ti abbiamo beccato!» disse. «Aglionby? Il Lupo? E perché no?»
«Per abitare in una villa così, deve avere un sacco di soldi. Gesù, quanto costerà?»
«Per un miliardario è abbastanza modesta, Alex. Non è tanto questa villa: chissà quante altre ne avrà... In Costa Azzurra, a Londra, Parigi, Aspen.»
«Se lo dici tu. Non sono mai stato miliardario, quindi non lo so. Né ho mai posseduto una villa in riviera.»
Era in stile mediterraneo, beige e bianca, esposta benissimo, con terrazzi e porticati e le persiane chiuse per ripararsi dal sole di mezzogiorno. O forse per non farsi vedere da fuori... Quattro piani, trenta e passa stanze: una piccola reggia.
A noi, per il momento, bastava darle un'occhiata. Come avevamo programmato poco prima, incontrammo alcuni esponenti della polizia locale in un vicino albergo sul mare. Il piano era di entrare nella proprietà di Aglionby dal giardino dei vicini, sul lato sud. In quel momento i padroni non c'erano e la proprietà era presidiata solo dalla numerosa servitù. L'idea era di vestirsi da giardinieri e cuochi e di colpire il giorno dopo.
Sandy e io ascoltammo attentamente, scuotendo la testa. No, stavolta no.
Intervenni: «Noi entriamo stanotte. Con o senza il vostro aiuto».
107
La decisione di entrare subito in azione venne appoggiata con entusiasmo dall'Interpol e persino da Parigi, che era in contatto con Washington e voleva fermare il Lupo come tutto il resto del mondo, se non di più. Tutto accadde in fretta, quel pomeriggio. Anch'io facevo parte della squadra. E Sandy pure.
Avevamo pianificato il raid come se nella villa ci fosse il Lupo. Sette squadre di due tiratori scelti ciascuna erano appostate sui quattro lati della proprietà, che erano stati denominati bianco (nord), rosso (est), nero (sud) e verde (ovest). Porte e finestre erano tutte sotto tiro. I tiratori, ciascuno con un determinato numero di obiettivi, erano i più vicini alla villa: erano i nostri occhi e le nostre orecchie.
Fino a quel momento, non sembrava che fossimo stati visti.
Mentre i tiratori scelti prendevano posizione, noi di Interpol, FBI, polizia ed esercito francese ci attrezzavamo con tute nere e giubbotti antiproiettile, pistole e mitragliatrici MP-5. A circa un chilometro di distanza erano pronti gli elicotteri che ci avrebbero affiancato durante l'assalto. Stavamo aspettando il via, ma c'erano alcuni di noi che temevano che all'ultimo minuto potesse succedere qualcosa: ripensamenti politici, paura nelle alte sfere, un imprevisto qualsiasi.
Ero sdraiato sulla pancia accanto a Sandy Greenberg, a meno di cento metri dalla villa, e cominciavo a sentir crescere l'agitazione. In quella casa poteva esserci il Lupo. Forse era Aglionby.
In casa le luci erano accese, ma dopo mezzanotte non vedemmo più nessuno passare davanti alle finestre illuminate. La sorveglianza era scarsa: soltanto un paio di guardie.
«Che silenzio», disse Sandy. «Non so se questa cosa mi piace, Alex. Troppo poche guardie del corpo.»
«Sono le due del mattino.»
«Avresti mai più detto che avremmo fatto un raid?» domandò Sandy.
Sorrisi. «Perché? Stiamo facendo un raid? No, non mi sorprende. Ricordati che i francesi vogliono prendere il Lupo almeno quanto noi.»
Arrivò il segnale: potevamo partire. Sandy e io facevamo parte della seconda squadra d'assalto e cominciammo a correre verso la villa quarantacinque secondi dopo la prima. Entrammo dal retro. Era tutto buio. Ci ritrovammo in cucina, dove qualcuno aveva acceso le luci e per terra c'era una guardia, ammanettata. La stanza era tutta marmi, con quattro fornelli al centro. Notai una grossa ciotola di cristallo sul tavolo e diedi un'occhiata a ciò che conteneva.
Sembravano nasi neri, ma erano fichi. Sorrisi fra me.
Poi imboccai con Sandy il lungo corridoio. Fino a quel momento non si erano sentiti spari. Un sacco di altri rumori, ma nessuna sparatoria.
Arrivammo a un salotto di proporzioni diplomatiche, con lampadari di cristallo che pendevano dal soffitto e pavimento in marmo. Alle pareti, quadri scuri e solenni di artisti francesi e fiamminghi.
Ma del Lupo neanche l'ombra.
«Ci prendono l'aperitivo o ci firmano dei trattati, qua dentro?» domandò Sandy. «Perché non reagiscono, Alex? Che cosa succede? Il russo è qui o no?»
Salimmo di sopra, dove i militari francesi stavano facendo uscire dalle camere da letto alcuni uomini e donne più o meno svestiti. Nessuno era particolarmente sexy, però. In compenso erano tutti spaventati.
Non vidi nessuno che potesse essere il Lupo. D'altra parte, che cosa ne sapevo io di com'era fatto il Lupo? Nessuno l'aveva mai visto.
Cominciammo subito gli interrogatori. Dov'è il Lupo? Chi è Aglionby?
Perquisimmo la casa due volte, e poi anche una terza.
Marcel Aglionby non c'era, ci venne ripetuto da diversi ospiti. Era a New York per lavoro. C'era una delle figlie, che aveva dato una festa, invitato degli amici. Alcuni, tuttavia, dimostravano il doppio dei suoi anni. Suo padre era un banchiere rispettabile, giurò e spergiurò la ragazza. Non era assolutamente un criminale. Figuriamoci se era il Lupo.
Che fosse il banchiere del Lupo, allora? Avrebbe saputo dirci qualcosa?
Mi scocciava ammetterlo, ma era innegabile: il Lupo ci aveva battuti di nuovo.
108
Perquisimmo la villa un'ultima volta, nonostante le proteste della figlia di Aglionby, controllando ogni angolo.
Era una casa stupenda, piena di mobili antichi e opere d'arte. Sandy aveva l'impressione che i padroni di casa si fossero ispirati alla vicina Fiorentina, che era considerata una delle più belle case del mondo. Di certo avevano gusti raffinati e potevano permettersi ogni lusso. L'arredamento comprendeva alcuni pezzi Luigi XVI dipinti a mano, lampadari Luigi XV, antichi tappeti turchi, paraventi cinesi, arazzi e un gran numero di dipinti, classici e moderni. Opere di Fragonard, Goya, Brueghel. Li aveva pagati il Lupo? E perché no? Aveva oltre due miliardi di dollari...
Riunimmo i «sospetti» nella sala da biliardo, che conteneva tre tavoli da biliardo e un numero spropositato di divani, come nel salotto, dello stesso stile. Possibile che nessuno sapesse niente sul conto del Lupo? Era più probabile che quella gente conoscesse Paris e Nicky Hilton.
«C'è qualcuno che vuole parlare a nome di tutti?» chiese il capo dei poliziotti francesi.
Nessuno si offrì volontario, nessuno rispose alle domande.
«Va bene, separiamoli e cominciamo a interrogarli uno per uno. Qualcuno prima o poi parlerà», disse il capo della polizia.
Non essendomi stato chiesto di partecipare agli interrogatori, uscii a fare un giro e scesi verso il mare. Avevamo seguito un'altra pista sbagliata? I giochetti del Lupo, le sue strategie e controstrategie, ci avevano confuso sin dal principio. Era improbabile che smettesse di menarci per il naso proprio adesso.
Sulla riva c'era una rimessa per le barche. Grande, molto grande. Era a un centinaio di metri dalla villa. Era stata trasformata in garage e conteneva oltre trenta automobili di gran lusso, sportive e berline. Forse avevamo finalmente scoperto qualcosa. Una prova che il Lupo era stato lì. O era l'ennesima presa in giro?
Ero lì, fra la rimessa e la spiaggia, quando scoppiò il finimondo.
109
Non aveva altro che il suo pezzo del puzzle, una piccola parte di un piano grandioso. Ma era sufficiente. Bari Naffis sapeva che c'era stata un'incursione nella proprietà di Villefranche-sur-Mer e che per questo nel giro di un'ora sarebbero morti tutti, compresi i suoi amici e la ragazza con cui era andato a letto, una modella di Amburgo. Bella, e preziosa.
La polizia e l'esercito francese avevano occupato la villa. Adesso toccava a Bari. Aveva una missione da compiere. Non sapeva come fosse potuto succedere, ma era successo.
Svoltando sulla D125, il Boulevard Circulaire, gli sembrava di essere già in ritardo. Ma aveva ricevuto ordini precisi. Evidentemente qualcuno aveva previsto anche questo.
Il Lupo se l'aspettava. Quell'uomo aveva gli occhi anche dietro la testa. Faceva davvero paura.
Bari Naffis non sapeva, né voleva sapere altro. Era stato pagato profumatamente e in anticipo, per quel lavoro assurdo e deplorevole. Perché uccidere e ferire tanta gente?
Mezz'ora prima aveva ricevuto un segnale radio dalla villa nella sua camera d'albergo: il rumore l'aveva riscosso da un sonno profondo.
Si era buttato giù dal letto, si era vestito ed era corso a prendere posizione in un terreno a monte della villa. Cercava di non pensare ai suoi amici e alla ragazza di Amburgo, che erano dentro la casa. Chissà, forse la modella sarebbe sopravvissuta.
Non c'era niente da fare: non poteva andare contro le istruzioni del Lupo per una ragazza. Corse fra gli alberi, nella fitta vegetazione. Aveva un lanciamissili portatile, l'arma più scomoda del mondo. Era lungo un metro e mezzo e pesava una quindicina di chili, ma era molto ben bilanciato e aveva un'impugnatura a fucile. Sparava un missile Stinger FIM-92A e lì nel bosco ce n'erano altri due, con altrettanti operatori. Ognuno aveva un compito da svolgere. A ognuno il suo pezzo del piano.
Chissà se anche gli altri sicari avevano i suoi stessi dubbi, le sue esitazioni.
Era stata tesa una trappola alle forze dell'ordine.
Una morte terribile aspettava tutti quelli che erano nella villa. Sarebbero andati tutti al Creatore, poliziotti e non. Una carneficina.
Quando arrivò in posizione, a circa cinquecento metri dalla villa, si mise il tubo sulla spalla, posò la mano destra sull'impugnatura e prese la mira. Teneva il lanciamissili come fosse stato un fucile convenzionale, benché fosse tutt'altro che convenzionale.
Trovò facilmente il suo bersaglio: non si poteva mancare una villa. Rimase in attesa del via in cuffia.
Non gli piaceva. Immaginava la bellissima tedesca. Si chiamava Jeri ed era dolcissima, con un corpo stupendo. Aspettando, quasi sperava che il segnale non arrivasse. Per il bene di Jeri e di tutti gli altri poveracci dentro quella casa.
Invece il segnale arrivò. Elettronico, impersonale come il funerale di uno sconosciuto. Un lieve fischio nelle orecchie.
Due brevi e uno lungo.
Bari trasse un profondo respiro, poi buttò fuori l'aria lentamente e, riluttante, premette il grilletto.
Sentì un leggero rinculo, più lieve di quello di un fucile.
Il motore primario si accese, lanciando il missile a una decina di metri di distanza. A quel punto si sarebbe attivato il sistema di propulsione secondario.
Seguì con gli occhi la scia di vapore lasciata dal razzo. Lo Stinger stava per colpire il bersaglio. Con un rombo cupo, il missile accelerò, raggiungendo i duemilacinquecento chilometri orari.
Cerca di salvarti, Jeri.
Lo Stinger colpì la casa e Bari si preparò al secondo lancio.
110
Si sentirono dei sibili sinistri e quindi una serie di esplosioni. Guardai e vidi morte e confusione ovunque.
I militari e i poliziotti francesi correvano a cercare riparo. Un missile doveva aver colpito il tetto della villa a nord, proiettando tegole, mattoni e pezzi di legno in tutte le direzioni. Poi arrivò un secondo missile e poi ancora un terzo.
Stavo correndo verso la villa, quando ebbi la seconda sorpresa.
Una porta della rimessa si aprì e una Mercedes blu percorse sgommando il vialetto di ghiaia che portava alla strada. Corsi verso un'auto della polizia parcheggiata sull'erba, la misi in moto e partii all'inseguimento.
Non ebbi tempo di avvertire nessuno del mio piano. Neppure Sandy. Mi chiesi se un'auto della polizia potesse stare dietro a una Mercedes truccata. Probabilmente no. Anzi, quasi certamente no.
Riuscii a non perdere di vista la potente CL55 fino a dopo Cap Ferrat, lungo la Basse Corniche. Rischiavo di lasciarci le penne e di ammazzare anche altre persone, in quella strada tutta curve, ma non volevo assolutamente farmi seminare.
Chi c'era a bordo? Perché stava scappando? Possibile che fosse il Lupo?
Il traffico verso Monaco era intenso. Vidi le luci di un carro attrezzi e capii che qualche poveraccio aveva avuto un incidente su quella strada tortuosa. Iniziai a sperare. Il traffico rallentava davanti alla Mercedes, che di punto in bianco fece inversione e partì in direzione ovest.
Procedeva a gran velocità, superando una serie infinita di insegne di locali e ristoranti. E io gli tenevo dietro.
Dietro una curva mi apparve Villefranche-sur-Mer in tutto il suo splendore. La baia era magnifica, con la luna piena nel cielo e tanti yacht e barche a vela. Sembrava il bagnetto di un bambino ricco. In discesa la Mercedes accelerò ulteriormente. Doveva fare i centocinquanta chilometri all'ora. Mi venne in mente che avevo letto che quell'auto aveva una potenza di cinquecento cavalli. Non mi stupivo.
Stavamo entrando a Nizza e io ero sempre più vicino. Le strade erano strette e incredibilmente affollate, specie intorno ai bar e ai night-club. Cioè ovunque. Per fortuna.
La Mercedes mancò di un pelo un gruppetto di ubriachi che usciva dall'Etoile Filante.
Suonando il clacson, continuai l'inseguimento, scatenando le proteste e le urla dei passanti.
L'auto davanti a me svoltò bruscamente sulla N7, la Moyenne Corniche, la strada in quota.
La seguii sapendo che rischiavo di perderla da un momento all'altro. Ma chi avrei perso? Chi si trovava a bordo di quella Mercedes blu?
La strada si inerpicava, tortuosa. Stavamo tornando verso Monaco, ma lì non c'era traffico e la Mercedes andava a velocità elevatissima. Evidentemente la persona che la guidava sapeva che, tornando indietro, avrebbe fatto prima e avrebbe potuto viaggiare a una velocità impossibile per una macchina della polizia.
Dopo un paio di chilometri ebbi la certezza che mi avrebbe seminato. Eravamo di nuovo all'altezza di Villefranche, ma in quota. La vista su Cap Ferrat e Beaulieu era mozzafiato. Non potevo non guardarla: anche a quella folle velocità era una gioia per gli occhi.
Non potevo arrendermi, e premetti ulteriormente sull'acceleratore. Quanto ancora sarei riuscito a stargli dietro?
Entrammo in una galleria buia e, quando sbucammo, mi ritrovai in un villaggio medievale in cima a un dirupo, Eze.
Appena superato il villaggio, la strada diventò pericolosa. Sembrava che la Moyenne Corniche fosse stata appiccicata con lo scotch al pendio roccioso. Il mare, di sotto, era cangiante e passava dall'azzurro all'opale e al grigio argento.
Sentii profumo di agrumi. La paura, a volte, acuisce i sensi.
La Mercedes mi stava seminando e io feci l'unica cosa che potevo fare. Invece di rallentare prima della curva successiva, accelerai.
111
Cominciavo ad accorciare le distanze e perciò continuai ad andare a tavoletta, chiedendomi se non avessi per caso un istinto suicida.
A un certo punto la Mercedes sbandò finendo sulla corsia opposta e toccò la parete di roccia. In realtà la sfiorò appena, ma a quella velocità fece un testacoda, spostandosi da una corsia all'altra, e carambolò di nuovo contro la roccia. Poi prese il volo.
Era a mezz'aria, stava precipitando in mare.
Inchiodai e scesi di corsa dall'auto. Vidi la Mercedes rimbalzare contro la parete rocciosa e cadere sulla strada più in basso. Non potevo certamente raggiungerla. Come avrei potuto? In corda doppia?
Scorsi un intrico di lamiere contorte e immaginai che il conducente fosse morto. Chi sarà stato?
Tornai alla macchina della polizia di cui mi ero impossessato alla villa. Mi ci vollero dieci minuti o quasi per scendere sull'altra strada e raggiungere la Mercedes incidentata. La polizia francese e le ambulanze erano già sul posto. Si era anche raccolto un gruppo di curiosi.
Scesi dalla mia macchina e vidi subito che il ferito non era ancora stato estratto dalle lamiere. I soccorritori stavano lavorando per riuscire a tirarlo fuori. Notai che gli parlavano. Chi era?
Uno gridò: «È ancora vivo! È un uomo. È ancora vivo!»
Corsi verso la Mercedes per vedere com'era fatto. Chi era? Mi avrebbe detto qualcosa? Lanciai un'occhiata alla Moyenne Corniche e mi chiesi come avesse potuto cavarsela dopo un volo così. Si sapeva che il Lupo era un duro, ma possibile che fosse sopravvissuto a un volo del genere?
Mostrai il mio tesserino ai poliziotti, che mi lasciarono avvicinare.
E così lo vidi. Conoscevo l'uomo intrappolato fra le lamiere. Non potevo crederci, però. Non riuscivo a credere ai miei occhi.
Mi batteva fortissimo il cuore e avevo la mente totalmente in subbuglio. Mi chinai sull'auto rovesciata, da cui si alzava un filo di fumo, e quindi mi inginocchiai per terra e mi protesi verso l'abitacolo semidistrutto.
«Sono Alex», dissi.
L'uomo mi guardò, cercando di mettermi a fuoco. Era intrappolato fra le lamiere, imprigionato fino al petto. Era uno spettacolo raccapricciante.
Tuttavia Martin Lodge era ancora vivo. Stava tenendo duro. Mi parve sul punto di dire qualcosa e mi avvicinai ancora. «Sono Alex», ripetei. Gli accostai l'orecchio alla bocca.
Volevo sapere chi era il Lupo. Volevo sapere tante cose.
Martin sussurrò: «Tutto questo per niente. La tua caccia all'uomo è inutile. Non sono io il Lupo. Non l'ho mai nemmeno visto».
Detto questo, spirò, lasciando a bocca asciutta me e tutti gli altri che aspettavano delle risposte.
112
La famiglia Lodge era sotto custodia cautelare, in Inghilterra. Avevamo la sensazione che, se il Lupo avesse sospettato che la moglie o i figli di Martin Lodge sapessero qualcosa di compromettente, li avrebbe fatti uccidere. Era possibile che li facesse giustiziare comunque, per sicurezza, o anche solo per divertirsi un po'.
Partii per Londra la mattina dopo e parlai con il superiore di Martin Lodge a Scotland Yard. Si chiamava John Mortenson. Prima di tutto, mi riferì che nessuno dei sopravvissuti alla strage di Cap Ferrar sembrava saper nulla del Lupo, o di Martin Lodge.
«Ma un piccolo sviluppo c'è stato», aggiunse poi.
Mi appoggiai allo schienale della poltroncina di pelle da cui vedevo Buckingham Palace. «A questo punto, non mi stupisco più di niente. Mi dica tutto, John. Riguarda la famiglia Lodge?»
Mortenson sospirò e annuì. «Tutto cominciò con Klara Cernohosska in Lodge. Martin era nella squadra che aiutò a far espatriare dalla Russia il disertore Edward Morozov nel 1993. Era insieme con Cahill, Hancock e Thomas Weir della CIA. Il problema era che il disertore non era Edward Morozov, ma un ex agente del KGB che non fu mai identificato e che sospettiamo fosse il Lupo.»
«Diceva della moglie di Martin, Klara. Che cosa ha fatto?»
«Tanto per cominciare, non è ceca. Uscì dalla Russia insieme con l'uomo che si faceva chiamare Morozov. Era l'assistente del capo del KGB, oltre che la nostra principale fonte di informazioni a Mosca. Pare che lei e Martin avessero legato durante il passaggio. Lei poi fu trasferita in Inghilterra. Martin la aiutò a cambiare identità e cancellò tutti i dossier che la riguardavano. Poi la sposò. Che cosa ne dice?»
«Dico che Klara Cernohosska sa chi è il Lupo e che faccia ha. Giusto?»
«Non sappiamo che cosa sappia. Si rifiuta di parlare. Non è detto però che con lei non si sbottoni, dottor Cross.»
Mi appoggiai allo schienale e scossi la testa. «Perché dovrebbe? L'ho vista una volta soltanto...»
Mortenson fece spallucce e accennò un sorriso. «Klara dice che suo marito si fidava di lei. Ci crede? Che cosa significa, secondo lei? Perché dovrebbe fidarsi di un uomo che ha visto una volta soltanto?»
Purtroppo, non ne avevo la più pallida idea.
113
La famiglia Lodge era sotto sorveglianza a Shepton Mallet, una località a circa duecentocinquanta chilometri da Londra. In mezzo alla campagna verdeggiante, era un nascondiglio perfetto, anche se temporaneo.
Si trattava di un casolare ristrutturato in una strada senza uscita appena fuori del paese. Il terreno era abbastanza pianeggiante e chiunque avesse tentato di avvicinarsi sarebbe stato visibile a chilometri di distanza. La fattoria era protetta da un manipolo di guardie armate fino ai denti.
Arrivai verso le sei di quella sera stessa. La casa era bene arredata, con mobili antichi. Cenammo in una sorta di bunker sotterraneo, però.
Non era stata Klara a preparare la cena e io mi chiesi se approvasse il menu. Ne dubitavo. Il cibo era piuttosto cattivo: sembrava quello che servivano in aereo. «Niente michana vejce, stasera», dissi, cercando di fare lo spiritoso.
«Ricorda la colazione insieme a Battersea, Alex. E persino la pronuncia. Mi fa piacere», disse Klara. «È un buon osservatore. Martin lo diceva, che lei era un professionista in gamba.»
Finito di mangiare, Hana, Daniela e Jozef salirono in camera loro a fare i compiti. Klara rimase con me e si accese una sigaretta. Aspirava lunghe boccate di fumo, che poi espirava lentamente.
«I compiti?» domandai stupito. «Anche qui? Stasera?»
«È importante avere una disciplina, buone abitudini su cui contare. Io ne sono convinta. Dunque lei era con Martin, quando è morto?» mi chiese. «Che cosa le ha detto? La prego, mi racconti tutto.»
Riflettei, prima di rispondere. Che cosa voleva sentirsi dire Klara? E che cosa mi conveniva dirle?
«Mi ha detto che non era lui il Lupo. È vero, Klara?»
«Tutto qui? Cos'altro le ha detto?»
Presi in considerazione di dirle che aveva parlato di lei e dei bambini, ma non lo feci: non volevo mentirle. Non ne sarei stato in grado. «Niente, Klara, tutto qui. Non c'è stato molto tempo. Solo pochi secondi. Non ha sofferto troppo. Era sotto shock.»
Klara annuì. «Martin me l'aveva detto che potevo fidarmi di lei. La trovava fin troppo sincero. Lo so che mio marito non può aver detto niente di sentimentale nemmeno in punto di morte.»
La guardai nei profondi occhi scuri, che sembravano straordinariamente vivaci.
«Le dispiace, Klara?» le chiesi.
Scoppiò a ridere. «Lo amavo per questo.»
Aveva alcune cose da dirmi, quella sera, nella campagna inglese. Iniziò una trattativa fra noi. Ascoltai le sue richieste.
«Voglio un salvacondotto per l'estero per me e i ragazzi. Nuove identità e la possibilità di portare con noi un po' dei nostri risparmi. Le dirò dove vogliamo andare a stare in un secondo tempo. Per ora, no.»
«Praga?» chiesi. Era una battuta.
«No, di certo non Praga, Alex. E nemmeno in Russia. Né in America, peraltro. Glielo dirò a tempo debito. Prima, però, stabiliamo che cosa volete in cambio del salvacondotto.»
«Vogliamo molto, Klara», risposi. «Vogliamo il Lupo. Che cosa sa di lui? Chi è? Dov'è? Che cosa le ha detto Martin?»
Sorrise. «Tutto. Martin mi adorava: non aveva segreti per me.»
114
Il Lupo atterrò con il suo aereo privato all'aeroporto di Teterboro, nel nord del New Jersey. Ad aspettarlo c'era una Range Rover nera con cui andò a New York City, città che disprezzava da sempre. C'era un traffico infernale come al solito e gli ci volle di più ad arrivare a Manhattan da Teterboro che a volare dal New Hampshire al New Jersey.
Lo studio del chirurgo era in Sixty-third Street, vicino a Fifth Avenue. Parcheggiò la Range Rover ed entrò velocemente.
Erano le nove del mattino appena passate. Non si premurò di controllare se qualcuno lo seguiva. Lo riteneva improbabile e comunque non avrebbe potuto farci nulla, ormai. In ogni caso aveva già predisposto una serie di piani alternativi, come al solito.
L'infermiera dello studio faceva anche da segretaria. Quel giorno c'erano solo lei e il chirurgo plastico. Il Lupo aveva insistito perché lo staff fosse ridotto al minimo e perché non ci fossero altri pazienti.
«Questi sono i moduli che deve leggere e firmare», gli disse la donna con un sorriso teso. Forse non sapeva chi era, ma sospettava avesse dei buoni motivi per pretendere una tale segretezza e per sborsare tutti quei soldi.
«Non firmo un bel niente, io», dichiarò il Lupo, spingendola da una parte per andare dalla dottoressa Levine. La trovò nella piccola sala operatoria, già illuminata e molto fredda.
«Mi ricorda la Siberia. Il gulag in cui trascorsi un lungo inverno», disse.
La dottoressa si voltò: era una quarantenne graziosa, snella e giovanile. Se la sarebbe fatta volentieri, ma non era dell'umore giusto. Magari dopo, pensò.
Le strinse la mano. «Dottoressa Levine, sono pronto. Non voglio restare qui per più di qualche ora, quindi è meglio che cominciamo subito.»
«Oh, non è possibile», iniziò a obiettare la dottoressa.
Il Lupo alzò una mano per farla tacere e per un istante parve che stesse per darle uno schiaffo. La dottoressa trasalì.
«Non ho bisogno di anestesia. Come le ho detto: sono pronto. Anche lei è pronta.»
«Non sa quel che dice, mi creda. Lei ha chiesto un intervento al volto, al collo, liposuzione, impianti a zigomi e mascelle. Il dolore sarà insopportabile. Glielo assicuro.»
«Io lo sopporterò. Ho già patito di peggio», disse il Lupo. «Le consento unicamente di monitorare i miei segni vitali. Sull'anestesia generale non ci sono discussioni. Mi prepari per l'intervento. Altrimenti...»
«Altrimenti?» chiese la dottoressa, irritata, dondolando sui talloni.
«Altrimenti», ribadì il Lupo. «Non occorre che io sia più specifico, le pare? Il campo è vasto e comprende sofferenze molto superiori a quelle che lei ritiene io non possa sopportare. Ha una soglia del dolore altrettanto alta, dottoressa Levine? E i suoi figli, Martin e Amy? Suo marito Jerrold? Su, cominciamo. Ho dei tempi da rispettare.»
Piani, programmi, scadenze.
Sempre.
115
Non diede un grido, non emise suono per tutta la durata dell'operazione. Né il chirurgo né la sua assistente riuscivano a capacitarsene. Sembrava che il paziente non avesse la minima sensibilità. Come spesso succedeva agli operati di sesso maschile, perse parecchio sangue e il suo volto si coprì di lividi. Il dolore della rinoplastica, che durò un'ora e mezzo, dovette essere di gran lunga il peggiore, soprattutto quando gli asportò frammenti di osso e cartilagine senza neppure un anestetico locale.
Al termine della plastica al naso, l'ultima fase dell'intervento, la dottoressa gli raccomandò di restare immobile. Ma il Lupo si alzò subito in piedi.
Aveva il collo gonfio e dolente e macchie di Betadine sulla testa e sotto il mento. «Non male», disse con un filo di voce. «Ho vissuto di peggio.»
«Non si soffi il naso per almeno una settimana», gli raccomandò la dottoressa, quasi con quel consiglio cercasse di mantenere un po' di dignità e di controllo della situazione.
Il Lupo si infilò una mano in tasca ed estrasse un fazzoletto, ma poi lo ripose subito. «Scherzavo», disse. Si incupì. «Non ha proprio nessun senso dell'umorismo, vero, dottoressa?»
«Le sconsiglio anche di guidare», disse il chirurgo. «Vivamente. Per il bene suo e degli altri.»
«Certo. Non metterei mai a rischio la vita del mio prossimo. Lascerò qui la macchina, alla mercé di quelli della rimozione forzata. Pago subito il conto, dottoressa: sto iniziando a stufarmi della sua compagnia.»
Fu in quel momento, mentre prendeva la valigetta, che ebbe un piccolo tentennamento. Barcollò appena, poi si vide allo specchio: era incredibilmente livido e gonfio in viso. Almeno per quel poco che si vedeva spuntare dalle bende.
«Ha fatto un bel lavoro», decretò. E scoppiò in un'aspra risata.
Aprì la valigetta, prese una Beretta munita di silenziatore e sparò due colpi in faccia all'infermiera sbigottita. Quindi si voltò verso la dottoressa Levine, che gli aveva inflitto così tanto dolore.
«Altre raccomandazioni, dottoressa?» le domandò. «Vuole darmi un ultimo consiglio prima di andarsene?»
«I miei figli. La prego, non mi uccida», lo supplicò la dottoressa. «Lei sa che sono madre.»
«Staranno meglio senza di lei, credo. È una grandissima rompipalle, sa? Scommetto che anche i suoi figli la pensano così.»
Le sparò al cuore. Sono stato fin troppo buono, tenuto conto di come mi hai torturato, pensò. Gli era antipatica: non aveva il minimo senso dell'umorismo.
Alla fine uscì dallo studio medico e si avvicinò alla Range Rover. Nessuno sapeva che faccia aveva adesso. Nessuno al mondo sarebbe più stato in grado di riconoscerlo.
Gli scappava da ridere. Ecco qual era il suo pezzo del puzzle.
116
«È lui. Deve essere lui.»
«Cos'avrà mai da ridere? Guardalo. Ci credi?»
«Sembra che gli abbiano fatto lo scalpo e lo abbiano scorticato vivo», disse Ned Mahoney, osservando l'uomo con la testa bendata e il completo grigio che usciva dallo studio medico. «Sembra un mostro.»
«Non lo sottovalutare», ricordai a Ned. «E non ti dimenticare che è un mostro.»
Stavamo osservando il Lupo. O, perlomeno, quello che credevamo essere il Lupo. Usciva dallo studio di un chirurgo plastico nell'East Side, a Manhattan. Eravamo appena arrivati, da un minuto soltanto. Avevamo rischiato di perderlo per l'ennesima volta.
«Non ti preoccupare: non lo sottovaluto, Alex. Tant'è vero che ho oltre dieci squadre pronte ad acciuffarlo. Se fossimo arrivati qui un attimo prima, l'avremmo preso all'uscita dallo studio medico.»
Annuii. «In ogni caso, siamo qua. La trattativa, in Inghilterra, è stata complicata. Klara Lodge e i suoi figli sono in Nord Africa, adesso. Klara ha fatto la sua parte.»
«Dunque il Lupo ha un dispositivo di tracciamento sotto la scapola da quando è uscito dalla Russia? Sarà vero?»
«Be', siamo qui, no? Secondo Klara, Martin Lodge sapeva sempre dov'era il Lupo. Per questo era vivo.»
«Allora siamo pronti? Lo prendiamo?»
«Si, siamo pronti. Io sono pronto.» Altroché, ero prontissimo: volevo catturare quel bastardo, non vedevo l'ora di vedere che faccia avrebbe fatto.
Mahoney, che aveva un paio di cuffie e un microfono, disse: «Circondatelo. Ricordatevi che è estremamente pericoloso».
Bravo, Ned.
117
La Range Rover era ferma al semaforo all'incrocio fra Fifth Avenue e Fifty-ninth Street. Fu affiancata da alcune berline scure, da un lato e dall'altro. Una terza auto le sbarrò la strada. Dalle macchine scesero diversi agenti. Lo avevamo preso!
Dalla Hummer bianca davanti alla Range Rover qualcuno cominciò a sparare. Poi le portiere si spalancarono e scesero tre uomini imbracciando armi automatiche.
«Da dove vengono quelli?» urlò nel microfono Ned Mahoney. «A terra, presto!»
Eravamo scesi dall'auto e stavamo correndo verso la sparatoria. Ned fece fuoco e prese una delle guardie del corpo del Lupo. Io ne colpii un'altra. La terza cominciò a spararci addosso.
Nel frattempo il Lupo era sceso dalla Range Rover e si era messo a correre lungo Fifth Avenue, in mezzo alle macchine. Essendo tutto bendato, sembrava che gli avessero sparato o si fosse bruciato malamente. I pedoni si gettavano sul marciapiede per ripararsi dai proiettili che volavano in tutte le direzioni, gridando. Dove pensava di andare il Lupo, conciato così? Be', a New York poteva anche andare lontano.
Altri uomini armati spuntarono come dal nulla. Quante erano le guardie del corpo del Lupo? Di certo erano arrivati i rinforzi. E noi quanti eravamo?
A un certo punto il Lupo entrò in un negozio di Fifth Avenue. Io e Mahoney lo seguimmo. Non vidi neppure che negozio fosse. Bello, di lusso. Del resto, se era in Fifth Avenue, non poteva essere altrimenti.
Poi il Lupo fece una cosa impensabile. E io che credevo che nulla potesse più sorprendermi... Alzò di scatto il braccio destro e lanciò in aria un oggetto scuro. Ne seguii la traiettoria.
Gridai: «Granata! Tutti a terra! Attenti alla granata!»
La potente esplosione mandò in frantumi due enormi vetrine del negozio, ferendo diverse persone e producendo un fumo spesso e scuro. Nel negozio gridavano tutti, compresi commessi e cassieri.
Non persi di vista il Lupo nemmeno per un attimo, restando concentrato su di lui. Qualsiasi cosa facesse, stavolta non doveva farla franca. Indipendentemente dal pericolo. Non potevamo permetterlo: quell'uomo stava tenendo in ostaggio il mondo intero. Era già responsabile della morte di migliaia di persone.
Mahoney andò da una parte, io dall'altra. Il Lupo pareva diretto a un'uscita che dava su una traversa di Fifth Avenue. Avevo perso l'orientamento: era Fifty-fifth o Fifty-sixth Street?
«Non dobbiamo lasciarlo uscire!» urlò Mahoney.
«No di certo!» gli risposi.
Stavamo per raggiungerlo, lo vedevamo in faccia. Fra le bende, i lividi e il gonfiore, faceva ancor più paura di quanto mi immaginassi. Ma il peggio era che sembrava disperato, disposto a tutto. Noi, però, lo sapevamo.
Gridò: «Ucciderò tutti quelli che sono qui dentro!»
Io e Mahoney non gli rispondemmo nemmeno e continuammo ad avvicinarci. Ma gli credevamo.
Il Lupo afferrò una bambina bionda, strappandola alla baby-sitter. «La ammazzo. Ammazzo la bambina. È morta! La ammazzo!»
Noi non ci fermammo.
Il Lupo prese in braccio la bambina, che doveva avere tre o quattro anni, sporcandola del suo sangue. La bambina piangeva terrorizzata e si dibatteva furiosamente.
«Ammazzerò...»
Ned e io sparammo quasi contemporaneamente. Due spari, e il Lupo perse l'equilibrio e lasciò cadere a terra la bambina, che si alzò subito in piedi strillando e corse via.
Anche il Lupo si rialzò e corse via. Prese la prima porta laterale e fuggi in strada.
«Deve avere un giubbotto antiproiettile.»
«La prossima volta, miriamo alla testa», replicai.
118
Lo inseguimmo lungo Fifty-fifth Street, in direzione est, insieme con un paio di nostri agenti e due poliziotti che correvano velocissimi. Se qualcuna delle sue guardie del corpo era sopravvissuta alla sparatoria in Fifth Avenue, doveva aver perso le tracce del Lupo nella confusione, perché non ne vidi nemmeno una.
Ma il Lupo sembrava sapere dove andare. Com'era possibile? Come poteva aver pianificato anche questo? Non riuscivo a credere che stesse per sfuggirci di nuovo.
Era lì, davanti a noi. Nel mirino.
Poi, di colpo, svoltò l'angolo di un palazzo di mattoni rossi, alto una decina di piani. Che conoscesse qualcuno lì dentro? Che fosse entrato per cercare rinforzi? O ci stava tendendo l'ennesima trappola?
Nel palazzo c'era un servizio di sicurezza. C'era stato, per la precisione: la guardia, in divisa, era morta. Qualcuno le aveva sparato alla testa e adesso giaceva a faccia in giù in un lago di sangue.
Gli ascensori erano tutti occupati. I numeri rossi luminosi segnavano otto, quattro, tre: stavano salendo tutti.
«Non uscirà di qui, questo è certo», decretò Mahoney.
«Non esserne così sicuro», replicai.
«Non volerà mica, ti pare?»
«No, ma chissà cos'altro farà. Se è venuto qui, un motivo ci sarà.»
Mahoney mandò alcuni agenti ad aspettare gli ascensori e a controllare tutti i piani sistematicamente, dal basso in alto. Stavamo attendendo rinforzi dal dipartimento di polizia di New York. Nel giro di qualche minuto sarebbero arrivate decine di altri agenti. E poi centinaia. Il Lupo era in quel palazzo.
Mahoney e io imboccammo le scale.
«Dove andiamo? Fino dove arriviamo?»
«Fin sul tetto. È l'unica via di fuga.»
«Pensi davvero che abbia un piano? E quale, Alex?»
Scossi la testa: non ne avevo la minima idea. Ma il Lupo sanguinava e doveva essere debole. Chissà, forse delirava. O forse aveva un piano. Per la miseria, non l'avevamo mai colto impreparato.
E così salimmo fino all'ultimo piano, il nono. Dalla tromba delle scale, il Lupo non si vedeva. Controllammo velocemente negli uffici: nessuno l'aveva visto. Sicuramente, se ne sarebbero ricordati.
«Sul retro! Ci sono le scale che portano sul tetto», ci suggerì l'impiegato di uno studio legale.
Ned Mahoney e io le salimmo e uscimmo alla luce del sole. Del Lupo neanche l'ombra. C'era una specie di casotto, che pareva un cappellino posato in cima all'edificio. Una cisterna? Un ripostiglio?
La porta era chiusa a chiave.
«Dev'essere qui. A meno che non si sia buttato», disse Ned. Fu in quel momento che lo vedemmo sbucare da dietro il casotto. «No, non mi sono buttato, Mahoney. Le avevo detto di non partecipare alle indagini. Mi sembrava di essere stato chiaro. Gettate a terra le armi. Subito.»
Feci un passo avanti. «L'ho portato io.»
«Lo so. Lei è infaticabile, dottor Cross. Non molla mai, eh? Per questo è tanto prevedibile, e utile.»
Dalla botola che portava sul tetto fece capolino un poliziotto del Dipartimento di New York. Vide il Lupo e sparò.
Lo colpì al petto, senza fargli nulla. Sì, evidentemente portava un giubbotto antiproiettile. Emise un verso, una specie di ululato, e si avventò contro il poliziotto con le mani sopra la testa.
Lo afferrò e lo sollevò di peso. Io e Ned non potevamo intervenire. Il Lupo lanciò il poveraccio oltre il parapetto, nel vuoto.
Poi si mise a correre verso l'altro lato del tetto, come un pazzo scatenato. Che cosa aveva in mente di fare? Di colpo capii: il palazzo accanto era abbastanza vicino per poterci saltare sopra. Ma poi vidi che stava arrivando un elicottero. Era venuto a prendere il Lupo? Era questo il suo piano di fuga? Non potevo lasciarlo scappare...
Gli corsi dietro. Anche Mahoney. «Fermo lì! Non ti muovere!»
Correva a zigzag, per sfuggirci. Aprimmo il fuoco, ma senza colpirlo.
E, tutto a un tratto, lo vedemmo per aria, che agitava le braccia: stava saltando sul tetto del palazzo vicino.
«No! Bastardo!» urlò Ned. «No!»
Mi fermai e presi la mira, poi premetti il grilletto quattro volte.
119
Il Lupo muoveva gambe e braccia, quasi corresse a mezz'aria, ma a un certo punto cominciò a precipitare. Allungò le braccia per aggrapparsi al tetto del palazzo vicino e lo toccò con le dita.
Mahoney e io raggiungemmo il bordo del tetto. Possibile che il Lupo stesse per scapparci un'altra volta? Chissà come, finora c'era sempre riuscito. Ma questa volta no. Gli avevo sparato nel collo. Stava per soffocare nel suo stesso sangue.
«Cadi, bastardo!» gli urlò Mahoney.
«Non ce la fa», dissi io.
Avevo ragione: il Lupo precipitò, senza lottare, senza emettere suono, senza lanciare un grido. Nel più completo silenzio.
Mahoney gli gridò dietro: «Ehi, Lupo! Va' dritto all'inferno!»
Cadde giù, come al rallentatore, e si schiantò nel vicolo fra i due palazzi. Guardai il suo corpo sull'asfalto, in una posizione innaturale, la faccia bendata, e provai una soddisfazione che non sentivo da tempo. Mi sentivo sollevato, felice. Lo avevamo preso! E meritava di fare quella fine, spappolato per terra come un insetto schiacciato.
Ned Mahoney si mise a battere le mani e fece una piccola danza sul posto. Sembrava impazzito. Non mi unii ai suoi festeggiamenti, ma lo capivo. Quel criminale meritava di morire. Di finire stecchito in mezzo a una strada.
«Non ha detto bah», mormorai dopo un po'. «Non ci ha voluto dare neppure quella piccola soddisfazione.»
Mahoney alzò le spalle. «Me ne frego. Noi siamo quassù e lui è laggiù, in mezzo alla spazzatura. Forse un po' di giustizia a questo mondo c'è. O forse no», disse Ned. Scoppiò a ridere e mi abbracciò.
«Abbiamo vinto!» esclamai. «Maledizione, alla fine abbiamo vinto noi!»
120
Ce l'avevamo fatta!
La mattina dopo andai a Quantico a bordo di un elicottero Bell, insieme con Ned Mahoney e i suoi. Era in programma una festa per celebrare la vittoria sul Lupo. Io però volevo tornare a casa al più presto. Avevo detto a Nana di non mandare a scuola i ragazzi: volevo festeggiare con loro.
Avevamo vinto!
Durante il viaggio in macchina da Quantico a Washington mi rilassai sempre di più. Più mi avvicinavo a casa, più mi sentivo di nuovo me stesso. Mi pareva quasi di essere tornato alla normalità. Non vedendo uscire di casa nessuno, pensai che Nana e i ragazzi non mi avessero visto e decisi di far loro una sorpresa.
Avevamo vinto!
Il portone era aperto. Entrai. Le luci erano accese, ma non vedevo nessuno. Che volessero farmi una sorpresa?
Senza far rumore, andai in cucina. Le luci erano accese, la tavola apparecchiata. Ma neanche lì c'era nessuno.
Era un po' strano. Anomalo. Rosie, la gatta, mi si avvicinò miagolando e mi si strusciò contro le gambe.
Alla fine urlai: «Sono arrivato! Papà è tornato a casa! Dove siete? Sono tornato dalla guerra».
Salii al piano di sopra, ma non c'era nessuno neppure lì. Controllai se mi avessero lasciato un biglietto. Niente.
Corsi giù e guardai sul retro e per la strada. Non c'era un'anima. Dov'erano Nana e i ragazzi? Sapevano che stavo per tornare a casa...
Rientrai e feci un paio di telefonate, cercando di pensare dove potessero essere andati tutti quanti. Nana mi lasciava quasi sempre scritto dove portava i ragazzi, anche se uscivano solo per un'ora o due. Soprattutto quando sapeva che stavo per rientrare.
Mi colse un'angoscia improvvisa. Aspettai mezz'ora, poi avvertii i colleghi dello Hoover Building, a cominciare da Tony Woods, della direzione. Nel frattempo, continuai a girare per casa alla ricerca di qualche indizio.
Arrivò una squadra di tecnici. Dopo un po' uno di essi mi raggiunse in cucina. «Nel giardino sul retro ci sono impronte di un individuo di sesso maschile. Tracce di terra portata in casa da poco. Sul fatto che le impronte siano recenti non ci sono dubbi. Potrebbero essere di un fattorino o di un tecnico venuto a fare qualche riparazione, però.»
Quel pomeriggio, non trovarono altro. Neanche una traccia.
La sera vennero a trovarmi Sampson e Billie. Ci sedemmo lì ad aspettare che mi chiamasse qualcuno, che succedesse qualcosa. Un piccolo segno, un motivo di speranza. Invece non telefonò nessuno e, alle due passate, Sampson se ne tornò a casa sua. Billie era andata via verso le dieci.
Io rimasi alzato tutta la notte, ma nessuno mi contattò. Nessuna notizia né di Nana né dei miei figli. Parlai con Jamilla al cellulare e un po' mi rasserenò, ma troppo poco. Niente avrebbe potuto rasserenarmi, quella sera.
Alla fine, quando ormai era mattino, andai sulla porta e scrutai Fifth Street con gli occhi rossi e gonfi. Mi resi conto che quella era sempre stata la mia paura più grossa: essere solo, senza nessuno vicino, e sapere che i miei cari erano in grave pericolo.
Non avevamo vinto un bel niente...
121
L'e-mail arrivò il quinto giorno. Tremavo. Quando la aprii, temetti di sentirmi male.
Caro Alex, esordiva.
Sorpresa!
Contrariamente a quello che lei pensa di me, non sono una persona così crudele e spietata. Gli individui veramente crudeli e irragionevoli, quelli di cui è giusto aver paura, si trovano prevalentemente negli Stati Uniti e in Europa occidentale. Il denaro ora in mio possesso mi aiuterà a fermarli, ad arginare la loro ingordigia. Non mi crede? Fa male. Perché non dovrebbe credermi?
La ringrazio per tutto quello che ha fatto per me, e per Hana, Daniela e Jozef. Sono in debito nei suoi confronti e io i debiti li saldo sempre. La considero «un misero insetto, ma sempre meglio che niente». I suoi familiari torneranno oggi: adesso siamo pari. Non mi rivedrà mai più. Non desidero rivederla mai più. Se mai capiterà, per lei sarà la fine. Glielo prometto.
Klara Cernohosska,
il Lupo
122
Non potevo mollare. Non potevo, e non volevo. Il Lupo si era introdotto nella mia casa e aveva rapito la mia famiglia. Erano tornati tutti sani e salvi, ma poteva accadere di nuovo.
Nelle settimane successive misi alla prova i nuovi rapporti di collaborazione fra il Bureau e la CIA. Chiesi a Ron Burns di esercitare tutte le pressioni possibili. Mi recai nel quartier generale della CIA, a Langley, più di dieci volte e parlai con più persone possibile, dagli analisti più giovani al nuovo direttore, James Dowd. Volevo informazioni su Thomas Weir e l'agente del KGB che aveva aiutato a far uscire dalla Russia. Dovevo sapere tutto quello che sapevano loro. Era possibile? Ne dubitavo, ma questo non mi impediva di tentare.
Un giorno venni convocato nell'ufficio di Burns. Quando arrivai, trovai ad aspettarmi Burns e il nuovo direttore della CIA: doveva essere successo qualcosa. Poteva essere uno sviluppo positivo. Ma anche negativo. Molto negativo.
«Venga avanti, Alex», mi fece Burns, cordiale come sempre. «Si accomodi. Dobbiamo parlare.»
Entrai e mi andai a sedere di fronte ai due grandi capi, che erano in maniche di camicia e sembravano reduci da un'estenuante discussione. Di che cosa potevano aver parlato? Del Lupo? Di qualcos'altro di cui io preferivo non sapere niente?
«Il direttore Dowd ha da riferirle qualcosa», disse Burns.
«Già», fece Dowd. Era un ex avvocato di New York, il che era inconsueto per un direttore della CIA. Aveva lavorato nel dipartimento di polizia di New York e poi per alcuni anni come libero professionista in uno studio legale. Si diceva che nascondesse segreti che nessuno di noi sapeva, o voleva sapere.
«Sono a Langley da poco», esordì Dowd. «Il fatto di essere ancora in fase di ambientamento mi ha aiutato: ho dedicato molte energie e molto tempo a raccogliere informazioni su Weir.»
Guardò Burns. «Sono prevalentemente positive. Un curriculum impeccabile. Ma andare a frugare nei vecchi archivi non è un'attività molto apprezzata da quelli della 'vecchia guardia', in Virginia. Francamente, non me ne può fregare di meno. Un russo a nome Anton Christyakov venne reclutato e portato fuori della Russia nel 1990. Siamo abbastanza sicuri che fosse il Lupo. Venne trasferito in Inghilterra, dove incontrò alcuni agenti, fra cui Martin Lodge. Fu poi trasferito in una casa fuori Washington. La sua identità era nota soltanto a pochi. La maggior parte di costoro adesso sono morti, compreso Weir. Dopo un certo periodo venne mandato in una sede di sua scelta - Parigi - dove ritrovò i suoi familiari: madre, padre, moglie e due figli, di nove e dodici anni. Abitavano a due passi dal Louvre, in una delle strade andate distrutte qualche settimana fa. La sua famiglia venne sterminata nel 1994, ma Christyakov sopravvisse. Riteniamo che la strage fosse stata ordinata dal governo russo, anche se non lo sappiamo per certo. Qualcuno che voleva morto Christyakov doveva aver scoperto dove viveva. Pare che la strage abbia avuto luogo sul ponte sulla Senna che è andato distrutto nel recente attentato.»
«Christyakov ritenne responsabili la CIA e Tom Weir e i governi coinvolti», aggiunse Burns. «Forse fu per questo che impazzì: non lo sapremo mai. Fatto sta che entrò nella Mafia russa e salì rapidamente ai vertici. Qui in America, presumibilmente a New York.»
Si interruppe e Dowd non aggiunse nulla alle sue parole. Tutti e due mi guardavano in silenzio.
«Dunque non è Klara. Cos'altro sappiamo di questo Christyakov?»
Dowd allargò le braccia. «Abbiamo qualche informazione, ma molto poche. Era conosciuto da alcuni boss, che però nel frattempo sono tutti morti. È possibile che il boss attualmente a capo delle cosche russe di Brooklyn sia al corrente di qualcosa e potrebbe esserci un contatto anche a Parigi. Non è escluso che riusciamo a scoprire qualcosa a Mosca: ci stiamo lavorando.»
Scossi la testa. «Non mi interessa quanto tempo ci vuole: voglio prenderlo. Ditemi cos'altro sapete.»
«Era molto legato ai figli. Forse è per questo che non ha torto un capello ai suoi ragazzi, Alex», disse Burns. «Né ai miei.»
«Ha risparmiato la mia famiglia per dimostrarmi quanto è potente. Per mostrarsi superiore.»
«Ha il vizio di stringere in mano una pallina di gomma», disse Dowd. «Nera.»
Lì per lì non capii.
«Come, scusi?»
«Prima di morire, uno dei suoi figli gli regalò una pallina di gomma. Per il suo compleanno, pare. Ci risulta che Christyakov abbia l'abitudine di tenerla in mano e di stringerla nel pugno quando è arrabbiato. Si dice anche che ami lasciarsi crescere la barba. E che sia single. Ma sono tutte voci frammentarie, Alex. Purtroppo non abbiamo altro. Mi spiace.»
Spiaceva anche a me, ma non c'era niente da fare. Lo avrei preso comunque.
Una pallina di gomma in mano.
La barba.
Sopravvissuto alla strage dei suoi familiari.
123
Sei settimane dopo andai a New York. Era la mia quinta trasferta consecutiva. Tolya Bykov era ai vertici della Mafia russa di New York, specie nella zona di Brighton Beach, da diversi anni. Era stato un potente boss a Mosca e adesso lo era in America. Stavo andando da lui.
Era una giornata insolitamente calda per quella stagione. Ned Mahoney e io eravamo diretti a Mill Neck, sulla costa settentrionale di Long Island. Attraversammo in macchina una zona molto verde, con strade strette e niente marciapiedi, e arrivammo nella roccaforte di Bykov insieme con una dozzina di agenti, senza essere annunciati. E muniti di un mandato. C'erano bodyguard ovunque e mi chiesi come facesse Tolya Bykov a vivere a quel modo. Forse era costretto, per non lasciarci la pelle. Era una casa molto grande, in stile coloniale, a tre piani, con una vista incredibile sul canale, fino al Connecticut. Aveva una piscina con una cascata d'acqua, una rimessa per le barche e un molo. Tutto pagato con soldi sporchi?
Ci ricevette nel suo studio. Mi sorpresi di quanto sembrasse vecchio e stanco. Era grassissimo, con gli occhi piccoli. Doveva pesare centocinquanta chili e respirava a fatica. Ogni tanto, tossiva.
Mi avevano detto che non parlava inglese.
«Mi parli dell'uomo chiamato il Lupo», dissi, sedendomi di fronte a lui, davanti a una semplice scrivania di legno. Uno dei nostri agenti di New York, mezzo russo e mezzo americano, tradusse le mie parole.
Tolya Bykov si grattò il collo, scosse la testa e infine parlò in russo, a denti stretti.
L'interprete ascoltò, poi mi guardò. «Dice che gli sta facendo perdere tempo, oltre che perderne lei. Sa solo la favola di Pierino e il Lupo. Nient'altro.»
«Non ce ne andremo. FBI e CIA gli staranno con il fiato sul collo e indagheranno su tutti i suoi affari finché non troveremo il Lupo. Glielo dica.»
L'agente parlò in russo e Bykov gli scoppiò a ridere in faccia. Disse qualcosa. Io capii solo «Chris Rock».
«Dice che è più divertente di Chris Rock. Gli piace molto Chris Rock. La satira politica in generale.»
Mi alzai in piedi, feci un cenno a Bykov e me ne andai. Non mi aspettavo molto di più da quel primo incontro. Era solo un'introduzione. Ma sarei tornato più e più volte, se necessario. Era l'unico caso a cui stavo lavorando. E stavo imparando a essere paziente. Molto paziente.
124
Pochi minuti dopo, mentre uscivo dall'enorme villa insieme a Ned Mahoney, scoppiai a ridere al pensiero di quel primo colloquio. Tanto valeva prenderla in ridere, no?
Poi vidi qualcosa. Mi fermai, guardai meglio. E lo vidi di nuovo.
«Oddio, Ned. Guarda!»
«Che cosa?» Si voltò, ma non vide niente.
Mi misi a correre, un po' tremebondo.
«Che cos'hai visto Alex? Cosa c'è?» mi gridò dietro Ned. «Alex?»
«È lui!»
Avevo gli occhi fissi su uno dei bodyguard di Bykov. Giacca nera, cravatta, niente cappotto. Era in piedi sotto un sempreverde e ci fissava. Gli guardai la mano.
Stringeva nel pugno una pallina nera. La strizzava ritmicamente. Ero sicuro che quella fosse la pallina che il figlio del Lupo aveva regalato a suo padre prima di morire. L'uomo con la pallina in mano aveva la barba. Mi fissava dritto negli occhi.
Poi si voltò e si mise a correre.
Urlai a Ned: «È lui! Il Lupo!»
Accelerai, correndo più forte di quanto non mi capitasse da parecchio tempo a quella parte. Confidavo che Ned mi venisse dietro.
Vidi il russo saltare su una spider rossa e mettere in moto. Oh, no!
Ma riuscii a raggiungerlo e a salirci su anch'io prima che lui ingranasse la marcia. Gli mollai un potente pugno sul naso, facendogli schizzare sangue sulla giacca e sulla camicia nera. Ero sicuro di averglielo rotto. Lo colpii nuovamente, questa volta sulla mascella.
Aprii la portiera dalla parte del guidatore. Lui mi guardò. I suoi occhi erano freddi, di un'intelligenza gelida, privi di qualsiasi emozione. Non avevo mai visto occhi così. Disumani. Era l'aggettivo che aveva usato il presidente francese, del resto.
Il vero Tolya Bykov era forse lui? In quel momento, non mi interessava. Era il Lupo, glielo leggevo in quegli occhi pieni di arroganza, di sicumera e, soprattutto, di odio nei confronti miei e del resto del mondo.
«La pallina», disse. «Lei sapeva della pallina. Me la regalò mio figlio. Complimenti.»
Mi fece un sorriso strano, quindi addentò qualcosa che aveva in bocca. Immaginai subito di che cosa doveva trattarsi e cercai disperatamente di aprirgli la bocca. Teneva le mascelle serrate, però. Sgranò gli occhi, con una smorfia di dolore. Veleno. Aveva ingerito una capsula di veleno.
Di colpo spalancò la bocca e lanciò un gemito altissimo. Aveva la bava che gli colava giù per il mento. Emise un altro verso e cominciò a tremare, in preda alle convulsioni. Non riuscivo a tenerlo fermo. Mi scostai.
Sempre in preda agli spasmi, iniziò ad ansimare. Si teneva il collo con le mani, tremando in maniera incontrollabile. Dopo alcuni minuti di terribile agonia, nei quali non potevo - e non volevo - fare nulla a parte guardare, morì sul sedile anteriore di una delle sue numerose automobili di lusso.
Mi chinai e raccolsi la pallina di gomma. Me la misi in tasca. Era quello che molti serial killer che avevo catturato chiamavano «un trofeo».
Era finita. Sarei tornato a casa, adesso. C'erano tante cose su cui dovevo riflettere, mi aspettavano tanti cambiamenti. Mi colse un pensiero preoccupante: Adesso mi metto anche a raccogliere trofei?
Ma avevo un pensiero più importante: riguardava Damon, Jannie, il piccolo Alex e Nana.
La mia famiglia.
Il Lupo è morto. Sotto i miei occhi.
Continuai a ripetermelo finché non iniziai a crederci veramente.
FINE