Uno degli uomini alla finestra lanciò un grido di avvertimento e cercò di spingere l'altro al riparo. Un vero eroe.
Niente da fare: Nikki premette il grilletto. Ecco fatto, facilissimo.
Poi, la fuga!
Il pilota adottò la stessa strategia di volo anche al ritorno e, uscito dalla città, puntò dritto verso la zona prevista per l'atterraggio in Virginia. Impiegarono solo tre minuti e mezzo per arrivarci. Nikki Williams era tutta eccitata per aver fatto centro e per il grosso compenso che l'aspettava. Tariffa tripla, e se l'era meritata.
L'elicottero si posò senza problemi e Nikki saltò giù dal pattino e salutò il pilota con un cenno. Anche il pilota sollevò il braccio destro e... le sparò: un colpo alla gola e uno in fronte. Non lo fece volentieri, ma doveva farlo. Gli ordini erano quelli e sapeva che non gli conveniva disubbidire. A quanto pareva, la tiratrice scelta aveva parlato della missione con qualcuno. Il pilota non sapeva altro.
Solo il suo pezzo del puzzle.
33
Qualcosa avevamo scoperto.
I due uomini catturati nel cortile erano stati portati dentro e adesso erano in stato di arresto al secondo piano. Ma chi diavolo erano?
Girava la voce preoccupante che avessero sparato a Ron Burns e che il mio capo, nonché amico, fosse morto.
Pareva che alcuni tiratori scelti avessero preso di mira il suo ufficio. Mi tornò in mente quando, all'inizio di quello stesso anno, era stata assassinata Stacy Pollack. Il Lupo non aveva mai rivendicato ufficialmente l'omicidio della direttrice del SIOC, lo Strategic Information Operations Center, ma sapevamo che il mandante era lui. Burns aveva giurato vendetta ma, che io sapessi, non era stato fatto più nulla.
Circa mezz'ora dopo la sparatoria, mi telefonarono di scendere al secondo piano. Me ne rallegrai: avevo bisogno di fare qualcosa. Sarei impazzito, se fossi rimasto chiuso nel mio ufficio.
«Novità sulla sparatoria?» domandai al collega che mi aveva chiamato.
«Che io sappia, no. Anche noi abbiamo sentito dire che la vittima potrebbe essere Burns, ma nessuno conferma o smentisce nulla. Ho parlato con Tony Woods, dell'ufficio del direttore, e non mi ha voluto dire niente. Nessuno parla, Alex, mi dispiace.»
«È successo qualcosa, però, vero? Hanno sparato a qualcuno?»
«Sì, hanno sparato a qualcuno ai piani alti.»
Preoccupato e disgustato per tutto quello che era successo negli ultimi giorni, corsi giù al secondo piano, dove una guardia mi accompagnò in un corridoio di celle di cui non conoscevo neppure l'esistenza. L'agente che mi aspettava mi spiegò che voleva che interrogassi i prigionieri senza essere stato informato di nulla, in modo da poter dare il mio parere spassionato sulla situazione.
Entrai in una delle stanzette e mi trovai davanti due neri dall'aria spaventata, in tuta mimetica. Terroristi? Ne dubitavo. Dovevano essere fra i trentacinque e i quarant'anni, ma era difficile dar loro un'età: erano mal rasati, con i capelli arruffati, i vestiti sporchi e stropicciati. Nella stanza c'era puzza di sudore, e anche di peggio.
«Abbiamo già raccontato tutto», protestò uno dei due facendo una smorfia appena mi vide entrare. «Quante volte dobbiamo ripetervi la stessa storia?»
Mi sedetti di fronte a loro ed esordii così: «Stiamo indagando su un omicidio. In questo palazzo è morta una persona». Non sapevo se ne erano stati informati, ma io volevo cominciare da lì.
Quello che era stato zitto fino a quel momento si nascose la faccia tra le mani e cominciò a gemere e a dondolare da una parte e dall'altra. «Oh no, oh no, oh mio Dio no!»
«Togliti le mani dalla faccia e ascoltami!» gli gridai.
Entrambi mi guardarono e si zittirono. Se non altro adesso mi avrebbero ascoltato.
«Voglio sentire la vostra storia. Dovete dirmi tutto quello che sapete, fin nei minimi dettagli. E non mi interessa se l'avete già raccontata a chi vi ha interrogato prima di me, chiaro? Avete capito? Non mi importa quante volte l'avete già raccontata. Al momento siete sospettati di omicidio, quindi voglio sentire la vostra versione dei fatti. Parlatemi. Io sono la vostra ancora di salvezza, l'unica che vi resta. Forza, parlate.»
Ubbidirono tutti e due. In maniera sconnessa, ma parlarono per più di due ore. Alla fine uscii dalla cella con la sensazione che mi avessero detto la verità, per quanto frammentaria.
Ron Frazier e Leonard Pickett erano due vagabondi e vivevano nei pressi della Union Station. Entrambi erano veterani dell'esercito. Erano stati abbordati per strada e pagati per andare a correre intorno alla sede dell'FBI come due pazzi, il che probabilmente corrispondeva a quello che erano veramente nella vita. Le tute mimetiche erano le loro. Mi spiegarono che erano le stesse che si mettevano tutti i giorni per andare al parco e a mendicare nelle strade di Washington.
Subito dopo entrai in un'altra saletta dove riferii tutto quanto a due agenti. A giudicare dalla faccia che avevano, dovevano essere tesi e preoccupati quanto me. Mi chiesi se avessero notizie aggiornate su Ron Burns.
«Secondo me, quei due non sanno niente», dissi. «Potrebbero essere stati abbordati da Geoffrey Shafer, perché lo sconosciuto che li ha pagati per venire a correre qui aveva l'accento inglese, e anche la descrizione fisica corrisponde. Gli ha dato duecento dollari. Duecento.»
Guardai i due agenti. «Ora tocca a voi. Raccontatemi che cosa è successo di sopra. A chi hanno sparato? A Ron Burns?»
Uno dei due, Millard, prese fiato e rispose: «La notizia non deve uscire da questa stanza, Alex, finché non te lo diremo noi. Chiaro?»
Annuii con fare solenne. «Il direttore è morto?»
«No, è morto Thomas Weir. È a Weir che hanno sparato», disse l'agente Millard.
Mi sentivo male: avevano sparato al direttore della CIA.
34
Caos.
Non appena si sparse la voce che Thomas Weir era stato assassinato, lo Hoover Building fu preso d'assedio dalle reti televisive e dal carrozzone dei media. Naturalmente nessuno poteva dire loro come pensavamo fossero andate veramente le cose e tutti i giornalisti, d'istinto, capirono che stavamo nascondendo qualcosa.
Nel pomeriggio avevamo appreso che nei boschi della Virginia settentrionale era stato ritrovato il cadavere di una donna che molto probabilmente era il cecchino che aveva ucciso Tom Weir: insieme al cadavere era stato trovato un fucile Winchester che era quasi sicuramente l'arma del delitto.
Alle cinque, il Lupo si fece di nuovo vivo.
Nella sala dell'unità di crisi squillò il telefono. Rispose Ron Burns.
Non lo avevo mai visto con l'aria così vulnerabile e cupa. Thomas Weir era suo amico. D'estate passavano le vacanze a Nantucket insieme, con le rispettive famiglie.
Il Lupo esordì: «Lei è veramente molto fortunato, direttore. Quei proiettili erano diretti a lei e io non sono uno che sbaglia facilmente. Anche se so che in un'operazione militare complessa come questa non si può sperare di non sbagliare. Devo ammettere che qualche errore è inevitabile, in guerra. C'est la vie».
Burns non disse nulla. Rimase impassibile, pallido e indecifrabile come una maschera.
Il Lupo continuò: «Capisco come si sente, capisco come vi dovete sentire tutti quanti. Il signor Weir aveva famiglia, vero? E siccome era un uomo perbene, voi ora mi odiate. Vorreste abbattermi come un cane rabbioso. Provate a vedere le cose dal mio punto di vista, però. Vi ho detto chiaro e tondo quali erano le regole, ma voi avete voluto fare di testa vostra. E, facendo di testa vostra, avete causato morte e disastri. Ci saranno altri morti e disastri, inevitabilmente. La posta in gioco non è la vita di un uomo solo. Le lancette dell'orologio girano inesorabili. Sapete, è difficile oggi trovare gente capace di ascoltare. Sono tutti così egocentrici, così pieni di sé. Prendiamo la nostra killer, per esempio, il capitano Williams: le era stato raccomandato di non dire niente a nessuno della missione che le era stata affidata, ma lei ne ha parlato al marito. Così adesso è morta. Avete trovato il cadavere, mi risulta. Notizia dell'ultim'ora: è morto anche il marito. Se volete recuperare il cadavere, lo troverete nella loro casa di Denton, nel Maryland. Vi serve l'indirizzo? Ve lo do volentieri».
Burns ribatté: «Lo abbiamo già trovato, grazie. Qual è lo scopo di questa telefonata? Che cosa vuole da noi?»
«Mi sembra ovvio, signor direttore: voglio che vi rendiate conto che parlo sul serio. Mi aspetto collaborazione da parte vostra e intendo ottenerla. In un modo o nell'altro, otterrò quello che voglio. Come sempre. Detto questo, andiamo al sodo. Parliamo della somma che chiediamo per lasciarvi in pace. Spero che qualcuno abbia carta e penna.»
«Dica», intervenne Burns.
«Bene, allora. Le cifre sono queste: New York, seicentocinquanta milioni di dollari. Londra, seicento milioni. Di dollari. Washington, quattrocentocinquanta milioni. Francoforte, quattrocentocinquanta milioni. Per un totale di due miliardi centocinquanta milioni di dollari USA. Inoltre, voglio che vengano liberati cinquantasette prigionieri politici. L'elenco completo vi verrà fornito fra un'ora. Per il momento vi dico solo che si tratta di individui originari del Medio Oriente. Trovate voi la soluzione di questo bel rompicapo. Interessante, no? Avete quattro giorni per consegnare il denaro e i prigionieri. Mi sembra un tempo più che sufficiente. Ragionevolissimo, direi. Il come e il dove della consegna vi verranno comunicati in seguito. Allora: avete quattro giorni da questo preciso momento. Non sto scherzando. Mi rendo conto che la cifra che chiedo è ingente e che vi diranno che è 'impossibile' raccoglierla. Mi aspetto già le obiezioni, ma non sprecate il fiato in scuse e proteste.»
Ci fu un breve silenzio.
«Lo scopo della mia telefonata è questo, signor Burns. Sganciate i soldi. Liberate i prigionieri. Non fate altre cazzate. Ah, ancora una cosa: io non dimentico e non perdono. Prima della fine di questa vicenda lei morirà, direttore. Si guardi le spalle, perché un giorno di questi ci incontreremo, e sarà la fine. Per il momento, comunque, avete quattro giorni.»
E con questo il Lupo riattaccò.
Ron Burns, lo sguardo fisso davanti a sé, disse a denti stretti: «Già, ci incontreremo e sarà la fine. Ma la tua, stronzo!»
Poi fece lentamente il giro della stanza con lo sguardo e posò gli occhi su di me. «È cominciato il conto alla rovescia, Alex.»
35
Burns continuò: «Vorrei che il dottor Cross ci comunicasse le sue impressioni su questo russo psicopatico, dal momento che lo conosce. Per chi di voi non l'avesse mai sentito nominare, Alex Cross è una nostra recente acquisizione. Viene dal dipartimento di polizia di Washington, con nostra grande gioia. È lui che ci ha permesso di catturare Kyle Craig».
«E che si è lasciato scappare Geoffrey Shafer un paio di volte», intervenni io da dove ero seduto. «Volete le mie impressioni fino a questo momento? Be', non mi dilungherò sulle ovvietà, ossia sul fatto che quest'uomo cerca il potere e il controllo assoluto sull'avversario. Vi posso dire questo: vuole agire su vasta scala, avere una visibilità globale. È creativo ed estremamente meticoloso nell'organizzare i suoi colpi. Ha una spiccata personalità manageriale, nel senso che organizza, sa delegare, non ha problemi a prendere decisioni difficili. Ma, soprattutto, è crudele. Gli piace far soffrire il prossimo e gli piace vederlo soffrire. Ci sta dando tutto il tempo di riflettere sulle possibili conseguenze delle nostre decisioni, in parte perché sa che non vogliamo e non possiamo pagare, in parte perché vuole logorarci psicologicamente. Sa che non ci sarà facile catturarlo. In fondo Bin Laden è ancora libero, no? C'è una cosa che non mi torna, però, ed è il tentativo di uccidere il direttore. Non riesco a collocarlo nel suo modus operandi. Perlomeno non in questa fase del gioco. E, soprattutto, mi lascia perplesso il fatto che abbia mancato il bersaglio, che abbia commesso un errore.»
Mi resi conto di essermi espresso male e guardai Burns, il quale però mi fece cenno di continuare, limitandosi a chiedere: «Pensa che abbia sbagliato mira o che il vero bersaglio fosse Tom Weir?»
«Penso che il bersaglio fosse Weir. Non credo che il Lupo abbia commesso un errore tanto marchiano. Penso che abbia mentito.»
«Perché? Qualcuno ha qualche suggerimento?» replicò Burns guardandosi intorno.
Siccome nessuno prese la parola, continuai: «Se il bersaglio era davvero Thomas Weir, è l'indizio migliore che abbiamo. Per quale motivo il direttore della CIA rappresentava un pericolo per il Lupo? Che cosa sapeva? Non mi sorprenderebbe che Weir e il Lupo si conoscessero, che si fossero incontrati in passato da qualche parte, anche se magari Weir non sapeva che era il Lupo. Weir è un personaggio di rilievo. Dove potrebbe aver conosciuto il russo? È una domanda che dobbiamo porci».
«E di cui dobbiamo trovare rapidamente la risposta», disse Burns. «Forza, mettiamoci al lavoro. Tutto il Bureau deve impegnarsi al massimo.»
36
L'uomo che aveva fatto le ultime telefonate per conto del Lupo aveva ricevuto tutte le istruzioni del caso e sapeva di doverle seguire scrupolosamente. Doveva farsi vedere a Washington. Il suo «pezzo» era quello.
Il Lupo doveva essere visto, in maniera da suscitare un comprensibile allarme.
Entro breve si sarebbe scoperto che le telefonate alla sede dell'FBI e non solo erano state fatte dal Four Seasons Hotel di Pennsylvania Avenue. Faceva parte del piano, che fino a quel momento aveva funzionato quasi alla perfezione.
Si incamminò perciò tranquillamente verso la hall dell'albergo, facendo in modo di essere notato dal personale alla reception e anche dai due portieri all'ingresso. Il fatto che fosse alto, biondo, barbuto e che portasse un lungo cappotto di cammello non guastava. Faceva anche questo parte del piano.
Uscito dall'albergo, fece una passeggiata in M Street, leggendo il menu di vari ristoranti e guardando le vetrine all'ultima moda di Georgetown.
Trovò leggermente ridicolo che, mentre lui passeggiava tranquillamente, pattuglie della polizia e auto dell'FBI convergessero a tutta velocità verso il Four Seasons da varie direzioni.
Dopo un po' salì su un pulmino Chevrolet bianco che lo aspettava all'angolo tra M Street e Thomas Jefferson Street.
Il pulmino partì a tutta velocità in direzione dell'aeroporto. Oltre all'autista, c'era anche un altro uomo, seduto dietro, vicino al biondo che aveva fatto le telefonate dal Four Seasons.
«Com'è andata?» chiese l'autista quando furono a qualche chilometro da M Street e dalla confusione che vi regnava.
Il biondo alzò le spalle. «Benissimo, naturalmente. Adesso hanno una descrizione precisa, qualcosa su cui lavorare. Una speranza, se vogliamo chiamarla così. È andato tutto bene. Ho fatto quel che mi era stato chiesto.»
«Perfetto», disse il secondo uomo. Poi estrasse una Beretta e gli sparò alla tempia. Il biondo morì sul colpo, senza nemmeno accorgersene.
Adesso la polizia e l'FBI avevano una descrizione fisica del Lupo, ma nessuno vivo che vi corrispondesse.
37
Quel pomeriggio ci furono altri misteri, o perlomeno altra confusione.
Secondo i nostri esperti di telecomunicazioni, il Lupo ci aveva chiamato dal Four Seasons Hotel di Washington, dove era stato anche avvistato. La descrizione che avevamo di lui era già stata diffusa in tutto il mondo. Poteva darsi che avesse commesso un passo falso, ma io non ne ero del tutto convinto. In passato aveva sempre usato telefoni cellulari. Come mai questa volta era andato a telefonare in un albergo?
Verso le nove e mezzo, rientrando a casa, trovai una sorpresa. In salotto, insieme a Nana, c'era la dottoressa Kayla Coles. Erano sedute vicine, sul divano, a tramare chissà che cosa. Il fatto che la dottoressa di Nana fosse lì a quell'ora tarda mi preoccupò un po'.
«Tutto bene? Che succede?» dissi.
«Kayla era da queste parti ed è passata a salutarmi», rispose Nana. «Giusto, dottoressa? Nessun problema, che io sappia. A parte il fatto che tu hai saltato la cena.»
Intervenne Kayla: «Be', veramente Nana ha avuto di nuovo un leggero calo di pressione, così sono passata a trovarla per precauzione».
«Non esageriamo, Kayla. Per favore: non è il caso», la rimproverò come al solito Nana. «Sto bene. Sentirsi un po' deboli è normale alla mia età.»
Kayla annuì e sorrise, poi fece un gran sospiro e si appoggiò allo schienale. «Mi scusi, Nana. Parli lei.»
«La settimana scorsa mi sentivo un po' debole. Come tu ben sai, Alex. Niente di grave. Se ci fosse ancora il piccolo Alex da accudire, magari mi sarei preoccupata di più.»
«Be', io sono preoccupato comunque», ribattei.
Kayla sorrise scuotendo la testa. «Giusto. Come ha detto Nana, ero in zona e sono passata a farle una visitina. Di pura cortesia. Ma le ho misurato la pressione. Sembra tutto a posto. Vorrei però che facesse gli esami del sangue.»
«Va bene, farò le analisi», disse Nana. «Adesso parliamo del tempo.»
Scossi la testa a tutte e due, poi chiesi alla dottoressa: «E tu continui a lavorare troppo?»
«Da che pulpito...» replicò lei piccata, ma subito fece un bel sorriso. Kayla aveva un gran senso dell'umorismo e riusciva sempre ad alleggerire l'atmosfera. «Purtroppo c'è troppo da fare in questo quartiere. Non fatemi parlare del numero di persone che, nella capitale di questo nostro Paese così ricco, non possono permettersi una visita da un buon medico o devono aspettare ore e ore al St. Anthony e in vari altri ospedali della città.»
Kayla mi era sempre piaciuta. Per essere sinceri, mi intimidiva anche un po'. Come mai? mi chiesi mentre parlavamo. Notai che era dimagrita, a furia di correre a destra e a sinistra per far del bene nel nostro quartiere. La verità era che la trovavo più bella che mai e mi vergognavo un po' di essermene accorto.
«Che cosa fai lì impalato a guardare?» mi disse Nana. «Su, siediti qui con noi.»
«Devo andare. È tardi anche per me», disse Kayla alzandosi.
«No, no, non voglio disturbarvi», protestai. Tutto a un tratto, mi dispiaceva che Kayla se ne andasse. Avevo voglia di parlare di qualcosa che non fosse il Lupo e le sue minacce di attacchi terroristici.
«Non ci disturbi, Alex, tutt'altro. Ma ho ancora due visite domiciliari da fare.»
Guardai l'orologio. «Ancora due visite a quest'ora? Sei una donna eccezionale. Anzi, no, devi essere matta!» esclamai sorridendo.
«Forse sì. Probabile», rispose Kayla con un'alzata di spalle. Poi baciò affettuosamente Nana e le disse: «Arrivederci. E mi raccomando: le analisi del sangue!»
«La memoria mi funziona ancora.»
Quando la dottoressa se ne fu andata, Nana mi disse: «Kayla Coles è una donna eccezionale, Alex. E vuoi sapere una cosa? Secondo me, uno dei motivi per cui viene a trovarmi è per vedere te. La mia teoria è questa e, per quanto strampalata, credo che sia giusta».
Ci avevo pensato anch'io. «Ma allora perché scappa come un razzo appena arrivo?»
Nana si adombrò, poi inarcò un sopracciglio e disse: «Forse perché non la inviti mai a restare. Forse perché te ne stai lì impalato a guardarla in quel modo. Perché non fai qualcosa? Potrebbe essere la donna giusta per te, sai? Non mi contraddire. Hai paura di lei, e questo potrebbe essere un bene».
Ci pensai su e non riuscii a trovare nulla da ribattere. Ero reduce da una lunga giornata e non avevo i riflessi molto pronti. «Allora, ti senti bene? Sei sicura di star bene?» chiesi.
«Alex, ho ottantatré anni, più o meno. Quanto bene posso stare?» ribatté. Poi mi diede un bacio su una guancia e si alzò per andare a dormire.
«Nemmeno tu ringiovanisci, sai», aggiunse voltandosi.
Hai ragione, Nana.
38
Non tutti stavano andando a dormire quella sera. Per qualcuno la notte era ancora giovane.
La Donnola non era mai stata molto abile a controllare i cosiddetti bassi istinti e i bisogni fisici. Questo a volte preoccupava Geoffrey Shafer, perché costituiva un'innegabile debolezza, una vulnerabilità. Tuttavia, era anche eccitante. E Shafer amava il pericolo, la scarica di adrenalina: era la cosa che lo faceva sentire più vivo di tutte. Quando usciva in caccia, per uccidere, si sentiva così bene e così potente da dimenticare tutto il resto.
Conosceva bene Washington, avendo lavorato all'ambasciata britannica. Conosceva anche i quartieri più poveri perché era lì che, in passato, andava a caccia più spesso.
Anche quella sera era in caccia, e si sentiva di nuovo vivo, sentiva che la sua vita aveva uno scopo.
Al volante di una Mercury Cougar nera percorse South Capitol. Piovigginava e c'erano poche ragazze a battere il marciapiede, ma una di esse attirò la sua attenzione.
Fece il giro dell'isolato un paio di volte osservandola in modo sfacciato, recitando la parte del cliente.
Poi rallentò e fermò la macchina. La ragazza era nera, minuta, e metteva in mostra la sua merce davanti al famoso night-club Nation. Portava bustier e minigonna argentati e scarpe con suola e tacco altissimi.
Ma la cosa più bella era che gli era stato ordinato di uscire per una notte brava a Washington. La Donnola stava eseguendo gli ordini del Lupo, stava semplicemente facendo il suo lavoro.
Quando si chinò verso il finestrino del passeggero per parlarle, la ragazza si sporse in avanti con fare provocatorio. Era giovanissima. Probabilmente pensava che le sue tette sode e i capezzoli turgidi le dessero il controllo della situazione. Sarà un incontro interessante, pensava intanto Shafer, che si era messo una parrucca e si era tinto di nero il viso e le mani. In testa gli riecheggiava lo stupido ritornello di una canzone rock: The name of the song is I like it like that.
«Sono vere?» chiese alla ragazza, che si era avvicinata.
«Verissime. Vuoi controllare di persona? Ti piacerebbe toccarle? Lo puoi fare, sai. Vorresti l'esclusiva per un po', tesoro?»
Shafer sorrise amabilmente, stando al gioco. Se la ragazza si era accorta che aveva la faccia tinta, non lo diede a vedere. Nulla la smuove, eh? Vedremo.
«Sali in macchina», le disse. «Vorrei darti una controllatina. Dalle tette ai piedi, diciamo.»
«Sono cento dollari», disse lei, indietreggiando di colpo. «Va bene? Perché se non ti va...»
Shafer continuò a sorridere. «Se sono vere, d'accordo per cento dollari. Nessun problema.»
La ragazza aprì la portiera e salì in macchina. Si era data troppo profumo. «Controlla pure, caro. Sono un po' piccole, ma sono molto belle. E sono tutte tue.»
Shafer rise. «Sai che mi piaci proprio? Ricordati quello che hai appena detto, però. Mi aspetto che tu mantenga la parola.» Sono tutte mie.
39
A mezzanotte ero di nuovo in servizio e mi sembrava di essere tornato ai tempi della Omicidi. Arrivai in una zona del Southeast che conoscevo bene, New Jersey Avenue, tante modeste case a schiera bianche perlopiù abbandonate. Sulla scena del delitto si era già radunata una folla, tra cui vari teppisti del quartiere e ragazzini in bicicletta che a quell'ora avrebbero dovuto essere a dormire.
Un uomo con le treccine e un berretto da rasta gridava con voce rauca, da squilibrato, alla polizia. Era dietro il nastro giallo che delimitava la scena del delitto. «Ehi, la sentite questa musica? Vi piace? È la musica della mia gente!»
Davanti a una delle case più malandate mi venne incontro Sampson. Entrammo insieme.
«Proprio come ai vecchi tempi, eh?» mi disse scuotendo la testa. «È per questo che sei qui, Dragonslayer? Hai nostalgia dei vecchi tempi? Vorresti tornare al dipartimento di polizia?»
Annuii e indicai con un gesto la scena. «Sì, avevo nostalgia di un bell'omicidio in piena notte come questo.»
«Ti capisco, mancherebbe anche a me.»
La casa dove era stata trovata la ragazza aveva le finestre sul davanti chiuse con assi, ma non avemmo difficoltà a entrare: la porta non c'era più.
«Questo è Alex Cross», disse Sampson ai poliziotti di guardia sulla soglia. «Lo conoscete? Ecco a voi il famoso Alex Cross, in carne e ossa.»
«Dottor Cross», disse rispettosamente uno degli agenti, facendosi da parte per lasciarci passare.
«C'è chi se ne va, ma non viene dimenticato», commentò John Sampson.
Dentro trovammo il solito squallore: spazzatura sparsa un po' dappertutto e un odore di marcio e di urina che mi parve insopportabile. Forse era perché non mettevo piede in una di quelle topaie abbandonate da un pezzo. Da più di un anno, per la precisione.
Ci dissero che il cadavere era al terzo piano, l'ultimo, e Sampson e io ci avviammo su per le scale.
«Il posto ideale per liberarsi di un morto», borbottò lui.
«Già. Quante volte ci è capitato...»
«Be', se non altro non dobbiamo scendere in cantina», borbottò ancora Sampson. Poi chiese: «Allora, come mai sei qui? Non hai risposto alla mia domanda».
«Avevo nostalgia di te. Nessuno mi chiama più Sugar.»
«Oh... Voi federali non usate soprannomi? Allora, come mai sei qui, Sugar?»
Nel frattempo eravamo arrivati al terzo piano, che pullulava di agenti del dipartimento di polizia di Washington. Ebbi un altro déjà vu. Sia io che Sampson ci infilammo i guanti di plastica. Avevo davvero nostalgia dei tempi in cui lavoravamo insieme e, tristemente, quei gesti mi risvegliavano un sacco di ricordi, sia belli che brutti.
Ci fermammo davanti alla seconda porta sulla destra proprio mentre un giovane agente nero usciva, con una mano avvolta in un fazzoletto bianco davanti alla bocca. Credo che stesse per vomitare. Non era proprio cambiato niente, allora.
«Speriamo che non abbia vomitato su tutta la scena del delitto», disse Sampson. «'Sti pivelli!»
Entrammo. «Oh, Signore», mormorai. Nella Omicidi si vedono spettacoli come quello uno dopo l'altro, ma non ci si abitua mai e non si dimenticano i particolari, le sensazioni, gli odori, il sapore che resta in bocca.
«Sono qui perché lui ha chiamato prima noi», spiegai a Sampson.
«Lui chi?» chiese il mio amico.
«Dimmelo tu», ribattei.
Ci avvicinammo al cadavere, che era steso sul pavimento di legno. Era una ragazza, probabilmente non ancora ventenne. Minuta, piuttosto bella. Nuda, a parte una scarpa con il tacco alto che le pendeva dal piede sinistro. Alla caviglia destra aveva una catenina d'oro. Aveva le mani legate dietro la schiena con una corda di plastica. Le avevano ficcato in bocca un sacchetto di plastica nera.
Avevo già visto omicidi come quello, esattamente identici. E Sampson anche.
«Una prostituta», disse Sampson con un sospiro. «Gli agenti l'avevano notata dalle parti di South Capitol. Diciotto, diciannove anni, forse anche meno. Chi è?»
L'assassino le aveva tagliato via i seni e anche il viso era devastato. Mi vidi sfilare davanti agli occhi un elenco completo di comportamenti devianti a cui non pensavo da un po': aggressività espressiva (sì), sadismo (sì), sessualizzazione (sì), violenza premeditata e strategica (sì). Sì, sì, sì.
«È Shafer, John. È la Donnola. È di nuovo a Washington. Ma il peggio deve ancora arrivare, purtroppo.»
40
Conoscevamo un bar che era ancora aperto e, venendo via dalla scena del delitto in New Jersey Avenue, Sampson e io ci fermammo a bere una birra. Ufficialmente non eravamo più in servizio, ma tutti e due avevamo il cercapersone acceso. Nel locale c'erano solo altri due clienti, quindi avevamo una certa privacy.
Ero contento di stare un po' con John. Avevo bisogno di parlargli. Dovevo chiedergli una cosa.
«Sei sicuro che sia Shafer?» mi chiese quando ci trovammo davanti a due birre e a una ciotola di noccioline. Gli raccontai dell'inquietante registrazione video dei fatti di Sunrise Valley, ma non delle altre minacce né del ricatto del Lupo. Non potevo, e questo mi disturbava parecchio, perché non gli avevo mai mentito e la sensazione che avevo in quel momento era proprio di mentirgli.
«È lui. Non c'è dubbio.»
«Che casino», commentò John. «La Donnola... Perché Shafer è tornato a Washington? L'ultima volta siamo stati lì lì per beccarlo.»
«Forse è tornato proprio per questo. Per il brivido, la sfida.»
«Sì, certo. Magari gli manchiamo. Questa volta però non lo manco io: gli sparo dritto in mezzo agli occhi.»
Bevvi un sorso. «Non dovresti essere a casa con Billie?»
«Sa che stasera lavoro, e non fa storie. E poi sua sorella è da noi per un po'. A quest'ora dormiranno tutte e due.»
«Come va la vita da sposato? E come mai la sorella di Billie è da voi?»
«Trina è simpatica, quindi non c'è problema. È strano, ci sono cose a cui non avrei mai immaginato di potermi abituare e che invece non sono affatto un problema. Sono felice. Per la prima volta, credo. Mi sembra di volare a un palmo da terra, sai.»
Sorrisi. «L'amore non è una cosa meravigliosa?»
«Sì. Dovresti riprovarci anche tu, prima o poi.»
«Sono pronto», dissi sorridendo.
«Dici? Me lo sono chiesto, a volte. Sei davvero pronto?»
«Senti, John, c'è una cosa che ti devo dire.»
«Questo l'avevo già capito. Riguarda quell'attentato. E poi la morte di Thomas Weir. Shafer è tornato in azione.» Mi guardò negli occhi. «Allora, che cosa c'è?»
«Tutto questo è strettamente confidenziale, John. Minacciano un attentato contro Washington, ed è una cosa seria. Siamo stati avvertiti che sarà una catastrofe. Hanno chiesto un riscatto, una somma stratosferica.»
«Che non può essere pagata, perché gli Stati Uniti non trattano con i terroristi, giusto?» replicò Sampson.
«Non lo so e credo che non lo sappia nessuno, a parte forse il presidente. Non sono così addentro. Insomma, adesso tu ne sai quanto me.»
«E dovrei comportarmi di conseguenza.»
«Sì, te lo consiglio. Ma non parlarne con nessuno, nemmeno con Billie. Mi raccomando.»
Sampson mi strinse la mano. «Ho capito. Grazie.»
41
Quella notte, tornando a casa con la mia vecchia Porsche, fui assalito dai sensi di colpa per aver parlato con Sampson. In realtà, avevo l'impressione di non poter fare diversamente. Forse ero così scosso anche per via della stanchezza: lavoravamo ormai diciotto-venti ore al giorno e cominciavo a sentire le conseguenze dello stress. Dietro le quinte si parlava molto di gestione dell'emergenza, ma nessuno sembrava sapere a che punto eravamo con la richiesta di riscatto. Avevamo tutti i nervi tesi: erano già passate quasi dodici ore dall'inizio del conto alla rovescia.
Avevo anche altri interrogativi che mi frullavano per la testa. Era stato Shafer a uccidere e mutilare la ragazza che avevamo trovato in New Jersey Avenue? Ne ero quasi sicuro e Sampson era d'accordo con me, ma che senso aveva compiere un omicidio così sanguinoso in quel momento? Perché correre un rischio simile? Dubitavo fortemente che il cadavere della ragazza fosse stato abbandonato a meno di tre chilometri da casa mia per puro caso.
Era tardi e avevo voglia di pensare a qualcos'altro, qualsiasi cosa, ma non riuscivo a scacciare il pensiero delle indagini. Premetti sull'acceleratore e attraversai la città deserta a velocità più alta del necessario per cercare di concentrarmi sulla guida, ma nemmeno quel trucco funzionò.
Arrivato davanti a casa, rimasi alcuni minuti seduto in macchina a cercare di svuotarmi la mente prima di entrare. Cose da fare. Dovevo telefonare a Jamilla: sulla West Coast erano solo le undici. Mi sentivo scoppiare la testa e ricordavo benissimo l'ultima volta che avevo avuto quella stessa sensazione: nel periodo in cui Shafer aveva commesso una serie di efferati delitti a Washington. Ma questa volta era molto peggio.
Alla fine entrai in casa. Passando davanti al pianoforte nella veranda pensai di sedermi e suonare un po'. Un blues? La canzone di un musical? Alle due del mattino? Certo, perché no? Tanto non sarei riuscito a dormire.
Squillò il telefono. Corsi a rispondere. Chi diavolo poteva essere a quell'ora?
Sollevai il ricevitore dell'apparecchio a muro in cucina, vicino al frigorifero.
«Pronto, Cross.»
Silenzio.
Poi riagganciarono.
Pochi secondi dopo, un altro squillo. Risposi immediatamente.
E di nuovo riattaccarono.
E poi ancora una volta.
Staccai il telefono e lo posai sul bancone dentro un guanto da forno di Nana per non sentire il bip bip.
Udii un rumore alle mie spalle.
Mi voltai di scatto.
Nana era in piedi sulla soglia, con il suo metro e cinquantadue di statura e i suoi quarantaquattro chili di peso. Aveva una luce furibonda negli occhi.
«Che cosa c'è, Alex? Che cosa fai alzato? Non va bene. Chi telefona in casa a quest'ora?»
Mi sedetti al tavolo della cucina e, davanti a una tisana calda, le raccontai tutto ciò che potevo.
42
Il giorno successivo lavorai in coppia con Monnie Donnelley, il che era un bene per entrambi. Avevamo il compito di raccogliere informazioni sul colonnello Shafer e sui mercenari che avevano partecipato all'attentato. Dovevamo fare in fretta: il tempo stringeva.
Monnie, come al solito, era preparatissima. Mentre raccoglievamo dati, mi parlò a raffica. Una volta che inizia, non si ferma più. È convinta che per arrivare alla verità bisogna partire dai fatti.
«I mercenari, cosiddetti 'mastini della guerra', sono prevalentemente ex militari delle Forze speciali: Delta Force, Army Ranger, SEAL, SAS se sono britannici. La maggioranza opera ai confini della legalità, nel senso che non sono soggetti agli statuti militari e neppure alla legge americana. Tecnicamente, sono soggetti alle leggi dei Paesi in cui operano, che però spesso hanno un sistema giudiziario che fa schifo, ammesso che ce l'abbiano.»
«Dunque sono cani sciolti. Una soluzione adatta a Shafer. Lavorano per agenzie private?»
Monnie annuì. «Sì. Compagnie militari private. Guadagnano fino a ventimila dollari al mese, ma la media è intorno ai trequattromila. Le compagnie più grandi dispongono di un'artiglieria propria, con carri armati e caccia. Ci crederesti?»
«Sì. Ormai non mi stupisce più nulla. Credo persino nel Lupo Cattivo.»
Monnie voltò le spalle allo schermo del computer e mi guardò. Capii che stava per snocciolarmi una delle sue serie di dati statistici. «Alex, il ministero della Difesa ha oltre tremila contratti con compagnie private militari americane, per più di trecento miliardi di dollari. Credi anche a questo?»
Fischiai. «Be', questo mette in una prospettiva diversa le richieste del Lupo, no?»
«Diamogli i soldi, e poi lo becchiamo», disse Monnie.
«Non sta a me decidere, ma sono abbastanza d'accordo con te. Potrebbe essere un piano sensato.»
Monnie tornò a guardare lo schermo del computer. «Qui c'è un'informazione a proposito della Donnola: ha lavorato con un ente che si chiama Mainforce International. Che ha sedi a Londra, Washington e Francoforte.»
Rimasi colpito. «Tre delle città nel mirino del Lupo. Cos'altro sai di questa Mainforce?»
«Vediamo... Fra i clienti ci sono istituzioni finanziarie; petrolio, naturalmente; pietre preziose...»
«Diamanti?»
«I migliori amici dei mercenari. Shafer usava il nome Timothy Heath. Ha lavorato in Guinea per 'liberare' alcuni minatori presi in ostaggio dalla 'popolazione'. Fu arrestato con l'accusa di tentata corruzione di funzionari locali. Al momento dell'arresto, aveva con sé un milione di sterline in contanti.»
«Come ha fatto a tirarsene fuori?»
«Pare che sia fuggito. Non entrano nei dettagli, però. E le informazioni si fermano qui, senza follow-up. Strano.»
«In questo la Donnola è sempre stata bravissima. Riesce a farla franca anche nelle situazioni più intricate. Forse il Lupo ha voluto Shafer per questo.»
«Non credo», ribatté Monnie, guardandomi negli occhi. «Secondo me l'ha voluto per dare addosso a te. Che sei vicino al direttore dell'FBI.»
43
Alle due di quel pomeriggio ero in viaggio per Cuba. Dovevo andare a Guantánamo Bay, Gitmo per gli amici. Mi ci avevano mandato Burns e il presidente degli Stati Uniti. Ultimamente la base aveva fatto scalpore per via dei settecento e passa «detenuti» che vi erano rinchiusi per motivi legati al terrorismo. Un luogo interessante, non c'era dubbio. Che aveva fatto la Storia, nel bene e nel male.
Appena atterrai, venni scortato al Campo Delta, che ospitava la maggior parte dei detenuti. Era circondato da una recinzione di filo spinato con diverse torrette di guardia. Avevo sentito dire che un'azienda americana veniva pagata oltre cento milioni di dollari per i servizi forniti a Guantánamo.
Ero lì per parlare con un uomo di origine saudita, che era nel piccolo reparto psichiatrico, in una costruzione a parte. Non mi era stato dato il suo nome e non sapevo quasi nulla di lui, a parte che aveva informazioni importanti riguardo al Lupo.
Lo incontrai in una cella di isolamento con pareti imbottite e niente finestre. Per l'occasione, vi erano state portate due sedie.
«Ho già detto agli altri tutto quello che so», esordì l'uomo, che parlava molto bene inglese. «Pensavo fosse possibile trattare la mia liberazione. Così mi è stato fatto capire due giorni fa. Ma qui tutti mentono. Chi è lei?»
«Vengo da Washington appositamente per ascoltare cos'ha da dire. Può ripetermelo, per favore? Male non può farle. Magari ci ricava qualcosa.»
L'uomo annuì, grave. «Male ormai non mi farà più nulla. Davvero. Sono qui da duecentoventisette giorni senza aver mai fatto niente di male. Niente di niente, le assicuro. Insegnavo in un liceo di Newark, nel New Jersey. Non mi sono state rivolte accuse. Che cosa ne pensa?»
«Penso che adesso ha la possibilità di uscire. Mi dica solo che cosa sa del russo che si fa chiamare Lupo.»
«E perché dovrei? Non capisco. Non mi ha ancora detto chi è lei.»
Mi strinsi nelle spalle. Mi era stato ordinato di non dirgli chi ero. «Le ripeto: ha solo da guadagnarci. Nulla da perdere. Se vuole uscire di qui, io posso darle una mano.»
«E lo farà?»
«Se posso, sì.»
E così si convinse a parlare. Il suo racconto durò un'ora e mezzo. Aveva condotto una vita interessante. Aveva lavorato nel servizio di protezione della famiglia reale in Arabia Saudita ed era venuto diverse volte negli USA al suo seguito. L'America gli era piaciuta e aveva deciso di rimanerci, ma aveva degli amici che lavoravano nei servizi sauditi.
«Mi hanno parlato di un russo che ha contattato alcuni dissidenti all'interno della famiglia reale, che non sono pochi. Voleva che finanziassero un'importante operazione che avrebbe messo in ginocchio gli Stati Uniti e alcuni Paesi dell'Europa occidentale. So che si trattava di un'impresa spettacolare, ma non conosco i particolari.»
«Sa come si chiamava il russo? Di dov'era? Di quale Paese, quale città?»
«La cosa più interessante è proprio questa», mi rispose. «L'impressione che ho avuto era che fosse una donna, non un uomo. Ne sono abbastanza sicuro. Il nome in codice, comunque, era Lupo.»
Alla fine del racconto mi chiese: «E adesso? Cosa ha intenzione di fare?»
«Adesso lei mi ripete tutta la storia», dissi. «Da cima a fondo.»
«Sarà uguale identica», replicò. «Perché è vera.»
Lasciai Guantánamo quella sera tardi per fare ritorno a Washington. Nonostante l'ora, dovevo riferire il colloquio avuto con il prigioniero. Incontrai Ron Burns e Tony Woods nella piccola sala riunioni del direttore. Burns voleva sapere quanto ritenevo credibile il saudita e se mi aveva dato informazioni utili. Il Lupo stava negoziando anche in Medio Oriente?
«Dovremmo liberarlo», dissi a Burns.
«Dunque gli crede.»
Scossi la testa. «Ha ricevuto quelle informazioni, per un motivo o per l'altro. Non so quanto valgano e non lo sa neppure lui. Ma o lo accusiamo di qualcosa, oppure lo lasciamo andare.»
«Il Lupo è stato davvero in Arabia Saudita? Possibile che sia una donna, Alex?»
Ripetei: «Io penso che il prigioniero ci abbia riferito quello che era stato riferito a lui. Lasciamolo tornare al suo liceo di Newark».
Burns sbottò: «Ho capito come la pensa in proposito, Alex. Ora basta».
Sospirò. «Oggi ho parlato con il presidente e i suoi consulenti. Non vedono come possiamo trattare con questi criminali. Ritengono di non doverlo fare.» Mi guardò in faccia. «Dobbiamo trovare il Lupo. Nel giro di due o tre giorni al massimo.»
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È orribile sapere che sta per succedere una catastrofe e non poter fare nient'altro che aspettare. Ero sveglio alle cinque, la mattina dopo. Feci colazione con Nana. «Dobbiamo parlare di te e dei ragazzi», dissi, mentre bevevo il caffè e mangiavo una fetta di pane alla cannella. «Sei abbastanza sveglia?»
«Sono sveglissima, Alex. E tu?» mi fece. «Sei pronto a sentire cos'ho da dirti io?»
Annui, mordendomi la lingua. Di fronte a genitori e nonni, si resta sempre bambini. A me, con Nana, succedeva ogni volta.
«Prontissimo. Spara.»
«Le ragioni per cui non intendo andarmene da Washington sono due. Mi segui?» fece lei. «La prima è che ci abito da ottantatré anni. Regina Hope è nata qui e intende morire qui. Sarà una sciocchezza, ma ci tengo. Mi piace Washington, mi piace questo quartiere e soprattutto mi piace questa vecchia casa, in cui sono successe tante cose. Se se ne va la casa, me ne vado anch'io. È triste, ma è cosi.»
Dovetti sorridere alla mia nonnina. «Sai che hai parlato con la tua voce da maestra? Te ne sei resa conto?»
«Può darsi. Ma che importanza ha? È una questione seria.» Aggiunse: «Sono stata sveglia quasi tutta la notte. Me ne stavo lì, al buio, e pensavo alle cose che ti volevo dire. Ma vorrei sapere anche come la pensi tu. Vuoi che ce ne andiamo, vero?»
«Nana, se ai ragazzi succede qualcosa, non potrei mai perdonarmelo.»
«Neanch'io», disse lei. «Non c'è neanche bisogno di dirlo.» Sembrava inflessibile e pensai che era davvero una donna tosta.
Mi guardò negli occhi e io mi augurai che ci stesse ripensando. «Io sono sempre vissuta qui, Alex, e ci voglio restare. Se pensi che sia meglio allontanare i ragazzi, mandali dalla zia Tia. Ma adesso... Mangi così poco? Una fetta di pane tostato e basta? Ti preparo qualcosa io, dai! Hai una giornata lunga e faticosa davanti: ti devi nutrire.»
45
Il Lupo era in Medio Oriente, quindi almeno alcune delle informazioni su di lui erano corrette.
L'incontro che il Lupo diceva essere «per la raccolta di fondi» si tenne in un accampamento di tende nel deserto, a un centinaio di chilometri da Riyadh, in Arabia Saudita. Erano presenti personalità del mondo arabo e asiatico e il Lupo, che amava definirsi «cittadino del mondo, viaggiatore senza patria».
Ma era veramente il Lupo o una controfigura? Nessuno lo sapeva con certezza. Non si diceva che fosse una donna? Quella voce si ripresentava con insistenza, ma l'uomo nel deserto era alto, con i capelli scuri, lunghi, e la barba.
Tutti i presenti pensarono che con un aspetto così il Lupo non poteva passare inosservato. Ma ciò contribuiva ad accrescere l'alone di mistero che lo circondava, la sua fama di genio del male.
Neanche il suo comportamento durante la mezz'ora che precedette i colloqui passò inosservato. Mentre gli altri chiacchieravano bevendo whisky o tè alla menta, il Lupo se ne stette per conto suo, in silenzio, scacciando spazientito con una mano tutti quelli che tentavano di avvicinarsi. Sembrava al di sopra di tutto.
Il tempo era bello e decisero di parlare fuori, all'aria aperta. Lasciarono la tenda e presero posto, a seconda del loro Paese d'origine.
Venne ufficialmente aperta la seduta e il Lupo cominciò a parlare. In inglese, sapendo che lo parlavano tutti, o perlomeno lo capivano.
«Sono qui per riferirvi che tutto sta procedendo bene, secondo i piani. Dovremmo rallegrarci e rendere grazie.»
«Come facciamo a saperlo? Questo è ciò che dice lei», intervenne uno degli astanti. Il Lupo sapeva che era un mujahidin, un guerriero dell'Islam.
Sorrise, affabile. «Infatti. Avete la mia parola. Forse non voi, ma la maggior parte del mondo ha televisioni, giornali e radio che confermano che abbiamo creato non pochi problemi ad americani, inglesi e tedeschi. Nella tenda c'è un televisore sintonizzato sulla CNN, se volete accertarvene di persona.»
I suoi occhi scuri si allontanarono dal mujahidin, che era arrossito per la vergogna e la collera.
«Il piano sta funzionando, ma è tempo che facciate un'altra donazione, per poter mantenere in moto la macchina che abbiamo fatto partire. Ditemi, uno per uno, se siete d'accordo. Bisogna spendere, per poter guadagnare. È un concetto occidentale, ma è giusto.»
Guardò tutti i presenti, che fecero un cenno di assenso o alzarono la mano. Tutti, tranne l'arabo che poco prima aveva sollevato obiezioni, il quale incrociò le braccia e dichiarò in tono di sfida: «Io voglio saperne di più. La sua parola non mi basta».
«Capisco», replicò il Lupo. «Ho recepito il messaggio. Ma anch'io ho un messaggio per lei, guerriero.»
Come dal nulla, nella sua mano si materializzò una pistola. Si udì uno sparo e il saudita barbuto cadde a terra stecchito, gli occhi senza vita rivolti verso il cielo.
«A voi la mia parola basta?» domandò. «Possiamo passare alla prossima fase della nostra guerra contro l'Occidente?»
Nessuno fiatò.
«Molto bene. Andiamo avanti, allora», disse il Lupo. «È eccitante, no? Fidatevi di me: stiamo vincendo. Allah Akbar.» Dio è grande. E io anche.
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Erano le sette meno un quarto del mattino e stavo guidando lungo Independence Avenue con un caffè in mano e Jill Scott che cantava dall'autoradio. Mi sentivo quasi in pace. Poi mi suonò il cellulare e capii che la pace era finita.
Era Kurt Crawford e sembrava emozionato. Non mi diede il tempo di dire una parola. «Alex, Geoffrey Shafer è stato ripreso dalle telecamere di un impianto di sorveglianza a New York. È andato in un appartamento che tenevamo sotto controllo da prima che scoppiasse il caos. Potremmo aver trovato la cellula che doveva colpire a Manhattan. Sono di al-Qaeda. Che cosa significa, Alex? Devi venire subito a New York. Vai subito alla base di Andrews.»
Presi il lampeggiatore dal sedile del passeggero e lo misi sul tetto della macchina. Mi sembrava di essere tornato ai tempi in cui lavoravo nella polizia di Washington.
Corsi alla base dell'aeronautica di Andrews e meno di mezz'ora dopo ero a bordo di un Bell nero come l'inchiostro, diretto all'eliporto di Manhattan, sull'East River. Mentre sorvolavamo la città, immaginai New York nel panico. Il problema principale era che era fisicamente impossibile evacuare le città bersaglio. Erano troppo grandi e poi il Lupo ci aveva avvertiti: se avessimo aperto bocca, l'attacco sarebbe stato immediato. Fino a quel momento i media non erano venuti a sapere nulla, ma gli attentati nel Nevada, in Inghilterra e in Germania avevano messo in allarme tutti.
Non appena arrivai all'eliporto, venni accompagnato nella sede dell'FBI di Manhattan. Era in subbuglio, da quando qualcuno, controllando i filmati, aveva riconosciuto Shafer. Che cosa faceva a New York? Era legato ad al-Qaeda? Allora era vero che il Lupo era stato in Medio Oriente... Ma che cosa stava succedendo?
Venni aggiornato brevemente sulla cellula di terroristi che si nascondeva in un palazzo di mattoni nella zona di TriBeCa, vicino all'imbocco dello Holland Tunnel. Non si capiva se Shafer fosse ancora dentro. Era arrivato alle nove della sera prima e nessuno lo aveva visto uscire.
«Sono chiaramente della Jihad», mi disse Angela Bell, l'analista dell'Antiterrorismo di New York. Secondo lei, la vecchia costruzione in cui si nascondeva la cellula era occupata da una ditta di import-export coreana, da un'agenzia di traduzioni e da una sedicente associazione di beneficenza a favore dei bambini afghani.
Sulla base dei rapporti degli agenti di sorveglianza, sembrava che i terroristi stessero preparando un attentato nella zona di New York. In un magazzino di Long Island erano state ritrovate varie apparecchiature e sostanze chimiche. Il contratto di affitto era intestato a uno degli individui che si trovavano nella casa vicino allo Holland Tunnel e un camioncino, appartenente a uno dei membri della cellula, era stato modificato in maniera da poter trasportare carichi pesanti. Un ordigno? E di che tipo?
Ci stavamo preparando a fare irruzione nella casa vicino allo Holland Tunnel e nel magazzino di Long Island. Le due operazioni procedevano in parallelo.
Finalmente, alle quattro del pomeriggio, mi accompagnarono dalla squadra che si preparava a entrare in azione a TriBeCa.
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Ci aveva avvertiti di non farlo. Ma come potevamo ubbidire? Chi si aspettava che ubbidissimo, con tante vite in pericolo? Avremmo sempre potuto dire che il nostro obiettivo era al-Qaeda e che ignoravamo il collegamento con il Lupo. Ma non era vero.
L'appartamento in cui erano nascosti i terroristi e forse anche Geoffrey Shafer era abbastanza facile da controllare. C'era un unico ingresso, sul davanti. L'uscita antincendio sul retro dava in un vicolo stretto dove avevamo installato telecamere wireless collegate a un impianto a circuito chiuso. Su un lato, c'era una tipografia. Sull'altro, un piccolo posteggio.
La Donnola era ancora lì?
Una squadra d'assalto dell'Antisequestri e una delle squadre speciali del dipartimento di polizia di New York erano appostate al piano superiore di uno stabilimento di lavorazione carni di TriBeCa, a un paio di isolati dallo Holland Tunnel. Ci andammo anche noi, per mettere a punto gli ultimi dettagli, in attesa di ricevere l'ordine di partire.
Gli uomini della HRT erano impazienti e premevano perché facessimo irruzione nella casa fra le due e le tre del mattino. Io non sapevo che cosa avrei deciso, fosse toccato a me. Avevamo per le mani una cellula di noti terroristi e forse anche Shafer. Ma eravamo stati avvertiti delle possibili conseguenze di un nostro intervento. Inoltre, era possibile che si trattasse soltanto di una messinscena, una sorta di test.
Appena prima di mezzanotte cominciò a girare voce che la HRT aveva scoperto qualcos'altro. Verso l'una mi convocarono nell'ufficio contabilità della ditta di import-export, che era stato adibito a quartier generale dell'operazione. Si stava avvicinando il momento di prendere una decisione.
Michael Ainslie, della sede di New York, era a capo delle operazioni. Era un bell'uomo, alto e magro, e aveva una grandissima esperienza. La mia impressione, tuttavia, fu che sarebbe stato più a suo agio su un campo da tennis.
«Ecco cosa abbiamo ottenuto dalla squadra di sorveglianza», ci disse. «Uno dei tiratori scelti della HRT ha raccolto qualche immagine e noi ne abbiamo prese altre. Mi sembrano positive. Guardate anche voi.»
Le immagini erano state scaricate su un portatile e Ainslie le richiamò sullo schermo. Si riferivano a sei finestre sul lato orientale della palazzina.
«Ci preoccupava il fatto che non fossero state coperte», disse Ainslie. «Questa è gente che dovrebbe essere esperta, giusto? Be', abbiamo identificato cinque maschi e due femmine. Il colonnello Shafer non appare in nessuno dei filmati. Finora, perlomeno. Non l'abbiamo visto neppure uscire, peraltro. Stiamo controllando con l'imaging a infrarossi se ce ne siamo persi qualcuno.»
A Washington il dipartimento non se lo poteva permettere, ma avevo visto usare quel sistema al Bureau. Rilevava le variazioni di temperatura, consentendo di «vedere» le sagome anche attraverso i muri.
Ainslie indicò le immagini ravvicinate che scorrevano sullo schermo del portatile. «Qui la cosa diventa interessante», dichiarò. Fermò l'immagine e ci indicò due uomini seduti al piccolo tavolo della cucina.
«Quello sulla sinistra è Karim al-Lilyas, al quattordicesimo posto nell'elenco della Sicurezza Nazionale. Fa parte di al-Qaeda. Sospettiamo che abbia partecipato agli attentati del '98 contro le nostre ambasciate di Dar es Salaam e Nairobi. Non sappiamo quando sia arrivato o perché, ma è certo che in questo momento è a New York. L'altro è Ahmed el-Masry, l'ottavo della lista. Un pezzo grosso. Ingegnere. Nessuno dei due appariva nelle registrazioni precedenti: devono essere arrivati a New York da poco. Perché? In circostanze normali, saremmo già entrati in quella cucina e staremmo facendo tè alla menta per tutti, preparandoci a una lunga chiacchierata. Anche in sede e a Washington stanno guardando queste immagini. Ci diranno qualcosa al più presto, presumo.»
Si guardò intorno e sorrise. «Per la cronaca, io mi sono espresso a favore di un'irruzione. Vorrei tanto bermi un tè alla menta con quei due.»
Nella stanza si alzò un applauso. Per un attimo, ci parve quasi di divertirci.
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I più spericolati e tosti della HRT, ovvero quasi la maggioranza dei suoi componenti, definiscono quel genere di operazione «cinque minuti di panico e di brivido. Panico loro, brivido nostro». L'unico brivido che provavo io era di piacere, al pensiero di catturare Geoffrey Shafer.
Gli uomini della HRT e delle squadre speciali erano pronti al raid. Anzi, scalpitavano. Armati fino ai denti, preparatissimi, passeggiavano per lo stabilimento, pompati al massimo e sicuri di saper condurre la missione presto e bene. Guardandoli - ed era impossibile non farlo - non si poteva che essere d'accordo.
Il problema era che, se davvero avessero condotto la missione presto e bene, la cosa ci si sarebbe potuta ritorcere contro. Il Lupo ci aveva avvertito e sapevamo per esperienza di che cosa era capace, quando i suoi ordini non venivano rispettati. D'altro canto, magari contava proprio sugli uomini che stavamo sorvegliando per sferrare il colpo a New York. Insomma, era una decisione difficile.
Conoscevo l'operazione nei minimi dettagli. Per prendere la palazzina occorreva dispiegare tutti gli uomini delle squadre. C'erano sei unità di assalto e sei di tiratori scelti. Secondo la HRT, due di troppo: non volevano l'aiuto delle squadre speciali. Le unità di tiratori scelti della HRT si chiamavano X-Ray, Whisky, Yankee e Zulu. Ciascuna constava di sette uomini ed era assegnata a un lato dell'edificio. Gli uomini delle squadre speciali li avrebbero supportati sul davanti e sul retro.
Ero colpito dal fatto che gli agenti dell'Antisequestri si sentissero così superiori a tutti gli altri. Era il contrario di quello che pensavo quando ero nel dipartimento di polizia di Washington. I cecchini della squadra erano mimetizzati nell'ambiente, vestiti di scuro. Ciascuno di loro aveva un bersaglio. Ogni porta e finestra dell'edificio era coperta. Rimaneva solo da decidere se partire all'attacco oppure no.
Shafer era là dentro? Stavamo davvero per prendere la Donnola?
Alle due e mezzo del mattino raggiunsi due tiratori scelti appostati nell'edificio di fronte. La tensione era alle stelle.
Erano in una stanzetta di tre metri per tre e avevano montato una tenda nera a pochi centimetri dalla finestra chiusa. Mi spiegarono perché. «Appena riceviamo il segnale, rompiamo il vetro con un tubo di piombo. Sembra una soluzione primitiva, ma non ci è venuto in mente nulla di meglio.»
Nella stanza angusta e asfittica l'atmosfera non invitava alle chiacchiere. Guardai per mezz'ora la casa dei terroristi dal mirino di un fucile di riserva. Avevo il batticuore. Stavo cercando Shafer. E se l'avessi visto? Sarei riuscito a trattenermi?
I secondi passavano lenti e l'agitazione cresceva sempre di più. La squadra d'assalto era pronta: aspettava soltanto un segnale dal Comando di New York.
Via!
Oppure: Lasciamo perdere.
Alla fine ruppi il silenzio. «Scendo in strada. Preferisco stare giù.»
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Era meglio così.
Mi unii a una squadra della HRT dietro l'angolo. Teoricamente, non sarei dovuto stare lì e infatti ufficialmente non c'ero. Ma chiamai Ned Mahoney e gli chiesi di spianarmi la strada.
Erano le tre del mattino e il tempo scorreva lentissimo, senza una parola né da parte del Comando di New York né dallo Hoover Building di Washington. Cosa pensavano? Come si poteva incaricare qualcuno di prendere una decisione simile?
Partire o non partire?
Ubbidire al Lupo o disubbidire e andare incontro alle conseguenze?
Arrivarono le tre e mezzo, poi le quattro. Dal quartier generale sempre silenzio.
Mi misi una tuta da pilota con giubbotto antiproiettile e imbracciai un MP-5. Quelli della HRT sapevano di Shafer e dei miei trascorsi con lui.
Il capo della squadra si sedette per terra vicino a me. «Allora? Tutto okay?»
«Sono stato nella Omicidi, a Washington. Sono andato in un sacco di posti, per un sacco di azioni.»
«Lo so. Se Shafer è là dentro, non ci sfuggirà. Magari lo prendi proprio tu.» Sì, così magari lo ammazzo.
Poi, inaspettatamente, arrivò l'ordine di partire. Via libera all'operazione. Cinque minuti di panico e di brivido.
Per prima cosa sentii i tiratori scelti che rompevano i vetri dall'altra parte della strada. Poi corremmo verso il covo, in assetto di guerra, tuta nera, armati fino ai denti.
Apparvero di colpo due Bell da otto posti, che si avvicinarono al tetto della palazzina e si fermarono, volando a punto fisso, per far scendere alcuni uomini che si calarono dall'alto con delle funi.
Nel frattempo un gruppo di quattro persone si arrampicava invece sulla parete dell'edificio. Spettacolare!
Mi venne in mente lo slogan dell'Antisequestri: velocità e sorpresa. Mai slogan fu più azzeccato.
Sentii abbattere le porte con l'esplosivo, tre o quattro detonazioni nel giro di pochi secondi. In un'operazione del genere, non c'è negoziazione.
Eravamo dentro la casa. C'ero anch'io.
Nei corridoi riecheggiavano spari e fuoco di mitraglia.
Salii al primo piano. Sulla porta spuntò un uomo con i capelli scompigliati e un fucile in mano.
«Mani in alto!» gli gridai. «Mani in alto!»
Capiva l'inglese, perché mollò il fucile e alzò le mani.
«Dov'è il colonnello Shafer? Dov'è Shafer?» gli urlai.
L'uomo scosse la testa, confuso, spaventato.
Lo lasciai con gli altri e corsi al secondo piano. Volevo la Donnola. Ma era lì oppure no?
Vidi correre da una parte all'altra di un ampio soggiorno in cima alle scale una donna vestita di nero.
«Fermati», urlai.
Ma lei non mi ubbidì. Continuò a correre e saltò dalla finestra. La sentii gridare, poi più nulla. Una scena drammatica.
Finalmente sentii gridare: «Siete circondati. Il palazzo è circondato!»
Di Geoffrey Shafer neppure l'ombra, però.
50
Tutti gli uomini delle squadre speciali e della HRT si precipitarono verso la palazzina. Le porte erano state abbattute, alcune finestre mandate in frantumi. Non avevamo bussato prima di entrare, come prevedeva il galateo, ma l'operazione, almeno a quel che potevo vedere, mi sembrava perfettamente riuscita. A parte il fatto che non avevamo trovato Shafer. Dove si era cacciato? Non era la prima volta che quel bastardo mi sfuggiva proprio quando ero lì lì per prenderlo.
La donna che si era lanciata dalla finestra dell'ultimo piano era morta, come prevedibile. Mi congratulai con i ragazzi della HRT mentre salivo le scale e loro si congratularono con me.
Incontrai Michael Ainslie. «Quelli di Washington vogliono che tu prenda parte agli interrogatori», mi annunciò, un po' scontento. «Sono sei. Come li vuoi gestire?»
«E Shafer?» gli chiesi. «Non sappiamo niente di lui?»
«Dicono che non c'è. Non sappiamo se credergli o meno. Lo stiamo cercando.»
Non riuscivo a non sentirmi scoraggiato, ma cercai di farmi forza. Entrai in un ex laboratorio trasformato in abitazione. C'erano sacchi a pelo sparsi per terra e cinque uomini e una donna seduti sul pavimento di legno, ammanettati come prigionieri di guerra. Ma forse lo erano.
Li guardai in silenzio.
Poi indicai quello che mi parve il più giovane: era piccolo, magro, con occhialini di metallo e una barbetta poco curata. «Lui», dissi. E feci per uscire. «Cominciamo con lui. Portatemelo di là!»
Quando il ragazzo venne trasferito nella camera adiacente, che era più piccola, mi guardai di nuovo intorno e indicai un altro ragazzo, con lunghi capelli mossi e una barba folta. «Quello.» Anche lui venne scortato fuori, senza spiegazioni.
Mi presentarono l'interprete, un uomo che si chiamava Wasid e parlava arabo, farsi e pashtu. Ci trasferimmo nella camera vicina insieme.
«Penso che sia saudita. Forse lo sono tutti», mi disse. Non sapevamo di dove fosse, ma il giovane era evidentemente agitato. A volte i terroristi islamici preferiscono morire piuttosto che venire catturati e interrogati dal diavolo. Era quello il mio punto di forza: ero il diavolo.
Incoraggiai l'interprete a chiacchierare con il terrorista del suo Paese natale e delle difficoltà che aveva incontrato a New York, la tana del diavolo. Gli chiesi di accennare al fatto che ero una brava persona, uno dei pochi agenti dell'FBI che non fosse intrinsecamente malvagio. «Gli dica che leggo il Corano e che lo trovo un gran bel libro.»
Nel frattempo, mi sedetti e cercai di capire il comportamento del terrorista e di mimarlo in maniera velata. Stava piegato in avanti sulla sedia. Lo imitai. Se fossi riuscito a ispirargli un minimo di fiducia, forse sarei riuscito anche a farmi dire qualcosa.
All'inizio non funzionò granché bene, ma rispose a una o due domande sulla sua provenienza. Sosteneva di essere entrato negli Stati Uniti con un visto da studente, ma io sapevo che non aveva il passaporto. Non sapeva neppure dove si trovasse la New York University, né nessun'altra università newyorkese.
Alla fine mi alzai in piedi e me ne andai con fare arrabbiato. Andai dal secondo sospettato e ripetei la stessa manfrina.
Quindi tornai dal ragazzo magro e buttai per terra un fascio di dossier, facendo un gran fracasso. Lo vidi fare un salto sulla sedia.
«Digli che mi ha mentito!» urlai all'interprete. «E io che mi fidavo di lui... La CIA e l'FBI non sono una massa di cretini, diglielo. Fallo parlare. Se urli è anche meglio. Non lasciargli aprire bocca finché non ha qualcosa da dirci. E poi, appena incomincia a parlare, mettiti a urlargli di tutto. Digli che morirà, che andremo a cercare i suoi in Arabia Saudita.»
Per un paio d'ore continuai a passare da una camera all'altra. Avendo fatto il terapeuta per anni, ero abbastanza bravo a capire il mio prossimo, specie in uno stato alterato. Presi la donna e la aggiunsi al cocktail. Ogni volta che io uscivo, i funzionari della CIA interrogavano il sospettato. Non era tortura, ma l'effetto non era dissimile.
Ai corsi di formazione, a Quantico, dicono che gli interrogatori vanno condotti con la regola dell'RPM: razionalizzare, proiettare e minimizzare. Io razionalizzai: «Sei una brava persona, Ahmed. Credi nei principi giusti. Vorrei avere una fede solida come la tua». Proiettai la colpa: «Non è colpa tua. Sei giovane, tu. Le autorità statunitensi sanno essere spietate, a volte. A volte anch'io penso che esagerino». Minimizzai le conseguenze: «Finora non hai commesso reati, qui in America. Il nostro sistema giudiziario ti può proteggere». E andai dritto al punto: «Dimmi dell'inglese. Sappiamo che si chiama Geoffrey Shafer ma si fa chiamare la Donnola. Ieri era qui: abbiamo filmati, fotografie, registrazioni audio. Sappiamo che era qui. Dov'è andato? È lui che cerchiamo». Continuai a ripetere sempre la stessa solfa. «Che cosa vi ha chiesto di fare l'inglese? È lui il colpevole, non tu. E neppure i tuoi amici. Lo sappiamo, questo. Vogliamo solo che ci colmi due o tre lacune. Poi te ne puoi tornare a casa.»
E ripetei le stesse domande a proposito del Lupo.
Ma non funzionò con nessuno di loro, nemmeno con i più giovani. Erano dei duri, più disciplinati ed esperti di quanto sembrassero a prima vista. Erano intelligenti e chiaramente molto motivati.
Giustamente, peraltro: ci credevano. Forse avremmo dovuto imparare da loro.
51
Il terrorista che scelsi subito dopo era un po' meno giovane, piuttosto bello, rubizzo, con folti baffoni e denti bianchissimi. Parlava inglese e mi disse con una punta di orgoglio che aveva studiato a Berkeley e a Oxford.
«Biochimica e ingegneria. La sorprende?» Si chiamava Ahmed el-Masry ed era all'ottavo posto dell'elenco della Sicurezza Nazionale.
Aveva molta voglia di parlare di Geoffrey Shafer.
«Sì, l'inglese è venuto qui. Su questo ha ragione. Peraltro le registrazioni non mentono quasi mai. Sosteneva di avere cose importanti da dirci.»
«E ve le ha dette?»
El-Masry si accigliò. «No. Pensavamo fosse un vostro agente.»
«Perché è venuto qui, allora?» gli chiesi. «Perché avete acconsentito a vederlo?»
El-Masry mi rispose con un'alzata di spalle. «Curiosità. Diceva di avere accesso a ordigni nucleari tattici.»
Trasalii. Mi venne il batticuore. Ordigni nucleari nel cuore di New York? «Ed era vero?»
«Abbiamo deciso di parlargli. Pensavamo si riferisse a ordigni di piccole dimensioni. Le cosiddette valigie nucleari, ha presente? Difficili da ottenere, ma non impossibili. Come lei certamente sa, furono prodotte in Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Nessuno sa quante siano, né che fine abbiano fatto. La Mafia russa cerca di venderle, da qualche anno. O almeno così si vocifera. Io non lo so. Sono venuto negli Stati Uniti per lavorare. Volevo un posto da insegnante.»
Avevo la pelle d'oca. Al contrario delle testate convenzionali, le «valigie nucleari» erano progettate per esplodere a terra. Erano delle dimensioni di un grosso bagaglio e potevano essere azionate senza problemi da un semplice soldato di fanteria.
Erano anche facilissime da nascondere e potevano essere tranquillamente trasportate a piedi per New York, Washington, Londra e Francoforte.
«L'inglese aveva accesso alle valigie nucleari?» domandai.
El-Masry fece spallucce. «Noi siamo studenti e insegnanti. Cosa ne sappiamo di ordigni nucleari?»
Capii che cosa stava cercando di fare: voleva arrivare a un accordo per sé e i suoi compagni.
«E come mai la sua studentessa si è buttata dalla finestra?» gli chiesi.
El-Masry assunse un'espressione addolorata. «Da quando era a New York, viveva nella paura. Aveva perso i genitori in una guerra ingiusta voluta dagli americani.»
Annuii lentamente, come se avesse tutta la mia comprensione. «Okay. Dunque non siete colpevoli di nessun reato. Vi teniamo d'occhio da settimane. Ma, mi dica: il colonnello Shafer aveva davvero accesso alle valigie nucleari?» ripetei. «È questa la cosa che mi interessa. È importante per lei e i suoi amici. Mi segue?»
«Sì, penso di sì. Mi sta dicendo che se collaboriamo ci manderete a casa. Perché non abbiamo commesso reati. Dico bene?» El-Masry stava cercando di mettere bene in chiaro le cose.
«Alcuni di voi sono colpevoli di reati molto gravi, hanno ucciso delle persone. Gli altri verranno sottoposti a un interrogatorio e rispediti a casa.»
L'uomo annuì. «Va bene. La mia impressione è che Shafer fosse in possesso di armi nucleari. Lei ha detto che ci tenevate d'occhio: magari anche lui lo sapeva. Acquista un senso la sua visita qui, allora? È possibile che volesse tendervi una trappola? Io non lo so, dico per dire. Ma, mentre parlavamo, mi è venuta in mente questa possibilità.»
Purtroppo la sua teoria aveva un senso. Anzi, temevo proprio che fosse giusta. Shafer voleva tenderci una trappola, metterci alla prova. Fino a quel momento il Lupo non aveva fatto altro.
«Come ha fatto a uscire senza che noi lo vedessimo?»
«C'è un passaggio sotterraneo che collega la casa a un palazzo più a sud. Il colonnello lo sapeva. Sapeva un sacco di cose su di noi.»
Quando me ne andai, erano le nove del mattino ed ero esausto. Crollavo dal sonno. I sospetti sarebbero stati mandati via e la zona sarebbe stata chiusa al traffico, compreso lo Holland Tunnel, che temevamo potesse essere un obiettivo primario.
Eravamo davvero caduti in una trappola?
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Le stranezze non erano finite, comunque.
Fuori della palazzina si era radunata una piccola folla. Mentre mi facevo largo per passare, mi sentii chiamare. «Dottor Cross?»
Chi poteva essere?
Un ragazzo con una giacca a vento rossa e marrone mi salutò con la mano.
«Dottor Cross! Venga qui, presto! Le devo parlare.»
Mi avvicinai. «Come fai a sapere come mi chiamo?» chiesi al ragazzo, che dimostrava meno di vent'anni.
Quello scosse la testa e fece un passo indietro. «Eravate stati avvertiti», disse. «Il Lupo vi aveva avvertiti.»
Appena ebbe pronunciato queste parole, lo afferrai per la giacca e per i capelli e lo feci cadere a terra, bloccandolo con il mio peso.
Rosso in viso, il ragazzo si divincolava, urlando. «Ehi, cazzo! Mi hanno pagato per recapitarle un messaggio. Mi levi quelle mani di dosso. Ambasciator non porta pena. Uno mi ha dato cento dollari per dirle 'sta cosa. Un inglese mi ha detto che lei era il dottor Alex Cross.»
Mi guardò negli occhi e aggiunse: «Non mi sembra un dottore per un cazzo».
53
Il Lupo era a New York. Non poteva perdersi il gran giorno. Non se lo sarebbe lasciato sfuggire per tutto l'oro del mondo. Sarebbe stato uno spettacolo imperdibile.
Le trattative stavano per giungere a una svolta. Il presidente degli Stati Uniti, il primo ministro britannico e il cancelliere tedesco, naturalmente, non volevano negoziare, non volevano far vedere la propria debolezza. Non si tratta con i terroristi, non si creano pericolosi precedenti, pensavano. Avevano bisogno di pressioni ancora più forti, di uno stress ancora maggiore per cedere.
E il Lupo era pronto ad accontentarli. Anzi, tormentare quegli sciocchi gli piaceva, lo divertiva. Era tutto così prevedibile... Almeno per lui.
Andò a fare una passeggiata nell'East Side di Manhattan. Per tenersi in forma. Si sentiva potente. Come poteva un capo di Stato competere con lui? Era troppo avvantaggiato: non doveva stare a pensare ai media, alla burocrazia, alla legge, alla morale. Insomma, era imbattibile.
Tornò in una delle numerose case che possedeva in tutto il mondo, un attico con vista mozzafiato sull'East River, e fece una telefonata. Strizzando leggermente la sua pallina di gomma nera, parlò con un funzionario della sede dell'FBI di New York. Era una donna piuttosto in alto nella scala gerarchica.
Gli disse tutto quello che il Bureau sapeva e come si stavano muovendo per prenderlo. Nulla di preoccupante, peraltro. Avevano più chance di prendere Bin Laden che lui.
Gridò: «E io dovrei pagarti per queste stronzate? Per dirmi cose che già so? Ti faccio ammazzare, piuttosto».
Ma poi scoppiò a ridere. «Scherzavo, cara. Mi porti buone notizie. Anch'io devo dirti una cosa, però: presto a New York ci sarà uno spiacevole incidente. Sta' lontana dai ponti. I ponti sono luoghi molto pericolosi. Lo so per esperienza.»
54
Bill Capistran aveva un piano, e anche un atteggiamento, piuttosto pericoloso. Faceva fatica a gestire la collera, ma presto avrebbe avuto duecentocinquantamila dollari sul suo conto alle Isole Cayman. Doveva soltanto fare un lavoretto. Non particolarmente difficile. Ce la posso fare senza problemi.
Era di Raleigh, nel North Carolina, aveva ventinove anni ed era in ottima forma fisica. Aveva giocato a lacrosse per un anno alla North Carolina State University e quindi era entrato nei Marine. Dopo tre anni, era stato reclutato da un'agenzia di mercenari nei pressi di Washington. Due settimane prima era stato contattato da un tizio che conosceva dai tempi di Washington, Geoffrey Shafer, che gli aveva proposto il lavoro meglio pagato della sua carriera. Duecentocinquantamila dollari.
E lui aveva accettato.
Alle sette del mattino percorse Fifty-seventh Street a bordo del suo furgoncino Ford nero, svoltò in First Avenue e parcheggiò vicino al Queensboro Bridge, detto anche Fifty-ninth Street Bridge.
Conosceva quel ponte molto bene, ormai. Costruito novantacinque anni prima, aveva una struttura a travi e capriate, aperta e flessibile. Era l'unico ponte sull'East River a non essere sospeso. Il che significava che per farlo crollare occorreva una bomba speciale. Quella che lui aveva nel furgone.
Roba dell'altro mondo! pensò, trasportando il materiale verso il ponte con i suoi complici. New York. L'East Side, pieno di imprenditori con la puzza sotto il naso e di principesse bionde che camminavano come se al mondo ci fossero solo loro. A parte il nervosismo, era quasi divertente e si ritrovò a canticchiare The 59thStreet Bridge Song di Simon e Garfunkel, che considerava due tipici coglioni newyorkesi. Sia l'uno che l'altro.
Negli ultimi giorni aveva lavorato fino a tarda notte con degli studenti di ingegneria della Stony Brook University di Long Island. Uno era un geniaccio iraniano, l'altro veniva dall'Afghanistan. Anche loro trovavano la cosa divertente: avevano studiato a New York e adesso cercavano di farla saltare in aria. La terra della libertà, giusto? Avevano chiamato l'operazione «Progetto Manhattan». Divertente.
All'inizio avevano pensato all'ANFO, però era un tipo di esplosivo che avrebbe aperto un cratere in una strada, ma difficilmente sarebbe riuscito ad abbattere un ponte grosso come il Queensboro. I due cervelloni avevano detto a Capistran che i danni che poteva fare l'ANFO in una strada di città erano paragonabili a quelli di un fuoco d'artificio. L'esplosione sarebbe stata caratterizzata da «forze codarde che cercano sempre la via della minore resistenza». In altre parole, avrebbe bruciacchiato un po' l'asfalto, ma il suo potere distruttivo si sarebbe disperso per aria.
Troppo poco per quel che dobbiamo fare. Ci serve qualcosa di molto più potente.
E avevano escogitato un metodo molto più efficace per far crollare il ponte. Avevano spiegato a Capistran dove e come fissare un certo numero di piccole cariche in diversi punti delle fondamenta. Un po' come facevano le ditte di demolizione, insomma. Sarebbe stata un'operazione da manuale.
Non volendo farsi beccare, Capistran aveva preso in considerazione l'idea di mandare dei sub nell'East River a piazzare l'esplosivo. Poi aveva fatto un sopralluogo e si era stupito del fatto che non ci fossero praticamente controlli.
Neanche quella mattina. Lui e i suoi complici scesero sul basamento del ponte senza che nessuno gli dicesse niente.
Da lontano, la struttura di metallo argenteo del vecchio ponte sembrava delicata, ma da vicino le travi erano gigantesche e i rivetti erano grossi come la rotula di un uomo.
Sembrava una follia, ma avrebbe funzionato. Capistran era sicuro che la sua parte del piano avrebbe funzionato.
A volte si chiedeva che cosa l'avesse reso così scontento di tutto, amareggiato e arrabbiato. Be', diversi anni prima, quando era nei Marine, aveva fatto parte della squadra che recuperava i piloti abbattuti in territorio nemico come Scott O'Grady in Bosnia. Ora però non era più un eroe di guerra. Era solo una delle tante pedine del capitalismo, all'interno del sistema, giusto? Ma quanto meno, al contrario di tanti altri, lui se ne rendeva conto.
Mentre camminava sulla struttura di sostegno del ponte, canticchiava «Groovy. Feeling very groovy».
55
Poi accadde una cosa stranissima, incomprensibile.
Arrivò il giorno della scadenza dell'ultimatum e non successe niente.
Nessun messaggio da parte del Lupo, nessun attentato. Niente. Silenzio assoluto. La cosa aveva un che di sinistro e incredibilmente spaventoso.
Ormai solo il Lupo sapeva che cosa stava per succedere. Forse insieme con il presidente degli Stati Uniti e pochi altri capi di Stato. Si diceva che il presidente fosse partito da Washington con il vicepresidente e i membri del gabinetto.
Sarebbe finito tutto molto presto, vero? Gli articoli, però, continuavano a uscire. Post, New York Times, USA Today, CNN e tutte le altre reti televisive strombazzavano quel che sapevano a proposito delle minacce di attentati in alcune grandi città. Nessuno sapeva che tipo di attentati o quali città, ma dopo anni di allarmi rossi e gialli, la gente sembrava non prendere troppo sul serio tali notizie.
Quella guerra di nervi, quell'incertezza doveva essere una scelta deliberata da parte del Lupo. Ero a Washington per il Memorial Day e stavo dormendo, quando mi telefonarono che dovevo recarmi immediatamente allo Hoover Building.
Guardai la sveglia e, incredulo, mi accorsi che segnava le tre del mattino. Cosa sarà successo? Ci saranno state rappresaglie? Se mai, non me l'avrebbero detto per telefono.
«Arrivo subito», dissi. Mi buttai giù dal letto, imprecando fra me e me. Feci una doccia scozzese, alternando acqua bollente e acqua gelida, mi asciugai, mi infilai le prime cose che trovai sottomano e presi la macchina. Attraversai Washington con una gran confusione in testa. L'unica cosa che sapevo era che il Lupo si sarebbe fatto sentire nel giro di mezz'ora.
Alle tre e mezzo del mattino, dopo un ponte festivo e una scadenza passata senza che fosse successo niente. Il Lupo non era soltanto un maniaco del controllo, era anche sadico.
Quando arrivai nella sala del quinto piano, trovai già una decina di persone. Ci salutammo come vecchi amici a una veglia funebre. Continuavano ad arrivare persone, una più insonnolita dell'altra. Quando finalmente portarono il caffè, si formò una lunga coda. Eravamo tutti tesi, nervosi.
«E da mangiare? Niente? Nessuno ci vuole bene», disse uno. Ma la battuta cadde nel vuoto.
Il direttore Burns arrivò poco dopo le tre e mezzo, in giacca e cravatta. Era un abbigliamento piuttosto formale, per lui, specie a quell'ora del mattino. Avevo la sensazione che neanche lui sapesse che cosa stava per succedere. A comandare era il Lupo, non noi.
«E io che credevo di essere un capo esigente», disse, nel silenzio generale. Qualcuno rise. «Grazie di essere venuti», aggiunse Burns.
Il Lupo si mise in comunicazione con noi alle 3:43. La sua voce pesantemente distorta dai filtri era sdegnosa e supponente.
«Vi chiederete come mai ho indetto una riunione a quest'ora inconsulta», esordì. «Perché posso farlo. Vi piace, come risposta? Posso farlo e lo faccio. Caso mai non ve ne foste accorti, non mi piacete molto. Anzi, non mi piacete per niente. Ho i miei buoni motivi, credetemi. Detesto tutto ciò che l'America rappresenta. Quindi forse la mia è sete di vendetta. Magari mi avete fatto un torto in passato, a me o alla mia famiglia. Chissà. Fa parte del mistero. La vendetta è un di più, per me. Ma torniamo a noi. Correggetemi se sbaglio: mi sembra di avervi detto chiaramente di interrompere le indagini e smetterla di cercarmi. E voi irrompete nella casa di sei poveracci a Manhattan perché sospettate che lavorino per me? Una ragazza si è spaventata talmente che si è buttata giù dalla finestra. Ho assistito al suo schianto, poverina. Immagino pensaste che, se aveste fermato i miei uomini, New York sarebbe stata salva. Ah, quasi dimenticavo. La scadenza mancata. Pensavate forse che mi fossi dimenticato? No, non è così. E non mi è sfuggito neppure che voi non avete fatto niente. Adesso vedrete di che cosa sono capace.»
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Alle tre e quaranta del mattino, secondo le istruzioni, la Donnola prese posto su una panchina sul lungofiume, nel parco vicino a Sutton Place e Fifty-seventh Street. Nutriva non poche perplessità riguardo al lavoro che doveva svolgere, ma i contro erano compensati da due aspetti fortemente positivi: era di nuovo in azione, e pagato profumatamente. Gesù, quanto mi piace essere nel cuore della battaglia.
Guardava il fiume scuro, la corrente forte, il rimorchiatore rosso con la scritta MCALLISTER BROTHERS che guidava una portacontainer. Siamo o non siamo nella città che non dorme mai? I bar in First e Second Avenue si accingevano a chiudere. Poco prima era passato davanti a un ambulatorio veterinario aperto per le emergenze. Che strana città era New York! E che strano Paese l'America...
Molti newyorkesi stavano per venire svegliati di soprassalto. Avrebbero faticato a riprendere sonno. Ci sarebbero stati pianto e stridore di denti. Il Lupo voleva così.
Shafer guardava i secondi scorrere verso le 3:43 sul suo orologio da polso, senza smettere di tenere d'occhio il Queensboro Bridge e il fiume nero.
Sul ponte stavano passando macchine, taxi e alcuni camion, nonostante l'ora. Dovevano esserci un centinaio di veicoli, forse anche di più. Poveri cristi!
Alle 3:43 premette un tasto del cellulare.
Il semplice segnale codificato venne trasmesso a una piccola antenna sulla sponda del fiume e il circuito cominciò a chiudersi...
Partì l'innesco e...
Una frazione di secondo dopo agli abitanti di New York e del resto del mondo arrivò un messaggio direttamente dall'inferno.
Un messaggio simbolico.
Un altro avvertimento.
L'esplosione fece tremare le travi del Fifty-ninth Street Bridge, spezzandone i giunti e le vecchie strutture di acciaio come fossero grissini. Grossi rivetti vennero proiettati nelle acque scure nel fiume. L'asfalto cominciò a sbriciolarsi, il cemento armato si lacerò come un foglio di carta.
Le corsie superiori si ruppero in due e grossi spezzoni caddero come bombe su quelle sottostanti, che si spaccarono a loro volta, precipitando nel fiume.
C'erano macchine che volavano di qua e di là; un camion carico di quotidiani scivolò all'indietro e quindi cadde piroettando nell'East River, seguito da un turbine di auto e furgoni, che precipitavano come pallini di piombo. I cavi elettrici mandavano scintille per tutta la lunghezza del ponte. Nel fiume continuavano a inabissarsi automobili.
Alcuni cercavano di uscire dalle vetture e si gettavano nel vuoto, andando incontro a morte certa. Shafer sentiva le loro grida.
Nelle case cominciarono ad accendersi le luci: gli abitanti di New York si collegavano a Internet e accendevano la televisione per sentire le prime notizie riguardo al terribile disastro che aveva colpito la loro città. Una tragedia che fino a pochi anni prima sarebbe stata incredibile, inconcepibile.
Terminato il suo compito, Geoffrey Shafer si alzò dalla panchina e andò a coricarsi. Se solo fosse riuscito a dormire un po'... Aveva capito una cosa: l'operazione era cominciata. Adesso si sarebbe dovuto recare a Londra.
Il prossimo sarà il London Bridge, pensò. Crolleranno tutti i ponti della terra. La società moderna si sfalderà. Il Lupo è folle, ma è anche un genio. Un genio del male.
PARTE TERZA
Sulle tracce del Lupo
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Il Lupo, al volante di una potente Lotus nera, ridusse la velocità a circa centosessanta chilometri all'ora mentre parlava al cellulare, uno dei sei che aveva con sé in macchina. Era diretto a Montauk, sulla punta di Long Island, ma aveva alcune questioni importanti da risolvere durante il viaggio, nonostante fosse l'una di notte. Aveva in linea il presidente degli Stati Uniti, il cancelliere tedesco e il primo ministro britannico. La dirigenza mondiale. Chi poteva chiedere di più?
«Questa telefonata non può essere rintracciata, quindi non perdete tempo a cercare di scoprire da dove vi chiamo. I miei tecnici sono più in gamba dei vostri», annunciò. «Allora, che intenzioni avete? Sono passate otto ore dalla scadenza dell'ultimatum. Che si fa?»
«Abbiamo bisogno di più tempo», rispose per tutti il primo ministro britannico. Buon per lui. Era lui, dei tre, a comandare? Sorprendente. Il Lupo lo aveva immaginato più nei panni del gregario.
«Lei non si rende conto...» cominciò a dire il presidente americano, ma il Lupo lo interruppe, sorridendo tra sé per la soddisfazione di poter mancare di rispetto a un leader mondiale.
«Ora basta! Sono stufo di sentirmi raccontare balle!» urlò al telefono.
«Ascolti quel che abbiamo da dire», intervenne il cancelliere tedesco. «Ci dia la possibilità di...»
Il Lupo chiuse la conversazione. Si accese un sigaro per festeggiare, aspirò soddisfatto due boccate di fumo, quindi lo posò nel portacenere e, con un altro cellulare, richiamò i tre governanti.
Erano ancora lì ad aspettare un suo cenno. Il Lupo era consapevole del loro potere, non li sottovalutava. Tuttavia... che cosa potevano fare, a parte aspettare le sue telefonate?
«Volete che attacchi tutte e quattro le città? È questo che devo fare per dimostrarvi che faccio sul serio? Ci vuole un attimo, sapete. Lo posso fare anche ora, posso dare l'ordine in questo stesso momento. Ma non ditemi che avete bisogno di più tempo. Non è vero! I Paesi in cui sono detenuti i prigionieri sono ai vostri ordini, per la miseria! Il problema è che non potete permettervi di mostrare al mondo che siete deboli e impotenti. Ma è la verità! Cos'è successo? Come avete fatto a ridurvi così? Chi vi ha messo in una posizione di potere? Chi vi ha eletto? Fuori il denaro e i prigionieri politici. Addio.»
Prima che il Lupo riattaccasse, il leader britannico intervenne dicendo: «Non è vero! È lei che deve scegliere, non noi! Ci rendiamo conto che lei è in una indubbia posizione di vantaggio, ma non possiamo mettere insieme ciò che ci chiede in così poco tempo. È materialmente impossibile e, secondo me, lei lo sa. Naturalmente noi non vogliamo scendere a patti, ma lo faremo, perché siamo costretti. Le chiediamo solo un po' più di tempo. Le daremo quello che richiede. Ha la nostra parola.»
Il Lupo alzò le spalle. Tuttavia il primo ministro britannico lo aveva sorpreso: era chiaro, conciso e coraggioso.
«Ci penserò», disse. Poi chiuse la conversazione, riprese il sigaro e meditò con gusto sul fatto che, in quel momento, era l'uomo più potente del mondo. E, a differenza di quegli altri, aveva tutte le competenze necessarie per quel compito.
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Un passeggero di business class, di nome Randolph Wohler, sbarcò dal volo British Airways da New York alle 6:05 del mattino. Il passaporto e tutti gli altri documenti confermavano la sua identità. È bello essere di nuovo a casa, pensò. In realtà Wohler era Geoffrey Shafer. E sarà ancora più bello se riuscirò a far saltare in aria Londra.
Era un distinto signore sulla settantina e passò la dogana senza problemi, pensando già alla sua prossima tappa: una visita ai figli. Il suo pezzo era quello. Strano, bizzarro. Ma sapeva bene che non era il caso di discutere gli ordini del Lupo. A parte il fatto che aveva voglia di andare a trovare i bambini: era troppo tempo che non vedevano il loro papà.
Aveva una parte da recitare, un'altra missione, un altro pezzo del puzzle da sistemare. I marmocchi vivevano con la zia, la sorella della sua defunta moglie, vicino a Hyde Park. Ripensò a quella casa, mentre si avvicinava alla guida di una Jaguar S-Type presa a noleggio. Ormai aveva solo ricordi estremamente spiacevoli della moglie, Lucy Rhys-Cousins, una donna fredda e calcolatrice, dalla mentalità ristretta. L'aveva uccisa in un supermercato Safeway di Chelsea, davanti alle figlie. Quel gesto autenticamente pietoso aveva lasciato orfane le due gemelle, Tricia ed Erica, che adesso avevano sei o sette anni, e Robert, che doveva averne quindici. Shafer era convinto che stessero molto meglio senza quella lagna della madre.
Bussò al portone, si accorse che non era chiuso a chiave ed entrò senza avvertire.
Trovò la cognata, Judy, intenta a giocare a Monopoli con le gemelle sul pavimento del salotto. Un gioco in cui tutte e tre sapevano soltanto perdere, pensò Shafer, profondamente convinto che fossero tutte delle perdenti.
«È tornato papà!» esclamò. Sfoderò un sorriso assolutamente terrificante e puntò una Beretta al petto della cara zia Judy.
«Non fiatare, Judy. Non voglio sentire una sola parola. Non darmi la minima scusa per premere il grilletto. Sarebbe troppo facile e troppo divertente perché sì, odio anche te. Sembri una versione in grasso della tua amata sorella. Salve, bambine! Su, da brave, salutate il papà. Ho fatto un sacco di strada per venirvi a trovare, sono venuto direttamente dagli Stati Uniti.»
Le gemelle si misero a piangere e Shafer fece l'unica cosa che gli venne in mente per ristabilire l'ordine: puntò la pistola in faccia a Judy, che piangeva anche lei, e le si avvicinò. «Falle smettere di frignare. Subito! Dimostrami che sei degna di occuparti di loro.»
La zia si chinò e strinse a sé le due bambine in modo che, anche se non smisero del tutto di piangere, facessero meno rumore.
«Adesso stammi bene a sentire, Judy», disse poi Shafer spostandosi alle sue spalle e puntandole la canna della pistola alla nuca. «Lo farei con gran piacere, ma non sono venuto qui per scoparti e ammazzarti. Ho da darti un messaggio che devi riferire al ministro dell'Interno. Per un paradossale scherzo del destino, la tua miserabile vita adesso conta qualcosa. L'avresti mai detto? Io stento a crederlo.»
Judy, con l'aria confusa che Shafer peraltro le aveva sempre visto, balbettò: «E come dovrei fare?»
«Chiamare la polizia, no? Adesso taci e ascoltami bene: devi dire alla polizia che sono venuto a trovarti e che ti ho detto che nessuno può più considerarsi al sicuro, ormai. Nemmeno i poliziotti e le loro famiglie. Possiamo andare a casa loro quando vogliamo, così come oggi sono venuto qui da te.»
Per essere sicuro che avesse capito bene, Shafer le ripeté il messaggio altre due volte. Poi si voltò a guardare Tricia ed Erica, che gli interessavano più o meno quanto le ridicole bambole di porcellana sulla mensola del caminetto. Aveva sempre odiato quegli stupidi balocchi di porcellana che un tempo erano stati di sua moglie. Lei sembrava esserci affezionata come se fossero persone vere.
«Come sta Robert?» chiese alle gemelle, senza ottenere alcuna risposta.
Le bambine erano ormai grandi abbastanza per riuscire ad avere la stessa espressione irrimediabilmente sperduta e confusa della madre e di quella cretina della zia, e non spiccicarono parola.
«Robert è vostro fratello!» gridò Shafer. Le gemelle ricominciarono a singhiozzare. «Dov'è? Dov'è mio figlio? Raccontatemi qualcosa su vostro fratello! Gli sono spuntate due teste? Ditemi qualcosa, qualsiasi cosa!»
«Sta bene», piagnucolò finalmente Tricia.
«Sì, sta bene», ripeté Erica, seguendo l'esempio della sorella.
«Ah sì, sta bene? Mi fa piacere», rispose Shafer con il massimo disprezzo per quei due cloni della madre.
In effetti Robert gli mancava davvero. A volte il ragazzino lo divertiva, con la sua leggera vena di perversione. «Bene, date un bacio a vostro padre», disse poi. «Sono vostro padre, imbecilli! In caso ve lo foste dimenticato.»
Le bambine non lo volevano baciare e Shafer non era autorizzato a ucciderle, per cui dovette andarsene da quella casa schifosa. Uscendo, buttò giù dalla mensola tutte le bambole, mandandole in mille pezzi.
«In ricordo di vostra madre!» si gridò dietro le spalle allontanandosi.
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La cosa di cui più si lamentano i soldati in Iraq è di trovarsi in una situazione totalmente assurda, priva di senso. È così che funziona la guerra moderna, e anch'io ho la stessa sensazione.
L'ultimatum era scaduto e noi eravamo ancora vivi. Mi sembrava inspiegabile. Erano giorni e giorni che correvo senza mai prendere fiato e adesso stavo andando a Londra con due agenti della nostra International Terrorism Section.
Geoffrey Shafer era in Inghilterra e, cosa ancora più folle, voleva che noi sapessimo che si trovava lì. O forse non era lui a volerlo, ma qualcun altro.
Il nostro volo arrivò a Heathrow poco prima delle sei del mattino. Dall'aeroporto andai direttamente in un albergo nei pressi di Victoria Street e dormii fino alle dieci. Poi mi alzai e andai a New Scotland Yard, che era poco lontano, su Broadway.
Che bellezza, essere così vicino a Buckingham Palace, all'abbazia di Westminster e al Parlamento!
Appena arrivato, fui accompagnato nell'ufficio del sovrintendente Martin Lodge della Metropolitan Police il quale mi spiegò, con sufficiente modestia, che era responsabile dell'Anti Terrorist Branch, noto come SO13. Mentre andavamo alla riunione prevista per quel mattino, mi fece una breve descrizione della propria carriera.
«Anch'io vengo dalla gavetta. Sono stato undici anni nella Metropolitan Police, dopo un breve periodo con il SIS in Europa. Prima ancora avevo fatto l'addestramento a Hendon e anche servizio di pattuglia. Poi ho scelto il ramo investigativo e sono stato trasferito all'SO13 perché conosco un po' le lingue.»
Si interruppe e io approfittai di quella prima pausa per dire: «Ho sentito parlare della vostra squadra antiterrorismo. È la migliore d'Europa, dicono. Anni di pratica con l'IRA».
Lodge fece un sorriso a denti stretti, da veterano. «Sbagliando s'impara, e noi di errori in Irlanda ne abbiamo fatti un sacco. Eccoci, Alex, siamo arrivati. Ci aspettano: vogliono tutti conoscerla. La avverto, però, si prepari a sentire un sacco di fesserie. Alla riunione ci saranno anche l'MI5 e l'MI6, che litigano sempre su tutto. Non si lasci impressionare. Alla fine si risolve sempre ogni cosa. Quasi sempre.»
Annuii. «Come l'FBI e la CIA da noi. Sono sicuro che è uguale.»
In effetti il sovrintendente Lodge aveva ragione sulle guerre intestine fra servizi. Immaginai che lo svolgimento delle indagini a Londra ne venisse rallentato persino in circostanze critiche come quella. Alla riunione erano presenti anche alcuni rappresentanti dello Special Branch, il capo di gabinetto del primo ministro e numerosi funzionari dei servizi di emergenza londinesi.
Mentre mi sedevo, protestai in cuor mio: l'ennesima riunione di burocrati! L'ultima cosa di cui avevo bisogno. L'ultimatum è scaduto. Quelli faranno saltare in aria tutto quanto! avrei voluto gridare.
60
La grande villa sul mare nei pressi di Montauk, a Long Island, non era del Lupo. L'aveva presa in affitto per quarantamila dollari alla settimana, nonostante fosse bassa stagione. Si rendeva conto che era un autentico furto, ma non gli importava. Non quel giorno, perlomeno.
Era molto bella, in stile georgiano, tre piani, accesso diretto alla spiaggia e una piscina enorme riparata dal vento. Lungo il viale coperto di ghiaia erano parcheggiate varie auto. Gli autisti delle limousine vestiti di scuro chiacchieravano tra loro.
E tutto questo è pagato con i miei soldi, con il sudore della mia fronte, con le mie idee! pensò il Lupo con un certo rancore.
Lo stavano aspettando. In una biblioteca che fungeva anche da salotto con vista sulla spiaggia deserta e sull'Atlantico erano riuniti vari suoi collaboratori della Mafia russa. Quando entrò nella stanza, finsero di essere i suoi amici più cari e più intimi, stringendogli la mano, dandogli pacche sulle spalle, mormorando falsamente che era un piacere rivederlo. I pochi eletti che mi conoscono di persona. La mia cerchia ristretta di persone fidate.
Il pranzo era stato servito prima del suo arrivo e tutto il personale era stato congedato. Il Lupo aveva lasciato la macchina sul retro ed era entrato dalla cucina. Nessuno lo aveva visto, tranne i nove uomini riuniti in quella stanza.
Si fermò al centro della sala e accese un sigaro. Per festeggiare la vittoria.
«Hanno chiesto una proroga. Ci credereste?» annunciò emettendo sbuffi di fumo con aria soddisfatta.
I russi riuniti intorno al tavolo risero. Come lui, disprezzavano gli attuali governi e i leader mondiali, uomini deboli per natura o, nel caso dei pochi forti che venivano eletti a una carica pubblica, subito indeboliti dall'esercizio del potere. Era sempre stato così.
«Bisogna alzare la posta», gridò uno degli uomini.
Il Lupo sorrise. «È vero, dovrei. Ma su un punto non hanno torto, sapete: se agiamo adesso, anche noi perdiamo. Ora li chiamo. Stanno aspettando una risposta. Interessante, vero? Siamo arrivati a negoziare con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania. Come se fossimo anche noi una potenza mondiale.»
Il Lupo fece segno di tacere mentre componeva il numero. «Si aspettano una mia chiamata...»
«Siete tutti in linea?» disse poi al telefono.
Risposero di sì.
«Allora bando alle ciance. La mia decisione è la seguente: avete altri due giorni, fino alle diciannove, ora della East Coast, ma... il prezzo è raddoppiato!»
Chiuse la telefonata, poi si guardò intorno e disse ai suoi uomini: «Allora, siete d'accordo? Sapete quanti soldi vi ho appena fatto guadagnare?»
Tutti applaudirono.
Il Lupo trascorse con loro il resto del pomeriggio. Ascoltò i loro falsi convenevoli, le richieste goffamente mascherate da suggerimenti. Poi, siccome aveva altre faccende da sbrigare a New York, li lasciò di nuovo soli a godersi la villa sul mare e tutto il resto.
«Tra poco arriveranno le signore», promise. «Modelle e miss di New York. Le fiche più belle del mondo, dicono. Divertitevi.» Con i miei soldi, il sudore della mia fronte, la mia genialità.
Risalì sulla Lotus e partì in direzione della Long Island Expressway strizzando nel palmo della mano la pallina di gomma nera. Poi la posò e riprese il cellulare. Premette alcuni tasti. Il cellulare trasmise un codice. Un circuito si chiuse. Un innesco si accese.
Nonostante la distanza, udì il boato della villa che saltava in aria con tutti i suoi occupanti. Non aveva più bisogno né di loro, né di nessuno.
Zamo it'! Le bombe avevano spezzato tutte le ossa dei loro inutili corpi schifosi.
Vendetta, tremenda vendetta.
Era una cosa meravigliosa.
61
Ci giunse notizia, a Londra, che la scadenza era stata prorogata di quarantott'ore e tutti provammo un enorme sollievo, per quanto momentaneo. Nel giro di un'ora fummo informati anche dell'esplosione avvenuta a Long Island, in cui erano morti diversi boss della Mafia russa. Che cosa significava? Il Lupo aveva colpito di nuovo? Aveva ucciso i suoi stessi uomini?
Dopo una lunga serie di riunioni a Scotland Yard, non mi restava nulla di utile da fare. Poco dopo le dieci di quella sera mi incontrai con un'amica dell'Interpol in un ristorante di Great Smith Street, il Cinnamon Club, che si trovava nell'edificio dove un tempo aveva sede la Old Westminster Library.
Ero talmente spossato che non sentivo neppure più la stanchezza, a parte il fatto che mi faceva sempre piacere vedere Sandy Greenberg, una delle colleghe più in gamba con cui avessi mai lavorato. Speravo che avesse qualche idea nuova sul Lupo, o sulla Donnola. In ogni caso, nessuno meglio di lei conosceva il mondo della malavita europea.
Sandy in realtà si chiamava Sondra e solo pochi intimi avevano il permesso di chiamarla con quel diminutivo. Io avevo la fortuna di essere uno di loro. Era alta, bella, molto chic, a volte un po' goffa, ma sempre molto spiritosa. Mi accolse con un abbraccio affettuoso e due baci sulle guance.
«È questo l'unico modo per vederti, Alex? Ci vuole un'emergenza internazionale? Che fine ha fatto il valore dell'amicizia?»
«Puoi sempre venire a trovarmi a Washington, se ti manco tanto», dissi. Mi scostai lievemente per guardarla meglio. «Ti trovo benissimo.»
«Ah sì? Grazie», replicò Sandy. «Vieni, ho prenotato un tavolo in fondo. Mi sei mancato tantissimo. Che piacere vederti! Anche tu sei in gran forma, nonostante tutto questo casino. Qual è il tuo segreto?»
La cucina del locale era un misto di indiano ed europeo che negli Stati Uniti sicuramente non si trovava, perlomeno dalle parti di Washington. Sandy e io parlammo per più di un'ora del caso ma, arrivati al caffè, ci rilassammo e affrontammo argomenti un po' più personali. Notai che portava un anello d'oro con sigillo e una fedina al mignolo.
«Che splendore!» esclamai.
«Regalo di Katherine», spiegò con un sorriso. Sandy e Katherine Grant vivevano insieme da circa dieci anni ed erano una delle coppie più felici che avessi mai conosciuto. Sicuramente ci sarebbe stato qualcosa da imparare da loro, ma chi era in grado di farlo? Io no di sicuro. Non ero neppure padrone del mio tempo.
«Vedo che tu non ti sei ancora sposato», osservò Sandy.
«Te ne sei accorta.»
«Faccio la detective, sai. Sono una grande investigatrice. Su, raccontami tutto, Alex.»
«Non c'è molto da dire», risposi, con una reticenza di cui mi resi conto da solo. «Frequento una persona che mi piace molto...»
Sandy mi interruppe. «Chi è che non ti piace molto, Alex? Sei fatto così. Ti piaceva persino Kyle Craig. Riuscivi a trovare qualcosa di buono persino in quello stronzo psicopatico che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque.»
«Sì, forse hai ragione. Ma Kyle non mi piace più, te l'assicuro. E neppure il colonnello Geoffrey Shafer mi piace. Proprio per niente. E meno che mai il Lupo.»
«Io ho sempre ragione, caro. Allora sentiamo, chi è questa donna incredibile che ti piace molto e a cui spezzerai il cuore, o che lo spezzerà a te, perché so già che andrà a finire così? Perché continui a farti del male?»
Non potei fare a meno di sorridere. «Un'altra detective. Per la precisione, un'ispettrice di polizia di San Francisco.»
«San Francisco? Ma bene! Quanto c'è da San Francisco a Washington? Tremila chilometri? Ogni quanto vi vedete, una volta ogni due mesi?»
Risi di nuovo. «Vedo che hai sempre la battuta pronta.»
«Questione di esercizio, amico mio. Così non hai ancora trovato la donna giusta, eh? Peccato, un vero peccato. Avrei un paio di amiche. Ma no, lasciamo perdere. Vorrei farti due domande personali, però. Sei sicuro di non essere ancora innamorato di Maria?»
La bravura di Sandy, come investigatrice, è che le vengono idee cui gli altri non penserebbero mai. Sandy indaga anche in settori spesso trascurati. Mia moglie Maria era stata uccisa dieci anni prima in una sparatoria. Non ero mai riuscito a scoprire il colpevole e forse, sì, ero ancora innamorato di lei. Forse, ma solo forse, non sarei riuscito a concludere nulla con nessun'altra finché non avessi risolto quel caso, che era ancora aperto. Il ricordo della morte di Maria mi tormentava da anni e mi faceva ancora soffrire ogni volta che ci pensavo.
«Sono cotto di Jamilla Hughes», dichiarai. «Al momento so solo questo. Stiamo bene insieme. Che male c'è?»
Sandy sorrise. «Ho capito, Alex. Jamilla ti piace molto. Ma non mi hai detto che sei perdutamente innamorato di lei e non sei il tipo di uomo che si accontenta di una 'cotta'. Sbaglio? No, non sbaglio. Anzi, ho sempre ragione.»
«Ti voglio bene», le dissi.