JAMES PATTERSON

ULTIMO AVVERTIMENTO

(London Bridges, 2004)

Per Larry Kirshbaum.

Brindiamo al decimo Alex Cross.

Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza il tuo impegno, i tuoi saggi consigli e la tua amicizia.

PROLOGO

Che bella sorpresa, è tornata la Donnola

1

Al colonnello Geoffrey Shafer piaceva moltissimo la nuova vita che conduceva a Salvador de Bahia, che era la terza città del Brasile per numero di abitanti e, secondo alcuni, la più interessante. Di sicuro era quella in cui ci si divertiva di più.

Aveva affittato una lussuosa villa con sei camere da letto proprio davanti alla spiaggia di Guarajuba, dove passava le sue giornate a bere caipirinha e birra Brahma gelata oppure, a volte, a giocare a tennis. Di notte invece il colonnello Shafer - il killer psicopatico meglio noto come la Donnola - era tornato alle sue vecchie abitudini e batteva le strade buie e tortuose del centro storico. Aveva perso il conto delle vittime fatte in Brasile. Del resto sembrava che a Salvador nessuno se ne preoccupasse minimamente. Non era uscito un solo articolo di giornale sulle giovani prostitute scomparse. Nemmeno uno. Forse quel che si diceva della gente di quelle parti era vero: quando non stavano facendo festa, era perché preparavano la festa successiva.

Pochi minuti dopo le due del mattino, Shafer tornò alla villa in compagnia di una lucciola giovane e bellissima che si faceva chiamare Maria. Aveva un viso stupendo e un corpo straordinario, soprattutto considerato che diceva di avere tredici anni.

La Donnola staccò una grossa banana da uno degli alberi del giardino. In quel periodo dell'anno poteva scegliere tra noci di cocco, guava, mango e pinha, cioè mela cannella. Mentre coglieva la banana, rifletté che a Salvador de Bahia c'era sempre frutta matura a disposizione. Il paradiso terrestre. O forse è l'inferno e io sono il diavolo, pensò subito dopo, ridacchiando tra sé.

«Ecco, è per te, Maria», disse porgendo la banana alla ragazza. «Ne faremo buon uso.»

La ragazza sorrise maliziosa e la Donnola notò che aveva due occhi castani bellissimi, perfetti. E adesso sono miei, come tutto il resto: occhi, labbra, seno...

Proprio in quel momento vide un mico, una piccola scimmia brasiliana, che cercava di infilarsi in un buco tra la zanzariera e la finestra per entrare nella villa. «Via, ladruncolo bastardo!» gridò. «Vattene via! Sciò, sciò!»

Qualcosa si mosse rapidamente fra i cespugli e balzarono fuori tre uomini che gli si avventarono addosso. La Donnola pensò che doveva essere la polizia. Saranno gli americani. Alex Cross?

I poliziotti intanto lo avevano immobilizzato e lo strattonavano e malmenavano. Lo colpirono alla testa con una mazza, o forse con un pezzo di tubo di piombo, lo afferrarono per i capelli e lo picchiarono finché non perse conoscenza.

«L'abbiamo preso! Abbiamo preso la Donnola al primo tentativo. Non è stato difficile», esclamò il capo del commando. «Portiamolo dentro.»

Poi guardò la ragazza - giovane, bellissima e visibilmente, oltre che giustamente, spaventata - e disse: «Brava, Maria. Ottimo lavoro». A uno dei suoi uomini disse invece: «Uccidila».

Nel silenzio del giardino davanti alla villa riecheggiò uno sparo, ma a Salvador nessuno se ne accorse o se ne preoccupò.

2

L'unico desiderio della Donnola in quel momento era morire. Era appeso a testa in giù al soffitto della sua camera da letto, che era tappezzata di specchi in cui si vedeva riflesso più volte.

Sembrava già morto. Era nudo, pieno di lividi, e sanguinava. Aveva le mani legate strette dietro la schiena e un laccio intorno alle caviglie che gli bloccava la circolazione. Tutto il sangue gli stava affluendo alla testa.

Appesa accanto a lui c'era Maria, che però era morta ormai da parecchie ore, forse addirittura da un giorno, a giudicare dalla puzza che emanava. Era girata verso di lui, ma i suoi occhi bruni non lo vedevano più.

Il capo dei sequestratori, un uomo con la barba che giocherellava continuamente con una pallina di gomma nera, strizzandola nel pugno, si accucciò in modo da trovarsi a un palmo dalla sua faccia e gli disse sottovoce, quasi in un sussurro: «Vuoi sapere che cosa facevamo a certi prigionieri quando ero in servizio? Li facevamo sedere tranquillamente, con le buone maniere, e poi gli inchiodavamo la lingua al tavolo. Ti giuro che è vero, mio caro. E sai cos'altro gli facevamo? Gli strappavamo semplicemente i peli, dalle narici, dal petto, dalla pancia, dai genitali. Fastidioso, eh?» E intanto strappava peli dal corpo nudo di Shafer. «Ma ti racconterò quella che, almeno secondo me, era la tortura peggiore. Peggio di quel che avresti fatto tu alla povera Maria. Si prende il prigioniero per le spalle e lo si scuote energicamente finché non gli vengono le convulsioni. Gli si shakera letteralmente il cervello dentro la scatola cranica. Il poveraccio ha la sensazione che gli si stacchi la testa dal collo, che gli voli via. Si sente bruciare dalla testa ai piedi. Non esagero. Aspetta: ora ti mostro come si fa.»

Sempre appeso a testa in giù, Geoffrey Shafer fu scosso con incredibile violenza per quasi un'ora.

Alla fine lo staccarono dal soffitto. «Chi siete? Che cosa volete da me?» gridò.

Il capo dei sequestratori alzò le spalle. «Sei un duro, ma ricordati che ti ho trovato. E ti troverò di nuovo, se necessario. Capito?»

Geoffrey Shafer aveva la vista annebbiata, ma alzò lo sguardo nella direzione da cui era giunta la voce e mormorò: «Che... cosa... volete? Vi prego...»

L'uomo con la barba si chinò fino ad avvicinare la faccia alla sua e, con un mezzo sorriso, disse: «Ho un lavoro per te. Un lavoro incredibile. Credimi, sei nato per una missione del genere».

«Chi sei?» chiese di nuovo la Donnola con un filo di voce, le labbra riarse e insanguinate. Era la domanda che aveva ripetuto centinaia di volte mentre lo torturavano.

«Sono il Lupo», rispose lo sconosciuto con la barba. «Forse mi hai già sentito nominare.»

PARTE PRIMA

L'inconcepibile

3

Nello splendido pomeriggio di sole in cui uno di loro era destinato a morire improvvisamente e inutilmente, Frances e Dougie Puslowski stendevano ad asciugare lenzuola e federe, oltre ai vestiti che le bambine mettevano per giocare.

Tutto a un tratto ad Azure Views, il campo di caravan e roulotte in cui vivevano a Sunrise Valley, nel Nevada, arrivarono i soldati dell'esercito americano. Erano tantissimi. Una colonna di jeep e camion militari percorse la strada sterrata e si fermò di colpo nei pressi del campo. Dai veicoli cominciarono a scendere soldati armati fino ai denti, con l'aria serissima.

«Santo cielo, cosa succede?» esclamò Dougie. Aveva lavorato come minatore alla Cortey Mine nei pressi di Wells e da poco era in pensione per invalidità. Stava cercando di abituarsi alla vita in famiglia, ma faceva fatica: era depresso, cupo, maldisposto, e aveva poca pazienza con la povera Frances e le bambine.

Dougie notò che i soldati, sia uomini che donne, erano giovanissimi e in tenuta da combattimento: stivali di cuoio, pantaloni mimetici, maglietta verde militare e tutto il resto. Manco fossero stati in Iraq... Armati di fucili M-16, corsero verso i caravan più vicini con le armi puntate. Alcuni avevano addirittura la faccia spaventata.

C'era vento e le loro voci arrivavano fino alla corda da stendere dei Puslowski. Frances e Dougie udirono distintamente: «Bisogna evacuare il paese! Si tratta di un'emergenza. Dovete abbandonare le case subito! Forza, sbrigatevi!»

Frances Puslowski ebbe la presenza di spirito di notare che tutti i militari ripetevano più o meno gli stessi ordini, come se se li fossero preparati. Gli si leggeva in faccia che non erano ammesse discussioni. E infatti, sia pur protestando, le circa trecento persone che vivevano nella stessa comunità dei Puslowski - alcune delle quali erano veramente strane - abbandonarono caravan e roulotte.

La loro vicina di caravan, Delta Shore, corse da Frances. «Cosa succede? Che cosa ci fanno qui tutti questi soldati? O Signore Onnipotente! Devono venire da Nellis o Fallon o qualche altra base militare. Che spavento, Frances. Tu non hai paura?»

A Frances cadde la molletta da bucato che stringeva fra le labbra, quando rispose a Delta: «Dicono che bisogna evacuare. Devo andare a prendere le bambine».

Poi corse come un razzo nel caravan, sorpresa lei stessa dalla propria velocità, visto che pesava più di cento chili ed era un pezzo che non correva e non faceva sport.

«Madison, Brett, venite subito qui. Non abbiate paura, dobbiamo solo andare via per un po'. Ci divertiremo. È come un film. Sbrigatevi, su!»

Le bambine, rispettivamente di quattro e due anni, comparvero sulla soglia della cameretta dove stavano guardando i cartoni animati su Disney Channel. Madison, la più grande, rispose con il solito: «Perché? Perché dobbiamo andare via? Io non vengo. Non voglio. Adesso no, mamma».

Frances prese il cellulare dal bancone della cucina per chiamare la polizia e si accorse della seconda cosa strana di quel pomeriggio: non c'era segnale. Si sentiva solo un forte fruscio molto fastidioso, che non aveva mai sentito prima. Che fosse scoppiata la guerra? Che ci fosse stato un incidente nucleare?

«Merda!» esclamò rivolgendosi al telefono, quasi in lacrime. «Che cosa sta succedendo?»

«Hai detto una parolaccia», saltò su Brett ridendo. Le parolacce, sotto sotto, le piacevano. Aveva colto in fallo sua madre e questo la divertiva moltissimo.

«Prendete Mrs Summerkin e Oink», disse Frances ben sapendo che, senza le loro bambole, le figlie non sarebbero uscite nemmeno se sulla casa si fosse abbattuta una delle piaghe d'Egitto. E in cuor suo pregò che non si trattasse di nulla di così grave. Ma che cosa poteva mai essere successo? Perché i militari avevano praticamente invaso il campo e puntavano i fucili in faccia alla gente terrorizzata?

Da fuori giungevano le voci dei vicini che, spaventati, gridavano le stesse cose che stava pensando anche lei. «Che cosa è successo?» «Chi dice che dobbiamo andarcene?» «Spiegateci perché!» «Io da qui non mi muovo, chiaro? Dovrete passare sul mio cadavere!»

Quell'ultima frase era stata pronunciata da Dougie. Che cosa gli era preso?

Frances lo chiamò: «Dougie, vieni qui! Vieni a darmi una mano con le bambine! Dougie, ho bisogno di te qui!»

In quel momento udì uno sparo. Fortissimo, improvviso. Doveva essere venuto da uno dei fucili dei militari.

Frances corse verso la porta - ecco che, senza nemmeno rendersene conto, stava di nuovo correndo - e vide due soldati dello U.S. Army in piedi accanto a Dougie, che era disteso per terra.

Oh mio Dio, non si muove. Oh mio Dio, mio Dio, Dougie! I soldati gli avevano sparato come a un cane rabbioso. Lo avevano ammazzato così, senza motivo. Frances cominciò a tremare, sempre più forte, poi vomitò tutto quel che aveva mangiato a pranzo.

Le bambine esclamarono: «Che schifo, mamma! Hai vomitato dappertutto!»

Un militare con la barba lunga spalancò la porta del caravan con un calcio, le si parò davanti e gridò: «Fuori da questo caravan! Subito! Sbrigati, se non vuoi morire anche tu!»

Puntandole contro il fucile, continuò: «Dico sul serio, donna! Preferirei spararti subito, piuttosto che stare qui a parlare».

4

Il lavoro - l'operazione, la missione - consisteva nel cancellare dalla faccia della terra un villaggio negli Stati Uniti. In pieno giorno.

Una cosa da pazzi, stranissima. Peggio di La notte dei morti viventi, Zombie e Il ritorno degli zombie messi insieme. Sunrise Valley era una località del Nevada popolata da 315 anime, che ben presto si sarebbero ridotte a zero. Roba da non credere. Ma nel giro di tre minuti ci avrebbero creduto tutti.

Nessuno degli uomini a bordo del piccolo aereo sapeva per quale motivo Sunrise Valley fosse stata scelta per essere distrutta né sapevano altro sulla missione, a parte il fatto che era estremamente remunerativa e pagata anticipatamente. Che diavolo, non si conoscevano neppure tra loro. A ognuno era stata comunicata solo la parte della missione che lo riguardava e nient'altro. Un solo pezzo del puzzle per uno. E così lo chiamavano: il mio pezzo.

Michael Costa, di Los Angeles, era l'artificiere di bordo. Era stato incaricato di confezionare clandestinamente una «bomba a combustibile-aria con una potenza di fuoco che si rispetti».

Okay, era una cosa che sapeva fare.

Il modello cui si era ispirato era la BLU-96, spiritosamente detta anche Daisy Cutter, ovvero «taglia-margherite», dati gli effetti che produceva. Costa sapeva che in origine quegli ordigni erano stati inventati per sgomberare i campi minati o per disboscare giungle e foreste e preparare piste di atterraggio. Poi a qualche malato di mente doveva essere venuta l'idea che la Daisy Cutter poteva essere usata non solo per abbattere alberi e massi, ma anche persone.

Così, adesso, Costa si trovava a bordo di un vecchio aereo da carico piuttosto ammaccato, in volo sulle Tuscarora Mountains e diretto a Sunrise Valley, nel Nevada. Erano ormai molto vicini al bersaglio.

Insieme con i suoi nuovi amici, stava assemblando l'ordigno. Avevano addirittura un foglio di istruzioni. Manco fossero dei principianti.

La vera BLU-96 era un'arma militare semisegreta. Era molto difficile procurarsela, come Costa ben sapeva, ma purtroppo per tutti coloro che vivevano, amavano, mangiavano, dormivano e facevano i loro bisogni a Sunrise Valley, le Daisy Cutter si potevano anche fare «in casa» con ingredienti molto semplici. Costa aveva comprato un serbatoio per carburante in tessuto gommato da 3700 litri, lo aveva riempito di benzina ad alto numero di ottani, vi aveva montato un dispositivo di dispersione e, come innesco detonante, aveva predisposto alcuni candelotti di dinamite. Poi da un paracadute aveva ricavato un apparato frenante e un dispositivo di sgancio. Un giochetto da ragazzi.

Fatto questo, come aveva spiegato al resto dell'equipaggio: «Si sorvola il bersaglio, si spinge la bomba giù dal portellone e si scappa più in fretta che si può. Datemi retta, la Daisy Cutter si lascia dietro solo terra bruciata. Di Sunrise Valley resterà solo una macchia carbonizzata in mezzo al deserto. Solo il ricordo. Vedrete».

5

«Piano, piano, signori. Non vogliamo morti né feriti. Per questa volta non deve farsi male nessuno.»

A circa 1300 chilometri di distanza, il Lupo osservava in tempo reale ciò che stava succedendo nel deserto. Che film! C'erano quattro telecamere a Sunrise Valley, le cui immagini giungevano a quattro schermi nella casa di Bel Air, a Los Angeles, dove il Lupo era temporaneamente ospite.

Guardò attentamente gli abitanti del campo di caravan e roulotte che, scortati dai militari, venivano fatti salire sui camion da trasporto. La qualità delle immagini era ottima. Si leggevano persino le scritte sulle maniche dei soldati: NEVADA ARMY GUARD UNIT 72ND.

Tutto a un tratto esclamò ad alta voce: «Merda! No!» E cominciò a strizzare ripetutamente e rapidamente nel palmo della mano una pallina di gomma nera, come faceva sempre quando era nervoso o arrabbiato, o tutte e due le cose insieme.

Uno dei civili aveva estratto una pistola e la stava puntando contro uno dei soldati. Un errore imperdonabile!

«Cretino!» gridò il Lupo seguendo la scena sullo schermo.

Un attimo dopo l'uomo armato di pistola era steso a faccia in giù nella polvere del deserto, morto. L'unico vantaggio fu che così risultò molto più facile far salire sui camion gli altri mentecatti di Sunrise Valley. Avrei dovuto metterlo in conto fin dall'inizio, rifletté tra sé il Lupo. Invece non l'aveva previsto e adesso quel morto diventava un problemino.

Una delle telecamere a spalla inquadrò un aereo da trasporto che si avvicinava al centro abitato e cominciava a girare in tondo. Uno spettacolo magnifico! La telecamera doveva essere a bordo di uno dei camion militari che a quell'ora erano già ripartiti a tutta velocità da Sunrise Valley.

Erano immagini veramente straordinarie, in bianco e nero, e questo in un certo senso le rendeva ancora più efficaci. Il bianco e nero era più realistico, no? Sì, decisamente.

La telecamera seguiva l'aereo che si abbassava sui caravan.

«Angeli della morte», mormorò il Lupo. «Che inquadratura! Sono proprio un artista.»

Dovettero mettercisi in due per riuscire a spingere l'ordigno giù dal portellone. Poi il pilota fece una virata secca a sinistra, diede gas ai motori e riprese quota più in fretta che poteva. Aveva svolto con grande bravura il suo compito, il suo pezzo del puzzle. «Tu sopravvivrai», decretò il Lupo guardando il video.

L'inquadratura si allargò e la telecamera riprese la bomba che lentamente scendeva sul bersaglio. Anche quelle erano immagini di grande effetto. Facevano quasi paura anche a lui. A una trentina di metri dal suolo, la bomba esplose. «Per la miseria!» esclamò il Lupo, che pure era uno che non si emozionava mai.

Incapace di staccare gli occhi dalla scena, guardava la Daisy Cutter radere al suolo tutto ciò che incontrava nel raggio di circa cinquecento metri dal punto di impatto, uccidendo tutto ciò che trovava sulla propria strada. Una devastazione totale. Nel raggio di una quindicina di chilometri andarono in frantumi i vetri delle finestre; la terra e tutti gli edifici tremarono fino a Elko, che era a una cinquantina di chilometri di distanza. Il boato fu udito fin oltre i confini del Nevada.

E l'eco arrivò ancora più lontano. Fino a Los Angeles, per esempio. Perché quella di Sunrise Valley, Nevada, era solo una prova.

«Questo è solo un assaggio», disse il Lupo. «Un piccolo inizio in preparazione di qualcosa di molto più grosso. Il mio capolavoro. La mia vendetta.»

6

Quando tutto ebbe inizio, per fortuna non ero in servizio. Avevo quattro giorni di ferie e avevo deciso di trascorrerli sulla West Coast. Era la prima vacanza che mi prendevo da oltre un anno. Prima tappa: Seattle, nello Stato di Washington.

Seattle è una città bellissima e piena di vita che, almeno secondo me, ha trovato il giusto equilibrio tra vecchio e nuovo, tra pittoresco e cibernetica, forse con un briciolo di Microsoft di troppo. Normalmente sarei stato curioso e felice di visitarla.

Stavo attraversando un periodo delicato, però, e bastava che guardassi il bambino che tenevo per mano mentre attraversavamo Wallingford Avenue North per ricordarmi il perché.

Bastava che dessi ascolto al mio cuore.

Il bambino era mio figlio Alex e non lo vedevo da quattro mesi. Viveva con la madre a Seattle, adesso, mentre io ero rimasto a Washington, dove lavoravo per l'FBI. La mamma di Alex e io eravamo giunti al punto in cui, dopo alcuni scontri molto burrascosi, ci contendevamo l'affidamento «amichevolmente». Almeno in via ufficiale.

«Ti diverti?» chiesi al piccolo Alex che si era portato dietro Mu, la mucca pezzata bianca e nera che, quando viveva ancora con me a Washington, era il suo pupazzo preferito. Ormai aveva quasi tre anni, e parlava molto bene ed era sveglissimo. Gli volevo un bene dell'anima. Sua madre Christine era convinta che fosse particolarmente dotato - molto più intelligente e più creativo dei suoi coetanei - e, dal momento che era una stimata insegnante di scuola elementare, probabilmente aveva ragione.

Christine abitava nella zona di Wallingford, dove si possono fare belle passeggiate, per cui Alex e io avevamo deciso di rimanere nelle vicinanze di casa. Avevamo cominciato giocando un po' nel giardino, che era molto grande, circondato da abeti e con una bella vista sulle Cascade Mountains.

Gli feci parecchie foto, perché Nana me lo aveva raccomandato, poi Alex insistette per mostrarmi l'orto della sua mamma che, come immaginavo, era molto ben curato, pieno di pomodori, insalata e zucchine. L'erba era stata tagliata da poco e c'erano vasi di rosmarino e menta sui davanzali della cucina. Scattai altre foto a mio figlio.

Dopo il giro dell'orto e del giardino, andammo al parco giochi di Wallingford a fare un po' di lanci con una palla da baseball e quindi allo zoo. Al ritorno costeggiammo il vicino Green Lake, sempre tenendoci per mano. Alex era gasatissimo per l'imminente Seafair Kiddies Parade e non capiva perché io non potessi fermarmi per assistere. Mi preparai all'inevitabile domanda successiva: «Perché te ne devi sempre andare?»

Non avevo nessuna risposta convincente da dargli. Solo un improvviso, terribile, senso di angoscia nel petto, che conoscevo fin troppo bene. Voglio stare con te sempre, tutti i giorni che Dio manda, avrei voluto dirgli.

«Purtroppo devo andare», risposi invece. «Ma ti prometto che tornerò presto, e lo sai che mantengo sempre le promesse che faccio.»

«Le mantieni perché sei un poliziotto?» domandò. E subito dopo: «Ma perché devi andare via?»

«Sì, mantengo le promesse anche per via del mio lavoro. E devo lavorare, per comprare videoregistratori e merendine e tutto il necessario.»

«Perché non cambi lavoro?» suggerì Alex.

«Ci penserò», risposi. Non era una bugia: ci stavo davvero pensando. Soprattutto negli ultimi tempi avevo riflettuto parecchio sulla mia carriera di poliziotto. Ne avevo parlato addirittura con il mio strizzacervelli.

Alla fine, verso le due e mezzo, tornammo a casa. Era una villetta in stile vittoriano, azzurra con infissi e rifiniture bianchi, in ottime condizioni. Era accogliente e luminosa e, devo ammetterlo, molto adatta per tirare su un bambino, così come lo era la città di Seattle.

Il piccolo Alex aveva addirittura una camera con vista sulle Cascade Mountains. Che cosa può desiderare di più un bambino?

Un padre che sia presente più di un giorno ogni due o tre mesi, forse? Che ne direste?

Christine ci aspettava sulla porta e ci accolse affettuosamente. Il suo atteggiamento era talmente diverso dall'ultima volta che ci eravamo visti a Washington che mi chiesi se potevo fidarmi di lei. Subito dopo mi resi conto che dovevo fidarmi.

Baciai e abbracciai ancora una volta Alex davanti a casa, gli scattai ancora qualche foto per Nana e per i ragazzi a Washington, poi lui entrò in casa con Christine e io mi ritrovai fuori da solo. Tornai a piedi all'auto che avevo noleggiato con le mani in tasca, meditabondo e già pieno di nostalgia per mio figlio. Mi chiesi se salutarlo sarebbe stato ogni volta così straziante. Ma sapevo già che la risposta era sì.

7

Dopo la visita ad Alex a Seattle, presi un volo per San Francisco, dove intendevo trascorrere un paio di giorni con Jam. Jamilla Hughes era un'ispettrice della squadra Omicidi di San Francisco, che frequentavo da circa un anno. Avevo voglia di vederla, avevo bisogno di stare un po' con lei. Jamilla riusciva sempre a farmi stare bene.

Per quasi tutto il viaggio ascoltai la bella voce di Erykah Badu e poi Calvin Richardson. Anche la musica mi fa sempre stare bene. Meno peggio, perlomeno.

Mentre l'aereo si avvicinava a San Francisco, ebbi la fortuna di vedere insolitamente nitidi il Golden Gate Bridge e lo skyline della città. Riconobbi l'Embarcadero e il grattacielo Transamerica e fui sopraffatto dall'emozione. Non vedevo l'ora di riabbracciare Jamilla. Ci eravamo conosciuti e innamorati mentre indagavamo su una serie di omicidi. L'unico problema era che io vivevo a Washington e lei a San Francisco e, per il momento, nessuno dei due poteva o voleva abbandonare il proprio lavoro e la propria città. Non sapevamo come fare.

A parte questo, stavamo molto bene insieme. Jamilla mi aspettava con un'espressione felice vicino a una delle uscite del San Francisco International Airport, davanti a un North Beach Deli. Sorrideva e si sbracciava e saltava dalla gioia: è fatta così, non si vergogna di mostrare quello che prova.

Non appena la vidi, sorrisi e mi sentii meglio. Mi fa sempre questo effetto. Indossava una giacca di pelle morbida come un guanto, una maglietta azzurra e un paio di jeans neri. Probabilmente era venuta a prendermi direttamente dall'ufficio, ma era bellissima.

Si era data il rossetto e anche il profumo, come sentii abbracciandola. «Quanto mi sei mancata!» esclamai.

«Allora abbracciami, baciami, stringimi forte», disse lei. «Come sta il piccino? Raccontami di Alex.»

«Cresce. È più grande, più furbo e più spiritoso. Proprio in gamba. Gli voglio un gran bene e sento già la sua mancanza, Jamilla.»

«Lo so, lo so, amore. Su, abbracciami ancora.»

La sollevai di peso e la feci girare su se stessa. Jamilla è alta uno e settantacinque e piuttosto robusta e a me piace moltissimo prenderla in braccio. Mi accorsi che parecchie persone ci guardavano: quasi tutte, naturalmente, sorridevano.

Poi due degli spettatori delle nostre effusioni, un uomo e una donna vestiti di scuro, si avvicinarono. Che cosa volevano?

La donna mi mostrò un tesserino: FBI.

Oh, no, no! Non fatemi questo!

8

Gemetti e posai delicatamente a terra Jamilla con aria colpevole, come se fossimo stati sorpresi a fare qualcosa di male, anziché qualcosa di molto bello e giusto. Tutte le mie speranze svanirono in una frazione di secondo: avevo tanto bisogno di un po' di relax, ma evidentemente non era destino.

«Sono l'agente Jean Matthews e questo è l'agente John Thompson», disse la donna indicando un biondo sulla trentina che mangiava una tavoletta di cioccolato Ghirardelli. «Scusi l'interruzione, e l'intromissione, ma ci hanno mandato a prenderla qui all'aeroporto. Lei è Alex Cross, vero?» chiese, ricordandosi in extremis di verificare se ero davvero la persona che cercavano.

«Sì, sono io. Vi presento l'ispettore Jamilla Hughes del dipartimento di polizia di San Francisco. Potete parlare davanti a lei», dissi.

L'agente Matthews scosse la testa. «No, temo di no.»

Jamilla mi posò una mano sul braccio e disse: «Nessun problema». Poi si allontanò, lasciandomi con i due agenti, facendo esattamente il contrario di ciò che avrei voluto. Avrei voluto che se ne andassero loro, e il più lontano possibile.

«Cosa c'è?» domandai all'agente Matthews. Sapevo già che doveva trattarsi di qualcosa di grave. Succedeva sempre, da quando facevo quel lavoro. Burns, il direttore dell'FBI, era al corrente dei miei orari e dei miei spostamenti anche quando non ero in servizio, il che significava che ero praticamente sempre in servizio.

«Come le ho detto, dottor Cross, ci hanno mandato a prenderla. Abbiamo istruzioni di metterla su un aereo per il Nevada. Si tratta di un'emergenza. È stato bombardato un paese. Bombardato è dir poco: è stato cancellato dalla faccia della terra. Il direttore vuole che lei si rechi sul posto al più presto. È un disastro di enormi proporzioni.»

Scuotevo la testa in preda a una delusione e un senso di frustrazione incredibili. Andai verso Jamilla, che mi aspettava in disparte. Mi sentivo completamente svuotato. «C'è stato un attentato nel Nevada. Dicono che la notizia è già arrivata ai media. Devo andare», le dissi. «Cercherò di tornare il prima possibile. Scusami. Non sai quanto mi dispiace.»

L'espressione di Jamilla era più che eloquente. «Capisco. Naturalmente. Devi andare. Be', se puoi torna.»

Feci per baciarla, ma lei si ritrasse. Mi salutò con un cenno della mano e lo sguardo triste, poi si voltò e se ne andò senza dire una parola. Capii che avevo perso anche lei.

9

Ero in azione, ma le circostanze erano più che frustranti per me: erano surreali. Mi portarono con un jet privato da San Francisco a una cittadina del Nevada e da lì, con un elicottero dell'FBI, in quella che un tempo era stata Sunrise Valley.

Cercavo di non pensare né al piccolo Alex né a Jamilla, ma mi riusciva veramente difficile. Forse ci sarei riuscito meglio una volta arrivato sul posto, quando mi fossi trovato sul luogo dell'attentato, in mezzo al casino...

Dal modo rispettoso e sollecito in cui mi trattavano gli agenti' del posto capii che la mia reputazione, o forse semplicemente il fatto che venissi dalla sede di Washington, li intimidiva e li preoccupava. Il direttore Burns aveva fatto capire chiaramente che ero uno degli agenti su cui il Bureau contava nelle situazioni particolarmente delicate. Anzi, che ero quello su cui lui personalmente contava di più. Il fatto che io rispondessi a lui non significava che gli raccontassi tutto, ma gli agenti delle sedi distaccate naturalmente non lo sapevano.

Il viaggio in elicottero durò solo una decina di minuti. Dall'alto vidi le luci lampeggianti dei veicoli di emergenza tutto intorno a Sunrise Valley, o a quello che un tempo era stato Sunrise Valley. Del paese non restavano che poche macerie. Dall'alto si vedeva del fumo, ma non fiamme: probabilmente non c'era più nulla da bruciare.

Erano appena passate le otto. Che cosa era successo? E perché mai qualcuno si era preso la briga di distruggere un paesino sperduto come quello?

Durante il volo ero stato aggiornato sulla situazione, ma le informazioni erano davvero scarse. Alle quattro di quel pomeriggio tutti gli abitanti del campo - tranne uno, un uomo a cui avevano sparato - erano stati «evacuati» da sedicenti militari della Guardia Nazionale. Erano stati portati a una sessantina di chilometri di distanza, a metà strada tra Sunrise Valley e la città più vicina, Elko. La loro posizione era stata segnalata alla polizia di Stato del Nevada e, quando erano arrivate le pattuglie per assistere i poveri sfollati spaventatissimi, i camion e le jeep militari non c'erano più. E non c'era più nemmeno il paese di Sunrise Valley, cancellato da una violentissima esplosione.

Letteralmente cancellato: nella valle erano rimaste solo sabbia, salvia selvatica e arbusti.

Vidi camion dei pompieri, fuoristrada, cinque o sei elicotteri e, quando anche il nostro cominciò ad abbassarsi, riconobbi dei tecnici in tuta protettiva.

Gesù, cos'era successo?

Armi chimiche?

Una guerra?

Possibile? Al giorno d'oggi, negli Stati Uniti? Sì, purtroppo era possibile.

10

Credo fosse la scena più spaventosa che avessi mai visto in tanti anni di carriera nella polizia: una desolazione totale, apparentemente immotivata.

Non appena toccammo terra e io scesi dall'elicottero, mi fecero indossare una tuta protettiva con tanto di maschera antigas e accessori vari contro gli agenti chimici. La maschera era molto tecnologica, a pieno facciale, con lenti separate e un tubo per bere. Mi sembrava di essere un personaggio di una delle inquietanti storie di Philip K. Dick. Ma durò poco: appena vidi due ufficiali dell'esercito che giravano senza maschera, me la tolsi anch'io.

Poco dopo il mio arrivo fummo informati di una possibile pista su cui indirizzare le indagini. Due escursionisti avevano visto un uomo che filmava l'esplosione con una telecamera. Siccome aveva l'aria sospetta, uno di loro lo aveva fotografato con un apparecchio digitale. I due gitanti avevano anche scattato foto dell'evacuazione del paese.

In quel momento erano insieme a un paio di nostri agenti, che li stavano interrogando. Anch'io volevo parlare con loro, non appena avessero finito. Purtroppo la macchina fotografica era stata sequestrata dalla polizia del Nevada, che si rifiutava di consegnarcela finché non fosse arrivato il loro capo, che stava rientrando in fretta e furia da una battuta di caccia.

Quando finalmente arrivò, al volante di una vecchia Dodge Polaris nera, gli corsi incontro e cominciai a parlare prima ancora che fosse sceso dall'auto.

«Capo, i suoi uomini hanno in mano prove importanti e si rifiutano di consegnarcele. Ne abbiamo bisogno», dissi senza alzare la voce, ma accertandomi che capisse bene il messaggio. «Questa è un'indagine federale, ormai. Io sono qui in rappresentanza dell'FBI e del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. Abbiamo perso tempo prezioso, per colpa dei suoi uomini.»

Devo ammettere che il capo della polizia locale, un sessantenne panciuto, era arrabbiatissimo. Si mise a gridare ai due agenti: «Portate qui le prove, cretini! Cosa diavolo credevate di fare? A cosa pensavate? Ma già, siete in grado di pensare? Forza, portate subito qui le prove».

I due arrivarono di corsa e il più alto, che in seguito scoprii essere suo genero, gli porse la macchina fotografica. Era una Canon PowerShot e sapevo come funzionava.

Vediamo un po' che cosa c'è qui dentro, mi dissi. Le prime erano foto naturalistiche molto belle, senza persone, sia primi piani che panorami scattati con il grandangolo.

Poi venivano le foto dell'evacuazione. Incredibili.

Dopo ancora, finalmente, vidi l'uomo che aveva filmato l'esplosione.

Aveva le spalle rivolte all'obiettivo e nella prima foto era in piedi, mentre nelle successive aveva posato un ginocchio a terra, probabilmente per riprendere da un'angolazione migliore.

Non so che cosa avesse spinto l'escursionista a cominciare a fotografare lo sconosciuto, ma lo aveva fatto con notevole intuito. L'uomo misterioso filmava il paese abbandonato, dal quale poco dopo si levavano fiamme altissime. Era abbastanza evidente che lo sconosciuto sapeva che cosa stava avvenendo.

Nella foto successiva il tizio si voltava verso i due escursionisti e andava verso di loro, o perlomeno così sembrava dalle foto. Mi chiesi se si era accorto di essere stato fotografato. Sembrava che guardasse verso di loro.

Quando lo vidi in faccia, stentai a credere ai miei occhi. Lo conoscevo! Gli avevo dato la caccia per anni. Era ricercato per almeno una decina di omicidi, sia negli Stati Uniti che in Europa. Era un feroce psicopatico, uno degli assassini a piede libero più pericolosi del mondo.

Si chiamava Geoffrey Shafer, meglio noto con il soprannome di Donnola.

Che cosa ci faceva nel Nevada?

11

C'erano altre due o tre foto chiarissime della Donnola che si avvicinava all'obiettivo.

Al solo vedere quell'essere detestabile mi sentii salire il sangue alla testa e provai un leggero senso di nausea. Avevo la bocca secca e continuavo a leccarmi le labbra. Perché Shafer era stato lì? Che cosa aveva a che fare con l'ordigno che aveva raso al suolo Sunrise Valley? Era pura follia! Mi sembrava di vivere un brutto sogno, di essere completamente fuori della realtà.

Il mio primo incontro/scontro con il colonnello Geoffrey Shafer risaliva a tre anni prima. Benché non fossimo mai riusciti a dimostrarlo, aveva ucciso una quindicina di persone a Washington. Si travestiva da taxista, di solito nel quartiere dove vivevo io, il Southeast, e sceglieva prede facili. Sapeva che le indagini della polizia di Washington non erano mai molto approfondite, quando le vittime erano neri e poveracci. Di giorno, lavorava all'ambasciata britannica a Washington. Colonnello, era apparentemente un personaggio di tutto rispetto, ma in realtà era uno degli assassini più spietati che mi fossero mai capitati, un serial killer della peggior specie.

Un agente del Nevada di nome Fred Wade mi venne incontro. Ero accanto all'elicottero con il quale ero arrivato e stavo ancora esaminando le foto scattate dai due gitanti. Wade mi disse che voleva sapere che cosa stava succedendo. Non potevo biasimarlo: anche a me sarebbe piaciuto tanto saperlo!

«L'uomo che ha filmato l'esplosione si chiama Geoffrey Shafer», gli dissi. «Lo conosco. È un serial killer che uccise diverse persone a Washington quando io lavoravo ancora nella Omicidi. Le ultime notizie che avevo di lui erano queste: era fuggito a Londra, dove aveva ucciso la moglie in un supermercato, davanti alle figlie. Poi sembrava essere scomparso nel nulla. A quanto pare adesso è tornato. Non so perché, ma mi viene mal di testa al solo pensarci.»

Tirai fuori il cellulare e chiamai Washington. Mentre descrivevo ciò che avevo scoperto, guardai le ultime foto del colonnello Shafer. In una lo si vedeva salire su una Ford Bronco rossa.

Nella successiva la Bronco si allontanava. La targa si leggeva chiaramente.

La cosa più strana era proprio quella: la Donnola aveva commesso un errore.

La Donnola che conoscevo io, invece, non sbagliava mai.

Perciò, forse, non si trattava di un errore.

Forse faceva parte di un piano.

12

Il Lupo era ancora a Los Angeles, ma riceveva regolarmente notizie dal deserto del Nevada. A Sunrise Valley erano arrivati i poliziotti... poi gli elicotteri... l'esercito... e infine l'FBI.

Adesso c'era anche il suo vecchio amico Alex Cross. Bravo, Cross. Tu sì che sei un bravo soldato.

Nessuno ci si raccapezzava, naturalmente.

Nessuno aveva una teoria che potesse spiegare in maniera coerente quel che era accaduto nel deserto.

Era logico, del resto.

Il caos era totale: il bello era proprio quello. Non c'è nulla che faccia più paura di ciò che non si riesce a capire.

Fedya Abramtsov e sua moglie Liza, per esempio. Fedya era uno stronzo pieno di sé che voleva essere un grande boss della Mafia russa a Los Angeles e nello stesso tempo vivere come una star del cinema a Beverly Hills. La casa dove si trovava in quel momento era di Fedya e Liza, ma il Lupo la considerava come propria: in fondo, i loro soldi erano suoi. Senza di lui quei due non erano altro che delinquenti da strapazzo, con troppe ambizioni.

Fedya e Liza non sapevano neppure che il Lupo fosse lì. Erano stati nella loro casa di Aspen ed erano rientrati a Los Angeles quella sera poco dopo le dieci e - sorpresa! - si erano trovati un uomo dall'aria imponente seduto in salotto. Era lì, solo, tranquillo. E stringeva ritmicamente nella mano destra una pallina di gomma.

Non l'avevano mai visto prima.

«Chi diavolo sei?» chiese Liza. «Che cosa ci fai qui?»

Il Lupo allargò le braccia. «Io sono quello che vi ha regalato tutta questa bella roba. E voi che cosa mi date in cambio? Mi mancate di rispetto in questo modo? Io sono il Lupo.»

Fedya non ebbe bisogno di chiedere altro. Sapeva che, se il Lupo era lì e si lasciava vedere in faccia, lui e Liza erano spacciati. Doveva scappare, sperando che il Lupo fosse solo. Ma era poco probabile.

Fece un passo. Il Lupo tirò fuori da sotto il cuscino una pistola. Aveva buona mira. Sparò a Fedya Abramtsov un colpo alla schiena e un altro alla nuca.

«È morto», disse con calma a Liza. Sapeva che era un diminutivo. «Preferisco Yelizaveta. È meno comune. E meno americanizzato. Vieni a sederti qui. Vieni. Fammi questo favore.»

Il Lupo si batté una mano sulle ginocchia. «Vieni. Non mi piace ripetermi.»

La ragazza era carina, con gli occhi castani, ed era intelligente. E infida come una serpe. Si avvicinò e gli si sedette sulle ginocchia, come lui le aveva ordinato. Brava.

«Mi piaci, Yelizaveta. Ma non ho scelta. Mi avete disubbidito. Tu e Fedya mi avete rubato dei soldi. Non dire di no: lo so.» La guardò negli occhi. «Sai che cosa vuol dire zamo it'? Spaccare le ossa.»

Evidentemente Yelizaveta lo sapeva, perché lanciò un grido con tutto il fiato che aveva.

«Bene», disse il Lupo afferrandole il polso sinistro. «Oggi tutto sembra andare a gonfie vele.»

E cominciò dal dito mignolo.

13

Era scoppiata una guerra? E, se sì, chi era il nemico?

Nel deserto era buio e faceva un freddo cane. La notte disorientava, metteva paura. Non c'era luna. Che anche questo facesse parte del piano? Che cosa stava per succedere? E dove? A chi? Perché?

Cercai di ritrovare un po' di lucidità e capire come affrontare le successive ore in maniera non troppo disorganizzata. Era un'impresa ardua, se non addirittura impossibile. Stavamo cercando un piccolo convoglio di camion e jeep militari che pareva essere scomparso nel nulla, inghiottito dal deserto. Ma anche una Ford Bronco targata Nevada 322JBP con un tramonto disegnato sopra.

Stavamo cercando Geoffrey Shafer. Ma perché mai la Donnola era lì?

Mentre aspettavamo un segnale, un avvertimento, feci un giro a piedi. Dove era detonata la bomba, costruzioni e veicoli non si erano solo appiattiti, ma erano stati come vaporizzati e nell'aria volteggiavano ancora cenere e scintille a testimoniare la morte e la devastazione. Il cielo notturno era nascosto da una nuvola di fumo scuro e oleoso. Riflettei, perplesso, sul fatto che solo l'uomo è capace di fare una cosa del genere. E che solo l'uomo riesce a desiderare una cosa del genere.

Mentre camminavo fra le macerie, parlai con alcuni tecnici e agenti impegnati nelle indagini e presi una serie di appunti mentali.

Del campo di caravan restavano soltanto rottami sparsi un po' dappertutto.

I sopravvissuti dicevano di aver visto cadere dal cielo dei contenitori lanciati da un aereo a elica.

Uno di questi stava per colpire un caravan, ma era scoppiato ancora in volo sul campo.

L'esplosione era stata descritta come una massa gelatinosa bianca che aveva improvvisamente preso fuoco.

Si erano scatenate correnti d'aria caldissime e vorticose, che erano durate parecchi minuti.

Fino a quel punto avevamo trovato soltanto un corpo fra le macerie. Ci chiedevamo tutti la stessa cosa: perché uno solo? Perché gli altri erano stati risparmiati? Perché far saltare in aria l'intero campo di caravan per una persona sola?

Non aveva senso. Nulla aveva senso. Meno che mai la presenza di Shafer.

Uno degli agenti dell'FBI locale, Ginny Moriarity, mi chiamò. Mi voltai e vidi che mi faceva segno di raggiungerla. Cos'era successo?

Corsi da lei, che era insieme con un gruppo di poliziotti. Sembravano tutti eccitati.

«Abbiamo trovato la Ford», mi disse la Moriarity. «I camion no, ma la macchina sì. A Wells.»

«Cosa c'è a Wells?» le chiesi.

«L'aeroporto.»

14

«Andiamo!»

Ero di nuovo sull'elicottero dell'FBI, diretto a Wells, e speravo tanto di riuscire a raggiungere la Donnola. Le probabilità non erano altissime, ma non avevamo altro in mano. Gli agenti Wade e Moriarity viaggiavano con me. Non volevano perdersi nulla, qualsiasi cosa ci stesse aspettando.

Mentre ci levavamo in volo sopra ciò che restava di Sunrise Valley, mi resi conto che l'ex campo di caravan era a un'altezza di oltre mille metri sul livello del mare.

Poi smisi di guardare fuori e mi concentrai su Shafer, cercando di capire che cosa potesse legarlo a quel disastro. Tre anni prima, Shafer aveva rapito Christine Johnson, la donna con cui stavo per sposarmi, mentre eravamo in vacanza alle Bermuda. All'epoca non lo sapevamo, ma Christine era già incinta di Alex. Dopo quel sequestro, non ritornammo mai più come prima. John Sampson, il mio migliore amico, e io l'avevamo ritrovata in Giamaica, sotto shock. Non potevo darle torto. In seguito si era trasferita a Seattle, dove da qualche tempo viveva con il piccolo Alex. Era colpa di Shafer, se le cose erano finite così.

Ma con chi lavorava la Donnola? Una cosa era ovvia, e probabilmente utile alle indagini: all'attentato di Sunrise Valley dovevano aver collaborato molte persone. Non avevamo ancora scoperto l'identità di quelli che si erano fatti passare per militari americani, ma sapevamo che non lo erano: il Pentagono ce lo aveva confermato. Poi c'era da affrontare il problema dell'ordigno che aveva cancellato un intero paese dalla faccia della terra. Chi l'aveva costruito? Qualcuno che aveva esperienza militare, probabilmente. Shafer era stato colonnello nell'esercito britannico e aveva anche fatto il mercenario.

I possibili collegamenti erano tanti e interessanti, ma ancora molto vaghi.

Il pilota dell'elicottero si rivolse a me: «Dovremmo vedere Wells appena avremo superato quelle montagne. Vedremo le luci, in ogni caso. Ma anche loro ci avvisteranno. Non è possibile avvicinarsi senza essere visti, nel deserto».

Annuii. «Cerchi di atterrare il più vicino possibile all'aeroporto. Ci coordineremo con la polizia di Stato. Forse dovremo ricorrere all'uso delle armi.»

«Capito», disse il pilota.

Cominciai a vagliare diverse possibilità con Wade e Moriarity.

Dovevamo provare ad atterrare dentro l'aeroporto o era meglio fuori? Avevano mai sparato? Qualcuno aveva mai sparato a loro? No, nessuno dei due era mai stato coinvolto in una sparatoria. Fantastico.

Il pilota si voltò verso di noi. «Ci siamo. L'aeroporto dovrebbe apparire sulla destra. Eccolo.»

Vidi un piccolo aeroporto con un edificio di due piani e due piste. Individuai una fila di macchine, ma non la Ford Bronco.

Poi vidi un piccolo velivolo privato che si preparava al decollo.

Che fosse Shafer? Mi sembrava poco probabile, ma in quella storia non c'era nulla di prevedibile.

«Pensavo che l'aeroporto fosse stato chiuso», dissi al pilota.

«Anch'io. Ma forse quello è l'uomo che cerchiamo. Se è così, non c'è più niente da fare. Ha un Learjet 55 e lo sta pilotando piuttosto bene.»

Non potemmo fare altro che stare a guardare. Il Learjet prese la rincorsa sulla pista e decollò, dirigendosi dalla parte opposta rispetto a noi. Mi vedevo già Geoffrey Shafer a bordo che ci faceva ciao ciao. O qualche gestaccio. All'elicottero dell'FBI o a me personalmente? Sapeva che io ero a bordo?

Atterrammo pochi minuti dopo su una delle due piste e venimmo subito informati che il Learjet era fuori dai radar.

«Cosa significa?» chiesi ai due ufficiali nella torre di controllo.

Mi rispose il più anziano. «Che sembra sparito dalla faccia della terra. Come se non fosse mai stato qua.»

Invece la Donnola era stata là: io l'avevo vista. E avevo le foto a dimostrarlo.

15

Geoffrey Shafer guidava una Oldsmobile Cutlass blu a tutta velocità nel deserto. Non era a bordo del Learjet decollato da Wells, Nevada. Sarebbe stato troppo semplice. No, la Donnola aveva sempre diversi piani di fuga fra cui scegliere.

Mentre guidava, pensava che quel piano davvero geniale aveva funzionato e che di certo in caso di problemi ci sarebbero state diverse variazioni possibili. Aveva anche scoperto che Alex Cross, adesso dell'FBI, era stato visto in Nevada.

Fa anche lui parte del quadro generale? Sì, probabilmente era così. Ma perché proprio Cross? Che cosa aveva in mente per lui il Lupo?

Si fermò finalmente a Fallon, Nevada, dove era previsto il contatto successivo. Non sapeva esattamente con chi o perché, né a cosa fosse finalizzata quell'operazione. Sapeva solo quello che doveva fare lui. Gli era stato specificatamente ordinato di recarsi a Fallon per ricevere nuove istruzioni.

E così, ubbidendo agli ordini, prese una stanza al Best Inn Fallon e si chiuse in camera. Usò un cellulare che gli era stato raccomandato di distruggere subito dopo aver effettuato la chiamata. Niente convenevoli, non una parola inutile. Il minimo indispensabile.

«Sono il Lupo», disse la voce che gli rispose e Shafer si chiese se fosse vero o no. Si vociferava che il Lupo si avvalesse di un certo numero di controfigure. Tutte armate, di questo era certo.

Il Lupo aveva notizie preoccupanti da dargli. «È stato visto, colonnello Shafer. È stato fotografato e identificato a Sunrise Valley. Lo sapeva?»

Shafer cercò di negare, ma il Lupo lo interruppe.

«Abbiamo le foto qui, sotto il naso. E non a caso la Ford Bronco è stata seguita fino a Wells e le abbiamo dovuto ordinare di cambiare auto per arrivare a Fallon. Nel caso fosse andato storto qualcosa.»

Shafer non sapeva che cosa dire. Come potevano averlo visto nel bel mezzo del deserto? Perché Cross era lì? Il Lupo alla fine scoppiò a ridere. «Non si preoccupi eccessivamente, colonnello. Era giusto così. Tutto previsto: il fotografo lavora per noi. Domattina si rechi dove le è stato ordinato. Si diverta, stasera. Si conceda una notte brava. Voglio che faccia un macello, lì a Fallon. Ammazzi qualcuno: è un ordine.»

16

Il mio senso di frustrazione e l'agitazione crescevano di ora in ora, insieme alla tensione generale. Non avevo mai visto una confusione simile propagarsi tanto in fretta.

Erano passate quasi ventiquattr'ore dall'esplosione e noi non avevamo che un buco nel deserto del Nevada e un paio di piste molto vaghe. Avevamo parlato ai circa trecento residenti di Sunrise Valley, nessuno dei quali aveva idea di che cosa potesse essere successo. Non era accaduto nulla di insolito nei giorni precedenti, non si erano visti sconosciuti in giro. Non avevamo ritrovato i veicoli militari, né scoperto da dove venissero. L'attentato rimaneva un mistero. Come pure la presenza sul posto del colonnello Geoffrey Shafer, che ci turbava moltissimo.

Non era arrivata nessuna rivendicazione.

Dopo due giorni, decisi che non mi restava niente da fare nel deserto e tornai a Washington. Nana, i ragazzi e persino la gatta Rosie mi aspettavano nella veranda.

Casa, dolce casa. Perché non imparavo la lezione una buona volta e non me ne restavo lì?

«Che bello», esclamai salendo la scaletta. «Un vero e proprio comitato di accoglienza! Immagino abbiate sentito la mia mancanza. Da quanto siete qui ad aspettarmi?»

Nana e i ragazzi scossero la testa quasi simultaneamente e io capii che si erano messi d'accordo.

Nana rispose: «Certo che siamo felici di vederti, Alex». Sorrise. Anche i ragazzi sorrisero. Sì, c'era sotto qualcosa.

«Beccato!» esclamò Jannie, che aveva dieci anni e le treccine che spuntavano da sotto un berretto all'uncinetto. «Siamo il tuo comitato di accoglienza. Certo che abbiamo sentito la tua mancanza, papà. Come avremmo fatto a non sentirla?»

«Beccato, sì!» le fece eco Damon, che era seduto sulla ringhiera. Aveva dodici anni e si vestiva di conseguenza: indossava una maglietta Sean John e jeans larghi.

Gli puntai contro il dito indice. «T'ho beccato io! Scendi di lì o romperai la ringhiera.» Sorrisi.

Dovetti rispondere alle loro domande riguardo al piccolo Alex e mostrare le foto che gli avevo fatto.

Ridevamo tutti, ed era bellissimo. Ero felice di essere tornato a casa, anche se solo in attesa di novità riguardo all'attentato nel Nevada e al ruolo di Shafer.

Nana aveva preparato pollo arrosto con aglio e limone, con contorno di zucchine, funghi e cipolle. Delizioso. Dopo cena, andammo tutti in cucina a rigovernare e mangiare il gelato. Jannie mi mostrò un bel disegno che aveva fatto delle sue eroine, Venus e Serena Williams. Guardammo i Washington Wizards in TV e, prima di andare a dormire, ci scambiammo baci e abbracci. Sì, era proprio bello. Stavo molto meglio del giorno prima. Sperai che l'indomani fosse ancora migliore.

17

Verso le undici, salii nel mio studio all'ultimo piano, rilessi i miei appunti sull'attentato a Sunrise Valley per una ventina di minuti e poi telefonai a Jamilla a San Francisco. Negli ultimi giorni l'avevo sentita solo un paio di volte, perché avevo avuto troppo da fare. Immaginavo fosse a casa, dopo il lavoro.

Invece trovai la segreteria.

Non mi piace lasciare messaggi. E mi dispiaceva lasciarne un altro a Jamilla, dopo quelli che già le avevo lasciato dal Nevada. Alla fine, però, dissi: «Ciao, sono Alex. Speravo potessi perdonarmi per quello che è successo all'aeroporto. Se vuoi venire a Washington, ti compro il biglietto aereo. Mi manchi. Ho voglia di sentirti presto. Ciao, Jam».

Chiusi la comunicazione e sospirai, chiedendomi se avessi rovinato tutto anche quella volta. Sì, stavo di nuovo mandando in malora una relazione. Ma perché?

Scesi e mangiai due fette della torta di farina gialla che Nana aveva preparato per l'indomani. Servì solo a farmi star peggio, perché fui assalito dai sensi di colpa. Mentre ero seduto in cucina, Rosie mi si venne a sedere in grembo. La accarezzai.

«Mi vuoi bene, Rosie? Non sono una cattiva persona, vero?»

La giornata non era finita: poco dopo mezzanotte ricevetti una telefonata da Fred Wade, uno degli agenti con cui avevo lavorato in Nevada. Aveva scoperto una cosa che pensava potesse interessarmi. «Siamo appena stati informati di un omicidio avvenuto a Fallon due sere fa», mi annunciò. «La vittima è una receptionist del Best Inn, che è stata violentata e uccisa. Il cadavere era vicino al parcheggio dell'albergo, come se l'assassino avesse voluto farcelo ritrovare. Uno degli ospiti del Best Inn corrisponde alla descrizione del tuo colonnello Shafer. Che, naturalmente, nel frattempo è ripartito.»

Il mio colonnello Shafer?

Che, naturalmente, nel frattempo è ripartito... Chissà dov'era finito.

18

Quella notte dormii pochissimo. Sognavo continuamente la Donnola. E la tragedia di Sunrise Valley.

I ragazzi dovevano andare in gita con la scuola a visitare l'acquario di Baltimora. Firmai i permessi alle quattro e mezzo, mentre la casa era ancora buia e tutti dormivano. Uscii cercando di non fare rumore. Lasciai un bigliettino per Jannie e Damon dicendo che gli volevo bene, da bravo papà.

Mentre guidavo, ascoltai un CD di Alicia Keys e Calvin Richardson, che mi tennero buona compagnia.

In quel periodo alla sede dell'FBI il Major Threats Center era operativo ventiquattr'ore su ventiquattro: dopo l'11 settembre si era trasformato da un semplice ufficio investigativo in un organismo efficientissimo e proattivo. Poco tempo prima allo Hoover Building era arrivato anche un software da sei milioni di dollari, con un database di quaranta milioni di pagine sul terrorismo, dall'attentato al World Trade Center del 1993 in avanti.

Avevamo un mare di informazioni: era giunto il momento di vedere se servivano a qualcosa.

Quella mattina ci fu una riunione sull'attentato di Sunrise Valley allo Strategic Information and Operations Center, al quinto piano. Eravamo una decina. Visto che era stato raso al suolo un intero paese, l'attentato era assurto al rango di «major threat». In realtà non sapevamo quanto fosse grave la minaccia: non sapevamo niente di niente.

L'attentato non era neppure stato rivendicato.

Era una situazione assurda. E, per questo, probabilmente ancor più spaventosa.

La sala in cui si teneva la riunione era una delle più comode ed eleganti, con poltroncine azzurre e un grande tavolo di legno scuro su un tappeto color vinaccia, due bandiere - quella americana e quella del dipartimento di Giustizia - e un sacco di uomini in giacca e cravatta.

Io avevo un paio di jeans e una giacca a vento con la scritta FBI TERRORISM TASK FORCE e mi sembrava di essere l'unico vestito in modo adeguato. Quello che avevamo per le mani non era un caso da gestire a tavolino.

C'era un sacco di gente importante, primo fra tutti Burt Manning, uno dei cinque vicedirettori del Bureau, ma anche diversi alti funzionari della National Joint Terrorism Task Force e gli analisti di punta del nuovo Office of Intelligence, che comprendeva esperti della CIA e dell'FBI.

Io ero insieme con Monnie Donnelley, analista della squadra Anticrimine e mia cara amica.

«Vedo che hai ricevuto anche tu l'invito ufficiale», dissi, sedendomi vicino a lei. «Benvenuta alla festa.»

«Non me la sarei persa per tutto l'oro del mondo. Mi sembra un film, Alex. È tutto così strano...»

«Lo so.»

Sullo schermo della sala si vedeva il responsabile delle indagini di Las Vegas, che spiegava le attività svolte dal laboratorio mobile della Scientifica che era stato allestito in quello che un tempo era il paesino di Sunrise Valley. Non disse nulla di nuovo e la discussione si spostò ben presto su un argomento molto più interessante.

La valutazione della gravità della minaccia.

Ci fu una breve introduzione sui gruppi terroristici americani, come National Alliance e Aryan Nations. Nessuno riteneva però che a compiere un'azione così sofisticata potessero essere stati quei bamboccioni. Passammo poi ad al-Qaeda e Hezbollah, il movimento radicale della Jihad. La discussione fu accesa e durò due ore. Potevano benissimo essere stati loro. Manning distribuì poi i compiti.

Io non venni neppure nominato e la cosa mi fece pensare che forse sarei stato convocato dal direttore Burns. Non mi faceva particolarmente piacere, per la verità. Non avevo voglia di ripartire da Washington, e meno che mai di andare in Nevada.

A un certo punto, scoppiò il finimondo.

Tutti i cercapersone dei presenti in sala si misero a squillare contemporaneamente.

Nel giro di pochi secondi, tutti controllammo chi ci stava chiamando. Da parecchi mesi venivano segnalate in quel modo tutte le minacce terroristiche, dal pacco sospetto nella metropolitana di New York alla minaccia di diffondere l'antrace a Los Angeles.

Il mio messaggio diceva: RUBATI DUE MISSILI TERRA-ARIA DALLA BASE AERONAUTICA DI KIRTLAND AD ALBUQUERQUE. POSSIBILE LEGAME CON SUNRISE VALLEY. AGGIORNAMENTO A BREVE.

19

«La guerra contro il male non finisce mai», diceva una targa sul muro vicino ai distributori di bevande della mensa. Alle sei meno dieci, quel pomeriggio, ci fu un'altra riunione al quinto piano. Eravamo gli stessi della mattina. Molti immaginarono che l'attentato fosse stato finalmente rivendicato, altri temettero che fosse stato appurato il collegamento con la sparizione dei missili di Kirtland.

Arrivarono cinque o sei agenti della CIA, in giacca e cravatta, valigetta ventiquattrore in mano. Ahi ahi. Subito dopo, giunsero una mezza dozzina di pezzi grossi del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. Evidentemente la cosa si era fatta seria.

«Sono preoccupata», mi bisbigliò Monnie Donnelley. «Un conto è parlare di cooperazione interforze, ma quando le alte sfere della CIA si muovono veramente...»

Le sorrisi. «Sei di ottimo umore, vedo.»

Mi rispose con una scrollata di spalle. «Come diceva il generale Patton sul campo di battaglia: 'Che Iddio mi perdoni, mi piace un casino!'»

Alle sei in punto fece il proprio ingresso il direttore Burns. Entrò nella sala accompagnato da Thomas Weir, il capo della CIA, e Stephen Bowen, della Sicurezza Nazionale. Sembravano profondamente a disagio, forse per il fatto di trovarsi lì tutti e tre assieme, ma anche tutti noi entrammo in agitazione nel vederli.

Monnie e io ci scambiammo un'altra occhiata. Mentre i tre prendevano posto, qualcuno dei più anziani continuò a parlottare: volevano dimostrare che non erano affatto impressionati. Ma era vero? Ne dubitavo.

«Posso avere la vostra attenzione?» esordì il direttore Burns. Nella sala scese il silenzio. Tutti gli occhi erano fissi su di lui.

Burns aspettò un istante, prima di cominciare.

«Desidero aggiornarvi sulla situazione. Le prime informazioni riguardo al caso in oggetto sono state ricevute due giorni prima dei fatti di Sunrise Valley, nel Nevada. Il messaggio si concludeva con l'auspicio che l'attentato non causasse morti o feriti. La natura dell'attentato non veniva specificata, né in alcun modo lasciata intravedere. Veniva inoltre raccomandato di non far parola dell'avvertimento con nessuno, pena gravissime ripercussioni. Quali potessero essere non veniva spiegato.»

Burns si interruppe per guardare il pubblico in sala. Incrociò il mio sguardo, mi fece un lieve cenno del capo e proseguì. Mi chiesi che cosa sapesse che tutti noi ignoravamo. Chi altri era al corrente? La Casa Bianca? Era molto probabile.

«Da allora siamo stati contattati quotidianamente dagli attentatori. In un caso il messaggio è arrivato a Bowen, in uno a Weir e in uno a me. Finora, essi non contenevano informazioni di rilievo. Stamattina, invece, ciascuno di noi ha ricevuto un filmato dell'attentato nel Nevada. È un montaggio di sequenze, che adesso vi mostrerò.»

A un suo cenno, su una mezza dozzina di monitor disposti intorno alla sala cominciarono a scorrere immagini in bianco e nero, molto sgranate. Sembravano le riprese di una telecamera a spalla. Un po' come un filmato di guerra, insomma. Guardammo il video in silenzio.

Si vedevano arrivare camion e jeep militari, a un paio di chilometri di distanza. Poco dopo, gli abitanti del campo venivano fatti uscire dai loro caravan e scortati a bordo dei veicoli.

Un uomo tirava fuori una pistola e veniva ucciso in mezzo alla strada. Douglas Puslowski.

Il convoglio si allontanava rapidamente alzando nuvole di polvere.

La scena successiva mostrava un grosso oggetto scuro che cadeva dal cielo. Mentre era a mezz'aria, esplodeva.

Il filmato era stato montato, ma le riprese erano state fatte da un'unica telecamera. Semplice, ma efficace.

L'esplosione pareva durare un'eternità. L'aereo che aveva sganciato l'ordigno non veniva mai ripreso.

«Hanno filmato tutto», disse Burns. «Volevano che sapessimo che erano presenti e che sono stati loro a radere al suolo Sunrise Valley. Fra pochi minuti ci spiegheranno anche perché. Stiamo aspettando una loro telefonata. La persona che ci ha contattati finora ha usato schede telefoniche e telefoni pubblici. Un metodo primitivo, ma non privo di efficacia. Ci ha chiamato da supermercati, cinema, sale da bowling: molto difficile da rintracciare, quindi.»

Restammo seduti in silenzio un minuto o due. Solo pochi bisbigliavano fra loro.

Poi il telefono vicino ai tre direttori cominciò a suonare.

20

«Useremo il vivavoce in maniera che possiate sentire tutti», annunciò Burns. «Non ci è stato vietato di farvi ascoltare la chiamata. Anzi, ci è stato raccomandato. In altre parole, gli attentatori si aspettano un pubblico. Come vedrete, dettano regole molto precise.»

«Ma chi sono?» mi chiese Monnie in un orecchio. «Te lo dicevo: sembra un film. Magari sono gli alieni. Scommettiamo?»

«Lo sapremo fra un attimo. Io con te non scommetto.»

Burns premette un pulsante e dagli altoparlanti arrivò una voce, filtrata in maniera da risultare irriconoscibile.

«Buonasera. Sono il Lupo», disse.

Mi si rizzarono i capelli: conoscevo il Lupo, gli stavo dando la caccia da un anno. Era l'assassino più spietato con cui avessi mai avuto a che fare.

«Sono stato io a distruggere Sunrise Valley. Vorrei dare alcune spiegazioni, non più di quante meritiate. Vi dirò solo ciò che desidero sappiate per il momento.»

Monnie mi guardò, scuotendo la testa. Anche lei conosceva il Lupo. Se la telefonata fosse arrivata direttamente dall'inferno, ci avrebbe fatto meno paura.

«Sono lieto di poter parlare a voi tutti, che vi credete tanto importanti ma siete lì riuniti ad ascoltarmi e pendete dalle mie labbra. FBI, CIA, Sicurezza Nazionale: sono molto impressionato», continuò il Lupo. «Mi sento quasi in imbarazzo.»

«Vuole che interloquiamo o che ascoltiamo soltanto?» domandò Burns.

«Chi ha parlato? Chi è? Si presenti, per cortesia.»

«Sono Burns, il direttore dell'FBI. Sono qui con il direttore della CIA, Weir, e con Stephen Bowen della Sicurezza Nazionale.»

Il suono che seguì doveva essere un'aspra risata. «Quale onore, signor Burns! Credevo mi avreste fatto parlare con un portaborse, almeno all'inizio. Il dottor Cross, per esempio. Ma è meglio, se ci parliamo direttamente. È sempre meglio dialogare fra potenti, le pare?»

Weir, della CIA, disse: «Ha chiesto specificatamente di parlare con 'la dirigenza'. E noi siamo 'la dirigenza'. Stiamo prendendo molto sul serio l'attentato nel Nevada».

«Mi avete dato ascolto, dunque. Molto bene. Ho sentito parlare di lei, direttore Weir. Anche se prevedo problemi tra noi, in futuro.»

«E perché mai?»

«Lei è della CIA e io non mi fido della CIA. Nemmeno per un secondo... Non ha letto Graham Greene? Chi altro mi sta ascoltando?» chiese poi. «Presentatevi.»

Burns elencò i presenti, omettendo un paio di agenti. Mi chiesi perché.

«Ottima scelta, mi congratulo», disse il Lupo, non appena Burns ebbe concluso. «Sono certo che sapete di chi fidarvi e di chi invece diffidare. In fondo, ne va della vostra vita. Personalmente, nutro una certa diffidenza nei confronti della CIA, ma è un mio punto di vista. Li trovo bugiardi e inutilmente pericolosi. C'è qualcuno che non è d'accordo con me?»

Nessuno rispose e dagli altoparlanti uscì un'altra risata. «Interessante, non trovate? Neppure la CIA si dichiara contraria alle mie affermazioni poco lusinghiere.»

Poi il tono cambiò di colpo. «Adesso statemi bene a sentire, buoni a nulla che non siete altro. La cosa principale è che mi stiate a sentire. E facciate quel che vi dico. Avete capito? Statemi a sentire e fate quel che vi dico. Voglio sentirvi, per favore. Mi avete capito, cretini?»

Rispondemmo tutti insieme, benché fosse assurdo e infantile. Era chiaro che il Lupo ci aveva in pugno. Ci controllava totalmente.

Burns a un certo punto disse: «Ha chiuso la comunicazione! Quel figlio di puttana ha riattaccato».

21

Aspettammo come pedine nel suo gioco, ma il boss russo non si fece più sentire. Conoscevo bene quel bastardo e presentivo che non avrebbe richiamato. Ci stava trattando come burattini.

Tornai nel mio ufficio e Monnie Donnelley rientrò in Virginia. Non ero ancora stato assegnato al caso, perlomeno ufficialmente, ma il Lupo sapeva che ero anch'io in quella sala riunioni. Aveva fatto il mio nome solo per insultarmi, com'era nel suo stile.

Che cosa aveva in mente? Era un mafioso: perché usava tattiche terroristiche? Voleva far scoppiare una guerra? Se ci riusciva un gruppo di pazzi nel deserto, sicuramente poteva farcela anche la Mafia russa. Bastava avere un boss particolarmente spietato e soldi a sufficienza.

Mi chiedevo se la terribile incertezza che provavo facesse parte del piano del russo per tenerci sotto pressione e stressarci. Voleva controllarci? Mettere a dura prova la nostra pazienza?

Naturalmente, riflettei anche su Geoffrey Shafer e sul suo ruolo nella vicenda. Cosa c'entrava? Avevo già scaricato tutti i dati più recenti su Shafer. Una sua ex, nonché psicoterapeuta, era stata messa sotto sorveglianza. Si chiamava Elizabeth Cassady e stavo cercando di ottenere i suoi appunti sulle sedute con Shafer.

Più tardi chiamai casa e parlai con Nana, che mi accusò di aver mangiato la sua torta. Diedi la colpa a Damon e lei scoppiò a ridere. «Devi prenderti la responsabilità delle cose che fai», mi rimproverò.

«Me la prendo, me la prendo», risposi. «Sì, l'ho mangiata io. E ne sono felice: era squisita.»

Appena finita la telefonata venni convocato per un'altra riunione. Tony Woods, della direzione, parlò alla sala gremita. «Ci sono nuovi sviluppi», annunciò solenne. «In Europa è scoppiato il finimondo.»

Dopo un attimo di pausa, riprese: «Un'ora fa si sono verificati altri due attentati gravissimi. Entrambi sono avvenuti nell'Europa occidentale: il primo in Inghilterra, nel Northumberland, al confine con la Scozia. Il paesino di Middleton Hall, quattrocento e passa anime, è stato cancellato dalla faccia della terra». Si interruppe. «Questa volta la popolazione non era stata fatta evacuare. Non sappiamo perché. Le vittime sono un centinaio. È stato un bagno di sangue. Sono morte intere famiglie: uomini, donne e bambini. Abbiamo ricevuto un filmato da Scotland Yard, girato da un poliziotto del luogo dalle alture circostanti. Ora ve lo mostro.»

Rimanemmo seduti in silenzio assoluto a guardare il breve filmato. Alla fine, l'autore delle riprese diceva: «Sono Robert Wilson e sono nato e cresciuto a Middleton Hall, che ormai non esiste più. Nel paese c'erano una via principale, un paio di pub, negozi, abitazioni. Vi si accedeva da un ponte che adesso è crollato. Anche il nostro pub è andato completamente distrutto. Di fronte a questa desolazione, capisco perché sono cristiano. E sono sgomento per come sta andando il mondo».

Dopo quel video commovente, Tony Woods passò a illustrarci il secondo attentato. Era avvenuto in Germania e non era documentato con filmati.

«I danni, a Lubecca, non sono stati così ingenti, ma sono comunque gravi. Pare che alcuni studenti universitari abbiano cercato di opporre resistenza e siano stati uccisi. Lubecca si trova nella regione Schleswig-Holstein, vicino al confine danese. È una zona prevalentemente agricola. Il Lupo non ci ha contattato né prima, né dopo gli attentati. È possibile che questo sia il segnale di un'escalation.»

22

Che cosa stava per succedere? Quanto tempo avevamo?

La tensione era fortissima. Un pazzo radeva al suolo interi paesi in tutto il mondo e noi non sapevamo perché. Quanto sarebbe andata avanti questa storia? Sarebbe stato sempre peggio?

Mi concentrai sulla Donnola, leggendo e rileggendo tutto il materiale che avevamo su di lui. Vedere la sua faccia e ascoltare la sua voce mi metteva i brividi. Volevo catturarlo. Lessi gli appunti della psicoterapeuta che aveva avuto in cura quel folle quando abitava a Washington. Elizabeth Cassady non era stata soltanto la sua terapeuta, ma anche sua amante.

Era una lettura incredibile, tenuto conto dei rapporti complessi che la Cassady aveva avuto con il suo paziente. Leggendo, presi appunti.

PRIMO INCONTRO

Maschio, XX anni, si presenta di propria iniziativa, causa «Faccio fatica a concentrarmi sul mio lavoro». Dichiara di svolgere mansioni top secret. Riferisce che i colleghi sostengono che negli ultimi tempi si comporta «in maniera strana». Ha detto di essere sposato, con tre figli: due gemelle e un maschietto. Sostiene di essere felice con la moglie.

IMPRESSIONI

Ben vestito, molto attraente, parla con proprietà di linguaggio. Irrequieto, con considerevole presenza. Descrive il passato con una certa grandiosità.

ESCLUDERE

Disturbi schizoaffettivi

Sintomi maniacali

Disturbi dell'umore dovuti ad abuso di sostanze (alcol o droghe leggere)

Disturbo da deficit di attenzione/iperattività

Disturbo della personalità borderline

Depressione unipolare

SEDUTA N. 3

Arriva in ritardo di dieci minuti. Quando gli chiedo il motivo, dà segni di irritabilità. Dichiara di sentirsi «benissimo», ma nel corso di tutta la seduta manifesta ansia e disagio.

SEDUTA N. 6

Gli chiedo della sua vita familiare, riferendomi a una precedente discussione su problemi sessuali, e assume un comportamento inappropriato: ridacchia, si mette a camminare per la stanza, fa battutine oscene, mi pone domande personali. Dichiara che quando è con la moglie ha fantasie riguardo a me e questo gli causa eiaculazione precoce.

SEDUTA N. 9

Taciturno, atteggiamento anaffettivo, nega di essere depresso. Ha la sensazione che «nessuno lo capisca». Continua a parlare di problemi sessuali con la moglie. Riferisce un episodio di impotenza la scorsa settimana, nonostante le fantasie erotiche su di me. Me le ha descritte dettagliatamente e ha continuato quando io gli ho chiesto di tagliar corto. Ammette di essere «ossessionato» da me.

SEDUTA N. 11

Marcato cambiamento affettivo. Energico, euforico, carismatico in maniera quasi travolgente (possibile disturbo di socializzazione). Alla domanda se ritiene di aver bisogno di continuare le sedute risponde «Mi sento in ottima forma». Riguardo alla moglie dichiara «Le cose non potrebbero andare meglio. Mi adora, sa».

Riferisce un episodio di comportamento a rischio la settimana scorsa: andava in auto a velocità eccessiva e ha intenzionalmente provocato un inseguimento da parte della polizia. Ha alluso a rapporti sessuali con un'altra donna, forse una prostituta, e ha parlato di «sesso selvaggio». È stato seduttivo tutta la seduta, in maniera quasi aperta. Si dichiara convinto che io «lo voglio».

SEDUTA N. 14

Non si è presentato la seduta precedente, senza avvertire. Oggi si è scusato, ma era arrabbiato e irrequieto. Sostiene di volersi «gratificare». Riferisce aumento della libido e di aver chiamato un'agenzia di accompagnatrici per sfogarla. Ammette di desiderare rapporti sado-maso.

Sostiene di non essere «probabilmente» innamorato di me. Lo ha riferito senza la minima emozione. Sono rimasta sbigottita. Sembra che il colonnello Shafer venga da me al solo scopo di sedurmi. E, sfortunatamente, ci sta riuscendo.

23

Dopo aver letto gli appunti della dottoressa Cassady, ero sgomento anch'io. La psicoterapeuta cominciava a prendere le parti di Shafer dalla sedicesima seduta in avanti. Non c'erano più considerazioni personali.

A un certo punto, la dottoressa aveva addirittura smesso di scrivere. Era un comportamento strano, molto poco professionale. Immaginavo che la relazione fosse cominciata lì. In ogni caso, se avevo bisogno di una conferma del fatto che Shafer era psicopatico, l'avevo trovata nelle note della sua terapeuta.

Quella sera, sul tardi, mi chiamarono di nuovo in sala riunioni. Sembrava che il Lupo stesse per ritelefonarci. Doveva essere successo qualcosa. Forse il conto alla rovescia stava per cominciare.

La telefonata iniziò in tono sommesso. «Grazie di esservi di nuovo riuniti per me. Cercherò di non deludervi e di non farvi perdere altro tempo prezioso. Direttori Burns, Bowen, Weir, volete dire qualcosa prima che io cominci?»

«La ascoltiamo, esattamente come ci ha chiesto», replicò Burns.

Il Lupo scoppiò a ridere. «Mi piace, signor Burns. Sarà un degno avversario, penso. A proposito: è presente il signor Mahoney?»

Il capo della HRT, l'unità Antisequestri, guardò negli occhi Ron Burns, che gli fece cenno di parlare.

Il mio amico Ned si protese in avanti e fece un gestaccio. «Sì, sono qui. La ascolto.» Continuava a mostrargli il dito medio. «Che cosa posso fare per lei?»

«Andarsene immediatamente. Non abbiamo bisogno di lei. La trovo un po' troppo instabile, per i miei gusti. Pericoloso. E sì, sto dicendo sul serio.»

Burns fece cenno a Mahoney di andare.

«L'Antisequestri non ci servirà», dichiarò il Lupo. «Se arriveremo a quel punto, per voi sarà tutto perduto, ve lo assicuro. Forse state iniziando a capire come ragiono. Non voglio la HRT e non voglio ulteriori indagini. Richiamate indietro i cani. Mi sentite? Nessuno di voi scoprirà chi sono. Anzi, chi siamo. È chiaro? Rispondetemi.»

Dicemmo in coro: «Sì». Era chiarissimo. Il Lupo ci metteva in una posizione infantile, godeva a umiliare FBI, CIA e Sicurezza Nazionale.

«Chi non ha detto sì, esca immediatamente», ordinò il Lupo. «Anzi no, restate pure. Mi divertirò alle vostre spalle. Sono un tipo creativo, sapete. Riguardo a Mahoney però dicevo sul serio. E anche sulla sospensione delle indagini. Prendetemi alla lettera. E adesso passiamo all'ordine del giorno. Ho da dire cose molto interessanti. Spero che qualcuno prenderà appunti.»

Fece una pausa di quindici secondi, poi riprese: «Voglio che prendiate nota delle prossime città. È giunto il momento. Sono quattro e il mio consiglio è di prepararsi al peggio. Verranno completamente rase al suolo».

Dopo un'altra pausa, dichiarò: «New York, Londra, Washington, Francoforte. Queste città si devono preparare alla catastrofe più disastrosa di tutta la storia. E non una parola riguardo a ciò che ho detto, mi raccomando. Altrimenti il mio attacco sarà immediato».

Buttò giù. Non aveva detto niente riguardo alle date.

24

Alle cinque e mezzo di quella mattina il presidente degli Stati Uniti era in piedi. Anzi, era reduce da una riunione di due ore e stava bevendo la sua quarta tazza di caffè.

I membri del Consiglio di Sicurezza Nazionale erano arrivati nel suo ufficio alle tre e mezzo, insieme con alcuni esponenti di CIA e FBI e un certo numero di esperti di intelligence. Tutti prendevano molto sul serio le minacce del Lupo.

Il presidente si sentiva abbastanza pronto alla riunione successiva, ma non si poteva mai dire, soprattutto quando la politica si mescolava a situazioni di reale emergenza.

«Diamo inizio alle danze. Forza», disse al capo del suo staff.

Pochi minuti dopo parlava in teleconferenza con il cancelliere tedesco e il primo ministro britannico. Apparivano tutti e tre sullo schermo, lievemente asincroni.

Sembrava strano, ma l'intelligence di nessuno dei tre Paesi aveva informazioni affidabili riguardo al Lupo. Non sapevano dove fosse o dove abitasse. Il presidente lo spiegò agli altri.

«Finalmente, siamo d'accordo su qualcosa», disse il cancelliere tedesco.

«Sappiamo che esiste, ma non dove si nasconde», confermò il primo ministro britannico. «Noi supponiamo che abbia fatto parte del KGB e che sia fra i quarantacinque e i cinquant'anni. Sappiamo per certo soltanto che è molto in gamba. Terribilmente arrogante.»

Anche su questo erano tutti d'accordo.

Concordavano inoltre su un aspetto ancor più importante: con i terroristi non bisogna trattare.

Il Lupo andava fermato. A qualsiasi costo.

PARTE SECONDA

Vicoli ciechi

25

Per il Lupo le grandi città stavano diventando tutte uguali, noiose e anonime. Era un effetto della diffusione del capitalismo e delle multinazionali. Anche la criminalità stava diventando globale. Il russo passò parte della notte a camminare in una di queste grandi città. Non aveva importanza quale: si sentiva ugualmente a disagio in tutte.

Nel caso specifico, comunque, si trovava a Washington per preparare le fasi successive del suo piano.

Si sentiva incompreso: nessuno lo capiva, nessuno al mondo. Del resto, tutti gli esseri razionali sanno che non è facile essere capiti. Ma nessuno avrebbe potuto comprendere la sua paranoia, il dolore, il rancore che covava da moltissimi anni, dalla tragedia di Parigi. Era una sensazione quasi fisica, una sorta di intossicazione del sangue. Il suo tallone d'Achille. E la sua paranoia, la certezza di essere destinato a una morte prematura, gli ispirava una passione che, pur non potendosi definire amore per la vita, lo spingeva a vivere il più intensamente possibile, a voler vincere sempre e a tutti i costi. O, perlomeno, a non voler mai perdere.

Così il Lupo camminava per le strade del centro di Washington e intanto pianificava altri omicidi.

Solo. Sempre solo. Strizzando velocemente la pallina di gomma nera nel pugno. Un amuleto? Un portafortuna? Non proprio. Paradossalmente, però, quella pallina di gomma nera era la chiave della sua personalità.

Prenditi il tempo per riflettere, pianificare e poi eseguire, si disse, camminando. Era certo che i governi non avrebbero accolto le sue richieste. Non potevano cedere. Non ancora, non così facilmente.

Bisognava dargli un'altra lezione, forse anche più di una.

Per questo il Lupo salì in macchina e, nella notte, andò fino alla casa del direttore dell'FBI Burns, nei sobborghi di Washington.

Che vita desiderabile sembrava condurre quell'uomo con la sua famiglia! Il Lupo lo pensava sinceramente.

La casa era bella e ben tenuta, a un piano soltanto: relativamente modesta, nonostante rappresentasse l'incarnazione del sogno americano. Nel vialetto era parcheggiata una Mercury azzurra con il portabiciclette e tre bici. Nel giardino c'era un canestro con il tabellone trasparente.

Doveva sterminare quella famiglia? Sarebbe stata un'impresa abbastanza facile, e in un certo senso piacevole. Una morte ampiamente meritata.

Ma sarebbe stata una lezione efficace?

Siccome non ne era sicuro, giunse alla conclusione che la risposta molto probabilmente era no.

A parte il fatto che aveva un altro bersaglio che non riusciva a dimenticare.

Un vecchio conto da saldare.

Che cosa poteva esserci di meglio?

La vendetta è un piatto che va servito freddo, pensò continuando a strizzare la pallina di gomma nera.

26

Benvenuto nel mondo del governo federale, dove le procedure contano più di ogni altra cosa e la burocrazia costringe a lavorare nei modi più strani. Ultimamente il mio mantra era quello, e me lo ripetevo quasi ogni volta che entravo nello Hoover Building. Mai mi era sembrato vero come in quegli ultimi giorni.

Anche in quell'occasione tutto si svolse secondo il protocollo, ai sensi di recenti direttive presidenziali che riguardavano anche il Bureau. La risposta alle minacce del Lupo rientrava in due categorie diverse: «indagini» e «gestione delle conseguenze». L'FBI era incaricato delle indagini, mentre la Federal Emergency Management Agency (FEMA) era competente in materia di gestione delle conseguenze.

Tutto molto razionale e ordinato, ma assolutamente impraticabile. Perlomeno secondo il mio modesto parere.

Dal momento che la minaccia era stata rivolta a un'area metropolitana degli Stati Uniti - anzi, due, New York e Washington - fu convocata l'Unità di Supporto Emergenze Nazionali. Dovevamo riunirci al quinto piano dello Hoover Building. Se da una parte mi piaceva essere coinvolto nelle attività dell'unità di crisi, in realtà quelle riunioni erano una noia mortale.

Il primo argomento all'ordine del giorno era la valutazione della gravità della situazione. Alla luce dei tre attentati già avvenuti, naturalmente i «terroristi» venivano presi sul serio. Il moderatore della discussione era il nuovo vicedirettore dell'FBI, un certo Robert Campbell McIllvaine Jr che il direttore aveva recentemente convinto a rientrare in servizio. Ormai in pensione, viveva in California, ma era troppo in gamba per fare il pensionato. McIllvaine parlò brevemente dei falsi allarmi che si erano moltiplicati negli ultimi due o tre anni, ma alla fine giungemmo alla conclusione che questo non rientrava nella categoria. Bob McIllvaine ne era sicuro, e ciò alla maggior parte dei presenti bastava.

Il secondo argomento era la gestione delle conseguenze, quindi la discussione fu presieduta dalla FEMA. Si affrontò la questione dei soccorsi sanitari in caso ci fosse stata una grossa esplosione a Washington, a New York o in entrambe le città contemporaneamente. Tentare di evacuare la popolazione era impensabile, soprattutto a New York, perché nel panico sarebbero morte migliaia di persone.

La discussione, tutta ipotetica ma molto franca, fu una delle più spaventose cui io avessi mai assistito. Più andava avanti, più paura metteva. Dopo mezz'ora di pausa per il pranzo - per i pochi cui la gravità della situazione non aveva fatto passare l'appetito - e per qualche telefonata, affrontammo la valutazione dei sospetti.

Chi è il responsabile? Il lupo? La Mafia russa? Potrebbe trattarsi di qualcun altro? Che cosa vogliono esattamente?

L'elenco iniziale era molto lungo, ma in breve tempo si restrinse ad al-Qaeda, Hezbollah, la Jihad islamica egiziana e, forse, un gruppo che agiva per lucro in collaborazione con il terrorismo organizzato.

Alla fine passammo a parlare di misure e contromisure da prendere sotto la direzione del Bureau. Fu deciso di mettere sotto sorveglianza una serie di individui sospetti negli Stati Uniti, in Europa e nel Medio Oriente, nell'ambito di indagini già in corso che rappresentavano l'operazione più vasta mai organizzata nella storia.

Tutto questo, ovviamente, andava contro gli ordini espliciti e minacciosissimi del Lupo.

Quella sera tardi mi ritrovai ancora al lavoro, a esaminare le ultime informazioni raccolte su Geoffrey Shafer negli Stati Uniti e in Europa. In Europa?'mi chiesi. Questo complotto è nato in Europa? In Inghilterra, magari, dove Shafer ha vissuto tanti anni? O in Russia? O in una delle comunità di russi emigrati negli Stati Uniti?

Lessi alcuni rapporti sugli anni in cui Shafer aveva fatto il trafficante di mercenari in Africa.

All'improvviso mi venne un'idea.

L'ultima volta che era stato in Inghilterra, Shafer aveva usato un trucco: era entrato nel Paese su una sedia a rotelle, che pareva avesse usato anche per girare per Londra. Dubitavo sapesse che noi ne eravamo al corrente.

Era una possibile pista, che immisi immediatamente nel database, evidenziandola come importante.

Forse la Donnola usava una sedia a rotelle anche a Washington.

E forse adesso eravamo un passo più avanti di lui, anziché due indietro come prima.

Con quella considerazione, decisi di smettere di lavorare, sperando che la giornata fosse finalmente finita.

27

L'indomani mattina molto presto la Donnola attraversò Union Square, piena di gente e di rumore, su una carrozzella nera pieghevole, immerso in ameni pensieri. Gli piaceva vincere e stava vincendo su tutti i fronti.

Geoffrey Shafer aveva ottimi contatti nel settore militare a Washington e ciò lo rendeva particolarmente prezioso per quella missione. Aveva contatti anche in un'altra delle città prese di mira dal piano, Londra, ma per il Lupo questo era meno importante. Comunque, era di nuovo in gioco e gli faceva piacere sentirsi qualcuno.

Inoltre aveva una gran voglia di far del male a quanta più gente possibile in America, perché odiava gli americani, e il Lupo gli aveva offerto l'occasione di fare danni notevoli. Zamo it'. Spaccare le ossa. Una strage.

Ultimamente Shafer portava i capelli molto corti e se li era tinti di nero. Non poteva nascondere il fatto di essere alto quasi un metro e novanta, ma aveva trovato una soluzione geniale. In realtà era un'idea che aveva preso da un ex collaboratore. Perlomeno durante il giorno, si spostava per Washington su una sedia a rotelle. Un modello nuovissimo, che poteva comodamente caricare nel bagagliaio della sua Saab station wagon. Se di tanto in tanto veniva notato - e succedeva spesso - era sempre per le ragioni sbagliate.

Alle sei e venti di quel mattino Shafer incontrò il suo contatto alla Union Station. Si misero entrambi in coda - il contatto dietro di lui - alla cassa di uno Starbucks e scambiarono qualche parola come per caso.

«Si stanno muovendo», disse il contatto, che era l'assistente di un pezzo grosso dell'FBI. «Nessuno ha preso sul serio l'ordine di non indagare. Hanno già iniziato le operazioni di sorveglianza nelle città bersaglio. La cercano qui, naturalmente. L'agente Cross è stato incaricato di occuparsi di lei.»

«Proprio ciò che desideravo», commentò Shafer facendo uno dei suoi mezzi sorrisi. Non lo sorprendeva che lo tenessero d'occhio. Anche il Lupo l'aveva previsto, come lui. Rimase in coda e pagò un latte macchiato, poi premette un pulsante e la carrozzella lo portò a una fila di telefoni pubblici vicino alla biglietteria della stazione. Fece una telefonata, sorseggiando la sua bevanda calda.

«Ho un lavoretto per te. Facile facile e ben pagato», disse alla donna che gli rispose. «Cinquantamila dollari per un impegno di un'oretta.»

«Bene. Ci sto», rispose lei, che era uno dei tiratori scelti migliori del mondo.

28

L'incontro con l'«esecutore» avvenne poco prima di mezzogiorno nella zona ristorazione del centro commerciale di Tysons Corner. Il colonnello Shafer e il capitano Nicole Williams avevano appuntamento davanti a un Burger King.

Si sedettero a un tavolino con hamburger e bibite davanti, ma nessuno dei due assaggiò quelli che Shafer definì «disgustosi tappa-arterie yankee».

«Bella sedia», commentò divertita il capitano Williams quando lo vide arrivare sulla sedia a rotelle. «Non ti vergogni di niente, eh?»

«Purché funzioni, Nikki», replicò lui sorridendo a sua volta. «Ormai dovresti conoscermi abbastanza bene, no? Quel che bisogna fare, faccio.»

«Sì, ti conosco, colonnello. In ogni caso, grazie di aver pensato a me per questo lavoro.»

«Aspetta di aver sentito di che cosa si tratta, prima di ringraziarmi.»

«Sono qui apposta. Sentiamo.»

Per la verità Shafer era un po' sorpreso e preoccupato: Nikki Williams si era lasciata parecchio andare, dall'ultima volta che avevano lavorato insieme. Alta meno di uno e settanta, doveva pesare a dir poco novanta chili.

Ciononostante aveva ancora l'aria sicura di sé della professionista che era sempre stata e che Shafer ricordava. Avevano combattuto assieme per sei mesi in Angola e il capitano Williams era molto in gamba e portava sempre a termine con successo i compiti che le venivano affidati.

Shafer le spiegò soltanto la parte della missione che la riguardava e le ripeté che il compenso era cinquantamila dollari per meno di un'ora di lavoro. La cosa che più gli piaceva di Nikki era che non si lamentava mai della difficoltà o dei rischi del suo mestiere.

Le uniche due domande che fece quando le ebbe spiegato l'indispensabile, senza specificare esattamente il bersaglio, furono: «Da dove devo cominciare? Quando si parte?»

«Domani all'una devi trovarti al Manassas Regional Airport in Virginia. All'una e cinque atterrerà un elicottero MD-530. A bordo ci sarà un HK PSG-1 per te.»

Nikki Williams aggrottò la fronte e scosse la testa. «Mm mm. Se non ti dispiace, mi porto il mio. Preferisco il Winchester M-70 con proiettili a punta cava rastremati 300 Win Magnum. Li ho provati sul campo e secondo me sono i migliori, per un lavoro come questo. Hai detto che c'è un vetro da sfondare, giusto?»

«Sì, esatto. Devi sparare in un ufficio.»

Shafer non fece obiezioni riguardo al cambio di arma. Aveva lavorato con molti cecchini e sapeva che avevano le loro fissazioni, il loro modo di lavorare. Si aspettava che Nikki Williams proponesse delle modifiche, anzi, era sorpreso che non ne avesse chieste di più.

«Allora, chi deve morire domani?» domandò alla fine. «Ho bisogno di saperlo, naturalmente.»

Shafer le disse chi era il bersaglio e, a suo merito, va detto che il capitano Williams non batté ciglio. La sua unica reazione fu: «Allora il prezzo sale. Voglio il doppio».

Shafer annuì lentamente. «Va bene. Non c'è nessun problema.»

Nikki Williams sorrise: «Mi sono accontentata di troppo poco?»

Shafer annuì di nuovo. «Sì. Te ne darò centocinquantamila, comunque. L'importante è che tu non manchi il bersaglio.»

29

Forse eravamo arrivati a una svolta nelle indagini: finalmente avevamo scoperto qualcosa, e grazie a un mio suggerimento: la sedia a rotelle. Avevamo una pista da seguire!

Alle dieci del mattino mi precipitai in Cathedral Avenue, dall'altra parte di Washington. Tre anni prima una mia collega di nome Patsy Hampton era stata ammazzata nel garage del Farragut, un condominio di quella via. Era stato Geoffrey Shafer a ucciderla e il Farragut era il palazzo dove abitava la sua ex psicoterapeuta.

Avevamo messo sotto sorveglianza la dottoressa Elizabeth Cassady e, dopo trentasei ore, sembrava che quella decisione avesse dato i suoi frutti. La Donnola era stata avvistata. Aveva lasciato la macchina nel garage sotterraneo, poco lontano dal punto in cui aveva brutalmente assassinato Patsy, quindi era salito all'interno 10D, la mansarda dove viveva tuttora la dottoressa Cassady.

Era arrivato su una sedia a rotelle.

Presi l'ascensore insieme con altri quattro agenti. Avevamo tutti la pistola in pugno, pronti a sparare. «È molto pericoloso. Vi prego di credermi», dissi mentre uscivamo dall'ascensore, al piano della psicoterapeuta.

Dall'ultima volta che c'ero stato, le pareti erano state ridipinte. Tutto mi era familiare e mi risvegliava ricordi sinistri. Sentii salire di nuovo la rabbia contro la Donnola, e in particolare per la morte di Patsy Hampton.

Suonai il campanello dell'interno 10D e gridai: «FBI! Apra, dottoressa Cassady».

La porta si aprì e mi trovai di fronte a una bella donna bionda, che riconobbi subito.

Anche Elizabeth Cassady mi riconobbe. «Dottor Cross, che sorpresa! Anzi, no, veramente no.»

Mentre parlava sentii il rumore di una sedia a rotelle che si avvicinava. Alzai la pistola e spinsi da una parte la terapeuta.

Presi la mira e gridai: «Fermo! Fermo lì!»

La sedia a rotelle e l'uomo che vi era seduto sopra nel frattempo erano giunti in piena vista. Scossi la testa e riabbassai lentamente la pistola, trattenendomi dall'imprecare. Qui gatta ci cova, pensai. Anzi, no, donnola.

L'uomo disse: «Ovviamente io non sono il colonnello Geoffrey Shafer. Non lo conosco neppure. Sono un attore, mi chiamo Francis Nicolo e sono veramente disabile, quindi la prego di trattarmi con la dovuta cautela. Mi è stato detto di venire qui, dietro pagamento di una lauta somma, e di riferirle quanto segue: il colonnello le porge i suoi saluti e dice che avreste fatto meglio a seguire le istruzioni che vi sono state date. Dal momento che siete qui, è chiaro che non le avete seguite».

A quel punto l'invalido abbozzò un inchino e concluse: «Questa era la mia parte, il mio pezzo. Non so altro. Che ve ne pare? Ho recitato bene? Non volete farmi un bell'applauso?»

«Lei è in arresto», gli dissi.

Poi mi voltai verso Elizabeth Cassady. «E lei anche. Dov'è Shafer? Dov'è andato?»

La psicoterapeuta scosse la testa con infinita tristezza. «Sono anni che non vedo Geoffrey. Mi ha manipolato. Come ha manipolato lei, del resto. Solo che per me è peggio, perché lo amavo. Le consiglio di rassegnarsi. Geoffrey è fatto così. Se non lo so io...»

Anch'io lo so, pensai. Lo so benissimo.

30

Straordinario, pensò il capitano Nikki Williams. E non si riferiva solo all'aeroporto, ma all'audacia del piano.

Il Manassas Regional era un aeroporto piccolo, anonimo, con una superficie di circa trecento ettari e due sole piste parallele, un terminal e una torre di controllo della FAA. Era il posto ideale per una missione del genere.

Chi ha programmato questa operazione, lo ha fatto con cura estrema. Andrà tutto bene.

Pochi minuti dopo essere arrivata all'aeroporto, il capitano Williams vide posarsi l'elicottero. Non poté fare a meno di chiedersi come avessero fatto gli autori del piano a procurarsi un MD-530, che era il mezzo più adatto per l'incarico che le era stato affidato.

Sì, sarebbe andato tutto bene. E forse non sarebbe stato nemmeno troppo difficile.

Si diresse velocemente verso l'elicottero, con il suo Winchester in una sacca di tela. Il pilota le fornì i pezzi del puzzle che le mancavano. A quanto pareva, lui era al corrente dell'intero piano.

«Ho fatto rifornimento. Andremo a nord-est, lungo la Route 28. Mi fermerò per mezzo minuto circa a Rock Creek Park», le disse.

«Rock Creek Park? Non capisco. Che senso ha atterrare di nuovo appena partiti?»

«Mi fermerò il tempo necessario perché lei si sistemi sul pattino. È da lì che dovrà sparare. Va bene?»

«Perfetto. Ora capisco.»

Il piano era azzardato, ma non assurdo. Avevano previsto tutto. Avevano persino scelto una giornata nuvolosa, con poco vento. L'MD-530 era veloce, molto maneggevole e anche abbastanza stabile da consentire di sparare in volo. Quando era nell'esercito, Nikki Williams aveva sparato migliaia di volte da elicotteri come quello, in tutte le condizioni atmosferiche possibili, e non c'è niente di meglio della pratica per arrivare ad avere una mira infallibile.

«Pronta?» le gridò il pilota quando fu a bordo. «Andremo e torneremo da Washington in meno di nove minuti.»

Nikki Williams gli mostrò il pollice alzato e l'MD-530 si sollevò, partì in direzione nord-est e poco dopo sorvolò il Potomac. Senza mai alzarsi a più di una decina di metri da terra, viaggiava a circa 80 nodi.

A Rock Creek Park si posò per non più di quaranta secondi.

Il capitano Williams prese posizione sul pattino destro, leggermente arretrata rispetto al pilota sopra di lei, e quindi gli fece segno di ripartire. «Andiamo, forza.»

Non solo è geniale, è anche uno sballo, non poté fare a meno di pensare mentre l'elicottero riprendeva quota e si avvicinava al bersaglio. Andata e ritorno in meno di nove minuti. La vittima non si accorgerà di niente.

31

A mezzogiorno ero di nuovo alla mia scrivania, teso ed esausto, a consultare il database del National Crime Information Center e a bere litri e litri di caffè nero, pur sapendo che mi faceva male. Maledetta Donnola: sapeva che avevamo scoperto il trucco della sedia a rotelle. Come aveva fatto? Doveva avere un complice all'interno delle forze dell'ordine: qualcuno l'aveva avvertito.

Verso l'una ero ancora alla mia scrivania quando nel palazzo cominciò a suonare fortissimo un allarme. Nello stesso momento squillò anche il mio cercapersone, segnalando una nuova emergenza.

Sentii voci che gridavano nei corridoi. «Andate alla finestra, presto! Guardate dalla finestra!»

«Oh mio Dio! Che cosa diavolo fanno laggiù?»

Guardai fuori anch'io e vidi, esterrefatto, due uomini in uniforme di fatica che attraversavano di corsa il cortile interno, pavimentato di ciottoli di granito rosa. In quel momento stavano passando davanti alla statua di bronzo con il motto dell'FBI, «Fedeltà, coraggio, integrità».

Il mio primo pensiero fu che i due fossero kamikaze imbottiti di esplosivo. Quale modo migliore per causare danni all'edificio e ai suoi occupanti?

L'agente dell'ufficio accanto al mio, Charlie Kilvert, si affacciò sulla porta. «Hai visto che roba, Alex? Non è incredibile?»

«Ho visto. Sì, assolutamente incredibile.»

Non riuscivo a staccare gli occhi dalla scena che si stava svolgendo nel cortile. Nel giro di pochi secondi erano comparsi vari agenti armati, dapprima tre, poi almeno una decina. Arrivarono di corsa anche gli uomini di guardia all'ingresso principale.

Tutti avevano la pistola puntata sui due in uniforme di fatica, che si erano fermati e sembravano pronti ad arrendersi.

Gli agenti però non si avvicinavano. Forse anche loro come me pensavano che potesse trattarsi di kamikaze, o più probabilmente stavano seguendo la procedura.

I sospetti avevano le mani in alto, sopra la testa. Poi con gesti lenti e deliberati si sdraiarono sulla pancia. Che diavolo stava succedendo?

In quel momento vidi un elicottero spuntare da dietro la facciata sud dello Hoover Building. Si scorgevano appena il muso e il rotore.

L'elicottero volava a punto fisso e la sua presenza minacciosa indusse gli agenti nel cortile a puntare verso l'alto le armi, gridando e agitandosi. In quella zona era vietato il sorvolo.

Poi l'elicottero virò di colpo, si allontanò dall'edificio e scomparve.

Pochi secondi dopo Charlie Kilvert era di nuovo sulla soglia del mio ufficio. «Hanno sparato a qualcuno al piano di sopra!»

Mi precipitai fuori dalla stanza così veloce che per un pelo non lo feci cadere.

32

L'MD-530 andava come una scheggia, quando arrivò a Washington. Il pilota sfrecciava tra i palazzi, usandoli come riparo, in una sorta di folle gimkana.

Quella tattica di volo doveva servire sia a evitare i radar che a confondere gli spettatori casuali, immaginò Nikki Williams. Stava avvenendo tutto così in fretta che nessuno sarebbe riuscito a reagire, a parte il fatto che un aereo dell'aviazione non sarebbe mai potuto passare così basso tra i grattacieli.

Erano giunti in vista del bersaglio. Caspita! Era stata organizzata un'azione di disturbo a terra e c'erano un sacco di persone alle finestre dell'edificio bersaglio che - Nikki lo aveva riconosciuto - era la sede dell'FBI. Straordinario! Nikki era al settimo cielo. Aveva assistito ad alcune operazioni di vasta portata quando era nell'esercito, ma non molte. E poi c'erano sempre un sacco di regole da rispettare.

Invece adesso la regola era una sola: sparare a quel tizio e tagliare la corda prima che qualcuno potesse muovere un dito.

Il pilota aveva le coordinate della finestra dietro cui doveva trovarsi il bersaglio e, infatti, c'erano due uomini in giacca e cravatta che osservavano l'azione di disturbo organizzata giù in basso. Nikki Williams sapeva che faccia aveva il bersaglio ed era sicura che sarebbe morto prima ancora di vedere il fucile, a una trentina di metri di distanza. A quell'ora, lei sarebbe stata già sulla via del ritorno.