Sandy rise. «Bene, allora siamo d'accordo. Stasera ti fermi da me.»

«Okay», risposi.

Scoppiammo a ridere tutti e due e, mezz'ora più tardi, Sandy mi lasciò davanti al mio albergo in Victoria Street.

«Ti è venuta qualche idea?» le chiesi scendendo dal taxi.

«Ci sto pensando», rispose. Avevo la certezza di poter contare sul suo aiuto. E ne avevo davvero bisogno, in Europa.

62

Henry Seymour viveva poco lontano dal nascondiglio della Donnola in Edgware Road, nella zona tra Marble Arch e Paddington che alcuni chiamano Little Lebanon. Quella mattina il colonnello Shafer uscì per andare dall'ex membro del SAS e, mentre camminava, si domandò che cosa era successo alla sua città, e all'Inghilterra intera. Che triste spettacolo!

Le strade erano piene di caffetterie, ristoranti e negozi di alimentari mediorientali. Alle otto del mattino già si sentivano profumi di piatti esotici: taboulé, zuppa di lenticchie, bstilla. Davanti a un'edicola, due uomini anziani fumavano tabacco in una pipa ad acqua. E che cazzo! Dove sta andando a finire il mio Paese?

L'appartamento di Henry Seymour era sopra un negozio di abbigliamento maschile. La Donnola salì direttamente al terzo piano. Bussò una volta e Seymour gli aprì.

Appena lo vide, però, Shafer si preoccupò. Henry Seymour aveva perso quindici o venti chili dall'ultima volta che si erano visti, ed era passato solo qualche mese. I capelli, neri e ricci, gli erano caduti quasi del tutto e gli restavano solo pochi ciuffi brizzolati.

Shafer fece veramente fatica a riconoscere in quell'uomo il suo ex commilitone, il miglior esperto di demolizioni che avesse mai visto. Avevano combattuto insieme durante l'operazione Desert Storm e poi ancora come mercenari nella Sierra Leone. Durante Desert Storm, Shafer e Seymour facevano parte delle truppe mobili del ventiduesimo reggimento SAS. Il compito principale delle truppe mobili era infiltrarsi oltre le linee nemiche e compiere azioni di disturbo. Nessuno ci riusciva meglio di Shafer e Henry Seymour.

Il povero Henry non sembrava in grado di causare molti danni al momento, ma a volte l'apparenza inganna. O almeno così Shafer sperava.

«Allora, sei pronto per il lavoro di cui ti ho parlato? È una missione importante», chiese Shafer.

Henry Seymour sorrise. Gli mancavano un paio di denti davanti. «Suicida, spero», rispose.

«In effetti... Non è una cattiva idea», replicò la Donnola.

Si sedette di fronte a Henry e gli spiegò il suo pezzo del piano. Alla fine Henry batté addirittura le mani.

«Ho sempre desiderato far saltare in aria Londra», disse. «Sono l'uomo giusto per quest'impresa.»

«Lo so», disse la Donnola.

63

Il dottor Stanley Bergen, di Scotland Yard, stava parlando a diverse centinaia di persone riunite in una sala piena zeppa di funzionari governativi e forze dell'ordine. Aveva una sessantina di anni, era alto un metro e sessanta scarso, pesava almeno cento chili, ma sprizzava autorevolezza da tutti i pori.

Parlava a braccio e nessuno di noi si distrasse neppure per un secondo, durante il suo intervento. Il tempo stringeva e tutti ne eravamo consapevoli.

«Siamo in un momento critico e occorre che adottiamo misure di emergenza per Londra», disse Bergen. «La responsabilità è del London Resilience Forum, di cui mi fido ciecamente. Vi esorto ad avere anche voi la massima fiducia in questo organo. La nostra reazione sarà la seguente: se verremo avvisati dell'imminenza dell'attentato, radio e TV sospenderanno le trasmissioni per lasciarci libere le frequenze. L'allarme verrà diffuso anche attraverso SMS a cellulari e cercapersone. Saranno usati inoltre mezzi meno efficaci, quali megafoni fissi e mobili. Insomma, se sapremo quando avverrà l'attentato, lo comunicheremo alla popolazione. A renderlo noto per televisione saranno il capo della Metropolitan Police o il ministro degli Interni. Nell'eventualità di bombe o armi chimiche, interverranno sul posto polizia e vigili del fuoco che, dopo gli opportuni accertamenti, isoleranno la zona, stabilendo quindi tre fasce di pericolosità: alta, media e bassa. Chi si troverà nella fascia di alta pericolosità sarà trattenuto sul posto fino alla decontaminazione, ove possibile. Nella fascia di media pericolosità convergeranno vigili del fuoco, soccorsi medici e unità di decontaminazione. La fascia di bassa pericolosità sarà accessibile ai mezzi necessari per le indagini e i soccorsi.»

Il dottor Bergen si interruppe per guardare gli astanti. Sembrava turbato e molto preoccupato per la sua città. «Avrete notato che non ho usato la parola 'evacuazione'. Non è possibile evacuare una città come Londra, a meno che non si inizi immediatamente. Se lo facessimo, tuttavia, il Lupo attaccherebbe subito, come ha detto chiaramente.»

Vennero distribuiti cartine e materiale di emergenza. Il morale di tutti sembrava bassissimo.

Mentre leggevo i documenti che mi erano stati dati, mi venne vicino Martin Lodge. «Il Lupo ha chiamato», mi sussurrò. «Apprezzerai, credo. Dice che il nostro piano è di suo gradimento. Ed è d'accordo che l'evacuazione di Londra non è fattibile...»

Di punto in bianco, una terribile esplosione fece tremare il palazzo.

64

Quando riuscii finalmente a uscire dall'edificio, rimasi sconcertato dalla confusione che mi circondava. La famosa insegna SCOTLAND YARD era stata distrutta e l'ingresso su Broadway era ridotto a un cumulo di macerie da cui si alzava un filo di fumo. Nella strada c'era ciò che restava di un furgone nero.

Era già stato deciso che non dovevamo abbandonare l'edificio, ma restare impavidi sul posto. Mi sembrava giusto, e molto coraggioso. Quando arrivai all'unità di crisi, una ventina di persone stavano visionando un filmato nella penombra. Fra di esse c'era anche Martin Lodge.

Mi sedetti in fondo e guardai anch'io il video. Mi tremavano le mani. Le immagini mostravano Broadway quella mattina, con i soliti poliziotti di guardia fuori del grande palazzo. Da Caxton Street, di fronte all'ingresso principale di Scotland Yard, arrivava a gran velocità un furgone nero, contromano. Attraversava Broadway e si lanciava contro la barriera davanti all'entrata, scatenando una terribile esplosione. Il filmato era muto, ma una forte luce illuminava l'intero palazzo.

Sentii qualcuno davanti che parlava. Era Martin Lodge. «Il nostro nemico è certamente un terrorista, che agisce da solo. Vuole farci sentire vulnerabili. E ci è riuscito, direi. È interessante che l'esplosione non abbia causato vittime, a parte l'autista del furgone. Forse anche il Lupo ha un cuore.»

Gli rispose una voce dal fondo della sala. «Non credo. Ha solo un piano.» Anche se quasi irriconoscibile, quella voce era mia.

65

Restai a Scotland Yard per tutto il resto della giornata e la sera mi fermai anche a dormire lì.

Mi svegliai alle tre del mattino e mi rimisi subito al lavoro. Il secondo ultimatum scadeva quella sera a mezzanotte. Non riuscivo a immaginare che cosa sarebbe potuto accadere.

Alle sette ero a bordo di un furgone della polizia diretto a Feltham, vicino all'aeroporto di Heathrow. Ero insieme con Martin Lodge e tre ispettori della Metropolitan Police. Ci era stato dato il permesso di uscire armati. Era la cosa migliore.

Lodge ci spiegò la situazione durante il viaggio. «I nostri uomini, insieme con quelli dello Special Branch, sono presenti in maniera massiccia sia a Heathrow che nella zona circostante. Anche la polizia aeroportuale partecipa all'operazione. Uno dei nostri ha intercettato un uomo con un lanciamissili sul tetto di una casa. L'edificio è sotto sorveglianza. Non possiamo entrarci, per ovvie ragioni che ci sono state chiarite fin troppo bene ieri. Immagino che tengano d'occhio il quartiere: mi stupirei del contrario.»

Uno degli ispettori domandò: «Sappiamo chi c'è dentro la casa? Abbiamo scoperto qualcosa?»

«La casa è di proprietà di un'agenzia immobiliare, che la affitta. I proprietari dell'agenzia sono pakistani. Non so se voglia dire qualcosa. Degli affittuari non sappiamo ancora niente, invece. La casa si trova a poche centinaia di metri dalle piste dell'aeroporto. Non so se mi spiego.»

Guardai Lodge, che teneva le braccia conserte. «Gran brutta faccenda», disse. «E il mio è un understatement. Vero, Alex?»

«Anch'io ho questa sensazione, fin dalla prima volta che ho avuto a che fare con il Lupo. È un sadico.»

«Non hai la minima idea di chi possa essere e di come mai si comporti così, vero?»

«Sembra cambiare regolarmente identità. Non sappiamo neppure se sia un uomo o una donna. In un paio di occasioni siamo stati lì lì per prenderlo. Chissà che questa non sia la volta buona.»

«Speriamo.»

Arrivammo a destinazione pochi minuti dopo. Lodge e io avevamo appuntamento con la squadra dell'SO19, Specialist Operations, che avrebbe condotto il raid. Nei palazzi vicini erano stati installati monitor collegati a una mezza dozzina di telecamere diverse.

«Sembra di guardare un film. Siamo spettatori passivi», disse Lodge dopo aver guardato le immagini per qualche minuto. Era una situazione impossibile. Non avremmo dovuto essere lì. Eravamo stati avvertiti. Ma come potevamo andarcene?

Lodge aveva l'elenco dei voli in arrivo a Heathrow quella mattina. Nella mezz'ora successiva ne erano previsti più di trenta, di cui uno da Eindhoven, tre da Edimburgo, due da Aberdeen e un British Airways da New York. Si era parlato della possibilità di dirottare su altri aeroporti tutti i voli in arrivo a Heathrow e Gatwick, ma per il momento non era stata presa alcuna decisione. L'arrivo del volo da New York era previsto diciannove minuti dopo.

Un poliziotto fece un cenno.

«C'è qualcuno sul tetto!»

I monitor che mostravano il tetto erano due, con due diverse angolazioni. Si vedeva un uomo vestito di scuro. Poco dopo da una botola ne apparve un secondo che portava un piccolo lanciamissili terra-aria.

«Oh, cazzo», imprecò uno. La tensione era alle stelle.

«Dirottate tutti i voli in arrivo!» urlò Lodge. «Non abbiamo scelta, ormai. I tiratori scelti sono appostati?»

Ci venne comunicato che l'SO19 teneva sotto tiro i due uomini. Li vedemmo prendere posizione. Non avevamo dubbi sul fatto che intendessero abbattere un aereo. Guardavamo quelle immagini spaventose senza poter fare niente.

«Bastardi!» esclamò Lodge, con gli occhi fissi su un monitor. «Fra poco non avrete niente su cui lanciare quei vostri cazzo di missili. Cosa farete, allora?»

«Mi sembrano mediorientali», disse un ispettore. «Di certo non russi.»

«Non abbiamo l'autorizzazione a sparare», annunciò un uomo con le cuffie. «Siamo in attesa del via libera.»

«Ma cosa cazzo succede?» protestò Lodge, con voce stridula. «Dobbiamo fermarli!»

Di punto in bianco sentimmo degli spari, che riecheggiarono anche dai due monitor. L'uomo con il lanciamissili sulla spalla cadde a terra e non si mosse più. Poi anche il secondo si accasciò. Erano stati centrati al primo colpo.

«Ma cosa...?» urlò qualcuno nel furgone, mentre noi guardavamo le immagini. Si alzò un coro di imprecazioni e di grida.

«Chi ha dato l'ordine di sparare? Cos'è successo?» gridò Lodge.

Quando arrivò la risposta, nessuno ci poteva credere: non erano stati i nostri tiratori scelti a sparare. Gli uomini sul tetto erano stati ammazzati da qualcun altro.

Follia.

Era pura follia.

66

Era una follia, una situazione inimmaginabile. Si sapeva che ci sarebbe stato un attentato entro poche ore, ma nessuno capiva che cosa stesse succedendo. Forse il primo ministro era al corrente di qualcosa. Oppure il presidente degli Stati Uniti. O il cancelliere tedesco.

La nostra sofferenza aumentava di ora in ora. Poi di minuto in minuto. Non potevamo fare niente, salvo pregare che le richieste del Lupo venissero accolte. Siamo come i soldati in Iraq, non potevo fare a meno di pensare. Spettatori di un'assurdità.

A un certo punto, nel tardo pomeriggio, decisi di andare a piedi fino a Westminster. Quella parte di Londra era un monumento al passato glorioso dell'Inghilterra. Intorno a Parliament Square le strade non erano propriamente deserte, ma molto poco trafficate e c'erano pochissimi pedoni e turisti. I londinesi non sapevano che cosa stesse per succedere, ma per prudenza se ne stavano tappati in casa.

Chiamai casa, a Washington, diverse volte, ma nessuno mi rispose. Che Nana alla fine avesse deciso di partire? Parlai con i ragazzi, che erano dalla zia Tia, nel Maryland. Nessuno sapeva dove si fosse cacciata Nana. Così adesso avevo anche quella preoccupazione, come se non fossero bastate quelle che avevo già.

Non potevo fare altro che aspettare, ma l'attesa era frustrante, esasperante. Nessuno sapeva niente. E non solo a Londra, ma anche a New York, Washington e Francoforte. Non erano stati fatti annunci, ma si vociferava che le richieste del Lupo non sarebbero state accolte. I capi di Stato non erano intenzionati a trattare. Non potevano arrendersi così, senza nemmeno combattere. Era questo che ci aspettava: una guerra?

Passò l'ora della scadenza dell'ultimatum e io mi sentii come se stessi giocando alla roulette russa.

Non ci furono attentati né a Londra, né a New York, Washington o Francoforte, quella notte. Il Lupo non agì immediatamente: ci lasciò cuocere a fuoco lento.

Parlai con i miei figli e, finalmente, anche con Nana. A Washington fino a quel momento non era successo nulla. Nana era andata a fare un giro con Kayla. Era tutto tranquillo, mi assicurò. Una bella passeggiata è proprio quello che ci vuole, vero, Nana?

Alle cinque del mattino, andammo finalmente a riposare. Non credevo che nessuno sarebbe riuscito a dormire, però.

Mi ero appena assopito, quando squillò il telefono. Era Martin Lodge.

«Che cosa è successo?» chiesi, tirandomi su a sedere nella mia camera d'albergo. «Che cosa ha combinato?»

67

«Niente, Alex. Sta' tranquillo. Sono nell'atrio dell'albergo. Non è successo niente, forse era un bluff. Speriamo. Senti, ti aspetto qui. Andiamo a fare colazione a casa mia: mia moglie ti vuole conoscere. Hai bisogno di staccare un po', Alex. Ne abbiamo bisogno tutti.»

Come potevo dirgli di no, dopo quello che avevamo passato negli ultimi giorni? Mezz'ora dopo ero sulla sua Volvo, diretto a Battersea, non distante da Westminster. Lungo la strada, mi parlò della sua famiglia. Avevamo entrambi il cercapersone, ma non avevamo nessuna voglia di parlare del Lupo e delle sue minacce. Almeno per un'oretta.

«Mia moglie è ceca. Si chiama Klara Cernohosska ed è nata a Praga, ma è diventata inglese che più inglese non si può. Ascolta Virgin Radio e XFM e non si perde un talk show sulla BBC. Però cucina alla ceca. Stamattina ti preparerà una colazione alla sua maniera. Spero che apprezzerai. Anzi, ne sono sicuro.»

Anch'io lo ero. Martin, sorridendo, mi parlò dei suoi figli. «La maggiore si chiama Hana. Indovina chi ha scelto i nomi dei ragazzi? Ti do un piccolo aiuto: si chiamano Hana, Daniela e Jozef. Che importanza hanno i nomi, però? Hana adora Trinny e Susannah di What not to Wear, il reality. Ma ha quattordici anni, possiamo perdonarla. Dany, quella di mezzo, gioca a hockey e adora la danza classica. E Joe va pazzo per il football, lo skateboard e la PlayStation. Be', cos'altro? Ah, ti ho detto che mangeremo specialità ceche, stamattina?»

Arrivammo pochi minuti dopo. I Lodge abitavano in una casa vittoriana con il tetto di ardesia e un bel giardino. Una bella villetta ordinata, come tutte le altre del quartiere. Il giardino era pieno di colore e ben tenuto, a dimostrare che qualcuno non perdeva di vista le cose importanti.

Ci aspettavano tutti in sala da pranzo. La tavola era apparecchiata e la colazione pronta. Venni presentato a tutti, compreso il gatto Tigger, e mi sentii subito a casa. Mi mancavano i miei, con un'intensità che non mi lasciò per un bel po'.

La moglie di Martin, Klara, mi illustrò ogni piatto, a mano a mano che lo metteva in tavola. «Alex, questi sono kolace, dolci ripieni di formaggio cremoso. Rohliky, panini. Turka, caffè alla turca. Parek, due tipi di salsicce molto buone. Specialità della casa.»

Lanciò un'occhiata alla figlia maggiore, Hana, che assomigliava sia alla mamma che al papà. Era alta e graziosa, ma aveva il naso aquilino di Martin. «Hana?»

La ragazzina mi sorrise. «Come preferisce le uova, signor Alex? Vejce na mekko, michana vejce o smazena vejce. Omeleta, forse?»

Con un'alzata di spalle, risposi: «Michana vejce».

«Ottima scelta», disse Klara. «E complimenti per la pronuncia. Lei è un vero linguista.»

«Davvero? Che cosa ho ordinato? Non lo so.»

Hana scoppiò a ridere. «Uova strapazzate. Perfette con rohliky e parek.»

«Panini e salsicce», dissi. La ragazzina batté le mani.

Passammo un'oretta serena, con Klara che mi faceva molte domande sulla mia vita in America e mi diceva quali gialli americani preferiva. Mi parlò anche del romanzo che aveva vinto il Booker Prize, Vernon God Little, che definì «divertentissimo». «Descrive la follia del vostro Paese un po' come Il tamburo di latta di Giinther Grass fa con la Germania. Deve leggerlo, Alex.»

«Io nella follia ci sguazzo», risposi.

Alla fine della colazione scoprii che i nomi delle pietanze erano le uniche parole di ceco che conoscevano i ragazzi. Cominciarono a sparecchiare e andarono a lavare i piatti.

«Ah, ty vejce jsou hnusny», disse Jozef, detto anche Joe, che aveva otto anni.

«Ho paura a chiedere che cosa mi ha detto.»

«Che le uova facevano schifo», tradusse Joe. E scoppiò a ridere della sua battuta.

68

Quando salutai Martin e Klara, mi resi conto che non avevo nulla da fare, a parte arrovellarmi sul Lupo e sugli attentati che aveva minacciato nel caso non fossero state soddisfatte le sue richieste. Tornai in hotel e dormii un po'. Poi decisi fare una passeggiata. Avevo bisogno di camminare.

Mentre percorrevo Broadway, tuttavia, mi accadde qualcosa di strano. Mi sembrava di essere pedinato. Non credevo di essere paranoico. Cercai di capire chi mi seguiva, ma o il mio inseguitore era bravissimo, o io quel giorno ero particolarmente imbranato: fatto sta che non riuscii a vedere nessuno. Se fossi stato a Washington, anziché a Londra, magari... Ma lì era difficile per me cogliere i particolari anomali.

Feci un salto a Scotland Yard, ma del Lupo non si erano più avute notizie. Fino a quel momento, era tutto fermo. Nessuna delle città nel mirino era stata colpita. Che fosse la quiete prima della tempesta?

Dopo un'ora di cammino e un lungo giro per Whitehall, oltre il numero 10 di Downing Street, fino a Trafalgar Square e ritorno, mi sentivo meglio. Mi diressi verso l'albergo e di nuovo ebbi la sensazione di essere seguito. Mi sentivo osservato. Ma da chi? Non vedevo nessuno.

Tornai in camera e chiamai i ragazzi dalla zia Tia. Quindi parlai con Nana, che era rimasta da sola in Fifth Street. «Stranamente, è tutto tranquillo», mi disse sfottendomi un po'. «Questa casa è troppo vuota, però. Mi mancano i ragazzi.»

«Anche a me, Nana.»

Mi addormentai vestito e mi svegliai solo quando squillò il telefono. Non avevo tirato le tende e mi accorsi subito che era buio. Guardai l'orologio: Gesù, erano le quattro del mattino! Evidentemente, avevo un bel po' di sonno arretrato da smaltire.

«Alex Cross», risposi.

«Ciao, Alex. Sono Martin. Sono partito da casa adesso. Dobbiamo andare in Parlamento. Abbiamo appuntamento fuori dall'ingresso per i visitatori. Ti passo a prendere.»

«No, faccio prima se vado a piedi. Ci vediamo direttamente là.» Al Parlamento? A quell'ora del mattino? Non si preannunciava nulla di buono.

Cinque minuti dopo ero per strada e percorrevo Victoria Street verso l'abbazia di Westminster. Ero certo che il Lupo stesse per combinare qualcosa di grosso. Possibile che volesse radere al suolo quattro città? Sì, era possibile. A quel punto, tutto era possibile.

«Buongiorno, Alex. Ma guarda chi si vede.»

Una figura spuntò dall'ombra. Non l'avevo nemmeno notata. Ero troppo distratto, forse ancora un po' assonnato. Un po' incosciente.

Si materializzò davanti a me e vidi che era armato. Mi puntava la pistola al cuore.

«A quest'ora non dovrei essere ancora qui in Inghilterra, ma non potevo partire prima di aver portato a termine anche questo compito. Ucciderti. Volevo che te ne accorgessi, sai? Sono anni che sogno questo momento. Immagino che tu mi capisca bene.»

Era Geoffrey Shafer. Arrogante, sicuro di sé, chiaramente in posizione di vantaggio. Forse fu per questo che non ebbi bisogno di pensare nemmeno per un attimo a quello che dovevo fare e non ebbi la minima esitazione. Mi lanciai contro di lui e aspettai lo sparo.

Arrivò, come prevedevo. Ma non colpì me. Perlomeno, non mi parve. Probabilmente era stato deviato da qualcosa. Non importava. Bloccai Shafer contro il muro e gli lessi negli occhi sorpresa e raccapriccio. Aveva perso la pistola nel corso della colluttazione.

Gli mollai un pugno potente nella pancia, probabilmente sotto la cintura. Un colpo basso. Lo speravo proprio. Lui emise un gemito e capii di avergli fatto male sul serio. Volevo fargliene di più, però, per mille e una ragione. Volevo ammazzarlo lì, in mezzo alla strada. Lo colpii di nuovo allo stomaco e mi accorsi che gli stavano cedendo le gambe. A quel punto, mirai alla testa. Gli sferrai un destro alla tempia, un sinistro alla mascella. Dovevo avergli fatto un gran male, ma quel bastardo non cedeva.

«Tutto qui, Cross? Ho qualcosa per te», disse maligno.

Tirò fuori un coltello a serramanico e io indietreggiai. Poi però mi resi conto che Shafer era ferito e non mi lasciai sfuggire l'occasione. Gli mollai un pugno sul naso e glielo ruppi. Ma Shafer non si arrendeva: mi diede una coltellata nel braccio. In quel momento capii che ero stato un pazzo e mi era andata bene: Shafer avrebbe potuto ferirmi gravemente, o addirittura ammazzarmi.

Presi la pistola dalla fondina dietro la schiena.

Shafer mi si gettò addosso. Forse non aveva visto che avevo preso la pistola. Forse non pensava che potessi girare armato, a Londra.

«No!» gridai. Non ebbi il tempo di dire altro.

Gli sparai al petto, da distanza ravvicinata. Shafer cadde contro il muro e scivolò lentamente a terra.

Aveva un'espressione sbigottita, quasi si fosse reso conto solo in quel momento di essere anche lui mortale. «Fanculo, Cross», mormorò. «Sei uno stronzo.»

Mi chinai su di lui. «Chi è il Lupo? Dove si nasconde?»

«Va' all'inferno», furono le sue ultime parole. Poi morì, e all'inferno ci andò lui.

69

London Bridge is falling down, falling down, falling down, recita la famosa filastrocca.

Pochi minuti dopo la morte di Shafer, il suo ex compagno d'armi, Henry Seymour, alla guida del suo vecchio furgone bianco, pensava che non aveva nessuna paura di morire. Anzi, l'idea di andarsene al Creatore non gli dispiaceva.

Erano passate da poco le quattro e mezzo e il traffico sul Westminster Bridge era abbastanza intenso. Seymour parcheggiò più vicino possibile al ponte, poi tornò indietro, si appoggiò al parapetto e guardò verso ponente. Gli piaceva la vista sul Big Ben e il Parlamento che si godeva da quell'antico ponte. Gli era sempre piaciuta, sin dalla prima volta che era stato a Londra, da bambino, in gita da Manchester, dove era cresciuto.

Quella mattina gli pareva di notare ogni particolare. Sulla riva opposta del Tamigi vedeva il London Eye, la ruota panoramica che detestava. Il fiume era scuro come il cielo. L'aria odorava di sale e di pesce. File di pullman color prugna aspettavano i turisti: sarebbero cominciati ad arrivare nel giro di un'ora.

Non succederà, però, pensava. Non oggi. Non se le cose vanno come dico io.

Il poeta Wordsworth aveva celebrato la vista dal Westminster Bridge. O, perlomeno, gli sembrava che fosse Wordsworth. «La terra non ha niente di più bello da mostrare.» Henry Seymour ricordava quella poesia a memoria, benché non amasse granché i poeti né quel che avevano da dire.

Scrivere una poesia su questa roba. Che qualcuno scriva una poesia su di me. Sul ponte e sul povero Henry Seymour e gli altri poveracci che sono qui con me stamattina.

Andò a riprendere il furgone.

Alle 5:34 il ponte parve prendere fuoco al centro. Era il furgone di Henry Seymour che esplodeva. L'asfalto sottostante si alzò e si spaccò in due, i sostegni del ponte vacillarono e i lampioni saltarono in aria come fiori sradicati da un vento impetuoso. Ci fu un attimo di silenzio mortale e lo spirito di Seymour si alzò verso il cielo, poi le sirene cominciarono a suonare in tutta Londra.

Il Lupo chiamò Scotland Yard per prendersi il merito di quel piccolo capolavoro. «Al contrario di voi, io mantengo le promesse», dichiarò. «Volevo gettare un ponte fra me e voi, ma l'avete abbattuto. Avete capito, adesso? Avete capito che cosa vi sto dicendo? Il ponte di Londra è crollato, e siamo soltanto agli inizi. È troppo bello perché finisca qui. Voglio che vada avanti ancora per un po'.»

Vendetta, tremenda vendetta.

PARTE QUARTA

Parigi, scena del crimine

70

Il circuito, sessanta chilometri a sud di Parigi, gli era familiare. Il Lupo vi si era recato per provare un'auto da corsa, un prototipo, e aveva portato con sé come compagnia un ex agente del KGB che per molti anni aveva curato i suoi interessi in Francia e Spagna. Si chiamava Ilya Frolov e conosceva il Lupo di vista. Era uno dei pochi ancora in vita che lo avevano visto in faccia e, nonostante si ritenesse uno dei rari amici del Lupo, ciò lo riempiva di apprensione.

«Che meraviglia!» esclamò il Lupo mentre si avvicinavano a un prototipo Fabcar rosso motorizzato Porsche, un modello che aveva gareggiato nella Rolex Sports Car Series.

«Le belle macchine ti sono sempre piaciute», commentò Ilya.

«Da piccolo, quando vivevo fuori Mosca, non immaginavo neppure che un giorno avrei posseduto una macchina. Adesso ne ho talmente tante che a volte perdo il conto. Voglio farti fare un giro. Vieni, amico mio.»

Ilya Frolov scosse la testa e alzò entrambe le mani in segno di protesta. «No, no, grazie. Non mi piacciono il rumore, la velocità, niente.»

«Insisto», disse il Lupo sollevando la portiera del lato passeggero. «Tranquillo, non morde. Sarà un giro indimenticabile, Ilya.»

Il russo si sforzò di ridere, poi si mise a tossire. «È proprio quello che temo.»

«Quando avremo finito, ti parlerò delle prossime mosse. Stiamo per incassare. Si stanno indebolendo ogni giorno di più. Ho un piano. Diventerai ricco, Ilya.»

Il Lupo si mise al posto di guida, che era a destra. Premette un pulsante, il cruscotto si accese e con un rombo il motore prese vita. Il Lupo vide che Ilya Frolov impallidiva e scoppiò in un'allegra risata. A modo suo, gli era affezionato.

«Siamo seduti sul motore. Fra poco farà molto caldo qui dentro. Cinquanta, cinquantacinque gradi. Per questo ci siamo dovuti mettere la tuta ignifuga. Ci sarà anche parecchio rumore. Mettiti il casco, Ilya. Questo è il mio ultimo avvertimento.»

E partirono.

Il Lupo viveva per momenti come quello, per l'esaltazione, il senso di potere che davano le auto da corsa più belle del mondo. A quella velocità bisognava concentrarsi sulla guida: nient'altro aveva importanza. Mentre girava sulla pista, non esisteva nient'altro. Tutto su quell'auto era dettato dalla potenza: il rumore, perché nell'abitacolo non c'era isolamento acustico; le vibrazioni, perché più le sospensioni erano rigide, più velocemente l'auto poteva affrontare le curve; la forza G, che in alcune curve poteva creare una pressione equivalente a quasi 300 chili.

Dio, che macchina favolosa! Assolutamente perfetta. Chi l'aveva costruita era sicuramente un genio.

Non sono solo, pensò. Qualche genio come me esiste ancora al mondo.

Poi rallentò e portò il bolide fuori dalla pista. Scese, si tolse il casco, scosse i capelli e lanciò un grido rivolto al cielo.

«Che meraviglia! Mio Dio, che esperienza! Meglio di una scopata! Ho montato sia donne che automobili e, be', preferisco le automobili da corsa!»

Guardò Ilya Frolov e vide che era ancora pallido e tremava. Povero Ilya.

«Mi dispiace, amico mio», gli disse sottovoce. «Temo che tu non abbia le palle per fare anche il prossimo giro. A parte il fatto che sai che cosa è successo a Parigi.»

Il Lupo sparò al suo amico a bruciapelo, ai margini del circuito di prova, quindi si allontanò senza neppure voltarsi indietro. I morti non gli interessavano.

71

Quello stesso pomeriggio il Lupo andò in una casa di campagna a una cinquantina di chilometri a sud-est del circuito. Arrivò per primo e si sistemò nella cucina buia come una cripta, senza accendere la luce. Ad Artur Nikitin era stato ordinato di presentarsi da solo, e così fece. Era un ex agente del KGB ed era sempre stato un servitore leale. Lavorava per Ilya Frolov, prevalentemente come trafficante d'armi.

Il Lupo udì i passi di Artur sui gradini della porta di servizio. «Niente luci. Entra», gli gridò.

Artur Nikitin aprì la porta ed entrò. Era alto, con una folta barba bianca e un fisico possente. Non molto diverso dal Lupo.

«Prego. Prendi una sedia e accomodati», disse il Lupo.

Nikitin ubbidì senza dare segno di timore. In effetti non aveva paura di morire.

«Hai sempre lavorato bene per me in passato. Questo sarà l'ultimo lavoro che faremo insieme. Guadagnerai abbastanza da poter smettere di fare questa vita. Potrai fare quello che vuoi. Che ne dici?»

«Benissimo. Ogni tuo desiderio è un ordine. Il segreto del mio successo è sempre stato questo.»

«Parigi è un posto speciale per me», riprese il Lupo. «In una vita precedente, ci abitai per due anni. Adesso sono di nuovo qui. Non è un caso, Artur. Ho bisogno del tuo aiuto, e non solo: ho bisogno della tua lealtà. Posso contare su di te?»

«Certo, senza il minimo dubbio. Sono qui, no?»

«Ho intenzione di far esplodere una bomba potentissima a Parigi, causare un sacco di danni e fare soldi a palate. Posso ancora contare su di te?»

Nikitin si sorprese a sorridere. «Assolutamente sì. I francesi non mi sono mai stati simpatici. A chi sono simpatici, del resto? Sarà un piacere. E soprattutto non vedo l'ora di avere la mia parte delle 'palate' di soldi di cui dicevi.»

Il Lupo aveva trovato l'uomo giusto per quella missione. Gli spiegò qual era il suo pezzo del puzzle.

72

Due giorni dopo il crollo del Westminster Bridge, tornai a Washington. Durante le lunghe ore di volo mi sforzai di mettere nero su bianco tutte le ipotesi possibili. Quali sarebbero state le prossime mosse del Lupo? Che cosa avrebbe fatto? Avrebbe colpito di nuovo, continuando a compiere attentati finché le sue richieste non fossero state esaudite? E che significato avevano per lui i ponti?

Una sola cosa mi pareva chiara: il Lupo non si sarebbe dileguato tanto facilmente. Le cose non sarebbero mai più tornate come prima.

L'aereo non era ancora arrivato a Washington che ricevetti un messaggio dall'ufficio di Ron Burns. Dovevo presentarmi in sede appena atterrato.

Però, anziché precipitarmi allo Hoover Building, andai a casa. Come Bartleby lo scrivano, declinai rispettosamente la richiesta del mio datore di lavoro. Senza pensarci su due volte. Il Lupo poteva aspettare fino all'indomani mattina.

I ragazzi erano tornati a Washington insieme alla zia Tia, e anche Nana era in Fifth Street, nella casa in cui era nata. Passammo la serata insieme, in famiglia. La mattina dopo i ragazzi sarebbero tornati nel Maryland con la zia, mentre Nana e io saremmo rimasti lì. Forse ci assomigliavamo più di quanto fossi disposto ad ammettere.

Verso le undici bussarono alla porta. Ero nella veranda a suonare il pianoforte, a pochi passi dalla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti Ron Burns con due agenti dell'FBI. Ordinò loro di attenderlo alla macchina ed entrò in casa senza aspettare che io lo invitassi ad accomodarsi.

«Devo parlarle. È cambiato tutto», disse. Mi feci da parte per lasciarlo passare.

Così mi ritrovai seduto nella veranda insieme al direttore dell'FBI e non per suonargli il pianoforte, ma per ascoltare quel che aveva da dirmi.

Prima di tutto mi parlò di Thomas Weir. «Siamo sicuri che ebbe dei contatti con il Lupo, quando questi fuggì dalla Russia. Forse sapeva chi era. Stiamo indagando, Alex, e anche la CIA sta svolgendo le sue indagini, ma naturalmente non è un mistero di facile soluzione.»

«Tutti collaborano, però», osservai corrucciato. «È una bella cosa.»

Burns mi fissò. «So che per lei è stato un cambiamento difficile e mi rendo conto che questo lavoro non la soddisfa, perché è abituato a essere più attivo. E a stare più vicino alla sua famiglia.»

Non potei negare nulla di tutto ciò che Burns aveva detto fino a quel punto. «Vada avanti, direttore. La ascolto.»

«In Francia successe qualcosa, Alex, qualcosa che riguardava Tom Weir e il Lupo. Molti anni fa. Fu commesso un errore, un grave errore.»

«Quale errore?» domandai. Stavamo finalmente per trovare qualche risposta? «La smetta di farmi questi giochetti. Si chiede come mai ho dei ripensamenti riguardo a questo lavoro?»

«Mi creda, neppure noi sappiamo con precisione che cosa accadde, ma ci stiamo avvicinando a una risposta. In queste ultime ore sono successe molte cose. Il Lupo si è rifatto vivo, Alex.»

Sospirai ma, siccome l'avevo promesso, continuai ad ascoltare.

«Lei ha detto fin dall'inizio che il Lupo è un sadico e che è intenzionato a spezzarci la schiena. Ora questo psicopatico dice che le regole sono cambiate e che è lui a stabilirle. Solo lui conosce la soluzione di questo mistero. Ma solo lei, Alex, può aiutarci a capire che cosa ha in testa quest'uomo.»

Dovetti interromperlo. «Ron, che cosa sta cercando di dirmi? Parli chiaro, per piacere. O mi fate partecipare fino in fondo, oppure mi tiro indietro.»

«Il Lupo ci ha dato altre novantasei ore, dopodiché ha promesso scenari apocalittici. Ha cambiato alcune delle città nel mirino. Washington e Londra sono sempre sulla sua lista, ma adesso vi ha aggiunto anche Parigi e Tel Aviv. Non ha voluto spiegarci perché. Chiede quattro miliardi di dollari e, come prima, la liberazione dei prigionieri politici, ma non ci ha voluto dare nessuna spiegazione.»

«Tutto qui?» replicai. «Attentati in quattro città, qualche miliardo di riscatto e la liberazione di un pugno di prigionieri?»

Burns scosse la testa. «No, non è tutto qui. Questa volta ha informato i media. Si scatenerà il panico in tutto il mondo, ma soprattutto nelle quattro città: Londra, Parigi, Tel Aviv e qui a Washington. Il Lupo ha reso pubbliche le sue minacce.»

73

La domenica mattina, dopo aver fatto colazione con Nana, partii alla volta di Parigi. Ron Burns voleva che andassi in Francia. Punto e basta.

Esausto e probabilmente depresso dormii per buona parte del volo, poi lessi vari dossier della CIA su un agente del KGB che undici anni prima aveva vissuto a Parigi e forse aveva lavorato con Thomas Weir. Presumibilmente si trattava del Lupo. A un certo punto, però, era successo qualcosa di strano. C'era stato un «errore». Un grosso errore, a quanto pareva.

Non saprei dire che genere di accoglienza mi aspettassi dai francesi, soprattutto dati i rapporti tra i nostri due Paesi negli ultimi tempi, ma al mio arrivo andò tutto abbastanza liscio. Mi parve anzi che il comando operativo di Parigi funzionasse meglio di quelli di Londra e Washington. Il motivo saltava subito agli occhi.

A Parigi l'infrastruttura era più semplice, l'organizzazione più piccola. Un funzionario mi disse: «Qui è facile comunicare, perché le informazioni di cui si ha bisogno sono nell'ufficio accanto o al massimo in fondo al corridoio».

Dopo un rapido briefing, fui catapultato nel bel mezzo di una riunione ad alto livello. Un generale dell'esercito mi guardò e mi disse, in inglese: «Dottor Cross, per la verità non abbiamo ancora escluso la possibilità che questi atti di violenza siano da ricondurre alla Jihad, ovvero che siano attacchi terroristici di matrice islamica. La prego di credermi, quella è gente abbastanza in gamba per escogitare un piano bizzarro come questo, e abbastanza infida da potersi essere inventata il Lupo. Questo spiegherebbe la richiesta di liberazione degli ostaggi, no?»

Non dissi nulla. Come potevo? Al-Qaeda? I francesi erano convinti che dietro a tutto quel che era successo ci fosse al-Qaeda? Dietro al Lupo? Era per questo che ero stato mandato in Francia?

«Come lei sa, i nostri due Paesi sono su posizioni diverse riguardo ai rapporti tra le reti terroristiche islamiche e l'attuale situazione nel Medio Oriente. Noi riteniamo che la Jihad non sia una guerra contro i valori occidentali, bensì una reazione complessa contro i leader dei Paesi musulmani che non hanno adottato l'Islam radicale.»

«Tuttavia i quattro bersagli principali dell'Islam radicale sono gli Stati Uniti, Israele, la Francia e l'Inghilterra», replicai senza alzarmi. «E gli attuali bersagli del presunto Lupo quali sono? Washington, Tel Aviv, Parigi e Londra.»

«La prego di non avere preclusioni mentali al riguardo. Inoltre, deve sapere che numerosi ex funzionari del KGB avevano rapporti con Saddam Hussein ed esercitavano una notevole influenza in Iraq. Come le ho detto, cerchi di non avere preclusioni.»

Annuii. «Io non ho preclusioni, ma devo dirle che non vedo prove della presenza di terroristi islamici dietro queste minacce. Ho avuto a che fare con il Lupo in precedenza. Mi creda, non crede nei valori dell'Islam. Non è un uomo di fede.»

74

Quella sera cenai da solo a Parigi. Feci anche una passeggiata per rendermi conto di persona della situazione in città. C'erano soldati in assetto di guerra ovunque, carri armati e jeep militari nelle strade e pochissima gente in giro. Le rare persone che per qualche ragione si erano avventurate fuori di casa avevano l'aria preoccupata.

Mangiai in uno dei pochi ristoranti che trovai aperti, Les Olivades, in avenue de Ségur. L'atmosfera era tranquilla, ed era proprio quello che mi ci voleva, dato il jet lag e la confusione, per non parlare dello stato di assedio in cui si trovava la città.

Dopo cena passeggiai ancora un po', riflettendo sul Lupo e su Thomas Weir. Dunque il Lupo aveva ucciso Weir deliberatamente. E aveva preso di mira Parigi con uno scopo. Perché? E perché aveva la fissazione dei ponti? Era un indizio per noi? I ponti avevano un valore simbolico? Ma quale?

Era strano e inquietante camminare per Parigi sapendo che da un momento all'altro poteva scatenarsi un attacco micidiale. Ero lì per cercare di sventarlo, ma sinceramente nessuno di noi sapeva da che parte cominciare. Fino a quel momento non era stato trovato un solo indizio capace di rivelarci chi fosse il Lupo o dove si trovasse. Non sapevamo nemmeno in quale Paese fosse. Aveva vissuto in Francia undici anni prima e lì gli era successo qualcosa di brutto, ma cosa?

Quella zona di Parigi era splendida, con ampi viali fiancheggiati da palazzi di pietra molto ben tenuti e comodi marciapiedi. Passavano macchine con i fari accesi in entrambe le direzioni. Gente che lasciava la città per paura dell'attentato?

Sì, perché rischiavamo di saltare in aria tutti da un momento all'altro.

La cosa che mi spaventava di più era che la minaccia sembrava ogni volta più grave. Sarebbe andato distrutto soltanto un ponte anche a Parigi, o no?

Il Lupo ci aveva veramente incastrati. Ormai comandava lui. In un modo o nell'altro dovevamo riuscire a rovesciare la situazione.

Tornai in albergo e telefonai ai miei figli. Nel Maryland erano le sei di sera. Molto probabilmente la zia Tia stava preparando la cena, mentre loro si lamentavano di avere troppo da fare per aiutarla. Rispose Jannie: «Bonsoir, Monsieur Cross». Come aveva fatto a indovinare?

Poi Jannie mi tempestò di tutte le domande che si era preparata. Nel frattempo Damon sollevò l'altro telefono e anche lui cominciò a farmi un sacco di domande. Credo volessero allentare così la tensione che tutti quanti provavamo.

Ero stato alla cattedrale di Notre Dame? Avevo incontrato il Gobbo (ah ah ah)? Avevo visto i famosi gargoyle? Anche quello che se ne mangia un altro?

Riuscii a malapena a dire un paio di frasi. «Non ho avuto il tempo di salire fino in cima alla cattedrale. Sono qui per lavorare.»

«Lo sappiamo, papà», disse Jannie. «Stiamo solo cercando di tirarti un po' su. Mi manchi tanto», mormorò.

«Anche a me», disse Damon.

«Je t'aime», aggiunse Jannie.

Pochi minuti dopo mi ritrovai solo in una camera d'albergo in un Paese straniero, in una città minacciata di morte.

Je t'aime aussi.

75

Le ore e i minuti scorrevano inesorabili. Mi sembrava addirittura di sentire il ticchettio dell'orologio più forte del solito. O era solo il mio cuore che si preparava a esplodere?

L'indomani mattina presto mi affiancarono un collega francese, Etienne Marteau, ispettore della polizia nazionale. Era un uomo piccolo e instancabile, collaborativo e a prima vista competente, ma avevo l'impressione che fosse lì più per tenermi d'occhio che per lavorare con me. Era una mossa così idiota e così controproducente che mi fece perdere la testa.

Nel pomeriggio chiamai l'ufficio di Ron Burns e dissi che volevo tornare a casa. La mia richiesta venne respinta. Da Tony Woods, che non si prese neppure la briga di riferirla al direttore! Si limitò a ripetermi che Thomas Weir e il Lupo probabilmente si erano conosciuti a Parigi.

«Me lo ricordo», replicai e buttai giù il telefono.

Cominciai così a consultare la marea di rapporti e dati della polizia nazionale francese, alla ricerca di qualcosa che avesse a che fare con Thomas Weir o, più in generale, con la CIA. Cercai persino di non avere preclusioni riguardo alla pista del terrorismo islamico.

L'ispettore Marteau mi diede una mano, ma il lavoro procedeva a rilento. Il francese aveva bisogno di frequenti pause per caffè e sigarette. Di quel passo non saremmo arrivati da nessuna parte ed ebbi nuovamente la sensazione che i miei sforzi fossero sprecati. Mi stava venendo anche un gran mal di testa.

Verso le sei ci riunimmo presso l'unità di crisi. Le lancette dell'orologio continuavano a girare inesorabili! Scoprii che il Lupo stava per richiamare. L'atmosfera nella sala era tesa e decisamente cupa: sapevamo tutti che saremmo stati ulteriormente manipolati e insultati. Ero sicuro che tirasse la stessa aria anche a Washington, Londra e Tel Aviv.

Tutto a un tratto dall'altoparlante venne la solita voce amplificata e deformata. Da far accapponare la pelle.

«Scusate se vi ho fatto aspettare», esordì. Non rise, ma il tono era di totale derisione. Avrei voluto urlargli di tutto.

«D'altra parte anche voi avete fatto aspettare me, no? Lo so, lo so, è perché i vostri governi non vogliono creare un precedente. Cercano di salvare la faccia. Capisco, capisco. Ma anche voi dovete capire una cosa. Questo è davvero il mio ultimo avvertimento. L'unica concessione che vi faccio è la seguente: se può servire a farvi star meglio, provate pure a cercarmi. Svolgete pure le vostre indagini alla luce del sole. Provate a prendermi, se ne siete capaci. Ma tenete presente una cosa: questa volta la somma deve essere versata in tempo, e per intero. I prigionieri politici devono essere rilasciati, tutti. Non ci saranno altre proroghe. Questo è davvero il mio ultimo avvertimento. Se lasciate passare la scadenza, anche solo di pochi minuti, ci saranno decine di migliaia di morti nelle quattro città. Sì, avete sentito bene. Ho detto morti. Credetemi, darò l'ordine e farò una strage come il mondo raramente ne ha viste. Soprattutto a Parigi. Au revoir, mes amis.»

76

A un certo punto quella sera Etienne Marteau e io credemmo di aver scoperto qualcosa di utile, se non addirittura di importante. Ormai ogni indizio poteva rivelarsi cruciale.

La polizia nazionale francese aveva intercettato vari messaggi partiti dal telefono di un noto trafficante di armi con base a Marsiglia. Costui era specializzato in materiale dell'Armata Rossa, armi di contrabbando che finivano un po' in tutta Europa, ma soprattutto in Germania, Francia e Italia. In passato aveva venduto armi di contrabbando anche a gruppi estremisti islamici.

Marteau e io leggemmo e rileggemmo più volte la trascrizione di una conversazione telefonica tra il trafficante e un terrorista sospettato di appartenere ad al-Qaeda. La conversazione era in codice, ma la polizia francese l'aveva quasi interamente decifrata.

TRAFFICANTE DI ARMI: Caro cugino, come vanno gli affari di questi tempi? [Sei pronto per la missione?] Verrai a trovarmi presto? [Puoi spostarti?]

TERRORISTA: Oh, sai, ho una moglie e troppi figli. A volte queste cose sono complicate. [Dispongo di un gruppo numeroso.]

TRAFFICANTE DI ARMI: Santo Cielo, te l'ho già detto: porta con te moglie e figli. Dovresti venire subito. [Porta tutto il gruppo subito.]

TERRORISTA: Siamo molto stanchi. [Siamo sorvegliati.]

TRAFFICANTE DI ARMI: Siamo tutti stanchi, ma qui vi piacerà, venite. [Non c'è pericolo.] Te lo garantisco.

TERRORISTA: D'accordo, allora. Comincerò a fare i bagagli.

TRAFFICANTE DI ARMI: Ho la collezione di francobolli pronta per te. [Probabilmente speciali armi tattiche.]

«Che cos'è 'la collezione di francobolli'? È un'informazione fondamentale, vero?» chiesi.

«Non lo sanno esattamente, Alex. Pensano che si tratti di armi, ma chissà di che tipo. Qualcosa di serio, probabilmente.»

«Fermeranno il gruppo terroristico adesso, o li lasceranno entrare in Francia e li terranno sotto sorveglianza?»

«Credo che l'intenzione sia di lasciarli entrare nella speranza di poter risalire tramite loro ai livelli superiori dell'organizzazione. Le cose si stanno muovendo in fretta, tranquillo.»

«A me sembrate un po' troppo tranquilli, veramente», osservai.

«Lavoriamo in modo diverso. La prego di cercare di accettarlo. Provi a capire.»

Annuii. «Etienne, non credo che nessuno abbia contatti con i livelli superiori dell'organizzazione. Non è così che opera il Lupo. Ogni pedina ha un suo ruolo da svolgere e non sa niente del piano generale.»

Il collega francese mi guardò dritto negli occhi. «Riferirò.»

Ma dubitavo fortemente che lo facesse. Mi ero reso conto di una cosa che trovavo difficile da mandare giù. Sono solo, assolutamente solo. Qui sono l'americano brutto e cattivo.

77

Rientrai in albergo alle due del mattino e alle sei e mezzo ero di nuovo in piedi. La guerra contro il male non finisce mai. A costo di rendersi ridicoli. Il Lupo non intendeva darci tregua. Ci voleva stressati, esausti, spaventati e in condizioni di sbagliare.

Mi avviai a piedi verso la Préfecture de Police continuando a rimuginare sulla mente malata che aveva architettato quel piano diabolico. Perché tanta crudeltà? Si presumeva che il Lupo fosse stato un agente del KGB prima di trasferirsi in America, dove era diventato un potentissimo boss della Mafia russa. Aveva vissuto anche in Inghilterra e in Francia. Era talmente astuto che ancora non ne conoscevamo l'identità. Lungi dal conoscere la sua storia, non sapevamo neppure come si chiamava.

Pensava in grande. Ma perché si sarebbe dovuto alleare con i gruppi terroristici islamici? A meno che non avesse fatto parte di al-Qaeda fin da principio... Era possibile? Trovavo questa eventualità terrificante, ma anche inconcepibile, assurda. Eppure nel mondo stavano succedendo molte cose assurde.

Con la coda dell'occhio vidi lampeggiare qualcosa.

Una motocicletta nera e argento stava venendo verso di me sul marciapiede! Il cuore mi si fermò. Mi precipitai giù dal marciapiede e allargai braccia e gambe per non perdere l'equilibrio, pronto a spostarmi in fretta a sinistra o a destra, a seconda di dove fosse andata la moto.

Poi mi accorsi che nessuno dei pedoni intorno a me sembrava preoccupato e sorrisi nel ricordare che Etienne aveva accennato al fatto che le moto di grossa cilindrata erano molto di moda a Parigi e che i motociclisti le guidavano come se si trattasse di motorini o scooter molto più piccoli, a volte salendo addirittura sui marciapiedi per evitare gli ingorghi.

Il motociclista, in giacca blu e pantaloni beige, era un uomo d'affari parigino, non un killer. Mi passò accanto senza battere ciglio. Sto perdendo la testa, vero? Era comprensibile, del resto. Chi non l'avrebbe persa in simili condizioni di stress?

Alle nove meno un quarto mi accingevo a prendere la parola davanti a una sala gremita, piena di pezzi grossi della polizia e dell'esercito francese. Eravamo nel palazzo Beauveau, sede dei Ministère de l'Intérieur.

Mancavano poco più di trentatré ore allo scadere dell'ultimatum. Nella sala c'era uno strano misto di mobili rococò che sembravano molto costosi e di tecnologia moderna che lo era sicuramente. Sugli schermi TV alle pareti scorrevano immagini provenienti da Londra, Parigi, Washington e Tel Aviv. Strade quasi deserte, soldati e polizia ovunque.

Siamo in guerra, pensai. In guerra contro un folle.

Mi avevano detto che potevo parlare inglese, purché avessi parlato lentamente e scandendo bene le parole. Probabilmente temevano che tenessi il mio discorso in uno slang assolutamente incomprensibile.

«Mi chiamo Alex Cross e sono uno psicologo forense», esordii. «Prima di entrare all'FBI, sono stato investigatore nella squadra Omicidi di Washington. Meno di un anno fa ho indagato su un caso che mi ha portato a conoscere la Mafia russa e, in particolare, un ex agente del KGB noto solo come 'il Lupo'. Ed è di lui che vi parlerò questa mattina.»

Avrei potuto tenere il resto della mia relazione anche dormendo. Parlai del Lupo per una ventina di minuti, ma quando arrivai alle conclusioni e alle domande del pubblico avevo chiaro che, pur essendo disposti ad ascoltare quel che avevo da dire, i francesi restavano saldi nella loro convinzione che la vera fonte delle minacce contro le quattro città fossero i terroristi islamici. O il Lupo faceva parte di al-Qaeda, o lavorava con al-Qaeda.

Cercavo di non avere preclusioni, ma sarei rimasto veramente sbalordito se la teoria dei francesi si fosse rivelata giusta. Non ci potevo credere. Il Lupo faceva parte della Mafia russa.

Verso le undici tornai alla mia scrivania e scoprii che mi era stato affiancato un nuovo collega.

78

Un avvicendamento? Adesso?

Tutto avveniva molto in fretta, spesso in maniera per me incomprensibile. Immaginai che l'FBI avesse contattato qualcuno e manovrato dietro le quinte. Il mio nuovo collega era una donna, un agent de police di nome Maud Boulard, che mi informò che avremmo lavorato «con il metodo della polizia francese». Chissà cosa voleva dire.

Fisicamente era molto simile a Etienne Marteau: magra, con il naso aquilino e i lineamenti marcati, ma aveva i capelli rossi. Mi fece capire con una certa insistenza che era stata a New York e a Los Angeles e che nessuna delle due città le era piaciuta particolarmente.

«La scadenza dell'ultimatum è vicina», le dissi.

«Lo so, dottor Cross. Lo sanno tutti. Ma lavorare in fretta non significa lavorare in maniera intelligente.»

Quella che Maud Boulard definì «la nostra sorveglianza sulla Mafia russa» cominciò lungo il Parc Monceau nell'ottavo arrondissement. Contrariamente agli Stati Uniti, dove i russi vivevano soprattutto in quartieri popolari tipo Brighton Beach a New York, lì a quanto pareva i boss prediligevano zone più chic.

«Forse perché conoscono meglio Parigi e sono attivi qui da più tempo», suggerì Maud. «Secondo me è così. Conosco la malavita russa da molti anni. A proposito, i russi non credono al vostro fantomatico Lupo. Mi creda, ho fatto qualche ricerca.»

Il nostro compito consisteva in quello: per circa un'ora chiedemmo notizie del Lupo ai malavitosi russi che Maud Boulard conosceva. L'unica consolazione fu che era una mattinata splendida, con un cielo limpidissimo. La mia sofferenza aumentava: che cosa stavo facendo lì?

All'una e mezzo Maud annunciò allegramente: «Andiamo a pranzo. Con i russi, naturalmente. Conosco il posto adatto».

Mi portò in quello che definì «uno dei più vecchi ristoranti russi di Parigi», Le Daru. Nella sala principale, che aveva le pareti rivestite di caldo legno di pino, sembrava di essere nella dacia di un ricco moscovita.

Cercavo di non darlo a vedere, ma ero furibondo: non avevamo tempo per pranzare comodamente seduti al ristorante.

Ciononostante pranzammo. Avrei strozzato Maud, il cameriere ossequioso e chiunque mi fossi trovato tra le mani. Sono sicuro che lei non si rendesse conto di quanto ero arrabbiato. Altro che intuito da detective!

Finito di mangiare, notai che due uomini a un tavolo vicino ci guardavano. O forse guardavano Maud, con la sua gran testa di capelli rossi.

Glielo dissi, ma lei alzò le spalle dicendo che gli uomini a Parigi erano tutti così. «Porci.»

«Vediamo se ci seguono», disse poi alzandosi. «Ne dubito. Non li ho mai visti. E io conosco tutti, qui. Tranne il suo Lupo.»

«Stanno uscendo dal ristorante anche loro», le dissi quando fummo per strada.

«Giusto. L'uscita è quella.»

La breve rue Daru portava nel Faubourg Saint-Honoré. Maud mi spiegò che era una zona di bei negozi, dove la gente andava a guardare le vetrine. Avevamo percorso poche decine di metri quando una limousine bianca Lincoln accostò al marciapiede alla nostra altezza.

Un uomo dalla barba nera aprì la portiera posteriore e guardò fuori. «Salite in macchina, per favore. Senza fare scene», disse in inglese con accento russo. «In fretta. Non sto scherzando.»

«No», rispose Maud. «Non saliamo sulla sua macchina. Se vuole parlare con noi, scenda lei. Chi si crede di essere?»

Il barbuto estrasse una pistola e le sparò due colpi a bruciapelo. Lì, in una strada nel pieno centro di Parigi. Non riuscivo a credere ai miei occhi.

Maud Boulard stramazzò a terra. Ero certo che fosse morta. Aveva un'orrenda ferita in mezzo alla fronte da cui sgorgava sangue a fiotti, i capelli rossi sparsi sul marciapiede e gli occhi sbarrati rivolti al cielo azzurro. Nella caduta aveva perso una scarpa, che era finita in mezzo alla strada.

«Salga in macchina, dottor Cross. Non se lo faccia ripetere. Sono stufo di usare le buone maniere», disse il russo tenendomi la pistola puntata in faccia. «Salga, o sparo in testa anche a lei. Lo farei con sommo piacere.»

79

«È giunta l'ora di 'show and tell'», disse il russo con la barba nera quando fui sulla limousine con lui. «Non è così che dite a scuola in America, quando i bambini devono portare a lezione qualcosa da mostrare ai compagni e spiegare di che cosa si tratta? Lei ha due figli che vanno a scuola, no? Allora, adesso le mostro alcune cose importanti e poi le spiego che cosa vogliono dire. Ho detto alla sua collega di salire in macchina, ma lei si è rifiutata. Si chiamava Maud Boulard, giusto? Maud Boulard voleva fare la dura e adesso è morta. Non ci ha guadagnato un granché.»

La limousine si allontanò a gran velocità dalla scena del delitto, lasciando l'ispettrice della polizia francese morta sul marciapiede. A pochi isolati dal luogo dell'omicidio cambiammo auto, trasferendoci su una molto meno vistosa Peugeot grigia. Per quel che poteva servire, memorizzai la targa di entrambe le auto.

«Adesso andiamo a fare un giretto in campagna», annunciò il russo. Sembrava divertito.

«Chi è lei? Che cosa vuole da me?» gli domandai. Era piuttosto alto, probabilmente più di uno e novanta, e robusto. Assomigliava molto alle descrizioni del Lupo. Impugnava una Beretta e me la teneva puntata alla tempia. Aveva la mano fermissima ed era chiaro che sapeva usare le armi.

«Non importa chi sono io, non ha la minima importanza. Lei sta cercando il Lupo, giusto? La porterò da lui.»

Mi lanciò un'occhiata torva e mi porse un sacco di tela. «Si metta questo sopra la testa e faccia esattamente quello che le dico. Ricordi che fine ha fatto la sua collega francese.»

«Pensa che possa dimenticarmelo?» Mi misi il cappuccio. Non avrei mai dimenticato l'omicidio a sangue freddo di Maud Boulard. Il Lupo e i suoi avevano il grilletto facile, non c'è che dire. Che cosa significava questo per le quattro città minacciate? Erano pronti a uccidere con la stessa facilità migliaia e migliaia di persone? Il loro piano era dimostrare che erano potenti e potevano controllare il mondo? Oppure vendicarsi di qualche misterioso crimine del passato?

Non so per quanto tempo restai in quella Peugeot, ma sono certo che il viaggio durò molto più di un'ora. Dapprima ci muovemmo nel traffico cittadino, poi proseguimmo a più forte velocità, in quella che doveva essere un'autostrada.

Verso la fine, rallentammo di nuovo. Forse eravamo su uno sterrato, perché procedevamo con forti scossoni.

Il russo con la barba nera mi rivolse di nuovo la parola. «Adesso può togliersi il cappuccio, dottor Cross. Siamo quasi arrivati. Non c'è molto da vedere qui intorno, in ogni caso.»

Mi tolsi il sacchetto dalla testa e vidi che eravamo in mezzo alla campagna, su una strada sterrata che attraversava campi ondulati di erba alta. Non c'erano cartelli né indicazioni di alcun genere.

«Il Lupo sta qui?» domandai. Ero dubbioso sul fatto che mi stessero davvero portando da lui. Perché mai avrebbero dovuto farlo?

«Solo temporaneamente. Ripartirà presto. Come lei ben sa, dottor Cross, è un uomo che viaggia molto. È un fantasma, un'apparizione. Tra poco capirà che cosa intendo dire.»

La Peugeot si fermò davanti a una piccola casa colonica in pietra. Dalla porta uscirono immediatamente due uomini armati, che ci vennero incontro puntandomi le automatiche al petto e alla testa.

«Entri», ordinò uno dei due. Aveva la barba bianca, ma era alto e robusto come quello che mi aveva accompagnato fin lì. Dal suo atteggiamento capii che era più importante di lui. «Entri!» mi ripeté. «Si sbrighi! È sordo, dottor Cross?»

«È un animale», continuò poi, sempre rivolto a me. «Non doveva ammazzare quella donna. Io sono il Lupo, dottor Cross. Piacere di conoscerla. Finalmente.»

80

«Non cerchi di fare l'eroe, mi raccomando, perché altrimenti sarò costretto a ucciderla e a trovare un altro ambasciatore», disse mentre entravamo nella casa.

«Adesso sono un ambasciatore? E di cosa?» domandai.

Per tutta risposta il russo agitò una mano, come se volesse scacciare una mosca fastidiosa che gli ronzava intorno alla barba.

«Il tempo vola. Non è a questo che pensava quando era a pranzo con la Boulard? I francesi stavano solo cercando di tenerla alla larga dalle indagini, non le sembra?»

«In effetti ci ho pensato», ammisi. Nel frattempo non riuscivo a capacitarmi di essere in compagnia del Lupo. Non ci credevo. Ma, se non era il Lupo, chi era? E perché mi avevano portato fin lì?

«Lo sapevo. Lei non è uno stupido», disse il russo.

Eravamo entrati in una stanzetta molto buia, con un caminetto di pietra spento. Era ingombra di pesanti mobili in legno, pile di riviste, giornali ingialliti. Finestre e persiane erano sbarrate. L'unica fonte di luce era una lampada a stelo. Mi mancava l'aria.

«Perché mi avete portato qui? Perché si fa vedere da me?» chiesi.

«Si sieda.»

«D'accordo. Sono un ambasciatore», dissi, sedendomi su una sedia.

Il russo annuì. «Sì, un ambasciatore. È importante che vi rendiate conto tutti della gravità della situazione. Questa è la vostra ultima chance.»

«Ce ne rendiamo conto», dissi.

Senza lasciarmi il tempo di finire, mi si avventò addosso e mi diede un pugno in faccia.

Caddi all'indietro, rovesciando la sedia e battendo la testa sul pavimento di pietra. Forse persi i sensi per un paio di secondi.

Due degli uomini presenti nella stanza mi tirarono subito su. Mi girava la testa e avevo del sangue in bocca.

«Voglio essere chiaro», continuò il russo come se il pugno che mi aveva dato fosse stato una semplice pausa nel discorso. «Lei è un ambasciatore. Siete dei cretini, perché non avete ancora capito la gravità della situazione. Così come nessuno capisce veramente di non essere immortale e che cosa significa morire finché non tocca a lui... Prenda quella stupida donna di oggi a Parigi. Pensa che avesse capito qualcosa, finché una pallottola non le ha spappolato il cervello? Questa volta i soldi devono essere consegnati, dottor Cross. Tutti. In tutte e quattro le città. I prigionieri devono essere liberati.»

«Perché vuole la liberazione di quei prigionieri?» domandai.

Mi diede un altro pugno, ma questa volta non caddi. Poi si voltò e se ne andò. «Perché sì!»

Un attimo dopo tornò con una pesante valigetta nera e me la posò davanti, per terra.

«Questa è la faccia nascosta della luna», disse. Poi la aprì, per mostrarmi cosa c'era dentro.

«È un ordigno nucleare tattico. O, più semplicemente, una valigia nucleare. Produce un'esplosione spaventosa. A differenza delle testate convenzionali, non richiede di essere sganciata dall'alto, è facile da nascondere e da trasportare. Praticissima. Ha visto immagini di Hiroshima, penso. Le hanno viste tutti.»

«Cosa c'entra Hiroshima?»

«Questa valigia ha pressappoco la stessa potenza. Nella vecchia Unione Sovietica ne producevamo vagonate. Vuole sapere dove sono finite alcune di esse? Be', ce n'è una - o più di una - a Washington, Tel Aviv, Parigi e Londra. Quindi, come vede, è entrato un nuovo socio nell'esclusivo 'club nucleare' mondiale. E quel nuovo socio siamo noi.»

Cominciai a sudare freddo. C'era davvero un ordigno nucleare in quella valigia?

«È questo il messaggio che vuole che riferisca?»

«Gli altri ordigni sono già a destinazione. Per dimostrare la mia buona fede, può portare questo con sé. Lo faccia esaminare dai vostri esperti. Ma dica loro di sbrigarsi, mi raccomando. Così capirete, una buona volta. O no? Adesso vada. Lei per me è un insetto. Un misero insetto, ma sempre meglio che niente. Si porti via la valigia nucleare: la consideri un regalo. E non dite che non vi avevo avvertito. Ora vada, dottor Cross. Si sbrighi.»

81

Ho solo un vago ricordo di quel che successe dopo, quel pomeriggio. Il cappuccio di tela nera doveva essere stato un di più, un modo per impressionarmi, perché non venni bendato durante il viaggio di ritorno a Parigi, che mi parve molto più breve rispetto a quello di andata.

Chiesi più volte ai miei sequestratori dove mi avrebbero portato con la valigia nucleare, ma nessuno dei due uomini che erano in macchina con me rispose. Non mi rivolsero la parola durante tutto il viaggio. E tra di loro parlarono solo russo.

Lei per me è un insetto, un misero insetto... Si porti via la valigia nucleare.

Poco dopo essere entrati a Parigi, la Peugeot si fermò nel parcheggio affollato di un centro commerciale. Tenendomi la pistola puntata alla testa, i miei rapitori mi ammanettarono alla valigia. «Cosa fate?» chiesi, ma non mi risposero.

Poco più avanti la Peugeot si fermò di nuovo, in Place Igor Stravinsky, in una delle zone più animate della città, che però quel giorno era semideserta.

«Scendi!» mi dissero. Fu la prima parola inglese che sentivo da circa un'ora.

Lentamente, scesi dalla berlina con la bomba, usando la massima cautela. Mi girava la testa. La Peugeot ripartì a tutta velocità.

Mi parve di percepire una sorta di liquidità nell'aria, un fluire di particelle, quasi sentissi la presenza degli atomi. Rimasi immobile vicino alla grande piazza del Centre Pompidou, ammanettato a una valigetta nera che pesava come minimo venti chili, ma probabilmente anche di più. E che conteneva una bomba atomica di potenza equivalente a quelle che Harry Truman aveva fatto sganciare sul Giappone. Sudavo freddo e mi sembrava di osservarmi da fuori, come succede a volte nei sogni. Era così che doveva finire, per me? Possibile. Non era più tempo di scommettere, soprattutto non sulla mia vita. Stavo per saltare in aria? E, anche se l'ordigno non fosse esploso, sarei stato contaminato dalle radiazioni?

Davanti a un negozio di dischi della Virgin c'erano due poliziotti. Mi avvicinai e spiegai chi ero, poi chiesi loro di chiamare, per piacere, il directeur de la sécurité publique.

Ai due poliziotti non dissi che cosa conteneva la valigetta nera, ma appena mi passarono il direttore gli raccontai tutto. «È un ordigno autentico, dottor Cross? La bomba è innescata?» mi chiese.

«Non lo so. Come faccio a saperlo? Ma lei faccia conto che lo sia. Come sto facendo io.» Mandi subito gli artificieri! Subito! Butti giù il telefono e faccia qualcosa!

Pochi minuti dopo tutta la popolazione della zona del Beaubourg venne evacuata, tranne una decina di agenti, la polizia militare e alcuni esperti della sezione artificieri. Speravo con tutte le mie forze che fossero davvero esperti. Anzi, che fossero i migliori di tutta la Francia.

Mi fecero sedere per terra. Accanto alla valigetta nera, naturalmente. Feci tutto quello che mi dicevano, perché non avevo scelta. Avevo la nausea. Da seduto mi sentii un po' meglio, ma non molto. Per fortuna, però, mi stava passando il giramento di testa.

Per prima cosa portarono un chien explo, un cane appositamente addestrato, e gli fecero annusare sia me che la valigia. Era un bel pastore tedesco, giovane, femmina. Mi si avvicinò con cautela, occhieggiando la valigia come se fosse un cane rivale, un nemico.

Si fermò a cinque metri da me e cominciò a ringhiare, con i peli ritti. Oh merda. Oh mio Dio, pensai.

Il pastore tedesco continuò a ringhiare, certo che il contenuto della valigia fosse radioattivo. Dopo un po' tornò dai poliziotti, da cane saggio e prudente qual era. E io rimasi di nuovo da solo. Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia. L'idea di essere lì lì per saltare in aria non è piacevole. Non è facile abituarcisi.

Dopo quella che mi sembrò un'eternità, nonostante dovessero essere passati soltanto pochi minuti, due artificieri bardati come due astronauti vennero verso di me. Vidi che uno dei due aveva in mano un tagliabulloni. Che Dio lo benedica! pensai. Fu un momento surreale, incredibile.

L'artificiere con il tagliabulloni mi si inginocchiò vicino e sussurrò: «Tranquillo, va tutto bene». Poi, con cautela, mi liberò dalle manette.

«Può andare, ora. Si alzi lentamente», mi consigliò. Mi alzai piano piano, sfregandomi il polso e indietreggiando.

Insieme ai miei due soccorritori con il look spaziale mi allontanai in fretta dalla valigia. Mi diressi verso due furgoni neri della squadra artificieri, che erano ancora nella zona ad alta pericolosità. Se l'ordigno nucleare fosse esploso, avrebbe disintegrato all'istante tutto quanto nel raggio di almeno un chilometro.

Da dentro uno dei furgoni osservai gli artificieri al lavoro per cercare di disinnescare la bomba. Non mi passò neppure per la mente di andarmene subito. I minuti che seguirono furono i più lunghi della mia vita. Sul furgone nessuno parlava. Tutti trattenevamo il respiro. L'idea di poter morire così, da un momento all'altro, era quasi inconcepibile.

I tecnici francesi mandarono a dire: «La valigia è aperta».

Poi, dopo neanche un minuto: «Il materiale fissile c'è. È vero. Sembra anche in grado di funzionare, purtroppo».

La bomba era vera. Non si trattava di vuote minacce. Il Lupo continuava a mantenere le promesse. Sì, era uno stronzo sadico. Proprio come diceva di essere.

Dopo un po' vidi uno dei tecnici agitare un braccio in segno di vittoria e nel furgone si levarono grida di giubilo. Non sapevo con precisione che cosa avessero scoperto, ma doveva essere per forza qualcosa di buono. Nessuno mi spiegò nulla.

«Che cosa è successo?» chiesi dopo un po' in francese.

Uno dei tecnici si voltò a guardarmi. «Manca il detonatore. L'ordigno non può esplodere. Non volevano che esplodesse, grazie a Dio. Volevano solo farcela fare addosso dalla paura.»

«E ci sono riusciti, gliel'assicuro», risposi.

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Nelle ore successive fu accertato che la valigia nucleare conteneva tutto il necessario per provocare una catastrofe tranne un pezzo, l'emettitore a impulsi di neutroni che funge da detonatore. Tutti i pezzi più complicati c'erano. Quella sera non riuscii a mangiare, perché mi veniva da vomitare, né a concentrarmi. Mi avevano sottoposto a tutti gli esami del caso, ma non riuscivo a togliermi dalla testa la paura di essere stato contaminato dalle radiazioni.

Non riuscivo nemmeno a non pensare a Maud Boulard: rivedevo la sua faccia, risentivo il timbro della sua voce, ripensavo al nostro pranzo assurdo e alla sua ostinazione e ingenuità, ai capelli rossi sparsi sul marciapiede, alla violenza bruta del Lupo e dei suoi uomini.

Continuavo a rivedere il russo che mi aveva preso a pugni nella casa colonica. Era il Lupo? E, se lo era, perché si era lasciato vedere da me? D'altronde, perché non avrebbe dovuto farsi vedere?

Tornai in albergo e mi pentii di aver chiesto una camera con vista. Ero esausto, tutto indolenzito, ma non riuscivo a rilassarmi. La mia mente continuava ad arrovellarsi incessantemente e il rumore della strada mi risultava intollerabile. Hanno armi nucleari. Non è un bluff. Succederà davvero. Sarà un'ecatombe.

Quando sulla East Coast erano le sei di sera telefonai ai miei figli e raccontai loro tutte le cose di Parigi che non avevo visto quel giorno. Parlai di tutto tranne di quel che era successo veramente. Per il momento i media erano all'oscuro di tutto, ma non sarebbe durato molto.

Poi telefonai a Nana e le dissi la verità. Le descrissi quel che avevo provato, seduto per terra con una bomba incatenata al polso. A lei racconto sempre le cose più brutte che mi capitano, e quella probabilmente era stata la peggiore della mia vita.

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Quando arrivai nel piccolo ufficio che mi era stato assegnato alla Prefecture trovai un'altra sorpresa. Martin Lodge mi stava aspettando. Erano le 7:15. Mancavano dieci ore e quarantacinque minuti alla catastrofe.

Gli strinsi la mano e gli dissi quanto mi faceva piacere vederlo. «Non resta molto tempo. Come mai sei qui?»

«Per scambiarci le nostre ultime volontà, forse. Devo dare l'ultimo aggiornamento sulla situazione a Londra e Tel Aviv. Dal nostro punto di vista, perlomeno.»

«E allora?»

Martin scosse la testa. «Non credo ti piacerà sentire due volte la stessa storia.»

«Sì, invece. Sentiamo.»

«No, ti assicuro che non è affatto una bella storia. Che casino, Alex. Ho paura che il Lupo dovrà veramente far saltare in aria una città per convincerli ad agire. Siamo a questo punto. La situazione peggiore è a Tel Aviv. Israele con i terroristi non tratta. Se è questo che volevi sapere.»

Il briefing quella mattina cominciò alle otto in punto con un breve resoconto sulla valigia nucleare da parte dei tecnici che l'avevano smontata. Spiegarono che l'ordigno era autentico, ma privo di emettitore di neutroni, ovvero di detonatore. Aggiunsero inoltre di non essere certi che il materiale radioattivo fosse sufficiente.

Un generale dell'esercito illustrò la situazione a Parigi: la popolazione era spaventata e usciva di casa il meno possibile, ma solo pochi erano effettivamente fuggiti. L'esercito era pronto a intervenire e dichiarare la legge marziale poco prima della scadenza dell'ultimatum, prevista per le sei del pomeriggio.

Poi toccò a Martin. Si alzò e parlò francese. «Buongiorno. Non sono incredibili le cose che possono succedere quando ci adattiamo a una nuova realtà? I londinesi si sono comportati magnificamente, per la maggior parte. Ci sono stati dei disordini, è vero, ma estremamente circoscritti. Quelli che avrebbero potuto darci più problemi probabilmente sono andati via per primi. Quanto a Tel Aviv, la gente è talmente abituata a vivere in condizioni di emergenza... diciamo semplicemente che stanno reggendo molto bene. E queste erano le buone notizie. Le cattive sono che abbiamo raccolto molti fondi, ma non l'intera somma. Questo a Londra. E a Tel Aviv? A quanto ci risulta, non hanno nessuna intenzione di scendere a patti. Gli israeliani non si sbottonano, però, quindi non siamo sicuri di che cosa sappiano esattamente. Stiamo facendo pressioni, tuttavia, sia da Londra che da Washington. So che sono stati contattati alcuni privati cittadini cui è stato chiesto di contribuire a finanziare il pagamento del riscatto, ed è una strada ancora aperta, ma non è chiaro se il governo sia disposto ad accettare il denaro. Le autorità non vogliono andare incontro alle richieste dei terroristi. Mancano meno di dieci ore alla scadenza. Parliamoci chiaro: non abbiamo tempo da perdere. Bisogna che qualcuno faccia la voce grossa per convincere chi ancora si rifiuta di pagare.»

Mentre Martin parlava, un poliziotto mi si avvicinò e mi bisbigliò all'orecchio: «Mi scusi, dottor Cross. C'è bisogno di lei».

«Che cosa c'è?» bisbigliai a mia volta. Volevo sentire tutto quello che veniva detto durante il briefing.

«Si tratta di un'emergenza. Mi segua, per piacere.»

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Paradossalmente, a quel punto un'emergenza andava considerata una buona cosa. Alle otto e mezzo mi ritrovai a bordo di un'auto della polizia che viaggiava a sirene spiegate nella città silenziosa.

L'atmosfera era cupa, le strade deserte, a parte i militari e la polizia. Durante il tragitto mi fu spiegato che dovevo partecipare a un interrogatorio. «Abbiamo arrestato un trafficante di armi. Abbiamo motivo di credere che abbia contribuito a procurare gli ordigni esplosivi. Potrebbe essere uno degli uomini che lei ha visto in quella casa in campagna. È russo e ha la barba bianca.»

Pochi minuti dopo arrivammo davanti alla sede della Brigade Criminelle, un edificio scuro, ottocentesco, in una zona tranquilla lungo la Senna. Si trattava della famigerata «Crim» di tanti polizieschi francesi, compresi quelli di Maigret che avevo letto da piccolo insieme con Nana. La vita imita l'arte, o qualcosa del genere.

Una volta arrivati a «la Crim», salii a piedi fino all'ultimo piano, il quarto, dove era in corso l'interrogatorio.

Mi accompagnarono in fondo a uno stretto corridoio, nella stanza 414. Il brigadiere che mi faceva strada bussò una volta.

Appena entrammo, riconobbi immediatamente il trafficante di armi.

Era il russo con la barba bianca che mi aveva detto di essere il Lupo.

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La stanza era piccola e c'era poco spazio per muoversi perché era nel sottotetto. Il soffitto basso e inclinato, macchiato di umidità, aveva un piccolissimo lucernario. Guardai l'orologio: erano le otto e quarantacinque. Tic tac, i minuti passavano.

Mi presentarono velocemente i due francesi che stavano interrogando il trafficante di armi russo di nome Artur Nikitin, il capitano Coridon e il tenente Leroux. Conoscevo già Nikitin, naturalmente. Era a torso nudo, senza scarpe, con le mani legate dietro la schiena, e sudava profusamente. Era proprio il russo con la barba bianca che avevo visto nella casa colonica.

In macchina mi avevano spiegato che aveva guadagnato milioni fornendo armi ad al-Qaeda. Commerciava anche in valigie nucleari e sapeva quante ne erano state vendute e a chi.

«Vigliacchi!» stava gridando ai poliziotti francesi quando entrai nella stanza. «Maledetti vigliacchi! Non potete trattarmi così: non ho fatto un cazzo! Voi francesi sostenete di essere tanto democratici, ma non è vero!»

Mi guardò e fece finta di non conoscermi, ma recitava così male che non potei fare a meno di sorridere.

Il capitano Coridon gli disse: «Avrai notato che ti abbiamo portato alla Crim anziché negli uffici della Direction de la Surveillance du Territoire. Questo perché non sei accusato di 'traffico clandestino di armi', ma di omicidio. Noi siamo ispettori della Omicidi. Credi a me, nessuno in questa stanza è democratico. A meno che non lo sia tu, naturalmente.»

Nikitin aveva gli occhi sbarrati per la collera, ma vi lessi anche una certa confusione dovuta alla mia presenza. «Stronzate! Non ci credo. Non ho fatto niente di male. Sono un imprenditore! Un cittadino francese. Voglio il mio avvocato!»

Coridon mi guardò e disse: «Ci provi lei».

Mi feci avanti e colpii il russo con un uppercut alla mascella. «Non illuderti che con questo siamo pari», gli dissi. «Nessuno sa che sei qui. Verrai processato per terrorismo. Verrai condannato a morte e nessuno muoverà un dito per aiutarti, soprattutto dopo che le tue bombe avranno contribuito a distruggere Parigi e uccidere migliaia di persone.»

Il russo si mise a gridare. «Ve l'ho già detto e ve lo ripeto: non ho fatto niente! Non potete farmi nulla. Quali armi? Quali bombe? Per chi mi avete preso? Per Saddam Hussein? Non potete farmi questo.»

«Possiamo, e ti condanneremo a morte», urlò il capitano Coridon, che si era messo in disparte. «Esci da questa stanza e sei un uomo morto, Nikitin. Abbiamo altre carogne da interrogare. Il primo che ci aiuta, lo aiutiamo.»

Poi ordinò: «Portatelo via! Stiamo sprecando del tempo con questo stronzo!»

Il brigadiere afferrò Nikitin per i capelli e per la cintola e lo sbatté dall'altra parte della stanza. Il russo picchiò la testa contro il muro, ma riuscì a non cadere. Adesso aveva lo sguardo spaventato. Forse stava cominciando a capire che le regole dell'interrogatorio erano cambiate. Era cambiato tutto.

«È la tua ultima occasione per parlare», dissi. «Ricordati che per noi sei solo un misero insetto.»

«Non ho venduto niente a nessuno qui in Francia! Io vendo in Angola e mi faccio pagare in diamanti!» disse Nikitin.

«Non mi interessa. E non ci credo!» gridò il capitano Coridon con tutto il fiato che aveva in corpo. «Portatelo via di qui.»

«So una cosa sulle valigie nucleari!» sputò finalmente Nikitin. «So che sono quattro. E che dietro c'è al-Qaeda. Il piano è opera di al-Qaeda! Sono loro che decidono. I prigionieri politici e tutto.»

Guardai i poliziotti francesi e scossi la testa. «Il Lupo ha voluto che lo prendessimo e non sarà contento della sua 'performance'. Lo ucciderà lui. Non credo a una sola parola di quel che ha detto.»

Nikitin ci guardò e ripeté: «Al-Qaeda! Andate affanculo, se non ci credete».

Anch'io lo guardai in faccia e dissi: «Dimostracelo. Dacci una ragione per crederti. Convincimi, perché così non ci credo».

«Va bene», disse Nikitin. «Posso dirvi la ragione per cui dovete credermi. Vi convincerò.»

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Appena fui di ritorno alla Préfecture, Martin Lodge mi raggiunse, mi prese per un braccio e cominciò a trascinarmi. «Andiamo!»

«Cosa? Dove?» Guardai l'orologio, cosa che ormai facevo ogni due o tre minuti. Erano le dieci e venticinque.

«Fra pochi minuti ci sarà un'incursione nel covo che ci ha indicato il russo. Era la verità.»

Salimmo di corsa nella sala dell'unità operativa. Il mio vecchio amico Etienne Marteau ci venne incontro e ci accompagnò davanti a una serie di schermi da dove avremmo potuto seguire l'operazione. Contrariamente al solito, stava avvenendo tutto molto in fretta. Troppo, forse. Ma non avevamo scelta.

Marteau disse: «Siamo ottimisti, Alex. Siamo d'accordo con l'EDF-GDF, la società elettrica. Nella zona verrà tolta la corrente e la squadra farà irruzione nel covo».

Annuii e mi misi a guardare gli schermi. Faceva uno strano effetto assistere all'operazione senza parteciparvi. Tutto a un tratto i francesi entrarono in azione. Come dal nulla comparvero decine di militari con la scritta RAID sulla giacca: Recherche, Assistance, Intervention e Dissuasion. Erano armati di fucili d'assalto.

I soldati corsero verso una palazzina dall'aria innocua e abbatterono il portone. Fu questione di secondi.

Comparve anche un UBL, la versione francese di un Hummer, che sfondò un cancello di legno sul retro della casa. Scesero di corsa alcuni soldati.

«Vediamo», dissi a Martin. «Gli uomini della RAID sono in gamba?»

«Sì, sono specializzati nel distruggere e uccidere.»

Alcuni dei poliziotti francesi avevano microfono e telecamera, per cui potevamo vedere e sentire gran parte di quel che succedeva in tempo reale. Spalancarono una porta, da dentro qualcuno sparò un colpo, poi si vide una fiammata: gli incursori avevano risposto al fuoco.

Si udì un grido acutissimo e un corpo cadde pesantemente sul pavimento di legno.

Due uomini armati di pistola uscirono di corsa dalla stanza in un corridoio stretto. Erano in mutande. Stramazzarono immediatamente, colpiti dai proiettili della polizia.

C'era anche una donna seminuda con una pistola: le spararono alla gola.

«Non ammazzateli tutti», protestai sottovoce, guardando gli schermi.

Un elicottero Cougar atterrò vicino alla palazzina e ne scesero altri commando. Nel frattempo, dentro, i soldati entrarono in una camera da letto e immobilizzarono un uomo sdraiato su una branda. Lo presero vivo, per fortuna.

Altri terroristi alzarono le mani e si arresero.

Poi si udirono altri spari, in rapida successione, questa volta fuori dall'inquadratura.

Un uomo venne fatto uscire dalla casa con una pistola puntata alla testa. Era anziano. Il Lupo? Lo avevano catturato? Il poliziotto con la pistola sorrideva come se avesse messo a segno un colpo grosso. L'incursione si stava svolgendo in modo davvero rapido ed efficiente.

Di colpo le immagini cessarono. Aspettammo. Le telecamere sul posto erano state spente. Aspettammo ancora un po'.

Alla fine, verso le tre del pomeriggio, un colonnello dell'esercito si presentò nella sala affollatissima dell'unità di crisi. Tutte le sedie erano occupate e non c'era più posto nemmeno in piedi. La tensione era altissima.

Il colonnello esordì: «Abbiamo identificato i prigionieri vivi. Un iraniano, un saudita, un marocchino, due egiziani. Una cellula. Al-Qaeda. Sappiamo chi sono. Dubitiamo che uno di loro sia il Lupo. Dubitiamo anche che abbiano a che fare con la minaccia di attentati a Parigi. Mi dispiace dovervi dare questa cattiva notizia così tardi. Abbiamo fatto del nostro meglio, ma il Lupo resta un passo avanti a noi. Mi dispiace».

87

La terribile scadenza «definitiva» era ormai vicinissima, ma nessuno sapeva che cosa sarebbe successo e non avevamo più speranza di riuscire a fermare il Lupo.

Alle sei meno un quarto mi ritrovai davanti agli alti cancelli di ferro del Ministère de l'Intérieur. Molti uomini e donne con l'aria grave scendevano da macchine scure e si avviavano a passo svelto verso la sala dove era in programma una riunione con la DGSE, che è l'equivalente francese della CIA. Davanti a quei cancelli enormi, sembravamo tutti piccolissimi e insignificanti, come supplici che entrano in una cattedrale. O, perlomeno, io mi sentivo piccolo, insignificante e alla mercé di forze più grandi di me. Non solo di Dio.

Oltre i cancelli c'era un grande cortile acciottolato che un tempo doveva essere stato attraversato da carrozze e cavalli. Dove ci aveva portato il progresso? Non mi sembrava che il mondo di oggi andasse tanto meglio, in fondo.

Insieme con altri funzionari di polizia, ministri e dirigenti entrai in un atrio sontuoso, con un pavimento di piastrelle marezzate bianche e rosa. Lungo lo scalone erano allineate guardie armate. Quasi nessuno parlava: salendo si sentiva solo il rumore dei nostri passi e ogni tanto qualche colpo di tosse nervosa. Nel giro di un quarto d'ora Parigi, Londra, Washington e Tel Aviv rischiavano di venire devastate da esplosioni che avrebbero causato migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti.

E il responsabile di tutto questo sarebbe un gangster russo misteriosamente legato ad al-Qaeda? Noi siamo in balia di questo pazzo? Che strano... Incredibile.

La riunione era stata indetta nella Salle des Fêtes. Per l'ennesima volta mi ritrovai a chiedermi perché fossi lì. Rappresentavo gli Stati Uniti, mandato dall'FBI, perché con la mia esperienza di psicologo e detective forse avrei potuto dare una mano a catturare il Lupo, che tanto tempo prima a Parigi doveva aver avuto un'esperienza particolarmente traumatica. Qualcosa che non eravamo ancora riusciti a scoprire.

Nella sala erano stati sistemati dei tavoli disposti a ferro di cavallo e coperti di semplice stoffa bianca. Su alcuni cavalletti erano esposte carte geografiche laminate dell'Europa, del Medio Oriente e degli Stati Uniti. Le zone prese di mira dal Lupo erano state circolettate di rosso con un pennarello. Un metodo rudimentale, ma efficace.

C'erano anche una quindicina di schermi televisivi accesi e un sofisticato impianto per teleconferenze. C'erano più uomini in giacca grigia o blu del solito, più pezzi grossi, più rappresentanti ufficiali del potere. Non so perché notai che parecchi portavano occhiali al titanio: sempre all'ultima moda, i francesi!

Sugli schermi montati alle pareti scorrevano immagini trasmesse in diretta da Londra, Washington, Parigi e Tel Aviv. Le città erano semideserte, silenziose. In giro si vedevano persino pochi militari e poliziotti. Etienne Marteau venne a sedersi vicino a me. Martin Lodge era già tornato a Londra.

«Secondo lei, quante chance abbiamo qui a Parigi, realisticamente, Alex?» mi chiese Etienne.

«Etienne, non so che cosa stia succedendo. Non lo sa nessuno. Forse stamattina abbiamo fermato la principale cellula terroristica. Penso che tutto quello che è successo finora sia stato pianificato con cura. Il Lupo voleva metterci in difficoltà. Deve essergli successo qualcosa qui a Parigi, ma ancora non sappiamo che cosa. Cosa posso dire? Ormai è troppo tardi. Ce l'abbiamo in quel posto.»

Di colpo Etienne si raddrizzò sulla sedia. «Oh mio Dio, c'è il presidente Debauney.»

88

Il presidente francese, Aramis Debauney, era un uomo tra i cinquanta e i sessanta ed era molto ben vestito per l'occasione, molto formale. Aveva un fisico asciutto, capelli grigi lisciati all'indietro, baffi sottili e occhiali dalla montatura di metallo. Pareva piuttosto calmo e controllato. Entrò a passo svelto e cominciò subito a parlare. Nel silenzio si sarebbe sentita volare una mosca.

«Come sapete, sono stato in prima linea nelle forze dell'ordine per molti anni anch'io. Per questo ho voluto parlarvi in questo momento. Voglio passare con voi i pochi minuti che mancano allo scadere dell'ultimatum. Ho alcune notizie da comunicarvi. La somma del riscatto è stata raccolta. A Parigi, a Londra e Washington. E anche a Tel Aviv, con l'aiuto di molti amici di Israele sparsi in tutto il mondo. L'importo verrà versato fra tre minuti e mezzo, circa cinque minuti prima dell'ora stabilita. Vorrei ringraziare tutti coloro che sono presenti in questa sala e coloro che essi rappresentano per le innumerevoli ore di lavoro indefesso, per i sacrifici personali che non andrebbero mai chiesti a nessuno, per lo sforzo eroico e l'incredibile coraggio. Abbiamo fatto il possibile. Ma la cosa più importante è che sopravvivremo alla crisi e prima o poi arresteremo questi criminali disumani, tutti, dal primo all'ultimo! Prenderemo anche il più disumano, il fantomatico Lupo.»

Alle spalle del presidente c'era un orologio dorato in stile impero che tutti guardavano intensamente. Come avremmo potuto ignorarlo?

Alle 17:55, ora di Parigi, il presidente Debauney disse: «Il denaro viene trasferito in questo momento. È questione di secondi... Ecco fatto. La transazione è stata completata. Andrà tutto bene. Congratulazioni a tutti voi. E ancora grazie».

Nella grande sala si levò un sospiro di sollievo collettivo, ci furono sorrisi, strette di mano, qualche abbraccio.

Poi, per un riflesso quasi condizionato, ricominciammo ad aspettare.

Che il Lupo si mettesse in contatto.

Che arrivassero notizie dalle altre città coinvolte: Washington, Londra, Tel Aviv.

Gli ultimi sessanta secondi prima dello scadere dell'ultimatum furono incredibilmente drammatici e carichi di tensione, nonostante il riscatto fosse stato pagato. Non potei fare a meno di seguire con il fiato sospeso la lancetta dei secondi. Dissi addirittura una preghiera per la mia famiglia, per gli abitanti delle quattro città, per il mondo in cui viviamo.

Scoccarono le diciotto a Parigi, le diciassette a Londra, le dodici a Washington, le diciannove a Tel Aviv.

L'ora X era passata. Ma che cosa voleva dire? Eravamo davvero al sicuro?

Non ci furono cambiamenti degni di nota sugli schermi che trasmettevano in diretta, nulla di anomalo, nessuna esplosione. Nulla.

E nessuna telefonata da parte del Lupo.

Passarono altri due minuti.

Dieci minuti.

Poi un'esplosione spaventosa fece tremare la sala, e tutto il mondo.

PARTE QUINTA

Liberaci dal male

89

La bomba, o le bombe, non nucleari ma abbastanza potenti da provocare danni ingentissimi, esplosero nel primo arrondissement, vicino al Louvre. L'intera zona, un dedalo di vicoli e strade senza uscita, fu praticamente rasa al suolo. Quasi mille persone morirono sul colpo, o nell'arco di pochi secondi. Il boato e le vibrazioni furono sentiti in tutta Parigi.

Il Louvre subì solo lievi danni, ma i tre isolati di rue de Marengo, rue de l'Oratoire e rue Bailleul andarono quasi completamente distrutti. Anche un piccolo ponte nelle vicinanze crollò.

Un altro ponte. Questa volta sulla Senna, a Parigi.

Dal Lupo non giunse neppure una parola di spiegazione, né per rivendicare l'attentato né per smentirlo.

Ma perché avrebbe dovuto dare spiegazioni, in fondo? Quell'uomo era convinto di essere Dio in terra.

Ci sono persone estremamente arroganti all'interno del governo degli Stati Uniti e nei media nazionali, che sono convinte di poter prevedere esattamente ciò che accadrà in futuro solo perché sanno, o credono di sapere, che cosa è accaduto in passato. Immagino che lo stesso valga per Parigi, Londra, Tel Aviv e tutto il resto del mondo. Dappertutto ci sono persone fondamentalmente intelligenti, magari anche ben intenzionate, che dichiarano: «Non può succedere». Oppure: «Nella realtà, succederebbe questo e quest'altro». Come se lo sapessero veramente. Invece non lo sanno. Nessuno sa nulla.

Al giorno d'oggi non ci sono più certezze. Tutto può succedere e, prima o poi, molto probabilmente succederà. La specie umana non sembra avviata a diventare più saggia ma, se mai, più folle ancora. E più pericolosa. Incredibilmente, intollerabilmente pericolosa.

Ma forse era solo il mio umore a dettarmi quelle considerazioni durante il volo di ritorno. A Parigi era successa una tragedia terribile, spaventosa. Il Lupo aveva vinto, ammesso che il suo folle gesto potesse essere considerato una vittoria. E non aveva fatto nemmeno troppa fatica.

Un mafioso russo cui il potere aveva dato alla testa aveva adottato le tattiche dei terroristi ed era molto più in gamba di noi: più organizzato, più astuto e più brutale. Non riuscivo nemmeno a ricordare l'ultima volta in cui avevamo messo a segno una vittoria nella battaglia contro il Lupo e le sue forze. Era più furbo di noi. Mi auguravo soltanto che adesso fosse tutto finito. Forse, invece, quella che stavamo vivendo era la classica calma prima della tempesta. Non volevo nemmeno pensarci.

Arrivai a casa poco prima delle tre, il giovedì pomeriggio. I ragazzi erano tornati in Fifth Street, dove Nana era rimasta tutto il tempo. Annunciai che quella sera avrei cucinato io. Preparare una buona cenetta, parlare con Nana e i ragazzi di quello che ci passava per la testa era quello che mi ci voleva. Avevo bisogno di farmi coccolare un po', senza pensare all'attentato di Parigi, al Lupo o al lavoro.

Così preparai una mia libera interpretazione di una cena francese, parlando francese con Damon e Jannie mentre cucinavo. Jannie apparecchiò la tavola con una tovaglia di pizzo che usavamo soltanto nelle occasioni speciali, tovaglioli di stoffa e posate d'argento. Il menu prevedeva langoustines rôties avec brunoise de papaye, poivrons et oignons doux, cioè scampi con papaia, peperoni e cipolle come antipasto, seguiti da pollo in casseruola con salsa al vino rosso, il tutto accompagnato da un delizioso Minervois. Mangiammo con entusiasmo.

Come dessert, però, gustammo brownies e gelato: ero tornato in America.

Grazie a Dio, ero a casa.

90

Ero a casa, ero a casa.

L'indomani non andai a lavorare e i ragazzi non andarono a scuola. Questo parve soddisfare le esigenze di tutti, compresa Nana, che ci incoraggiò a restare a casa. Telefonai un paio di volte a Jamilla e, come sempre, parlare con lei mi fece bene, anche se c'era qualcosa che non funzionava più tra noi.

Per festeggiare la giornata di inaspettata vacanza, portai i ragazzi nel Maryland, a St. Michaels, una vivace cittadina sulla baia di Chesapeake dove si respira ancora l'atmosfera tipica dei villaggi di pescatori di un tempo. C'erano un porticciolo e un paio di alberghetti con sedie a dondolo sulla veranda e persino un faro. Al Chesapeake Bay Maritime Museum potemmo ammirare veri maestri d'ascia impegnati nel restauro di uno skipjack, la tradizionale imbarcazione a vela del Maryland per la pesca delle ostriche. Sembrava di essere tornati nell'Ottocento: non una cattiva idea, in fondo.

Pranzammo al Crab Claw Restaurant e poi ci imbarcammo su un vero skipjack per una breve escursione. Nana aveva portato molte volte i suoi scolari in gita a St. Michaels, ma quel giorno era rimasta a Washington sostenendo di aver troppo da fare in casa. Mi augurai che stesse bene e, siccome ricordavo le cose che spiegava ai suoi alunni durante quelle gite, mi sostituii a lei nei panni di guida turistica.

«Jannie e Damon, questa è l'ultima flotta di barche a vela da lavoro ancora in attività nel Nord America. Ci credereste? Queste barche non hanno verricelli. Si usano solo paranchi, rinvii e forza di muscoli», spiegai loro, come faceva un tempo Nana alle sue classi.

Poi il Mary Merchant salpò per una crociera di due ore e mezzo nel passato.

Il comandante e il suo secondo ci mostrarono come si issa una vela con un paranco e ben presto trovammo il vento, che ci portò con il ritmico sciabordio delle onde contro lo scafo. Fu un pomeriggio favoloso. Ammirammo l'albero maestro alto diciotto metri, ricavato da un unico tronco fatto venire appositamente dall'Oregon, fra l'odore di salmastro, olio di semi di lino e ostriche. Mi godetti la vicinanza dei miei due figli maggiori, che mi guardavano con occhi sempre pieni di fiducia e di amore. Sempre, o quasi.

Passammo davanti a pinete, campi aperti dove i contadini coltivavano mais e soia e a grandi ville bianche che un tempo erano state case padronali delle piantagioni. Mi sembrava quasi di essere tornato in un altro secolo. Avevo proprio bisogno di una giornata di totale riposo e relax. Solo una o due volte mi ritrovai a pensare al lavoro, ma subito mi ripresi.

Ascoltavo con un orecchio solo il comandante che spiegava che la pesca delle ostriche è permessa «solo alle barche a vela» tranne due giorni alla settimana, in cui anche i pescherecci a motore sono autorizzati a pescare nella baia. Immaginai che si trattasse di un oculato provvedimento per costringere i pescatori a faticare di più e proteggere le risorse naturali.

Che bella giornata! Lo skipjack si inclinò a dritta, il boma si spostò sottovento, la randa e il genoa si gonfiarono con uno schiocco e Jannie, Damon e io ci ritrovammo davanti il sole che stava per tramontare. Ci rendemmo conto, almeno per un attimo, che forse era così che bisognava vivere e che momenti come quelli andavano apprezzati e ricordati con gratitudine.

«È stata la giornata più bella della mia vita», dichiarò Jannie. «Non esagero neanche tanto.»

«Anche per me», dissi. «E non esagero affatto.»

91

Quando rientrammo alla base, quella sera, vidi un furgoncino bianco piuttosto malandato fermo davanti a casa. Riconobbi subito il logo verde sulla portiera: HOMECARE HEALTH PROJECT - ASSISTENZA SANITARIA DOMICILIARE. Come mai? Che cosa faceva lì la dottoressa Coles?

Fui assalito dal terrore che mentre io ero fuori con i ragazzi Nana si fosse sentita male. Ultimamente la sua salute cagionevole mi preoccupava sempre di più. La verità era che aveva passato da un po' gli ottanta, anche se si rifiutava di dire quanti anni aveva esattamente o, meglio, mentiva sull'età. Scesi di corsa dalla macchina ed entrai in casa precedendo di qualche passo i ragazzi.

«Sono qui con Kayla», gridò Nana mentre aprivo la porta e Damon e Jannie si infilavano in casa di corsa passandomi accanto uno da una parte e l'altro dall'altra. «Ci stiamo prendendo cinque minuti di relax, Alex. Non preoccuparti. Fai con calma.»

«Perché? Chi è preoccupato?» risposi rallentando. Entrai in salotto e le vidi che si prendevano «cinque minuti di relax» sul divano.

«Tu eri preoccupato, Mister Ansia. Hai visto il furgone dell'assistenza sanitaria fuori e che cos'hai pensato? Tragedia!» disse Nana.

Rise di cuore, insieme con Kayla, e anch'io non potei fare a meno di sorridere, ma di me stesso. Protestai poco convinto: «Niente affatto».

«Allora perché sei corso in casa come se avessi il diavolo alle calcagna? Su, lascia perdere, Alex!» mi prese in giro Nana ridendo.

Poi agitò una mano come per scacciare tutti i pensieri negativi e disse: «Vieni. Siediti un momento qui con noi. Hai tempo? Raccontami tutto. Com'è andata a St. Michaels? È cambiata molto?»

«Oh, credo che sia ancora esattamente com'era cent'anni fa.»

«E questo è un bene», commentò Nana. «Ringraziamo il Cielo.»

Mi avvicinai al divano e salutai Kayla con un bacio su una guancia. Aveva aiutato molto Nana quando era stata malata tempo prima e adesso passava a trovarla regolarmente. In realtà ci conoscevamo sin da quando eravamo piccoli. Era andata a studiare fuori e, quando era tornata nel quartiere in cui eravamo cresciuti, si era resa utile. Lo Homecare Health Project assicurava assistenza medica domiciliare ai malati nel Southeast. Kayla lo aveva lanciato e lo teneva in funzione con grandissimo impegno, sia come medico sia occupandosi praticamente da sola della raccolta fondi.

«Ti trovo in splendida forma», le dissi d'impulso.

«Sì, ho perso qualche chilo, Alex», rispose inarcando un sopracciglio. «A furia di correre di qua e di là, anche se faccio di tutto per ingrassare un po', non c'è niente da fare: dimagrisco.»

Me n'ero accorto. Kayla è quasi uno e ottanta, ma non l'avevo mai vista così snella, così in forma, nemmeno da ragazza. Ha sempre avuto un viso dolce e sorridente, e un bellissimo carattere.

«È un modo per dare il buon esempio alla gente del quartiere», continuò. «Ci sono troppe persone sovrappeso o addirittura obese, anche giovani. Penso che sia ereditario.» Scoppiò a ridere. «E poi devo ammettere che è stato un bene per la mia vita sociale, il mio modo di vedere le cose, come lo vogliamo chiamare. Comunque sia.»

«Per me, sei ancora molto bella», dissi senza volere, goffamente.

Kayla alzò gli occhi al cielo e disse a Nana: «È così bravo a mentire. Gli riesce proprio bene». E tutte e due scoppiarono di nuovo a ridere.

«Comunque sia, grazie del complimento, Alex», riprese Kayla. «Lo prenderò per quello che vale. Non lo considererò nemmeno troppo paternalista, non so se mi spiego.»

Decisi che era meglio cambiare argomento. «Allora Nana sta bene e camperà fino a cent'anni?»

«Direi proprio di sì», rispose Kayla.

Ma Nana si rabbuiò e disse: «Perché vuoi sbarazzarti di me così presto? Che cos'ho fatto per meritarmi un simile trattamento?»

Risi. «Forse sarà perché mi rompi sempre le scatole. Lo sai, vero?»

«Certo che lo so», ribatté Nana. «È il mio compito in questa vita. Tormentare te è la mia ragion d'essere. Non l'avevi ancora capito?»

Con quello scambio di battute ebbi finalmente la sensazione di essere davvero a casa, di essere tornato definitivamente dalla guerra. Portai Kayla e Nana nella veranda e suonai per loro Un americano a Parigi. Anch'io ero stato un americano a Parigi fino a pochi giorni prima, ma per fortuna ero tornato.

Verso le undici mi alzai per accompagnare Kayla al suo furgone. Sulla porta ci fermammo a parlare ancora un po'.

«Grazie di essere passata a trovarla», dissi.

«Non occorre che mi ringrazi. Lo faccio volentieri, perché sono affezionata a tua nonna. Le voglio un gran bene. È una maestra di vita per me, una guida, lo è stata per anni.»

Poi si sporse velocemente verso di me e mi baciò, soffermandosi per qualche secondo. Quando si staccò da me, rideva. «Era un sacco di tempo che volevo farlo.»

«E adesso?» chiesi, a dir poco sorpreso da quel gesto.

«Adesso sono contenta di averlo fatto. È stato interessante.»

«Interessante?»

«Ora devo andare. Devo scappare.»

Pudendo tra sé, Kayla corse verso il suo furgone.

Interessante.

92

Dopo quella meritata pausa di riposo tornai a lavorare e appresi che ero ancora ufficialmente assegnato alle indagini sullo stesso caso di estorsione e terrorismo. A quanto pareva, adesso erano volte a individuare e catturare i responsabili e, soprattutto, a recuperare il denaro. Mi dissero che ero stato scelto per la mia implacabilità.

In un certo senso ero contento che la storia non fosse finita. Ero ancora in contatto con numerosi colleghi con cui avevo collaborato per quel caso: Martin Lodge in Inghilterra, Sandy Greenberg dell'Interpol, Etienne Marteau a Parigi e altri funzionari di polizia e agenti segreti di Tel Aviv e Francoforte. Tutti coloro con cui parlai stavano seguendo diverse piste, ma nessuno aveva scoperto niente di importante. O anche solo di interessante.

Il Lupo, o forse al-Qaeda o qualche altro assassino efferato e geniale, adesso aveva qualche miliardo di dollari in saccoccia. Una parte del centro di Parigi era stata completamente rasa al suolo. Cinquantasette prigionieri politici erano di nuovo a piede libero. Non poteva non essere stato commesso neanche un errore, una piccola svista: doveva esserci un modo per arrestare il colpevole, o almeno per scoprire chi era.

Il secondo giorno, lavorando con Monnie Donnelley, trovai una pista cartacea che mi parve valesse la pena approfondire. Così presi la macchina e andai fino a Lexington, in Virginia. Arrivai davanti a una moderna casa a due piani in una strada isolata che si chiamava Red Hawk Lane. Nel vialetto era parcheggiato un Dodge Durango e in un recinto poco lontano c'erano due cavalli al pascolo.

L'ex agente della CIA Joe Cahill mi venne ad aprire sorridente come lo ricordavo dalle riunioni congiunte di CIA e FBI riguardo al Lupo. Al telefono mi aveva dato la massima disponibilità a collaborare alle indagini. Mi fece accomodare nel soggiorno, dove ci aspettavano caffè e una torta comperata. Le finestre davano su un pascolo in lontananza, un laghetto e, all'orizzonte, le Blue Ridge Mountains.

«Immagino avrai capito che ho nostalgia dei tempi in cui lavoravo ancora», esordì Joe. «Di certi, perlomeno. Dopo un po' anche la caccia e la pesca ti stufano. Tu vai a pesca, Alex? A caccia?»

«Ho portato i ragazzi a pescare, qualche volta», dissi. «E vado un po' a caccia, sì. Al momento più che altro spero di prendere il Lupo. Ma ho bisogno del tuo aiuto, Joe. Vorrei rivedere con te alcune vecchie informazioni. Qualcosa dovrà pur saltare fuori.»

93

«Ho capito, vuoi parlare di nuovo di lui. Come abbiamo fatto a far uscire il Lupo dalla Russia? Cosa è successo quando è arrivato in America? Come è riuscito a scomparire? È una storia triste ma ben documentata, Alex. Hai letto i dossier, lo so. È stata quasi la fine della mia carriera.»

«Joe, mi sembra impossibile che nessuno sappia chi è, che faccia ha o come si chiama veramente. È un anno che indago e non riesco a scoprire niente: com'è possibile? Come abbiamo potuto collaborare con gli inglesi per portar via un personaggio tanto importante al KGB e adesso non sapere nemmeno come si chiama? So che a Parigi successe qualcosa. Una cosa grave, presumo, di cui però nessuno sembra saper niente. Non mi pare possibile, Joe. Mi sfugge qualcosa? Che cosa ci sta sfuggendo? Che cosa nessuno riesce a vedere?»

Joe Cahill allargò le braccia mostrandomi i palmi callosi delle mani. «Senti, ovviamente nemmeno io so tutta la storia. Mi risulta però che quando era in Russia lavorasse per noi sotto copertura e che fosse molto astuto e molto giovane, per cui adesso dovrebbe essere sulla quarantina. Ma ho letto anche rapporti secondo cui avrebbe cinquant'anni suonati, o addirittura più di sessanta. Pare fosse piuttosto in alto nella gerarchia del KGB, quando disertò. Ho sentito dire anche che sarebbe una donna. Secondo me sono voci che sparge lui stesso. Ci scommetterei.»

«Joe, il Lupo faceva riferimento a te e al tuo collega, quando arrivò in America.»

«Il nostro capo era Tom Weir, che non era ancora direttore. Per la precisione, la nostra squadra comprendeva anche altri tre agenti: Maddock, Boykin e Graebner. Forse dovresti parlare con loro.»

Cahill si alzò dalla poltrona e andò ad aprire la portafinestra che dava su un patio lastricato. Nella stanza entrò una piacevole brezza fresca.

«Non l'ho mai incontrato di persona, Alex. Né io né il mio collega Corky Hancock. E il resto della squadra - Jay, Sam, Clark - nemmeno. Fu deciso così fin dall'inizio. Erano le condizioni che il Lupo pattuì quando venne via dalla Russia: si impegnò ad aiutarci ad abbattere il vecchio KGB, a farci dei nomi sia là che qui, ma a condizione che nessuno lo vedesse in faccia. Credimi, ci procurò nomi e informazioni che contribuirono non poco al crollo dell'impero del male.»

Annuii. «Okay, è un uomo di parola. Ma adesso ha messo su una sua rete criminale, e non solo. Ed è uccel di bosco.»

Cahill mangiò un pezzo di torta e, con la bocca piena, rispose: «Sì, pare proprio che sia così. Ma noi non potevamo sapere che sarebbe finita a questo modo e gli inglesi nemmeno. Forse lo sapeva Tom Weir. Non so».

Avevo bisogno di prendere una boccata d'aria. Mi alzai e andai verso la finestra. Due cavalli camminavano rasente uno steccato di legno bianco all'ombra delle querce. Mi voltai a guardare in faccia Joe Cahill.

«Okay, allora per quanto riguarda il Lupo non puoi aiutarmi. In che cosa mi puoi aiutare, Joe?»

Cahill aggrottò la fronte, confuso. «Mi dispiace, Alex, non posso far molto. Sono un vecchio cavallo da tiro, non sono più buono a niente. La torta almeno è discreta, no?»

Scossi la testa. «Insomma. Le torte comperate non sono mai come quelle fatte in casa.»

Cahill fece una faccia triste. Poi sorrise, ma lo sguardo rimase serio. «Dai, parliamoci chiaro: perché sei venuto a trovarmi? Che cosa vuoi da me? Volevi soltanto confidarti con lo zio Joe? Non capisco. Cosa c'è? Ho la sensazione che tu mi stia usando.»

Tornai dentro la stanza. «Sono venuto per via del Lupo, Joe. Perché ho la netta sensazione che tu e il tuo ex collega possiate aiutarci molto, anche se non lo avete mai incontrato di persona. Ammesso e non concesso che sia vero.»