II
PREMESSE TEORICHE

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Fin qui abbiamo esposto una serie di delucidazioni storiche. È ora il tempo di fare un bilancio e addentrarci nell’essenza della questione, anche se l’autore rinvia a un altro libro l’esame dei problemi connessi all’analisi dello spazio nelle opere dell’arte figurativa.

Gli storici della pittura, dunque, ma anche i teorici delle arti figurative, cercano, o per lo meno cercavano ancora fino a poco tempo fa, di convincere il loro pubblico che la raffigurazione prospettica del mondo sia l’unica corretta, in quanto sarebbe l’unica corrispondente a una percezione autentica, dato che la percezione naturale sarebbe appunto quella prospettica. Se si accetta una simile premessa, lo scostamento dall’unità prospettica verrà sempre considerato un tradimento della verità della percezione, cioè una deformazione della realtà stessa, dovuta vuoi all’incompetenza grafica dell’artista, vuoi al desiderio di adattare il disegno a un qualche obiettivo cosciente: ornamentale, scenografico o, nel migliore dei casi, compositivo. In un caso o nell’altro, nel tipo di giudizio appena descritto, lo scostamento dalle norme dell’unità prospettica viene visto come una forma di irrealismo.

Va però notato che sia la parola sia il concetto di realtà sono troppo importanti perché i fautori dell’una o dell’altra concezione del mondo restino indifferenti di fronte alla possibilità che la realtà cessi di essere dalla loro e passi invece ai loro avversari. E, prima di fare una simile concessione, occorre valutare bene se essa sia proprio inevitabile. E lo stesso vale per la parola naturale. A chi non farebbe piacere vedere la propria posizione considerata reale e naturale, cioè come qualcosa che deriva, senza alcuna ingerenza intenzionale, dalla realtà stessa? I sostenitori della concezione rinascimentale della vita, dopo aver sottratto al platonismo e ai suoi eredi medioevali queste parole preziose, le hanno fatte proprie, usandone e abusandone. Ma a nostro avviso non è questo un motivo sufficiente per lasciare i valori della lingua in bocca a quanti ne abusano: la realtà e la naturalità vanno mostrate nei fatti e non basta avanzare nei loro confronti delle vuote pretese. Il nostro compito è quello di restituire queste parole ai discendenti dei loro legittimi detentori.

Come abbiamo precedentemente spiegato, per disegnare e dipingere «in maniera naturale», cioè secondo le leggi della prospettiva, bisogna imparare a farlo, e questo vale per interi popoli e per intere culture, esattamente come vale, ogni volta da capo, per le singole persone. Un bambino non disegna secondo le leggi della prospettiva; e non disegna secondo le leggi della prospettiva neppure un adulto che prenda in mano una matita per la prima volta, per lo meno finché non viene addestrato a farlo in base a modelli ben precisi. Ma anche chi ha studiato, e persino chi ha studiato molto, cade facilmente in errore o, per essere più esatti, con la sincerità che viene dalla spontaneità, qua e là accantona le rigide convenzioni dell’unità prospettica. In particolare, saranno ben pochi quelli che si metteranno a disegnare una sfera con un contorno ellittico, o un colonnato, parallelo al piano del quadro, con le colonne che si allargano progressivamente, benché sia proprio questo che esige una proiezione prospettica.68 È forse così raro il caso di grandi artisti accusati di aver commesso errori di prospettiva? Errori di questo tipo sono sempre possibili, in particolare quando si tratta di disegni complessi dal punto di vista compositivo, e di fatto possono essere evitati solo quando il disegno viene sostituito da un disegno tecnico nel quale siano tracciate linee di riferimento ausiliarie. Ma allora il disegnatore rappresenta non ciò che vede fuori di sé o dentro di sé – delle figure immaginate e tuttavia presenti, e non soltanto astrattamente concepite –, ma ciò che esige il calcolo delle costruzioni geometriche, che, secondo il parere di questo disegnatore (basato su una concezione troppo ristretta della geometria), è un calcolo naturale e, quindi, anche l’unico tipo di calcolo ammissibile. Ma si possono davvero definire naturali dei procedimenti figurativi che, senza le stampelle del disegno geometrico, non riesce pienamente a padroneggiare neppure chi su di essi, per lunghi anni e con grande rigore, ha cercato di plasmare il proprio occhio e la propria concezione del mondo? E, in questo senso, gli errori di prospettiva non stanno forse a indicare, più che la debolezza dell’artista, la sua stessa forza, la forza della sua autentica percezione che sa infrangere le pastoie della pressione sociale? In effetti l’apprendimento delle leggi della prospettiva è davvero una sorta di indottrinamento. Persino quando chi inizia a disegnare si sforza volontariamente di assoggettare il proprio disegno a queste leggi, ciò non sempre significa che egli ne abbia capito il senso, cioè che abbia capito il senso artistico-figurativo delle esigenze della prospettiva: ripensando ai tempi della loro infanzia, molti non ricorderanno forse che il carattere prospettico del disegno appariva come una convenzione incomprensibile, pur essendo imposta a tutti per un motivo misterioso, come un usus tyrannus69 al quale ci si sottomette non certo in forza della sua verità intrinseca, ma perché

così fan tutti.70

Una convenzione incomprensibile, e spesso assurda: ecco come la prospettiva viene percepita da un bambino. «A voi guardare un quadro e capirne la prospettiva sembra una sciocchezza» dice Ernst Mach. E tuttavia sono passati millenni prima che l’umanità imparasse questa sciocchezza, e molti di noi ci sono arrivati solo sotto l’influenza dell’educazione. «Mi ricordo bene» continua Mach «che quando avevo circa tre anni i disegni che seguivano le leggi della prospettiva mi sembravano raffigurazioni di oggetti maldestre. Non riuscivo a capire perché il pittore raffigurasse un tavolo facendolo così largo da una parte e così stretto dall’altra. Il tavolo reale mi sembrava ugualmente largo sia all’estremità più lontana che a quella più vicina, perché il mio occhio faceva i propri calcoli indipendentemente da me. Che non si potesse guardare la raffigurazione di un tavolo su una superficie come una semplice superficie ricoperta di colore, che essa stesse a indicare un tavolo e dovesse essere rappresentata come qualcosa che si prolungava in profondità, mi sembrava una sciocchezza che proprio non riuscivo a capire. E mi consola l’idea che ci siano interi popoli che non l’hanno capita».71

Questa è la testimonianza del più positivista dei positivisti, di uno che, a quanto mi risulta, non può certo essere sospettato della benché minima simpatia per la «mistica».

In tal senso, tutta la questione sta nel fatto che la raffigurazione di un oggetto, in quanto raffigurazione, è ben lungi dall’essere anch’essa un oggetto, non è una copia della cosa, non duplica un angolino di mondo, ma rimanda all’originale come suo simbolo. Il naturalismo inteso come verosimiglianza esteriore, come imitazione della realtà, come fabbricazione di doppioni delle cose, come fantasma del mondo, non solo non è necessario, come diceva Goethe a proposito del suo amato cagnolino e della sua raffigurazione, ma è anche semplicemente impossibile. La verosimiglianza prospettica, se esiste e se, nel complesso, è a tutti gli effetti verosimigliante, è tale non per una somiglianza esteriore, ma per uno scostamento da essa, cioè per il suo significato interiore, nella misura in cui essa è simbolica. E del resto, nel caso di un tavolo e della sua rappresentazione prospettica, tanto per fare un esempio, di quale «somiglianza» si può mai parlare se margini evidentemente paralleli vengono raffigurati con linee convergenti, angoli retti con angoli acuti e ottusi, segmenti e angoli uguali fra loro con segmenti e angoli diversi, e grandezze diverse con grandezze uguali? La raffigurazione è sempre un simbolo, ogni raffigurazione, quale che essa sia, prospettica o non prospettica; e le immagini delle arti figurative si distinguono fra loro non per il fatto che alcune sarebbero simboliche e le altre, per così dire, naturalistiche, ma per il fatto che, essendo tutte identicamente non naturalistiche, sono simboli di diversi aspetti delle cose, di diverse concezioni del mondo, di diversi livelli di sintesi. I differenti modi di raffigurazione si distinguono gli uni dagli altri non come una cosa si distingue dalla sua raffigurazione, ma sul piano simbolico. Alcuni sono più grossolani, altri meno; alcuni sono più perfetti, altri meno; alcuni sono più universali, altri meno. Ma tutti hanno natura simbolica.

E il carattere prospettico delle raffigurazioni, a differenza di quanto crede il naturalismo volgare, non è affatto una proprietà intrinseca delle cose, ma è piuttosto un modo di espressione simbolica, uno dei possibili stili simbolici, il cui valore artistico dipende da un giudizio particolare, e proprio in quanto tale si pone al di là di parole inesorabili come quelle legate alla sua verosimiglianza o alla pretesa di un «realismo», per così dire, certificato. Discutendo quindi il problema della prospettiva, diretta o rovesciata, mono- o policentrica, è assolutamente necessario partire sin dall’inizio dalla funzione simbolica della pittura e delle altre arti figurative, così da poter capire quale posto occupa la prospettiva fra gli altri procedimenti simbolici, che cosa propriamente significa e a quali risultati spirituali conduce. La funzione della prospettiva (come di tutti gli altri mezzi artistici) può essere soltanto un determinato impulso spirituale, uno stimolo che desta l’attenzione nei confronti della realtà stessa. In altre parole, anche la prospettiva, se vale qualcosa, deve essere un linguaggio, testimone della realtà.

Che rapporto c’è tra la funzione simbolica della pittura e le premesse geometriche della sua possibilità? La pittura e le altre arti figurative dipendono necessariamente dalla geometria nella misura in cui hanno a che fare con immagini estese e simboli estesi. Ciò significa, ed è esattamente qui il nocciolo della questione, che il problema non è tanto se la prospettiva diretta sia accettabile a priori, sulla base del sin troppo facile sillogismo:

Se la geometria è esatta, la prospettiva è incontestabile.

LA GEOMETRIA È ESATTA.

Quindi la prospettiva è incontestabile.

Si tratta infatti di un sillogismo nel quale entrambe le premesse suscitano un milione di dubbi; e in questo senso il problema è piuttosto quali siano i limiti del suo utilizzo e le spiegazioni del suo funzionamento, rispetto a cui è assolutamente necessario stabilire le premesse geometriche della pittura, se vogliamo che la legittimità, il significato intrinseco e i limiti di applicazione di questo o quel procedimento e di questo o quel mezzo figurativo possano trovare terreno solido su cui fondarsi.

Rimandando un’analisi più approfondita a un libro specifico sulla questione, per adesso ci limiteremo alle seguenti osservazioni circa le premesse geometriche della pittura: il pittore ha a propria disposizione una certa porzione di spazio – tela, tavola, parete, carta, e via dicendo – e dei colori, ha cioè la possibilità di applicare diverse colorazioni a diversi punti di una data superficie. Questi colori, per quel che concerne la loro valenza, possono non avere un significato sensibile e devono essere intesi astrattamente; così, ad esempio, in un’incisione, il nero dell’inchiostro tipografico non viene inteso come colore nero, ma è soltanto il segno dell’energia dell’incisore o, al contrario, della sua assenza. Ma da un punto di vista psicofisiologico, cioè in quello che è il fondamento stesso della percezione estetica, esso è un colore. Per semplicità di ragionamento, possiamo immaginarci che ci sia un unico colore, il nero o la matita. L’obiettivo del pittore è quello di raffigurare, su una determinata superficie e con determinati colori, la realtà da lui percepita, o da lui immaginata come percepita.

Che cosa vuol dire dunque, da un punto di vista geometrico, raffigurare una certa realtà?

Significa mettere in corrispondenza i punti dello spazio percepito con i punti di un altro spazio, nel nostro caso una superficie. Ma la realtà è per lo meno tridimensionale – anche prescindendo dalla quarta dimensione, il tempo, senza la quale, per altro, l’arte è impossibile –, mentre la superficie è soltanto bidimensionale. È dunque possibile una simile corrispondenza? Si può proiettare un’immagine quadridimensionale o, per semplificare le cose, tridimensionale su una superficie bidimensionale? Ha quest’ultima un numero sufficiente di punti corrispondenti ai punti della prima? O, per esprimerci in termini matematici: la cardinalità di un’immagine tridimensionale e quella di una bidimensionale sono comparabili? La risposta che si affaccia subito alla mente è: «Ovviamente no». «Ovviamente no, perché in un’immagine tridimensionale c’è un insieme infinito di sezioni bidimensionali, e quindi la sua cardinalità è infinitamente più grande della cardinalità di ogni singola sezione». Ma un esame più attento del problema, per come si presenta nella teoria degli insiemi di punti, mostra che la questione non è così semplice come appare a prima vista e, più ancora, mostra che la risposta data, per quanto d’acchito sembri naturale, non può essere considerata corretta. Più precisamente: la cardinalità di qualsiasi immagine tri- o anche pluridimensionale è esattamente identica alla cardinalità di qualsiasi altra immagine bi- o anche unidimensionale. È dunque possibile rappresentare una realtà quadri- o tridimensionale su una superficie, ed è addirittura possibile farlo non solo su una superficie, ma anche su qualsiasi segmento di linea retta o di curva. Inoltre questa proiezione può essere fissata da un insieme infinito di corrispondenze, aritmetiche, analitiche e persino geometriche. Come modello del primo tipo di proiezione si può pensare al procedimento di Georg Cantor, mentre come modello del secondo tipo di proiezione si può pensare alla curva di Peano o a quella di Hilbert.72

Per spiegare nel modo più semplice possibile la sostanza di queste ricerche e dei loro risultati inattesi, ci limiteremo al caso della raffigurazione di un quadrato, di cui si prenda un lato come unità di lunghezza, su un segmento rettilineo di lunghezza uguale al lato del quadrato in questione; prendiamo cioè il caso della raffigurazione di tutto un quadrato su uno dei suoi stessi lati: tutti gli altri casi potranno essere esaminati abbastanza facilmente prendendo questo come modello. Così, dunque, Georg Cantor ha illustrato il metodo analitico attraverso il quale si può stabilire la corrispondenza tra ogni punto del quadrato e ogni punto del suo lato: vale a dire che, se noi determiniamo con due coordinate x e y una posizione in un punto qualsiasi del quadrato, con un certo metodo standard potremo trovare anche la coordinata z che determina un certo punto sul lato del quadrato il quale costituisce la rappresentazione del suddetto punto del quadrato stesso; e al contrario, se viene indicato un punto qualsiasi sul segmento che è la rappresentazione del quadrato, allora si potrà trovare anche il punto del quadrato che è raffigurato dal suddetto punto. In questo modo, nessun punto del quadrato resterà senza proiezione e nessun punto della rappresentazione resterà vuoto e senza corrispondenza: il quadrato sarà proiettato sul proprio lato. Similmente un cubo, un ipercubo e qualsiasi forma geometrica a sezione quadrata (poliedroide, prismoide), quale che sia il numero delle sue dimensioni, foss’anche infinitamente grande, possono essere rappresentati sul lato di un quadrato o sul quadrato stesso. Per dirla in termini più generali: qualsiasi forma continua, di qualsiasi numero di dimensioni e con qualsiasi perimetro, può essere proiettata su qualsiasi altra forma, anch’essa di qualsiasi numero di dimensioni e con qualsiasi perimetro; in geometria si può proiettare ciò che si vuole su quel che si vuole.

D’altro canto, per tornare al nostro esempio iniziale, si possono costruire diverse curve geometriche tali che ogni curva attraversi un qualsiasi punto scelto a caso del quadrato, stabilendo così, da un punto di vista geometrico, una corrispondenza tra i punti del quadrato e i punti della curva; mettere poi in corrispondenza i punti di quest’ultima con i punti del lato del quadrato, in quanto spazi unidimensionali, è estremamente facile, e in questo modo i punti del quadrato saranno proiettati sul suo lato. La curva di Peano e la curva di Hilbert, rispetto alle infinite altre curve con le stesse proprietà (per esempio, la traiettoria di una palla da biliardo lanciata contro la sponda con un angolo incommensurabile a un angolo retto; le epicicloidi aperte, quando sono incommensurabili i raggi di entrambe le circonferenze; le curve di Lissajous; le generatrici, ecc. ecc.), hanno in più la sostanziale prerogativa di realizzare in modo pratico la corrispondenza dei punti di una figura bidimensionale con quelli di una figura unidimensionale, così da permettere di trovare facilmente i punti corrispondenti, mentre le altre curve possono stabilire questa corrispondenza solo in linea di principio, sicché trovare effettivamente quale punto corrisponda al tal altro risulta abbastanza difficile. Senza entrare nei particolari tecnici delle curve di Peano, di Hilbert e di altre, osserviamo soltanto che, con le sue sinuosità in forma di meandri, questo tipo di curva riempie tutta la superficie del quadrato, e ogni punto del quadrato, quale che sia il numero finale dei meandri della curva – meandri che si accumulano sistematicamente, cioè secondo un metodo standard ben preciso –, sarà inevitabilmente toccato dalle sinuosità della curva. Come si è spiegato più sopra, metodi analoghi sono utilizzati per proiettare ciò che si vuole su quel che si vuole.

Gli insiemi continui, dunque, sono tutti equipollenti fra loro. Ma, pur avendo uguale cardinalità, non hanno gli stessi numeri «razionali» o «ideali» nel senso inteso da Georg Cantor, non sono cioè «simili» fra loro. Detto in altre parole, non li si può proiettare l’uno sull’altro senza intaccarne la struttura. Stabilendone la corrispondenza, si viola o la continuità della figura rappresentata (quando si vuole rispettare la biunivocità tra ciò che viene rappresentato e la rappresentazione) o la biunivocità fra l’uno e l’altra (quando si conserva la continuità di ciò che viene rappresentato).

Con il metodo di Cantor la figura viene trasmessa punto per punto, così che a ogni punto della figura corrisponda un solo punto della rappresentazione e, viceversa, ogni punto di quest’ultima proietti un solo punto di ciò che viene rappresentato. In questo senso la corrispondenza di Cantor soddisfa l’idea corrente di rappresentazione. Ma per un’altra sua proprietà è estremamente lontana da essa: come tutte le altre corrispondenze biunivoche, non conserva i rapporti di contiguità tra i punti, non rispetta il loro ordine né le loro relazioni, cioè non può essere continua. Se ci muoviamo anche solo un poco all’interno del quadrato, la rappresentazione del percorso compiuto non può più essere continua, e il punto che lo rappresenta si sposterà lungo tutta la superficie della rappresentazione. L’impossibilità di stabilire, tra i punti di un quadrato e del suo lato, una corrispondenza73 che sia nello stesso tempo biunivoca e continua è stata dimostrata da Thomae, Netto e Georg Cantor, ma, in seguito ad alcune obiezioni avanzate da Lüroth nel 1878, è stata nuovamente dimostrata da Enno Jürgens.74 Quest’ultimo si fonda sul «teorema dei valori intermedi». «Siano i punti P di un quadrato e P′ di un segmento rettilineo corrispondenti l’uno all’altro; allora, a una certa linea AB del quadrato contenente il punto P deve corrispondere, sul segmento rettilineo, un segmento intero contenente il punto P′; di conseguenza, per la supposta univocità della corrispondenza degli altri punti del quadrato, a quelli di essi che si trovano in prossimità del punto P non può più corrispondere sulla linea alcun punto che sia vicino al punto P′: ne segue in maniera chiara ed evidente l’impossibilità di una proiezione univoca e continua tra i punti della linea e il quadrato». Questa è la dimostrazione di Jürgens. D’altra parte, la corrispondenza di Peano, di Hilbert, ecc., come è stato dimostrato da Lüroth, da Jürgens75 e da altri, non può essere biunivoca, così che un punto di una linea non sempre è rappresentato da uno e un solo punto di un quadrato, e per giunta questa corrispondenza non è neppure perfettamente continua. In altre parole, la rappresentazione di un quadrato su una linea, o di un volume su un piano, trasmette effettivamente tutti i punti, ma non è in grado di trasmettere come un tutto, come un oggetto intrinsecamente determinato nella sua struttura, la forma di ciò che viene rappresentato: viene trasmesso il contenuto di uno spazio, ma non la sua organizzazione. Per rappresentare un certo spazio con tutto il suo contenuto di punti è necessario, per parlare in linguaggio figurato, o ridurlo in una polvere infinitamente sottile e, dopo averlo accuratamente rimescolato, spargerlo sul piano della rappresentazione, in modo che della sua organizzazione originaria non resti neppure la memoria, oppure sezionarlo in un’infinità di strati, così che qualcosa della forma resti, ma disponendo poi questi strati, per un verso, con delle ripetizioni degli stessi elementi della forma e, per un altro, facendo penetrare reciprocamente questi elementi gli uni negli altri, in modo che ne risulti un’incarnazione di alcuni elementi della forma negli stessi punti della rappresentazione. Dietro le suddette considerazioni matematiche non è difficile vedere i «princìpi» del divisionismo, del complementarismo, e via dicendo, scoperti, a prescindere dalla matematica, dalle correnti di sinistra dell’arte – princìpi attraverso i quali l’arte di sinistra ha distrutto la forma e l’organizzazione dello spazio, sacrificandoli a tutto vantaggio del volume e della cosalità.

In sintesi: rappresentare uno spazio su un piano è possibile, ma non lo si può fare senza distruggere la forma di ciò che viene rappresentato. E invece è proprio la forma, e soltanto la forma, che interessa all’arte figurativa. E quindi, sia nei confronti della pittura, sia più in generale nei confronti dell’arte figurativa, per lo meno nella misura in cui aspira a produrre una copia della realtà, bisogna pronunciare un giudizio definitivo: il naturalismo è, una volta per tutte, impossibile.

Imbocchiamo così immediatamente la via del simbolismo e rinunciamo a tutto il contenuto di punti che si estende nelle tre dimensioni o, per così dire, al riempimento delle immagini della realtà. In un colpo solo rinunciamo all’essenza spaziale delle cose e – nella misura in cui il discorso verte intorno alla trasmissione punto per punto dello spazio – ci concentriamo esclusivamente sul loro involucro: d’ora in avanti, parlando delle cose, non intenderemo affatto le cose stesse, ma solo le superfici che delimitano certe regioni dello spazio. Nell’ottica del naturalismo, questo è ovviamente un tradimento radicale della parola d’ordine della verosimiglianza: alla realtà abbiamo sostituito la sua scorza, la quale ha un significato meramente simbolico, che allude soltanto allo spazio, ma che non è certo in grado di restituirlo immediatamente, punto per punto. Ora, è forse possibile rappresentare su un piano queste «cose» o, più precisamente, l’involucro delle cose? La risposta, affermativa o negativa, dipenderà da cosa si intende con la parola rappresentare. Si può stabilire una corrispondenza biunivoca tra i punti di un’immagine e i punti della sua rappresentazione, così che la continuità dell’una e dell’altra venga, generalmente parlando, conservata; ma questo vale appunto «generalmente parlando», cioè «per la maggioranza dei punti», e non è certo qui il luogo per scendere nei particolari circa l’esatto significato di tale espressione. Nonostante questa corrispondenza, comunque sia escogitata, alcune rotture e alcune violazioni della biunivocità della relazione, in determinati punti isolati o riuniti a formare degli insiemi continui, sono inevitabili. In altre parole, la concatenazione e la correlazione della maggioranza dei punti dell’immagine saranno conservate nella rappresentazione, ma ciò è ben lungi dal voler dire che tutte le proprietà di quanto viene rappresentato, o anche le sole proprietà geometriche, resteranno invariate nel caso di una sua trasposizione su un piano mediante un qualche tipo di corrispondenza. È vero che entrambi gli spazi, sia quello che viene rappresentato sia quello che rappresenta, sono bidimensionali, e da questo punto di vista sono simili tra loro; tuttavia la loro curvatura è differente, e nello spazio rappresentato non è neppure fissa, ma varia anzi da punto a punto; in questo senso, è impossibile sovrapporli, nemmeno raddrizzandone uno: un simile tentativo di sovrapposizione condurrebbe inevitabilmente a produrre rotture e pieghe in uno dei piani. Un guscio d’uovo, o anche soltanto un suo frammento, non può assolutamente essere steso sul piano di un tavolo di marmo: per far questo bisognerebbe deformarlo e sgretolarlo sino a ridurlo in una polvere finissima; per lo stesso motivo non si può rappresentare, nel senso esatto della parola, un uovo su un foglio di carta o su una tela.

La corrispondenza dei punti su spazi di diversa curvatura presuppone invariabilmente il sacrificio di alcune proprietà di ciò che viene rappresentato. Ovviamente, qui si tratta soltanto di proprietà geometriche, che vengono sacrificate per trasferirne altre nella rappresentazione: la totalità delle qualità geometriche di ciò che viene rappresentato non può in alcun modo essere presente nella rappresentazione, e la rappresentazione, essendo simile in qualcosa al proprio modello, se ne discosta inevitabilmente in molto altro. La rappresentazione è sempre più differente che simile all’originale. Anche il caso più semplice, la rappresentazione di una sfera su un piano, che è lo schema geometrico della cartografia, si rivela in realtà estremamente complesso e ha dato origine all’invenzione di molte decine di metodi diversissimi tra loro, sia in forma di proiezioni realizzate attraverso raggi rettilinei che partono da alcuni punti, sia rinunciando alla proiezione, attraverso costruzioni più complesse o basandosi su calcoli numerici. E tuttavia ciascuno di questi metodi, avendo lo scopo di trasferire sulla carta una certa proprietà del territorio considerato, con la sua rappresentazione grafica di oggetti geografici, finisce col dimenticarne e alterarne molte altre che non sono certo meno importanti. Ogni metodo è buono per un determinato scopo e cessa di essere tale qualora si pongano finalità diverse. In altri termini, una carta geografica è e nello stesso tempo non è una rappresentazione: non si sostituisce all’immagine reale della Terra, nemmeno nella sua astrazione geometrica, ma serve soltanto a indicare alcune sue qualità. Essa rappresenta, in quanto attraverso di essa e per suo tramite noi ci volgiamo spiritualmente a ciò che viene rappresentato, ma non rappresenta se non ci fa uscire dai suoi limiti e ci trattiene anzi entro di sé come in una sorta di pseudorealtà, come in una copia della realtà, pretendendo di avere valore autosufficiente.

E qui si è parlato del caso più semplice. Ma le forme della realtà sono infinitamente più varie e più complesse di una sfera e, esattamente allo stesso modo, infinitamente vari possono essere i metodi di rappresentazione di ciascuna di queste forme. Se si considera la complessità e la varietà che caratterizzano l’organizzazione di questa o di quella regione dello spazio esistenti nel mondo reale, c’è davvero da perdere la testa di fronte alle infinite modalità con cui si potrebbero rappresentare: ci si perde nell’abisso della propria libertà. Normalizzare matematicamente i metodi di rappresentazione del mondo è un obiettivo follemente presuntuoso. Quando poi una simile normalizzazione, che pretende di essere stata provata matematicamente, nonché di essere unica ed esclusiva, viene fatta coincidere, senza ulteriori esami, con uno dei tanti casi di corrispondenza, particolare fra i particolari, c’è da chiedersi se non si tratti di uno scherzo. L’immagine prospettica del mondo è soltanto uno dei possibili metodi di disegno tecnico. Se qualcuno vuole prenderne le difese negli interessi della composizione o per qualsiasi altro fine puramente estetico, è un discorso diverso; anche se – va pur detto a tal proposito – non è che si vedano molti tentativi di difendere la prospettiva in questa direzione.

Non è proprio il caso di ricorrere alla geometria o alla psicofisiologia per una simile difesa; battendo questa strada non si troverà altro che la confutazione della prospettiva stessa.

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Così la rappresentazione, quale che sia il principio in base al quale è stata stabilita la corrispondenza dei punti di ciò che viene rappresentato con i punti della rappresentazione stessa, si limita inevitabilmente a significare, indicare, suggerire, alludere all’idea dell’originale, ma non fornisce assolutamente una copia o un modello di questa immagine. Tra la realtà e il quadro, in fatto di somiglianza, non c’è alcun ponte: c’è soltanto uno iato, colmato inizialmente dalla ragione creatrice dell’artista e in seguito dalla ragione che, in una sorta di collaborazione creativa, riproduce in sé il quadro.

Quest’ultimo, va ribadito, non solo non è un duplicato della realtà nella sua pienezza, ma non è neppure in grado di fornire una copia geometrica dell’involucro delle cose: è necessariamente il simbolo di un simbolo, nella misura in cui l’involucro stesso non è che un simbolo della cosa. Dal quadro, lo spettatore va all’involucro della cosa, e dall’involucro alla cosa stessa.

Ma, stando così le cose, alla pittura, in linea di principio, si apre un campo infinito di possibilità. Questa ampiezza di opportunità dipende dalla libertà di stabilire, su basi estremamente diverse, la corrispondenza tra i punti della superficie delle cose e i punti del quadro. Nessun principio di corrispondenza è in grado di fornire una rappresentazione anche solo geometricamente adeguata di ciò che viene rappresentato; pertanto i diversi princìpi, nessuno dei quali detiene l’unica possibile ragione di superiorità – cioè di essere principio di adeguatezza –, sono tutti a loro modo applicabili, ciascuno con i propri pregi e i propri difetti. E, tuttavia, è in base a un’esigenza interiore dell’anima, e non certo sotto l’influsso di una costrizione esterna, che l’epoca o la creatività individuale sceglie, in conformità agli scopi di una determinata opera, un certo principio di corrispondenza, e allora da questo derivano automaticamente tutte le sue particolarità, tanto positive quanto negative. L’insieme di queste particolarità va a costituire il primo strato di ciò che in arte chiamiamo stile o maniera. Nella scelta dei princìpi di corrispondenza si esplicita il carattere primario che definisce la relazione dell’artista creatore con il mondo, e che per ciò stesso definisce anche la profondità della sua concezione del mondo e della sua percezione della vita.

La rappresentazione prospettica del mondo è uno degli innumerevoli modi possibili per stabilire tale corrispondenza, ma è anche un modo estremamente ristretto, estremamente limitato, vincolato da un’incredibile quantità di condizioni supplementari che determinano poi la sua effettiva possibilità e i limiti della sua applicazione.

Per capire quale sia l’atteggiamento esistenziale dal quale necessariamente deriva il carattere prospettico delle arti figurative, è opportuno esporre separatamente le premesse dell’artista che applica le leggi della prospettiva, premesse che sono silenziosamente sottintese a ogni movimento della sua matita. Esse sono:

In primo luogo: credere che lo spazio del mondo reale sia uno spazio euclideo, cioè isotropo, omogeneo, infinito e illimitato (nel senso in cui intende questa distinzione Riemann), privo di curvatura, tridimensionale, nel quale è possibile far passare per uno qualsiasi dei suoi punti una e una sola parallela a una qualsiasi linea retta. L’artista che segue le leggi della prospettiva è convinto che tutte le costruzioni della geometria, che ha studiato nella sua infanzia (e che poi ha fortunatamente dimenticato), non siano solo degli schemi astratti (e, per giunta, soltanto alcuni dei molti schemi possibili), ma anche delle costruzioni del mondo fisico che sono effettivamente realizzate nella vita, e lo sono non solo in quanto esistenti, ma anche in quanto osservabili. Un simile artista crede che il fascio di raggi che va dall’occhio al contorno dell’oggetto sia rettilineo (idea, sia detto per inciso, che viene dalla concezione antichissima secondo cui la luce non va dall’oggetto all’occhio, ma dall’occhio all’oggetto); egli crede inoltre nell’immutabilità del metro di misura, quali che siano i suoi spostamenti di luogo in luogo nello spazio e quale che sia la direzione verso cui di volta in volta si volge, ecc. ecc. In breve, egli crede in una struttura del mondo di tipo euclideo e in una percezione di questo stesso mondo secondo il modello kantiano. E questo è il primo punto.

In secondo luogo: a dispetto della logica e di Euclide, ma ormai nello spirito della concezione del mondo kantiana, con il suo soggetto trascendentale che regna sul mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è peggio, lo fa in maniera coercitiva), il nostro artista, fra tutti i punti dello spazio infinito (che in Euclide sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti gli altri per il suo valore, un punto monarchico, se così si può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il luogo in cui si trova l’artista stesso o, per essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico del suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su tutti gli altri, in quanto ha ricevuto il privilegio di essere sede del centro ottico dell’occhio destro dell’artista. Questo luogo viene proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista. In verità egli guarda la vita «da un punto di vista», ma senza alcuna precisazione ulteriore, perché questo punto, innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in nulla da tutti gli altri punti dello spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non solo non è motivata ma, se si considera la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile.

In terzo luogo: questo re e legislatore della natura, che è tale «dal proprio punto di vista», lo possiamo immaginare con un solo occhio, come un ciclope, perché il secondo occhio, rivaleggiando con il primo, infrange l’unicità e, di conseguenza, l’assolutezza del punto di vista, e per ciò stesso denuncia il carattere ingannevole del quadro dipinto secondo le leggi della prospettiva. In sostanza, tutto il mondo finisce per essere subordinato non dico all’artista che lo contempla, ma al suo solo occhio destro, inteso oltre tutto come uno soltanto dei suoi punti, il suo centro ottico. E appunto questo centro detta le leggi che regolano l’universo.

In quarto luogo: il suddetto legislatore viene concepito come incatenato per sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo luogo assolutizzato o se vi fa anche soltanto il più piccolo movimento, immediatamente tutta l’unità delle costruzioni realizzate seguendo le leggi della prospettiva viene meno, e tutta la prospettiva che le regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio che guarda non è l’organo di un essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura.

In quinto luogo: tutto il mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per la storia, né per la crescita, né per i cambiamenti,76 né per i movimenti, né per la biografia, né per lo sviluppo di un’azione drammatica, né per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un mondo morto o avvinto in un sonno eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità.

In sesto luogo: tutti i processi psicofisiologici dell’atto visivo sono qui esclusi. L’occhio guarda restando immobile e impassibile, come una lente ottica. Esso non compie il benché minimo movimento: non può e non ha il diritto di muoversi, sebbene la condizione essenziale della visione sia l’attività, l’attiva ricostruzione della realtà nella visione, in quanto funzione dell’essere vivente. Inoltre, questo guardare non è accompagnato né da ricordi né da sforzi spirituali o di riconoscimento. Si tratta di un processo esteriore e meccanico, o al massimo fisico-chimico, ma comunque ben lontano da quello che noi chiamiamo visione. Tutto il momento psichico della visione, come anche quello fisiologico, è completamente assente.

Se queste sei condizioni vengono rispettate, allora e solo allora è possibile quella corrispondenza fra i punti dell’involucro del mondo e i punti della rappresentazione che è il fine cui mira un quadro realizzato seguendo le leggi della prospettiva. Se invece non è pienamente soddisfatta anche solo una delle suddette condizioni, allora questo tipo di corrispondenza diventa impossibile, e la prospettiva, in misura maggiore o minore, sarà inevitabilmente compromessa. Un quadro è tanto più fedele alle leggi della prospettiva in quanto e nella misura in cui vengono rispettate le condizioni sopra ricordate. Ma se queste condizioni non sono soddisfatte anche solo parzialmente, se si ammette la legittimità di una loro pur occasionale violazione, con ciò stesso anche la prospettiva cessa di essere un’esigenza assoluta che incombe sull’artista e diventa semplicemente un metodo approssimativo di trasmissione della realtà, uno fra tanti altri, il cui grado di applicazione e punto di applicazione in una determinata opera dipendono dagli obiettivi particolari di quella determinata opera e dalla scelta di quel determinato punto, ma sono ben lungi dall’essere genericamente validi per ogni opera in quanto tale e sotto tutti i punti di vista.

Ma ammettiamo per un attimo che le condizioni della prospettiva siano interamente soddisfatte, e quindi ammettiamo pure che nell’opera sia puntualmente realizzata l’unità prospettica. L’immagine del mondo offerta sulla base di queste condizioni assomiglierebbe a una fotografia che avesse fissato l’istantanea di una determinata correlazione fra la lastra fotosensibile dietro l’obiettivo e la realtà. A prescindere dalla questione delle proprietà dello spazio stesso e da quella dei processi psicofisici della visione, possiamo dire che, rispetto all’osservazione effettiva della vita reale, questa istantanea è un differenziale e, per giunta, un differenziale di ordine superiore o, per lo meno, di secondo ordine. Per ricavare da questa istantanea un’immagine autentica del mondo è necessario integrarla ripetutamente, in base alla variabile tempo (dalla quale dipendono anche i cambiamenti della realtà stessa e i processi di osservazione) e in base ad altre variabili, quali ad esempio la massa mutevole delle appercezioni, e via dicendo. Tuttavia, anche una volta che si fosse fatto tutto questo, l’integrale dell’immagine ottenuto non coinciderebbe comunque con un’immagine autenticamente artistica, a causa della non corrispondenza tra la concezione dello spazio che essa sottende e lo spazio dell’opera artistica, organizzato come un’unità pienamente compiuta e chiusa in se stessa.

Non è difficile riconoscere in un tale pittore che segue le leggi della prospettiva la personificazione di un pensiero passivo e condannato a ogni sorta di passività che, per un istante, come di sfuggita, sbirciasse furtivamente il mondo attraverso la falla dei suoi limiti soggettivi e, pur essendo senza vita e immobile, incapace di cogliere qualsiasi movimento, pretendesse che proprio la sua posizione e l’istante del suo sguardo avessero un’assolutezza divina. È un osservatore che non porta al mondo nulla di sé e non può neppure sintetizzare le proprie varie impressioni; inoltre, non avendo un contatto vivo con il mondo e non vivendo in esso, non è neppure cosciente della propria realtà, anche se poi, nel suo altero isolamento dal mondo, concepisce se stesso come l’istanza ultima, e in base a questa sua esperienza furtiva costruisce la realtà, tutta la realtà, per ficcarla poi, con il pretesto dell’oggettività, nel differenziale che ha osservato. È esattamente così che sul terreno del Rinascimento nascono le concezioni del mondo di Leonardo, di Cartesio e di Kant; ed è esattamente così che nasce anche l’equivalente artistico-figurativo di questa concezione del mondo, ossia la prospettiva. I simboli artistici devono qui rispettare le leggi della prospettiva perché questo è il modo di unificare tutte le rappresentazioni del mondo, nel quale il mondo viene concepito come una rete unica, indissolubile e impenetrabile di relazioni kantianoeuclidee che hanno il loro centro nell’Io di chi contempla il mondo, ma in modo tale che questo Io sia a sua volta inerte e speculare, una sorta di punto focale immaginario del mondo. In altre parole, la prospettiva è un metodo che deriva necessariamente da una concezione del mondo nella quale una certa soggettività – essa stessa priva di realtà – viene riconosciuta come l’autentico fondamento di cose-rappresentazioni semireali. La prospettiva è un’espressione di meonismo77 e di impersonalismo. E rientra esattamente in quella corrente di pensiero che di solito viene definita naturalismo e umanesimo – quella corrente che nacque con la fine del realismo e del teocentrismo medioevale.

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Ma, ci chiediamo adesso, in quale misura è possibile dubitare della fondatezza delle sei premesse che abbiamo elencato più sopra e che sono caratteristiche di una concezione del mondo regolata dalle leggi della prospettiva? Cioè, anche se in astratto è certamente uno dei molti modi possibili per rappresentare il mondo, davvero possiamo dire che, una volta data l’esistenza reale delle sei suddette condizioni di possibilità, la rappresentazione prospettica è effettivamente l’unica? In altre parole, la concezione del mondo rinascimentale e kantiana è davvero ancora viva? Se risultasse che, nell’esperienza reale, le condizioni di una concezione del mondo retta dalle leggi della prospettiva non sono soddisfatte, con ciò stesso verrebbe confutato anche il valore effettivo di tale concezione.

Consideriamo dunque punto per punto le condizioni che abbiamo enunciato in precedenza. In primo luogo: sulla questione dello spazio del mondo, bisogna dire che nello stesso concetto di spazio si distinguono tre livelli, ben lungi dall’essere identici fra loro. Più precisamente sono: lo spazio astratto o geometrico, lo spazio fisico e lo spazio fisiologico; oltre a ciò, va osservato che in quest’ultimo si distinguono, a loro volta, lo spazio visivo, lo spazio tattile, lo spazio uditivo, lo spazio olfattivo, lo spazio gustativo, lo spazio del senso organico generale, e via dicendo, con le loro ulteriori suddivisioni particolari. Su ciascuna delle suddivisioni dello spazio che abbiamo appena menzionato, più generali o più specifiche, si possono avere, per parlare in termini astratti, idee diversissime. Immaginarsi che tutta una serie di problemi estremamente complessi possa essere evitata rimandando semplicemente alla teoria geometrica della similitudine tra figure in uno spazio euclideo tridimensionale significherebbe non sfiorare neppure le difficoltà del problema posto. Innanzitutto, bisogna notare che le risposte ai vari punti della questione dello spazio qui presentata possono essere, com’è naturale, estremamente diverse. Sotto il profilo astrattamente geometrico, lo spazio euclideo è soltanto un caso particolare tra molti spazi diversi, enormemente differenziati fra loro e con le caratteristiche più inattese rispetto all’insegnamento elementare della geometria, caratteristiche che però rivelano molto a chi abbia un rapporto immediato col mondo. La geometria euclidea è una delle infinite geometrie esistenti, e noi non abbiamo ragioni sufficienti per sostenere che lo spazio fisico, lo spazio dei processi fisici, sia esattamente uno spazio euclideo. È soltanto un postulato, un’esigenza di pensare così il mondo e di accordare a essa tutte le altre idee. E questa stessa esigenza deriva dalla fede preconcetta nelle scienze naturali fisico-matematiche di un certo tipo, quelle cioè che implicano il principio di continuità, un tempo assoluto, corpi assolutamente solidi, e così via.

Ma ammettiamo almeno per un momento che lo spazio fisico soddisfi effettivamente la geometria euclidea. Da questo non consegue affatto che l’osservatore immediato del mondo lo percepisca in questo modo. Comunque voglia pensare lo spazio fisico chi vive al suo interno, e anche se ritenesse necessario costruire tutte le sue altre idee in base a quella fondamentale secondo cui lo spazio esterno ha una struttura euclidea, cercando poi di far rientrare lo spazio fisiologico nello schema euclideo, resta il fatto che lo spazio fisiologico non ci entra. Pur senza parlare dello spazio olfattivo, gustativo, termico, uditivo e tattile, che non hanno nulla in comune con lo spazio euclideo e in tal senso sono assolutamente fuori discussione, non bisogna dimenticare anche un altro fatto, e cioè che persino lo spazio visivo, il meno lontano da quello euclideo, a un attento esame risulta profondamente diverso da quest’ultimo; ora, è proprio tale spazio che sta a fondamento della pittura e della grafica, benché in alcuni casi possa essere subordinato anche ad altri tipi di spazio fisiologico, e allora il quadro sarà la trasposizione visiva di percezioni non visive. «Se adesso» dice Mach «ci chiediamo che cosa propriamente abbiano in comune lo spazio fisiologico e lo spazio geometrico, troveremo soltanto un numero estremamente ridotto di tratti comuni. Entrambi gli spazi sono varietà dello spazio tridimensionale. A ogni punto A, B, C, D... dello spazio geometrico corrispondono i punti A′, B′, C′, D′... dello spazio fisiologico. Se C si trova tra B e D, anche C′ si troverà tra B′ e D′. Si può anche dire così: a un movimento continuo di un punto qualsiasi nello spazio geometrico corrisponde un movimento continuo del punto corrispondente nello spazio fisiologico. Abbiamo già dimostrato altrove che questa continuità, assunta per comodità, non deve affatto essere necessariamente una continuità effettiva né per l’uno né per l’altro spazio. E anche assumendo che lo spazio fisiologico ci sia innato, esso presenta troppo poche affinità con lo spazio geometrico perché vi si possa individuare un fondamento sufficiente per lo sviluppo di una geometria a priori (in senso kantiano). Su di esso si può costruire al massimo una topologia».78 «Se questa diversità tra lo spazio fisiologico e quello geometrico non balza immediatamente agli occhi di chi non è esperto in questo tipo di ricerche, se lo spazio geometrico non sembra loro qualcosa di mostruoso, una sorta di falsificazione dello spazio naturale, ciò si spiega con un più attento esame delle condizioni di vita e di sviluppo dell’uomo».79 Ma «anche quando si avvicina massimamente allo spazio euclideo, lo spazio fisiologico se ne distingue ancora non poco. La differenza fra destra e sinistra, davanti e dietro, l’uomo ingenuo riesce a superarla facilmente, ma non altrettanto facilmente supera, a causa della resistenza che gli oppone da questo punto di vista il geotropismo, la differenza tra alto e basso».80

In un’altra sua opera lo stesso pensatore abbozza alcuni tratti di questa differenza. «Si è già ripetutamente mostrato quanto profondamente si distingua dallo spazio geometrico, dallo spazio euclideo, il sistema delle nostre percezioni spaziali – lo spazio, se così ci si può esprimere, fisiologico ... Lo spazio geometrico è lo stesso dappertutto e in tutte le direzioni; è illimitato e infinito (nel senso inteso da Riemann). Lo spazio visivo, invece, è limitato e finito, e inoltre, come mostra l’osservazione della “volta celeste” appiattita, la sua estensione non è uguale in tutte le direzioni. La riduzione delle dimensioni dei corpi al loro allontanarsi e, allo stesso modo, la crescita al loro avvicinarsi fanno sì che lo spazio visivo assomigli più a certe rappresentazioni metageometriche che allo spazio euclideo. La differenza tra “alto” e “basso”, “davanti” e “dietro” e, se si vuole essere precisi, fra “destra” e “sinistra” esiste sia per lo spazio tattile che per lo spazio visivo. Per lo spazio geometrico, invece, questa differenza non esiste».81 Lo spazio fisiologico non è omogeneo, non è isotropo, e questo si manifesta nella diversa valutazione delle distanze angolari, nelle diverse distanze dall’orizzonte, nella diversa valutazione delle lunghezze continue e discontinue, nella diversa precisione percettiva dei diversi punti della retina, e via dicendo.82

Così, dunque, si può e si deve dubitare del fatto che il nostro mondo si trovi in uno spazio euclideo. Ma se anche si eliminasse questo dubbio, è tuttavia probabile che non vedremmo e in generale non percepiremmo il mondo euclideo-kantiano: solo per esigenze teoriche noi ragioniamo di questo mondo come se fosse qualcosa di effettivamente visibile. Il lavoro dell’artista non è però quello di scrivere trattati astratti, ma di dipingere quadri, cioè di rappresentare quello che egli vede realmente. Ora, per la struttura stessa dell’organo visivo, quello che egli vede è ben lungi dall’essere il mondo kantiano e, quindi, egli deve raffigurare qualcosa che è ben lungi dall’essere soggetto alle leggi della geometria euclidea.

In secondo luogo: nessun uomo sano di mente può credere che il proprio punto di vista sia l’unico, e riconosce anzi che ogni luogo, ogni punto di vista ha un suo valore, in quanto restituisce un particolare aspetto del mondo che, a sua volta, non esclude ma afferma altri aspetti. Alcuni punti di vista sono più ricchi di contenuto e più caratteristici, altri lo sono meno, e comunque ciascuno di essi è tale solo in base alla propria posizione, e non esiste un punto di vista assoluto. L’artista, quindi, cerca di guardare da diversi punti di vista l’oggetto che deve raffigurare, arricchendo la propria osservazione con nuovi aspetti della realtà e riconoscendoli più o meno ugualmente significativi.

In terzo luogo: avendo un secondo occhio, avendo cioè già in partenza per lo meno due diversi punti di vista, l’artista possiede un correttivo permanente all’illusionismo, perché il secondo occhio sta sempre lì a dimostrare che la prospettiva è un inganno e, per giunta, un inganno non riuscito. Ma, a parte questo, con due occhi l’artista vede più di quanto potrebbe vedere con un occhio solo e, inoltre, con ogni occhio vede in una maniera particolare, così che nella sua coscienza viene a comporsi un’immagine visiva sintetica in forma di immagine binoculare, che comunque è una sintesi psichica e non può in alcun modo essere paragonata a una fotografia monoculare fissata sulla retina da un unico obiettivo. E né i difensori della prospettiva né i sostenitori della teoria della visione di Helmholtz potranno certo chiamare in causa l’esiguità della differenza che intercorre tra le immagini restituite dai due occhi distinti: questa differenza, in base alla loro stessa teoria, è in effetti sufficiente per la percezione della profondità, di cui altrimenti non si avrebbe neppure coscienza; rilevando quindi la differenza tra le immagini nell’occhio destro e nell’occhio sinistro, essi rimuovono la causa per cui lo spazio viene percepito come tridimensionale.

Del resto questa differenza non è affatto così piccola come potrebbe sembrare a prima vista. A mo’ di esempio si consideri il calcolo che ho fatto osservando una sfera di venti centimetri di diametro da una distanza di mezzo metro, assunto che la distanza tra le due pupille sia di sei centimetri. Ponendo il centro della sfera al livello degli occhi, il supplemento dell’arco equatoriale della sfera, cioè la parte che non è visibile dall’occhio destro ma è visibile da quello sinistro, è pari più o meno a un terzo dello stesso arco equatoriale visto dall’occhio destro. Se si guarda la sfera da una distanza minore, il rapporto tra ciò che l’occhio sinistro vede in più rispetto a ciò che vede l’occhio destro sarà superiore a un terzo. Si tratta di grandezze con le quali occorre fare i conti nelle più normali condizioni di visione, ad esempio quando si guarda un volto, e che persino ai più bassi livelli di precisione non possono essere considerate alla stregua di grandezze trascurabili.

Se in generale indichiamo con s la distanza fra gli occhi, con r il raggio della sfera considerata e con l la distanza del centro della sfera dal punto situato in mezzo alle due pupille, allora il rapporto x tra il supplemento dell’arco equatoriale, aggiunto dall’occhio sinistro allo stesso arco dell’occhio destro, e l’arco visto dall’occhio destro è espresso abbastanza esattamente dalla seguente equazione:

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In quarto luogo: il pittore, anche se sta seduto sul posto, si muove continuamente, muove gli occhi, la testa, il tronco, e il suo punto di vista cambia di continuo. Ciò che si chiama immagine visiva dell’artista è la sintesi psichica delle infinite percezioni visive realizzate dai diversi punti di vista, che oltre tutto sono ogni volta doppi; è, insomma, l’integrale di queste immagini biunitarie. Pensarlo come un fenomeno esclusivamente fisico significa non capire assolutamente nulla dei processi visivi e confondere quadrata rotundis,83 le cose meccaniche con quelle spirituali. Chi non ha ancora fatto propria come assioma la natura sintetico-spirituale delle immagini visive non si è ancora neppure minimamente avvicinato a una teoria della visione, men che meno della visione artistica.84

D’altro canto, in quinto luogo, le cose cambiano, si muovono, volgono verso lo spettatore lati diversi, crescono e si rimpiccioliscono: il mondo è vita, non gelida staticità. E quindi anche qui, di nuovo, lo spirito creativo dell’artista deve sintetizzare, formando gli integrali degli aspetti particolari della realtà, delle sue partizioni istantanee secondo la coordinata tempo. L’artista non raffigura una cosa, ma la vita di una cosa in base all’impressione che ne riceve. Ed è appunto per questo che, parlando in termini generali, è frutto di un grande pregiudizio pensare che chi osserva debba osservare delle cose immobili stando immobile a sua volta. Perché il problema è per l’appunto questo: precisamente, quale percezione delle cose si deve rappresentare in un dato caso o in un altro? Guardandole da una fessura nel muro di una prigione oppure da un’automobile? Di per sé, nessun tipo di rapporto con la realtà può essere rifiutato in partenza. La percezione è determinata dal rapporto vivo con la realtà e, se l’artista vuole raffigurare la percezione che si produce quando lui stesso e le cose si muovono l’uno rispetto alle altre, deve necessariamente fare la somma delle impressioni prodotte in presenza del movimento. D’altronde, è esattamente questa la percezione della realtà più consueta e più viva e, sia detto pur di sfuggita, è proprio questo tipo di percezione che dà una più profonda conoscenza della realtà. L’espressione pittorica di questa conoscenza è l’obiettivo naturale dell’artista. Ma è possibile?

Noi sappiamo che il movimento può essere trasmesso, e questo vale per un cavallo al galoppo, per il gioco dei sentimenti su un volto, per lo sviluppo di un’azione nel corso degli eventi. Non v’è dunque motivo per ritenere che non si possa raffigurare anche questa vivida percezione della realtà. La differenza rispetto ai casi più ordinari sta nel fatto che di solito vengono rappresentati oggetti in movimento in presenza di un artista che si muove relativamente di meno; in questo caso, al contrario, proprio il movimento dell’artista viene considerato importante, mentre la realtà stessa può essere quasi o addirittura del tutto immobile. È così che si giunge a rappresentazioni di case con tre o quattro facciate, teste dotate di superfici complementari e altri fenomeni simili che ci sono noti sin dall’arte antica. Una rappresentazione della realtà di questo tipo corrisponderà alla monumentalità immobile e all’ontologico spessore del mondo rilevati dall’attività dello spirito conoscente che vive e lavora in queste cittadelle dell’ontologia.

I bambini non sintetizzano neanche l’immagine istantanea di un essere umano e, su un foglio di carta, raffigurano separatamente gli occhi, il naso, la bocca e tutto il resto, senza coordinarli fra loro; allo stesso modo, l’artista che segue le leggi della prospettiva non sa sintetizzare la serie delle impressioni istantanee e le dispone sulle diverse pagine del proprio album senza coordinarle fra loro. Ma sia l’uno che l’altro testimoniano soltanto la passività di un pensiero che si disperde nelle varie impressioni elementari e non è capace di abbracciare una percezione appena un po’ più complessa in un unico atto contemplativo (e quindi anche in una forma unica a esso corrispondente), limitandosi così a scomporre cinematograficamente quella percezione in istanti e momenti. Vi sono però dei casi in cui non si può fare a meno di realizzare una simile sintesi, e allora anche l’artista che con maggior zelo difende le leggi della prospettiva rinnegherà le proprie posizioni. Una trottola che gira, la ruota di un treno o di una bicicletta in movimento, una cascata o una fontana sono tutti casi in cui nessun pittore naturalista, raffigurandoli, arresterà il movimento, ma piuttosto cercherà di trasmettere la percezione d’insieme che deriva dal gioco delle diverse impressioni che si fondono e confluiscono l’una nell’altra. E, tuttavia, un’istantanea o la visione di questi processi alla luce di un lampeggiatore mostrerà qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che ha raffigurato il pittore, rendendo così evidente che un’impressione unica arresta il processo e restituisce il suo differenziale, mentre è la percezione generale a integrare questi differenziali. Ma se ciascuno concorderà sulla legittimità di una simile integrazione, che cosà potrà impedire l’applicazione di qualcosa di simile anche in altri casi, quando la velocità del processo è un po’ inferiore?

E da ultimo, in sesto luogo: i difensori della prospettiva dimenticano che la visione artistica è un processo psichico estremamente complesso di fusione di elementi psichici accompagnato da risonanze psichiche: all’immagine ricostruita nello spirito vengono ad assommarsi memorie, eco emotive di movimenti interiori, e attorno ai granelli di polvere dei dati sensoriali si cristallizza l’effettivo contenuto psichico della personalità dell’artista. Questo coagulo cresce e acquisisce un proprio ritmo, col quale si esprime fra l’altro la risposta del pittore alla realtà da lui raffigurata.

Per vedere ed esaminare un oggetto, e non limitarsi a guardarlo, è necessario trasferire costantemente la sua raffigurazione, presente sulla retina in parti separate, alla macula sensibile della retina. Ciò significa che l’immagine visiva non è affatto data alla coscienza come qualcosa di semplice, che non implica né lavoro né sforzo, ma che essa si costruisce, si compone di parti che si assommano tra loro l’una dopo l’altra, senza dimenticare, per giunta, che ciascuna di queste parti viene percepita più o meno dal proprio punto di vista. In seguito, attraverso un particolare atto psichico, una faccetta si aggiunge sinteticamente a un’altra faccetta, e in generale l’immagine visiva si forma progressivamente, non si dà già pronta. Nella percezione l’immagine visiva non viene contemplata da un unico punto di vista, ma per l’essenza stessa della visione è immagine di una prospettiva policentrica. Se si considerano poi anche le superfici complementari aggiunte dall’occhio sinistro all’immagine dell’occhio destro, dobbiamo riconoscere che ogni immagine visiva ha una particolare somiglianza con gli edifici delle icone, ragion per cui, d’ora in avanti, si potrà discutere sulla misura e sul grado auspicabili di questo policentrismo, ma non certo sulla sua ammissibilità in linea di principio. Successivamente nasce vuoi l’esigenza di un’ancor maggiore mobilità dell’occhio, per raggiungere una sinteticità perfino più accentuata, vuoi (nella misura del possibile) l’esigenza di immobilizzarlo, quando si ricerca una visione scomposta, tenendo presente che la prospettiva si pone nel solco di quest’analisi visiva. Ma l’uomo, finché è vivo, non può trovare perfetta collocazione nello schema prospettico, e l’atto stesso di vedere con un occhio fisso, immobile (trascurando l’occhio sinistro) è psicologicamente impossibile.

Si dirà: «Comunque sia, non si possono vedere simultaneamente tre pareti di una casa!». Se questa obiezione fosse corretta, bisognerebbe svilupparla e poi essere coerenti. Simultaneamente non si possono vedere non solo tre, ma nemmeno due pareti di una casa, e neppure una. Simultaneamente, noi vediamo soltanto una frazione infinitamente piccola di una parete, e anzi, in verità, simultaneamente non possiamo vedere neanche questa frazione; simultaneamente, non si vede assolutamente nulla. Non simultaneamente, invece, noi di sicuro riceviamo la rappresentazione di una casa con tre e quattro pareti, ci rappresentiamo questa casa. Nella rappresentazione viva c’è un continuo fluire, scorrere, un continuo cambiamento, una continua lotta; essa ferve, sfolgora, palpita ininterrottamente, e nella contemplazione interiore non si arresta mai all’arido schema delle cose. E la casa vive nella nostra rappresentazione proprio con questo palpito interiore, con questo sfolgorio, con questo fervore. Il pittore, dunque, può e deve raffigurare la propria rappresentazione della casa, ma certo non può trasportare la casa stessa sulla tela. Questa vitalità della sua rappresentazione, che si tratti di una casa o del volto di una persona, egli la coglie prendendo dalle varie parti della rappresentazione ciò che esse hanno di più vivido, di più espressivo, e così, invece di un fuoco d’artificio psichico prolungato nel tempo, egli ci offre un mosaico immobile dei suoi momenti singoli più significativi. Nella contemplazione del quadro l’occhio dello spettatore, ripercorrendo l’uno dopo l’altro questi tratti caratteristici, riproduce nello spirito l’immagine, già prolungata nel tempo, della rappresentazione che ferve e palpita ma che adesso è più intensa e compatta, e non l’immagine derivante dalla cosa stessa, perché qui i momenti più vividi osservati in tempi diversi sono dati allo stato puro, già concentrati, e non richiedono sforzi psichici supplementari per fonderne le scorie. Come sul rullo inciso di un fonografo, la puntina di una visione più nitida scorre lungo le linee e le superfici del quadro con i loro solchi, e in ogni suo luogo si destano nello spettatore le vibrazioni corrispondenti. E per l’appunto queste vibrazioni sono lo scopo dell’opera d’arte.

 

 

Ecco, più o meno, il percorso mentale che dalle premesse del naturalismo porta alle specificità della prospettiva nell’iconografia. Ci può essere una concezione dell’arte che è completamente diversa dal naturalismo e che deriva dal comandamento fondamentale dell’autonomia spirituale; all’autore, personalmente, è assai più vicina quest’ultima. Ma finché si resta nell’ambito di tale concezione, in generale il problema della prospettiva semplicemente non si pone, ed essa resta lontana dalla coscienza creatrice quanto le altre forme e metodi del disegno tecnico. Nel presente studio era invece necessario superare dall’interno i limiti del naturalismo e mostrare come fata volentem ducunt, nolentem trahunt85 – verso la liberazione e la spiritualità.