I
OSSERVAZIONI STORICHE1

1

L’attenzione di chi si accosta per la prima volta alle icone russe del XIV e del XV secolo, e in parte anche del XVI, di solito viene colpita dai rapporti prospettici inattesi, in particolare quando si tratta di raffigurazioni di oggetti con superfici piane e contorni rettilinei, come, ad esempio, edifici, tavoli, seggi e in special modo libri, per essere esatti i Vangeli, insieme ai quali il Salvatore e i santi vengono abitualmente raffigurati. Questi particolari rapporti sono in stridente contrasto con le regole della prospettiva lineare e, dal punto di vista di quest’ultima, non possono che essere considerati come la manifestazione di una grossolana imperizia nel disegno.

A un esame più attento delle icone, però, non è difficile notare che anche i corpi delimitati da superfici curve sono resi con scorci al di fuori delle regole della rappresentazione prospettica. Nelle icone vengono spesso mostrate parti e superfici, di figure sia curvilinee sia sfaccettate, che non sono visibili simultaneamente, come ci si può rendere facilmente conto anche dal più elementare manuale di prospettiva. Così, pur guardando perpendicolarmente la facciata degli edifici rappresentati, di questi edifici ci vengono mostrati insieme entrambi i muri laterali; del Vangelo si vedono simultaneamente tre o addirittura tutte e quattro le coste; un viso viene raffigurato con la sommità del cranio, le tempie e le orecchie voltate in avanti e quasi distese sulla superficie dell’icona, con superfici del naso e di altre parti, che non dovrebbero essere visibili, girate verso lo spettatore, e al contrario con altre superfici, che normalmente dovrebbero essere rivolte in avanti, rovesciate; sono caratteristiche anche le gobbe delle figure ricurve nell’ordine della Deisis,2 la visione simultanea della schiena e del petto di san Procoro che scrive sotto dettatura dell’apostolo Giovanni il Teologo, e altre analoghe combinazioni di superfici del profilo e del volto, di piani dorsali e frontali, e via dicendo. A proposito di questi piani complementari, le linee parallele che non si trovano sul piano dell’icona o su un piano a essa parallelo, e che in base alle regole della prospettiva dovrebbero essere raffigurate come convergenti verso la linea dell’orizzonte, nell’icona sono raffigurate invece come divergenti. In una parola, queste e altre simili violazioni dell’unità prospettica di ciò che viene rappresentato nell’icona sono così chiare e lampanti che saprebbe indicarle immediatamente anche l’allievo più mediocre e che ha solo una conoscenza superficiale e di terza mano della prospettiva.

Ma qui succede una cosa strana: questa «imperizia» nel disegno, che apparentemente dovrebbe indignare qualsiasi osservatore che abbia capito l’«evidente assurdità» di una simile raffigurazione, al contrario non desta alcun senso di fastidio, ma viene anzi percepita come qualcosa di necessario, e addirittura piace. Non solo: quando sono messe l’una accanto all’altra due o tre icone pressappoco identiche per tipologia ed eseguite con abilità tecnica più o meno equivalente, lo spettatore rileva con assoluta certezza l’enorme superiorità artistica dell’icona nella quale la trasgressione delle regole della prospettiva è maggiore, mentre le icone il cui disegno è più «corretto» appaiono fredde, prive di vita e senza un legame diretto con la realtà che vi è raffigurata. Le icone che a una immediata percezione artistica appaiono più creative sono anche quelle che immancabilmente risultano «difettose» dal punto di vista della prospettiva; le icone che invece più soddisfano un manuale di prospettiva sono senz’anima e noiose. Se soltanto si riescono a dimenticare anche per un istante le esigenze formali della prospettiva, il senso estetico immediato di ciascuno di noi sarà indotto a riconoscere la superiorità delle icone che violano le sue leggi.

A questo punto si potrebbe pensare che a piacere, in realtà, non sia il modo della raffigurazione in quanto tale, ma l’ingenuità e il carattere primitivo di un’arte ancora infantilmente incurante di tutto ciò che ha a che fare con la perizia artistica: ci sono addirittura degli appassionati che sono propensi a considerare le icone un tenero balbettio infantile. Ma il fatto che le icone con la più evidente violazione delle regole della prospettiva siano proprio quelle dei grandi maestri, mentre la minor violazione di queste regole è caratteristica per lo più dei maestri di seconda o terza categoria, ci spinge a chiederci se a essere ingenuo non sia lo stesso giudizio che ritiene ingenue le icone. D’altro canto, queste violazioni delle regole della prospettiva sono così insistenti e frequenti, direi così sistematiche, e perfino così ostinatamente sistematiche, che senza volerlo si è indotti a pensare alla non casualità di queste violazioni, all’esistenza di un particolare sistema di rappresentazione e di percezione della realtà che viene raffigurata nelle icone.

Non appena tale idea si affaccia alla mente, chi guarda le icone sente nascere in sé e poi progressivamente consolidarsi la ferma convinzione che queste violazioni delle regole della prospettiva siano l’applicazione di un procedimento cosciente dell’arte iconografica e che, buone o cattive, siano comunque estremamente premeditate e consapevoli.

L’impressione che queste violazioni della prospettiva siano consapevoli si rafforza straordinariamente se si considera il risalto che viene dato agli scorci particolari da noi presi in esame attraverso l’impiego di speciali toni di colore o, come dicono gli iconografi, attraverso la raskryška:3 qui le particolarità del disegno non solo non passano inosservate alla coscienza, come accadrebbe se nei punti in questione si fossero utilizzati colori neutri o attenuati dall’effetto coloristico complessivo, ma anzi spiccano vistosamente, quasi stridendo sul generale sfondo colorato. Così, ad esempio, le superfici complementari degli edifici non solo non restano nascoste nell’ombra ma, anzi, sono spesso dipinte con colori vivaci e, per giunta, completamente diversi da quelli utilizzati per le superfici delle facciate. In questi casi, poi, risalta ancor di più l’oggetto che, in varie maniere e già di per se stesso, si staglia su tutto il resto e tende a essere il centro pittorico dell’icona: il Vangelo; la sua costa, solitamente color cinabro, è il punto più luminoso dell’icona, e in questo modo se ne mettono in evidenza con una forza del tutto particolare le superfici complementari.

Questi sono i procedimenti per mettere in evidenza determinati oggetti dell’icona. Tali procedimenti sono tanto più coscienti in quanto sono in contraddizione con il colore abituale di questi oggetti e quindi non si possono spiegare come una forma di imitazione naturalistica di ciò che normalmente esiste. Il Vangelo, di solito, non aveva la costa color cinabro, e le pareti laterali di un edificio non venivano dipinte con un colore diverso da quello della facciata, così che nell’originalità cromatica delle icone non si può non vedere la tendenza a sottolineare la complementarità di queste superfici e la loro indipendenza rispetto agli scorci della prospettiva lineare in quanto tali.

2

L’insieme dei procedimenti indicati porta il nome di prospettiva rovesciata o inversa, e anche, talvolta, di prospettiva deformata o falsa. Ma la prospettiva rovesciata non esaurisce le molteplici particolarità del disegno e neppure del chiaroscuro delle icone. Come immediato ampliamento dei procedimenti che caratterizzano la prospettiva rovesciata va ricordato il policentrismo delle raffigurazioni: il disegno viene costruito come se l’occhio lo guardasse da diverse angolature, cambiando continuamente posto. Così, ad esempio, alcune parti dei palazzi sono disegnate più o meno in conformità alle esigenze della consueta prospettiva lineare, ma ciascuna lo è da un proprio particolare punto di vista, avendo cioè un proprio particolare centro prospettico e talvolta anche un proprio particolare orizzonte, mentre altre parti sono raffigurate in base ai procedimenti della prospettiva rovesciata. Questa complessa elaborazione degli scorci prospettici caratterizza non solo la pittura degli edifici, ma pure quella dei volti, anche se di solito non è realizzata con grande insistenza, ma con moderazione e discrezione, tanto da poter passare in questi casi per un «errore» nel disegno; in altri casi, invece, tutte le regole scolastiche vengono trasgredite con tale audacia, e la loro violazione viene sottolineata con tale forza, e nello stesso tempo l’icona rivela tanto di se stessa e del suo valore artistico al nostro gusto estetico immediato, che non resta alcun dubbio: i dettagli del disegno, «scorretti» e in contraddizione fra loro, denotano un complesso calcolo artistico che, volendo, si può anche definire ardito, ma certo non ingenuo. Che cosa diremo, ad esempio, dell’icona del Cristo Pantocratore4 che si trova nella sacrestia della Lavra,5 la cui testa è girata verso destra, ma che su quello stesso lato presenta una superficie complementare, mentre lo scorcio della parte sinistra del naso è più piccolo di quello della parte destra, e via dicendo? Il piano del naso è così chiaramente girato da una parte e le superfici della sommità cranica e delle tempie sono così sviluppate che non sarebbe difficile criticare una simile icona se, a dispetto di tutte le sue «scorrettezze», essa non avesse un’espressività e una pienezza tanto sorprendenti. Questa impressione si chiarisce e trova conferma definitiva se consideriamo ora, sempre nella sacrestia della Lavra, un’altra icona,6 simile per disegno, trasposizione iconografica, dimensioni e colori, ma dipinta quasi senza nessuno degli scostamenti dalle regole della prospettiva appena menzionati, e decisamente più corretta da un punto di vista scolastico: quest’ultima icona, se confrontata con la prima, appare insignificante, inespressiva, insulsa e priva di vita, tanto che, nonostante la loro sorprendente somiglianza complessiva, non resta alcun dubbio circa il fatto che le violazioni delle regole della prospettiva non sono un perdonabile difetto dell’iconografo, ma costituiscono anzi la sua forza positiva, esattamente quanto fa sì che la prima delle icone considerate sia incomparabilmente superiore alla seconda, cioè che l’icona scorretta sia superiore a quella corretta.

Se torniamo poi alla questione del chiaroscuro, anche in questo caso troviamo nelle icone una distribuzione delle ombre del tutto originale, che sottolinea e mette in evidenza la non corrispondenza dell’icona al tipo di raffigurazione che sarebbe richiesto da una pittura naturalistica. La mancanza di una precisa fonte di luce, la contraddittorietà dell’illuminazione nei diversi punti dell’icona, la tendenza a proiettare in avanti delle masse che dovrebbero invece essere poste in ombra sono, ancora una volta, non elementi casuali o pecche di un maestro primitivo, ma precisi calcoli artistici che producono il massimo dell’espressività estetica.

Fra questo genere di procedimenti figurativi adottati nelle icone c’è, ad esempio, l’esecuzione delle linee della cosiddetta razdelka7 con un colore diverso rispetto a quello utilizzato nel corrispondente punto della raskryška (il colore di base dell’icona), per lo più brillanti colori metallici ottenuti con un’assistka8 dorata o, più raramente, argentata, oppure ancora con polvere d’oro. Mettendo in evidenza la questione del colore delle linee del panneggio, vorremmo rimarcare il fatto che l’iconografo attira coscientemente l’attenzione su di esse benché non corrispondano a nulla di fisicamente visibile, cioè a nessun analogo sistema di linee presente, ad esempio, sulle vesti o sui troni, ma siano soltanto un sistema di linee potenziali, di linee per la costruzione di un determinato oggetto, simili per esempio alle linee di forza di un campo elettrico o magnetico, o a sistemi di curve equipotenziali o isotermiche o altro ancora. Le linee del panneggio, in questo senso, esprimono lo schema metafisico di un determinato oggetto – la sua dinamica – con un’intensità maggiore di quella che potrebbero avere le sue linee visibili, sebbene poi le linee del panneggio, di per se stesse, siano assolutamente invisibili e, tracciate sull’icona, costituiscano, nell’intenzione dell’iconografo, l’insieme dei compiti che spettano all’occhio di chi guarda, vale a dire le linee dei movimenti che l’occhio deve compiere nell’atto di contemplare l’icona. Queste linee sono lo schema necessario per ricostituire nella coscienza l’oggetto contemplato, ma, se si cercano i fondamenti fisici di queste linee, ci si rende conto che si tratta di linee di forza, linee di tensione, cioè non sono, in altre parole, pieghe derivanti da una qualche tensione, o per lo meno non lo sono ancora, ma sono solo delle pieghe possibili, delle pieghe in potenza, sono le linee lungo le quali si disporrebbero le pieghe se in generale le pieghe stesse cominciassero a formarsi. Le linee del panneggio, tracciate su piani complementari, rivelano alla coscienza il carattere strutturale di questi stessi piani, e quindi, superando il livello di una loro contemplazione passiva, ci aiutano a comprendere il rapporto funzionale di ciascuno di questi piani con l’insieme e, dunque, ci forniscono materiale sufficiente per notare con particolare chiarezza l’indipendenza di tali scorci dalle esigenze della prospettiva lineare.

Non ci soffermeremo qui sugli altri procedimenti, secondari, con i quali l’iconografia sottolinea non solo la propria autonomia rispetto alle leggi della prospettiva lineare, ma anche la consapevolezza con cui trasgredisce a queste leggi. Accenniamo soltanto alla linea di contorno9 che circoscrive il disegno, per ciò stesso mettendone straordinariamente in rilievo le particolarità, e ancora accenniamo alle oživki, alle dvižki, alle otmetiny e anche ai probely,10 che evidenziano i rilievi e in questo modo accentuano tutte le irregolarità che non si dovrebbero vedere, e così via. Ci sembra che quanto abbiamo detto sin qui possa essere sufficiente per ricordare, a chiunque abbia guardato delle icone con un po’ di attenzione, tutto il bagaglio di impressioni che si sarà già fatto circa il carattere non casuale degli scostamenti dalle regole della prospettiva e, ancor di più, circa la fecondità estetica di queste violazioni.

3

E ora, dopo questo riepilogo, si pone dinanzi a noi il problema del senso e della legittimità di tali violazioni. Cioè, in altre parole, si pone dinanzi a noi il problema equivalente dei limiti di applicazione della prospettiva e del suo senso. Davvero la prospettiva esprime la natura delle cose, come pretendono i suoi fautori? E davvero, quindi, deve essere considerata sempre e dappertutto come la premessa indispensabile della verosimiglianza artistica? O invece è soltanto uno schema, e per giunta soltanto uno dei possibili schemi di raffigurazione, che corrisponde non alla percezione del mondo nel suo insieme, ma semplicemente a una delle possibili interpretazioni del mondo, legata fra l’altro a una ben precisa percezione e concezione della vita? O ancora: la prospettiva, l’immagine prospettica del mondo, l’interpretazione prospettica del mondo, è davvero l’immagine naturale che scaturisce direttamente dalla sua essenza, è davvero l’autentica parola del mondo? O è soltanto una particolare ortografia, una costruzione fra le tante, che è caratteristica per coloro che l’hanno creata, che è precipua del secolo e della concezione della vita di coloro che l’hanno inventata e che esprime lo stile che è loro proprio, ma che non esclude assolutamente ortografie diverse, sistemi di trascrizione diversi, che corrispondono alla concezione della vita e allo stile di altri secoli? E queste trascrizioni, poi, non saranno forse maggiormente legate all’essenza delle cose, così che, in ogni caso, tali violazioni della prospettiva finiranno per alterare la verità artistica della raffigurazione non più di quanto un errore di grammatica nella lettera di un santo rischi di alterare la verità vitale dell’esperienza da lui descritta?

Per rispondere al nostro problema offriremo innanzitutto un approfondimento storico, cercheremo cioè di capire, da un punto di vista storico, quanto siano effettivamente inseparabili il principio della raffigurazione e quello della prospettiva.

Nei piatti rilievi babilonesi ed egizi non c’è traccia di prospettiva, come non c’è traccia, del resto, di quella che in senso proprio si è soliti chiamare prospettiva rovesciata; d’altro canto, come è noto, il policentrismo delle raffigurazioni egizie è particolarmente accentuato e costituisce un elemento canonico di quell’arte: tutti ricorderanno che nei rilievi e nelle pitture murali egizie i volti e le gambe sono rappresentati di profilo, mentre le spalle e il petto sono ruotati frontalmente. Ma in ogni caso non v’è traccia di prospettiva diretta.11 Nello stesso tempo la stupefacente verosimiglianza dei ritratti e delle sculture di genere egizi mostra l’enorme capacità di osservazione di questi artisti; e se le regole della prospettiva fanno davvero parte in maniera così essenziale della verità del mondo, come asseriscono con tanta insistenza i loro fautori, non si capisce assolutamente perché l’occhio raffinato dei maestri egizi non ne abbia osservato la presenza, e come sia stato possibile non osservarla. Per un altro verso, il famoso storico della matematica Moritz Cantor nota che gli egizi possedevano già i presupposti geometrici delle raffigurazioni prospettiche. In particolare, essi conoscevano la proporzionalità geometrica ed erano così progrediti in questo ambito che, in caso di necessità, erano in grado di applicare scale ingrandite o ridotte. «Proprio per questo non può che apparire strano che gli egizi non abbiano saputo fare il passo successivo e non abbiano scoperto la prospettiva. Com’è noto, nella pittura egizia non v’è alcuna traccia di essa e, benché ciò possa avere i suoi fondamenti, di carattere religioso o altro, resta comunque assodato il fatto geometrico che gli egizi non utilizzavano il procedimento consistente nell’immaginare un muro dipinto situato tra l’occhio che guarda e l’oggetto che viene raffigurato e nell’unire poi con una linea i punti di intersezione di questa superficie con i raggi indirizzati verso l’oggetto».12 È estremamente interessante l’osservazione fatta di passaggio da Moritz Cantor circa i fondamenti religiosi dell’assenza di prospettiva nelle raffigurazioni egizie. In effetti l’arte egizia, che ha nel suo bagaglio una tradizione millenaria, ha ereditato un carattere rigorosamente canonico e si è modellata su immutabili formule ieratiche che, probabilmente, nel loro significato intrinseco non sono troppo distanti dalle iscrizioni geroglifiche, così come le iscrizioni, a loro volta, non si sono allontanate troppo dall’idea di una raffigurazione metafisica. Ovviamente l’arte egizia non aveva bisogno di alcuna innovazione e gradualmente si ripiegò sempre più su se stessa. I rapporti prospettici, se anche fossero stati scoperti, non avrebbero potuto essere ammessi nel cerchio chiuso dei canoni dell’arte egizia. L’assenza della prospettiva diretta presso gli egizi, come, in modo diverso, anche presso i cinesi, è più una dimostrazione della maturità, e persino del senile eccesso di maturità, della loro arte, che non una prova della sua presunta inesperienza infantile: è la liberazione dalla prospettiva o l’originario disconoscimento del suo potere (potere tipico, come vedremo, del soggettivismo e dell’illusionismo) in nome di un’oggettività religiosa e di una metafisica sovrapersonale. Invece il principio della prospettiva, che è caratteristico di una coscienza disgregata, fa la sua comparsa proprio quando viene meno la solidità religiosa della concezione del mondo e quando la sacra metafisica della coscienza comune del popolo viene corrosa dall’opinione individuale del singolo con il suo singolare punto di vista, che oltre tutto è il suo singolare punto di vista in quel dato momento preciso. E va notato che questo avviene dapprima non nell’arte pura, che per sua stessa essenza è sempre più o meno metafisica, ma nell’arte applicata, in quanto momento decorativo che ha come obiettivo non la verità dell’essere, ma la verosimiglianza dell’apparenza.

È degno di nota che proprio ad Anassagora – quello stesso Anassagora che aveva cercato di trasformare le divinità viventi del Sole e della Luna in pietre incandescenti e di sostituire la creazione divina con un vortice centrale nel quale poi avevano fatto la loro comparsa gli astri – Vitruvio attribuisca l’invenzione della prospettiva, e per giunta in quella che gli antichi chiamavano skenographía, cioè la pittura delle scenografie teatrali. Secondo Vitruvio,13 ciò avvenne più o meno attorno al 470 a.C., quando Eschilo mise in scena ad Atene le sue tragedie e il celebre Agatarco ne allestì le scenografie, dedicandovi poi un trattato, il Commentarius, su impulso del quale Anassagora e Democrito furono spinti ad affrontare lo stesso argomento – la pittura delle scenografie – in maniera scientifica. Il problema da loro posto era il seguente: come tracciare delle linee su un piano in modo che, una volta stabilito un determinato centro, i raggi che conducono dall’occhio verso queste linee coincidano con quelli che conducono dall’occhio, sempre posto nello stesso luogo, verso i punti corrispondenti di un edificio reale, così che l’immagine dell’oggetto reale sulla retina – per esprimersi in termini moderni – coincida perfettamente con l’immagine della scenografia che raffigura questo oggetto?

4

La prospettiva, dunque, non fa la sua comparsa nell’arte pura e, se consideriamo la sua funzione originaria, non esprime assolutamente una viva percezione artistica della realtà; essa viene anzi concepita nell’ambito dell’arte applicata e, per essere più esatti, nell’ambito della tecnica teatrale, che prende al proprio servizio la pittura e la sottomette ai propri scopi. Corrispondono questi scopi agli scopi della pittura pura? Questa domanda non ha bisogno di risposta. La pittura, infatti, non ha come scopo quello di duplicare la realtà, ma di offrire una più profonda comprensione della sua architettonica, del suo materiale, del suo significato; e la comprensione di questo significato, di questo materiale che compone la realtà e della sua architettonica viene fornita all’occhio contemplatore dell’artista attraverso il contatto vivo con la realtà stessa, immedesimandosi in essa e condividendone il sentire. Nella misura del possibile, invece, la scenografia vuole sostituire la realtà con la sua apparenza; l’estetica di questa apparenza è la coerenza interna dei suoi elementi, e non certo l’espressione simbolica del prototipo attraverso un’immagine14 incarnata attraverso i procedimenti della tecnica artistica. La scenografia è un inganno, anche se bello; la pittura pura, invece, è innanzitutto, o per lo meno vuole essere, la verità della vita, una verità che non sostituisce la vita ma si limita a rimandare simbolicamente alla sua realtà più profonda. La scenografia è uno schermo che occulta la luce dell’essere, mentre la pittura pura è una finestra spalancata sulla realtà. Per la mente razionalistica di Anassagora e di Democrito, un’arte figurativa come simbolo della realtà non poteva esistere, e neppure era necessaria: come è tipico di ogni «ambulante» del pensiero – se mi è permesso innalzare a categoria storica questo piccolo fenomeno della vita russa –,15 essi non cercavano la verità della vita, che rende possibile la conoscenza intima, ma una somiglianza esteriore, pragmaticamente utile per le occupazioni della vita più immediate; non cercavano i fondamenti creativi della vita, ma l’imitazione dei suoi aspetti superficiali. Prima la scena greca era caratterizzata solo da «quadri e drappi»,16 ma da allora cominciò a sentire il bisogno dell’illusione. Supponiamo dunque che lo spettatore o l’artista scenografo sia veramente incatenato, come il prigioniero della caverna di Platone, alla panca del teatro e non possa o, il che è lo stesso, non debba avere un rapporto diretto e vivo con la realtà, come se fosse separato dalla scena da una barriera di vetro e potesse guardarla solo con un unico occhio immobile, senza la possibilità di penetrare nell’essenza stessa della vita e, ciò che è la cosa principale, con la volontà totalmente paralizzata, giacché l’essenza stessa del teatro desacralizzato esige che si guardi la scena senza partecipazione, come se fosse qualcosa che comunque «non è vero», «non è reale» – insomma, come se fosse soltanto una sorta di vuoto inganno; ebbene, questi primi teorici della prospettiva danno le regole per ingannare al meglio lo spettatore di un teatro. Anassagora e Democrito sostituiscono l’uomo vivo con uno spettatore paralizzato dal curaro e spiegano le regole per ingannarlo. Non è questo il momento di fare obiezioni; per adesso possiamo anche essere d’accordo: per l’illusione ottica di un simile malato, privato della maggior parte della normale vita umana, questi metodi di rappresentazione prospettica hanno effettivamente un loro significato.

Dobbiamo quindi dare per assodato che, per lo meno nella Grecia del V secolo a.C., la prospettiva era conosciuta, e se in qualche caso, nonostante tutto, non era applicata, ciò evidentemente non dipendeva dal fatto che i suoi princìpi fossero ignorati, ma da qualche altra motivazione più profonda, e cioè da motivazioni che discendevano direttamente dalle più alte esigenze dell’arte pura. E sarebbe assai poco verosimile, e in contrasto con lo stato delle scienze matematiche e con la grande capacità di osservazione geometrica raggiunta dall’occhio raffinato degli antichi, supporre che essi non abbiano notato che il carattere prospettico dell’immagine del mondo è tipico del normale modo di vedere o, ancora, supporre che non siano stati in grado di dedurre da elementari teoremi di geometria le più semplici applicazioni corrispondenti; sarebbe molto difficile mettere in dubbio il fatto che, quando non applicavano le regole della prospettiva, lo facevano proprio perché, molto semplicemente, non volevano applicarle e le consideravano superflue e antiartistiche.

5

In effetti Tolomeo, nella sua Geografia,17 che risale al II secolo d.C., esamina la teoria cartografica della proiezione di una sfera su un piano, e nel suo Planisfero studia diversi metodi di proiezione – in particolare la proiezione dal polo sul piano equatoriale, cioè la proiezione che poi, nel 1613, François d’Aiguillon18 chiamerà stereografica – e risolve anche altri difficili problemi di proiezione.19 Alla luce di un simile livello di sviluppo delle conoscenze, si può davvero credere che fossero invece sconosciuti i più semplici procedimenti della prospettiva lineare? E in effetti, quando abbiamo a che fare non con l’arte pura, ma con le illusioni scenografiche utilizzate per ampliare ingannevolmente lo spazio della scena teatrale o per rompere la piatta uniformità delle mura domestiche, ci imbattiamo immancabilmente in un uso della prospettiva lineare conforme agli scopi suddetti.

Tutto ciò è particolarmente evidente quando la vita, allontanandosi dalle sue fonti profonde, scorre nelle acque basse di un facile epicureismo, nell’atmosfera della fatua borghesia degli omuncoli greci – graeculorum, come li chiamavano i romani del tempo –, omuncoli che avevano perduto la profondità noumenale del genio greco e non erano riusciti ad acquisire la dimensione grandiosa, universale nella sua portata, del pensiero politico-morale del popolo romano. Ci riferiamo qui agli affreschi, fini e vuoti a un tempo, che adornavano le case di Pompei, e ancora alle scenografie architettoniche dipinte sulle pareti delle ville pompeiane.20 Arrivato a Roma principalmente da Alessandria e dagli altri centri della cultura ellenistica del I e del II secolo, questo barocco del mondo antico si proponeva degli scopi puramente illusionistici e aveva il preciso obiettivo di ingannare lo spettatore, che si supponeva dunque più o meno immobile. Affreschi di questo tipo, con soggetti a carattere architettonico o paesaggistico, risultano probabilmente assurdi, nel senso che la loro realizzazione nella realtà si rivela impossibile,21 e tuttavia vogliono esplicitamente ingannare, come se canzonassero lo spettatore e se ne prendessero gioco. Certi dettagli sono riprodotti con un naturalismo tale che lo spettatore si rende conto dell’illusione ottica solo al tatto: questa impressione è favorita dalla maestria del chiaroscuro, che dipende a sua volta dalla fonte luminosa – finestre, aperture nel soffitto, porte – che illumina la stanza.22 È degno di grandissima attenzione un altro fatto importante, e cioè che anche da questo paesaggio illusionistico partono fili che lo collegano all’architettura della scena greco-romana.23 La radice della prospettiva è nel teatro, e questo non solo per la ragione tecnico-storica che il teatro per primo ha avuto bisogno della prospettiva, ma anche in forza di un motivo più serio: il carattere teatrale della raffigurazione prospettica del mondo. In questo, dopotutto, consiste quella percezione del mondo disimpegnata, priva di senso della realtà e di coscienza della propria responsabilità, secondo cui la vita è soltanto uno spettacolo senza alcun elemento di ascetica obbligazione.24 E perciò – tornando a Pompei – è vano cercare in questi affreschi delle autentiche opere di arte pura. In effetti, l’abilità tecnica di queste scenografie domestiche non induce comunque gli storici dell’arte25 a dimenticare che esse sono «soltanto le opere di artigiani virtuosi, e non certo di artisti autenticamente ispirati». E la stessa cosa vale per i paesaggi di fondo nelle scene di genere, dipinte «sempre molto approssimativamente», abbozzate in fretta e con mestiere. «Resta ancora da chiedersi: è così che vennero dipinti gli sfondi dei quadri più famosi degli autori classici?».26 Queste opere «peccano di approssimazione nella soluzione dei problemi legati alla prospettiva, problemi che gli artisti affrontavano quasi esclusivamente in maniera empirica» dice Benois. «E tuttavia il problema è complesso. Queste caratteristiche significano forse che in realtà le leggi della prospettiva non erano note agli antichi? E non vediamo forse anche oggi» chiede Benois «la stessa tendenza a dimenticare la prospettiva come scienza? Non è affatto lontano il tempo in cui anche noi giungeremo in questo campo alle assurdità “bizantine” e ci lasceremo alle spalle l’imperizia e l’approssimazione della pittura tardoclassica. E, sulla base di quanto abbiamo appena detto, potremo forse negare la conoscenza delle leggi della prospettiva nelle generazioni di artisti che ci hanno preceduto?».27

In effetti, in queste realizzazioni prospetticamente imperfette si possono cogliere almeno in parte i primi segnali di quel declino della prospettiva che presto inizierà nell’Oriente e nell’Occidente medioevali. A me pare invece che tali inesattezze nell’applicazione della prospettiva vadano interpretate come una sorta di compromesso tra gli obiettivi propriamente scenografici della pittura illusionista e gli obiettivi sintetici dell’arte pura: non si può infatti dimenticare che una casa in cui si abita, sebbene non sia certo un luogo di lavoro, non è neppure un teatro, né si può dimenticare che chi abita una casa non è assolutamente così inchiodato al suo posto o così limitato nei movimenti come lo è uno spettatore a teatro. Se gli affreschi di una qualsiasi Casa dei Vettii28 si fossero attenuti rigorosamente alle regole della prospettiva e avessero cercato in questo modo di ingannare lo spettatore o di realizzare un semplice gioco visivo, avrebbero potuto raggiungere i loro scopi solo con uno spettatore immobile e, per giunta, situato in un punto ben preciso della stanza; al contrario, ogni suo movimento o, ancor di più, ogni spostamento da un luogo a un altro avrebbero prodotto la sgradevole sensazione di un inganno non riuscito o di un trucco smascherato. Ed è appunto per evitare grossolane cadute dell’effetto illusionistico che lo scenografo rinuncia ad applicarlo in maniera indiscriminata a ogni singolo punto di vista e ricorre invece a una prospettiva in certo qual modo sintetica, offrendo per ogni singolo punto di vista una soluzione approssimativa del problema, la quale però, proprio per questo, si estende allo spazio di tutta la stanza; volendo usare una metafora, potremmo dire che si serve della scala temperata di uno strumento a tasti, il che, nei limiti della precisione richiesta, è più che sufficiente. Oppure, per dirla in altre parole, rinuncia parzialmente a un’arte delle copie e, anche se in misura ancora estremamente limitata, intraprende il cammino di una raffigurazione sintetica del mondo, cioè, da scenografo, si trasforma almeno parzialmente in un vero e proprio artista. Ma, ripeto, in lui si può vedere un artista non perché in parte, o perfino in larga parte, si attiene alle leggi della prospettiva, ma solo perché e nella misura in cui se ne discosta.

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A partire dal IV secolo d.C. l’illusionismo entra in crisi e nella pittura la rappresentazione prospettica dello spazio semplicemente scompare: si palesa un evidente misconoscimento delle leggi della prospettiva, una mancanza di attenzione nei confronti dei rapporti di proporzione fra i diversi oggetti e persino, in qualche caso, fra le diverse parti di essi. Questo decadimento della pittura tardoclassica, che nella sua sostanza seguiva le leggi della prospettiva, si consuma con incredibile rapidità e si approfondisce in seguito, di secolo in secolo, sino al primo Rinascimento compreso. I maestri del Medioevo «non hanno alcuna idea della convergenza delle linee in un punto o del significato dell’orizzonte. È come se gli artisti tardoromani o bizantini non avessero mai visto degli edifici dal vivo e avessero a che fare solo con delle piatte sagome giocattolo. Altrettanto poco si preoccupavano delle proporzioni, e col passare del tempo se ne preoccuparono sempre meno. Tra la statura delle figure e le dimensioni degli edifici loro destinati non esiste alcun rapporto. E a questo bisogna ancora aggiungere che, con l’andare dei secoli, anche nei dettagli si nota un allontanamento sempre maggiore dalla realtà. Nelle opere del VI, VII e fino al X e XI secolo, si può ancora stabilire un qualche parallelo tra l’architettura reale e la pittura architettonica, ma in seguito, nella pittura bizantina, si afferma quello strano tipo di “pittura di edifici” nel quale tutto è arbitrio e convenzione».29

Questa descrizione della pittura medioevale è tratta dalla Storia della pittura di Aleksandr Benois, ma l’abbiamo presa da lì solo perché avevamo questo libro sottomano; nelle lagnanze di Benois non è difficile cogliere le solite, vecchie denigrazioni dell’arte medioevale, che ormai da tempo sono venute a noia ma che si possono leggere in qualsiasi libercolo di storia dell’arte, e in particolare i riferimenti all’«ignoranza» della prospettiva, con le consuete allusioni al fatto che gli edifici vengono raffigurati «a tre facciate», come li disegnano i bambini, al fatto che i colori sono scelti in maniera del tutto «convenzionale», che le parallele divergono all’orizzonte, che le proporzioni non sono rispettate e che in generale manca qualsiasi idea di cosa siano la prospettiva o anche solo lo spazio. A completamento di tale descrizione del Medioevo, bisogna aggiungere che anche in Occidente, da questo punto di vista, le cose non andavano meglio, e anzi andavano perfino significativamente peggio: «Se paragoniamo quello che veniva fatto più o meno nel X secolo in Europa occidentale a quello che accadeva nello stesso periodo a Bisanzio, quest’ultima ci apparirà come il vertice della raffinatezza artistica e della maestria tecnica».30 Data una simile concezione di Bisanzio, non deve stupire la sintesi che ne consegue (che poi questa sintesi sia di Benois o della maggior parte degli altri studiosi non cambia assolutamente nulla, tanto essa ha già annoiato con le sue infinite ripetizioni, che vanno di pari passo con gli ancor più stucchevoli proclami degli storici della cultura a proposito delle «tenebre» del Medioevo); recita dunque questa sintesi:

La storia della pittura bizantina, con tutte le sue oscillazioni e le sue momentanee fioriture, è una storia di decadenza, di regressione e di degenerazione. I modelli dei pittori bizantini si allontanano sempre di più dalla vita, la loro tecnica diventa sempre più schiava della tradizione e frutto del mestiere.31

Come è noto, a partire dal Rinascimento e sin quasi ai nostri giorni, lo schema della storia dell’arte e della storia della cultura in generale resta sempre invariabilmente lo stesso, ed è per giunta incredibilmente semplice. A suo fondamento sta una fede incrollabile nel valore assoluto, nella perfezione ultima e, per così dire, nella canonizzazione e quasi nell’assunzione in un ambito metafisico di quella che in fondo altro non è se non la civiltà borghese della seconda metà del XIX secolo, cioè l’orientamento kantiano, anche se poi non deriva direttamente da Kant. In verità, se c’è un caso in cui si può parlare di sovrastrutture ideologiche che si innestano sulle forme economiche della vita, è proprio quello degli storici della cultura del XIX secolo, che credevano ciecamente nell’assolutezza dello spirito piccoloborghese e valutavano la storia universale in base alla vicinanza delle sue manifestazioni a quelle della seconda metà del XIX secolo. E questo vale anche per la storia dell’arte: tutto quanto è simile all’arte di questo periodo, o si muove nella sua direzione, viene considerato positivo; tutto il resto non è altro che decadenza, ignoranza e barbarie. Alla luce di una simile scala di valori, diventano perfettamente comprensibili le lodi entusiastiche che spesso sfuggono di bocca persino a storici del tutto degni di rispetto: «assolutamente attuale», «non avrebbero potuto fare di meglio neppure allora», e subito si precisa un anno vicino nel tempo al periodo in cui viveva lo storico in questione. In effetti, per chi crede nella contemporaneità, è inevitabile anche avere piena fiducia nei propri contemporanei, esattamente come succede per i provinciali della scienza, profondamente convinti che in ambito scientifico possa esistere un libro che debba essere «riconosciuto» alla stregua di «verità definitiva» (come se in tale ambito ci fosse un qualche concilio ecumenico per la formulazione di dogmi). E allora si capisce perché, per storici di questo tipo, il passaggio dell’arte antica, attraverso il bello, dalla santità arcaica al sensibile e infine all’illusionismo possa sembrare uno sviluppo. Il Medioevo, che rinuncia del tutto agli intenti illusionistici e si pone come scopo la creazione non di copie ma di simboli della realtà, sembra decadente. E, da ultimo, a questi storici non può che apparire un indiscutibile progresso l’arte dell’Età moderna, che inizia col Rinascimento e che subito, per un tacito accordo e per chissà quale meccanismo di reciproco consenso, ha deciso di sostituire la creazione di simboli con la fabbricazione di copie, tracciando in tal modo l’ampia via che ha portato al XIX secolo. «E come potrebbe essere una cosa cattiva, se in forza di una logica interna ineluttabile è arrivata sino a voi, sino a me?»: questo, a esprimerlo senza troppa affettazione, è quanto hanno veramente in testa i nostri storici.

Ed essi hanno pienamente ragione nel riconoscere che c’è un legame diretto, e per giunta non soltanto esteriormente storico, ma anche interiormente logico e trascendentale, fra le premesse del Rinascimento e la concezione della vita che ha caratterizzato il passato più recente; così come hanno perfettamente ragione quando percepiscono la totale incompatibilità tra le premesse del Medioevo e la concezione del mondo appena ricordata. Dovendo riassumere in una frase tutto ciò che si dice da un punto di vista formale contro l’arte del Medioevo, lo si può ridurre a questo rimprovero: «Manca il senso dello spazio»; e questo rimprovero, per dirla in maniera più dettagliata, significa che non c’è unità spaziale, che manca lo schema dello spazio euclideo-kantiano, il quale, in ambito pittorico, si riduce alla prospettiva lineare e alla proporzionalità – o, più esattamente, alla sola prospettiva, giacché la proporzionalità ne è un semplice corollario.

Con ciò si suppone (e, cosa estremamente pericolosa, lo si fa in maniera inconscia) che sia di per sé evidente, o che sia stato pienamente dimostrato da qualche parte e da qualcuno, che in natura non esiste alcuna forma – non esiste come singola forma vivente chiusa nel suo piccolo mondo –, perché non esiste in generale nessuna realtà che abbia in sé il proprio centro e che sia perciò soggetta a leggi sue proprie; e si suppone quindi che tutto quanto è visibile e percepibile sia soltanto un semplice materiale destinato a rientrare in un certo schema generale di riorganizzazione che viene sovrapposto dall’esterno e il cui principio regolatore è dato dallo spazio kantiano-euclideo; e, di conseguenza, si suppone ancora che tutte le forme della natura siano soltanto delle forme apparenti, sovrapposte dallo schema del pensiero scientifico a un materiale impersonale e indifferenziato, che siano cioè una sorta di gabbia per incasellare la vita, e nulla più. E, per finire, la premessa logicamente prima è quella di uno spazio qualitativamente omogeneo, infinito e illimitato; di uno spazio, per così dire, informe e non individuale.

Non è difficile rendersi conto che queste premesse negano nello stesso tempo tanto la natura quanto l’uomo, benché si radichino, per un’ironia della storia, in parole d’ordine come naturalismo e umanesimo, che hanno trovato il loro compimento nella proclamazione ufficiale dei diritti dell’uomo e della natura.

Non è questo il luogo per definire o anche soltanto tratteggiare il legame che unisce le dolci radici rinascimentali con gli amari frutti kantiani. È sufficientemente noto che il kantismo, per il suo pathos, è appunto l’approfondimento della concezione umanistico-naturalistica della vita tipica del Rinascimento, mentre, per estensione e profondità, è l’autocoscienza di quell’eone storico che si è autodefinito «cultura europea moderna» e che, non senza diritto, ancora recentemente si è vantato del suo dominio di fatto. Ma negli ultimissimi tempi cominciamo ormai a capire che considerare le acquisizioni di questa cultura come qualcosa di definitivo è soltanto un’illusione, e abbiamo anche compreso che, da un punto di vista scientificofilosofico, storico e in particolar modo artistico, tutti gli spauracchi coi quali hanno cercato di farci guardare con diffidenza al Medioevo sono stati inventati dagli storici stessi, e che in realtà il Medioevo è attraversato dal fiume abbondante e ricco di una cultura autentica, con una sua scienza, una sua arte, una sua concezione dello Stato e, insomma, con tutto ciò che costituisce di fatto una cultura, e la costituisce come qualcosa di suo proprio, collegandola oltre tutto all’antichità più autentica. E nel Medioevo, come nell’antichità (esatto, come nell’antichità!), le premesse che vengono considerate indiscutibili nella concezione della vita dell’Età moderna non solo non32 vengono ritenute indiscutibili, ma vengono anzi negate, e non a causa di un debole grado di coscienza, ma essenzialmente per un’aspirazione della volontà. Il pathos dell’uomo moderno è quello della liberazione da ogni realtà, perché l’«io voglio» detti di nuovo legge a una realtà ancora in costruzione, fantasmagorica, anche se incasellata in una gabbia fatta apposta a tale scopo. Al contrario, il pathos dell’uomo antico, come anche dell’uomo medioevale, è quello dell’accettazione, del riconoscimento pieno di gratitudine e dell’affermazione di ogni realtà come un bene, perché l’essere è il bene e il bene è l’essere; il pathos dell’uomo medioevale è l’affermazione della realtà in sé e fuori di sé, e per ciò stesso è il pathos dell’oggettività. Tipico del soggettivismo dell’uomo moderno è l’illusionismo. Al contrario, non v’è nulla che sia così lontano dalle intenzioni e dai pensieri dell’uomo medioevale (le cui radici sono nell’antichità) come l’idea di creare delle copie e di vivere in un mondo fatto di copie. Per l’uomo moderno – secondo la sua esplicita ammissione così come formulata dalla scuola di Marburgo – la realtà esiste solo ed esclusivamente quando, e nella misura in cui, la scienza si degna di permetterle di esistere, concedendole questo suo permesso nella forma di uno schema inventato, dove poi questo schema deve presentarsi come la soluzione di un caso giuridico, così che ogni determinato fenomeno si possa considerare come qualcosa che rientra perfettamente nella gabbia costruita per incasellare la vita e sia perciò ammissibile. La patente di realtà viene rilasciata soltanto nella cancelleria di Hermann Cohen, ed è nulla senza timbro e firma.

Ciò che viene affermato esplicitamente dalla scuola di Marburgo costituisce lo spirito del pensiero rinascimentale, e tutta la storia della cultura è in gran parte occupata da una sorta di guerra contro la vita, per costringerla interamente entro un sistema di schemi. Ma va anche rilevato, e merita una grandissima risata interiore, che l’uomo moderno cerca tenacemente di spacciare questa alterazione, questa deformazione del naturale modo umano di pensare e di sentire, questa rieducazione nello spirito del nichilismo come una sorta di ritorno alla naturalità, come la liberazione da chissà quali pastoie che chissà chi gli avrebbe imposto, con l’esito non secondario che, a forza di voler raschiar via dall’anima umana tutte le tracce della storia, si finisce con il cancellare l’anima stessa.

L’uomo antico e medioevale, invece, sa innanzitutto che per volere bisogna essere, essere una realtà e trovarsi inoltre in un mondo fatto di realtà, sulle quali ci si deve fondare: è un uomo profondamente realista che sta con i piedi ben piantati per terra, al contrario dell’uomo moderno che si preoccupa soltanto dei propri desideri e quindi, necessariamente, dei mezzi più immediati per realizzarli e soddisfarli. Da quanto detto fin qui si capisce che le premesse di una concezione realistica della vita sono sempre state e sempre saranno le seguenti: ci sono delle realtà, ci sono cioè dei centri dell’essere, dei grumi di essere che sono soggetti a leggi loro proprie e che hanno perciò, ciascuno, una propria forma; per questo nulla di ciò che esiste può essere considerato alla stregua di un materiale indifferenziato e passivo, destinato a rientrare a ogni costo in un qualche schema e, tanto meno, ad adeguarsi allo schema dello spazio euclideo-kantiano; per questo, ancora, le forme devono essere concepite in base alla loro vita e devono essere raffigurate in sé e per sé, secondo il modo in cui sono state concepite, e non in base alle angolazioni di una prospettiva predeterminata sin dall’inizio. Da ultimo, infine, va ricordato che lo spazio stesso non è soltanto un luogo uniforme e senza struttura, non è una semplice casella, ma è a sua volta una realtà originale, perfettamente organizzata, per nulla indifferenziata e caratterizzata invece da un ordine e da una struttura interiori.

7

Così stanno dunque le cose. La presenza o meno della prospettiva nella pittura di un intero periodo storico non può affatto essere considerata una semplice questione di abilità o non abilità dell’artista, ma ha le sue origini a un livello molto più profondo, nelle decisioni di una volontà radicale che dà il suo impulso creativo in una direzione anziché in un’altra. La nostra tesi – e ci torneremo sopra ripetutamente – è che, in quelle fasi storiche della creatività artistica in cui non si osserva l’utilizzo della prospettiva, i creatori delle arti figurative non è che «non sapevano», ma non volevano utilizzarla o, più precisamente, volevano utilizzare un principio figurativo diverso da quello della prospettiva, e volevano così perché il genio del tempo comprende e sente il mondo in un modo che racchiude in sé in maniera immanente anche questo procedimento figurativo. In altri periodi, invece, si dimentica il senso e il significato di una raffigurazione libera dalle leggi della prospettiva, si perde del tutto qualsiasi propensione verso di essa, perché la concezione della vita tipica di quel determinato periodo, che nel frattempo è completamente mutata, porta a una rappresentazione prospettica del mondo. Entrambe le situazioni hanno una loro coerenza interna, una logica stringente che in sostanza è estremamente elementare, e il fatto che questa logica non si manifesti subito in tutta la sua forza non dipende dalla sua complessità, ma dall’ambiguità dello spirito del tempo, che oscilla tra due modi di autodefinirsi che si escludono reciprocamente.

In ultima analisi, in effetti, ci sono soltanto due tipi di esperienza del mondo, l’esperienza umana in senso lato e l’esperienza «scientifica», cioè kantiana, così come ci sono soltanto due atteggiamenti nei confronti della vita, interiore ed esteriore, e due tipi di cultura, quella creativo-contemplativa e quella meccanico-rapace. Tutto il problema sta nella scelta dell’una o dell’altra via, la via della notte medioevale o la via del giorno luminoso della cultura; tutto il resto, poi, è determinato con assoluta consequenzialità, come su un libro stampato. Ma queste fasi della cultura che si alternano nella storia non si separano di colpo l’una dall’altra, e ciò a causa dell’indeterminatezza in cui si trova nei singoli periodi lo spirito stesso, che si è già stancato di una fase ma non si è ancora lasciato conquistare dall’altra. Senza addentrarci ora nel significato delle violazioni prospettiche – torneremo a occuparci in seguito di tale problema con una forza di persuasione psicologica maggiore –, ricordiamo soltanto il fatto che nella pittura medioevale tali violazioni non si presentano affatto occasionalmente, e ora in un modo ora in un altro, ma sono soggette a un sistema ben definito: le linee di fuga parallele divergono sempre all’orizzonte, e inoltre la cosa è tanto più evidente quanto più è necessario mettere in risalto l’oggetto da loro delimitato. Se nelle particolarità dei rilievi egizi noi vediamo non il frutto casuale di una qualche ignoranza, ma un metodo artistico – giacché queste particolarità si incontrano non una o due volte, ma migliaia e decine di migliaia di volte, risultando quindi intenzionali –, così, per un motivo analogo, non si può non riconoscere la presenza di un vero e proprio metodo anche nel modo originale in cui vengono violate le leggi della prospettiva nell’arte medioevale. E anche da un punto di vista psicologico, poi, non è possibile immaginare che, nel corso di molti secoli, genti forti e profonde che avevano saputo costruire una cultura originale non siano state in grado di notare un fatto così elementare, così inconfutabile e, si può anche dire, così clamoroso come la convergenza all’orizzonte delle linee parallele.

E se questo ancora non basta, ecco un’altra prova: per quel che concerne la mancanza di prospettiva, o, per essere più esatti, per quel che concerne la prospettiva rovesciata, i disegni dei bambini ricordano indiscutibilmente i disegni medioevali, nonostante tutti gli sforzi degli insegnanti per inculcare loro le regole della prospettiva lineare; ed è solo con la perdita del rapporto immediato col mondo che i bambini abbandonano la prospettiva rovesciata e si assoggettano allo schema che viene loro trasmesso. Così si comportano tutti i bambini, indipendentemente gli uni dagli altri. E ciò significa che qui non abbiamo a che fare con una semplice casualità, e neppure con l’invenzione arbitraria di qualcuno di loro che si mette a bizantineggiare, ma con un metodo figurativo che deriva dal carattere di una precisa sintesi percettiva del mondo. Siccome il pensiero infantile non è un pensiero ridotto, ma un tipo particolare di pensiero,33 che oltre tutto può raggiungere qualsiasi grado di perfezione sino alla genialità, e che anzi è particolarmente vicino alla genialità, bisogna ammettere che, nella raffigurazione del mondo, anche la prospettiva rovesciata non è affatto una prospettiva lineare non riuscita, incompresa e non studiata sino in fondo, ma un vero e proprio modo originale di afferrare il mondo, col quale bisogna fare i conti come con un procedimento figurativo maturo e a sé stante, che si può anche odiare, come un procedimento ostile, ma del quale comunque non è consono parlare con commiserazione o con protettiva indulgenza.

8

In effetti nel XIV secolo, in Occidente, la nuova concezione del mondo è caratterizzata anche da un nuovo atteggiamento nei confronti della prospettiva.

Come è noto, i primi e più sommessi refoli del naturalismo, dell’umanesimo e della Riforma cominciarono a spirare da quell’innocente «pecorella di Dio» che fu Francesco d’Assisi, il quale venne canonizzato per rendersene immuni e per il semplice motivo che non avevano fatto in tempo a mandarlo al rogo. La prima manifestazione del francescanesimo nel campo dell’arte fu invece il giottismo.

L’opera di Giotto, di solito, viene associata mentalmente all’idea di Medioevo, ma è un errore. Giotto guarda altrove. Il suo «genio allegro e felice, alla maniera italiana», fecondo e leggero, era incline a gettare sulla vita lo sguardo poco profondo del Rinascimento. «Fu, come si è detto, Giotto ingegnoso, e piacevole molto, e» dice Vasari «ne’ motti argutissimo, de’ quali n’è anco viva memoria in questa città».34 E tuttavia va detto che quelli che ancora oggi si ripetono sono piuttosto sconci e volgari, e molti di essi anche irrispettosi della religione. Sotto il velo dei soggetti religiosi si può avvertire in lui uno spirito mondano, satirico, sensuale e persino positivistico, ostile all’ascetismo. Pur alimentandosi dei frutti maturi dell’epoca che lo aveva preceduto, egli respira ormai un’altra atmosfera. «Anche se nacque in un secolo mistico, egli non fu un vero mistico, e anche se fu amico di Dante non gli assomigliò affatto» scrive di Giotto Hippolyte Taine.35 Là dove Dante mena i fendenti di una santa collera, Giotto canzona e censura non la distruzione dell’ideale, ma l’ideale stesso. Lui, che aveva dipinto il Matrimonio di san Francesco con Madonna Povertà, in una sua poesia si prende gioco dell’ideale stesso di povertà.

Di quella povertà, ch’eletta pare,
si può veder per chiara esperienza
che senza usar fallenza
s’osserva o no, non sì come si conta;
e l’osservanza non è da lodare,
perché discrezion né conoscenza,
o alcuna valenza
di costumi o virtudi le s’affronta.
Certo parmi grand’onta
chiamar virtute quel che spegne il bene;
e molto mal s’avviene
cosa bestial preporre alle virtute
le qua’ donan salute;
ad ogni savio intendimento accetta:
e chi più vale, in ciò più si diletta.36

Si fa fatica a credere che questa esplicita preferenza accordata alla gloria mondana a detrimento del lavoro ascetico del dominio di sé sia uscita dalla penna di un amico di Dante. Ma così è; e del resto, oltre a Dante, Giotto aveva anche altri amici, epicurei e negatori di Dio. Egli si era forgiato un ideale di cultura universale e umanistica, e si immagina la vita secondo lo spirito dei liberi pensatori del Rinascimento, come felicità terrena e progresso dell’uomo, con la sottomissione di tutto il resto all’obiettivo fondamentale: il pieno e perfetto sviluppo di tutte le forze naturali; il primo posto, qui, appartiene agli inventori dell’utile e del bello. E lui stesso aspira a essere come loro, il prototipo del più tipico genio del tempo: Leonardo. Scrive ancora Vasari: «E perché oltre quello, che aveva Giotto da natura, fu studiosissimo, et andò sempre nuove cose pensando, e dalla natura cavando, meritò d’esser chiamato Discepolo della natura, e non d’altri ... Dipinse ... certi paesi, pieni d’alberi e di scogli, che fu cosa nuova in que’ tempi».37 Ancora permeato della linfa benefica del Medioevo, e pur non essendo lui un naturalista, fu però il primo ad avvertire la brezza antelucana del naturalismo e se ne fece araldo.

Padre del paesaggio contemporaneo, Giotto introduce il procedimento dell’architettura dipinta con il sistema del trompe l’œil e risolve a occhio, con un successo stupefacente per il suo tempo, alcuni arditi problemi prospettici. Gli storici dell’arte dubitano che Giotto conoscesse le leggi della prospettiva: se ciò fosse esatto dimostrerebbe anche, con una consequenzialità ovvia, che, quando l’occhio cominciò a lasciarsi guidare dalla ricerca interiore della prospettiva, quasi immediatamente seppe trovarla, sia pur in una forma ancora imperfetta. Giotto non solo non commette grossolani errori di prospettiva ma, al contrario, sembra quasi giocare con essa, ponendosi complessi problemi prospettici che poi risolve in maniera penetrante e del tutto soddisfacente; in particolare, le linee di fuga parallele convergono all’orizzonte in un unico punto. Inoltre, negli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi, Giotto inaugura una pittura murale che assume «il significato di qualcosa di autonomo, e che sembra quasi rivaleggiare con l’architettura». L’affresco «non è una decorazione murale con un soggetto», ma «la visione di alcune azioni attraverso il muro».38 È degno di attenzione il fatto che in seguito Giotto ricorse raramente a questo procedimento troppo audace per l’epoca, come raramente vi ricorsero tutti i suoi discepoli più vicini, mentre nel XV secolo un’architettura di questo tipo diventa la regola generale, e nei secoli XVI e XVII porta poi al decisivo arricchimento della pittura architettonica in edifici assolutamente semplici e banali, privi di qualsiasi ornamento architettonico reale.39 Se ne deve trarre la conclusione che, se successivamente il padre della pittura contemporanea non ricorre più a tale procedimento, non è perché non lo conoscesse, ma perché il suo genio artistico, che nel frattempo era maturato, aveva cioè preso coscienza di sé nella sfera dell’arte pura, si sentì estraneo a una prospettiva produttrice di inganni o, per lo meno, si liberò dall’idea della sua obbligatorietà; così come successivamente, a quanto pare, si attenuò anche il suo umanesimo razionalistico.

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Ma, allora, da dove ha preso le mosse Giotto? O, in altre parole, da dove gli è venuta la capacità di servirsi della prospettiva? Le analogie storiche e il significato intrinseco della prospettiva nella pittura ci suggeriscono una risposta che conosciamo già. Quando si comincia a mettere in dubbio il carattere assoluto del teocentrismo e insieme alla musica delle sfere celesti prende a risuonare la musica della terra (intendendo qui, per «terra», l’autoaffermazione dell’«io» umano), allora inizia anche il tentativo di sostituire la realtà, che nel frattempo è stata avvolta dall’oscurità e dalla nebbia, con delle copie e dei fantasmi; al posto della teurgia si pone poi un’arte illusionistica, e al posto dell’azione divina si pone il teatro.

Viene naturale pensare che Giotto abbia sviluppato l’abitudine e il gusto per il trompe l’œil prospettico a partire dalle scenografie teatrali: un precedente simile lo abbiamo già visto in ciò che dice Vitruvio a proposito dell’allestimento delle tragedie di Eschilo e del ruolo che vi aveva avuto Anassagora. Un identico passaggio dalla teurgia a una visione laica, quale fu quello rappresentato nell’antica Grecia dalle tragedie – di Eschilo, quindi di Sofocle e, da ultimo, di Euripide – che progressivamente si erano allontanate dalla realtà mistica, o per essere più esatti dalla realtà misterica, è quello che, nello sviluppo del teatro dell’Età moderna, ha visto scomparire i misteri e sorgere il dramma moderno. Stando a quanto dicono gli storici dell’arte, è in effetti probabile che il paesaggio di Giotto sia nato veramente dalle scenografie di quelli che allora si chiamavano «misteri»; e sarebbe proprio per questo, aggiungiamo noi, che tale paesaggio non avrebbe potuto non sottostare al principio della scenografia illusionista, cioè alla prospettiva. Per non dare l’idea di fare affermazioni senza fondamento, avvaloreremo le nostre osservazioni con il parere di uno storico dell’arte che ha un indirizzo di pensiero lontano dal nostro. «In che cosa il paesaggio di Giotto dipendeva dalle scenografie dei misteri?» si chiede Aleksandr Benois, per poi rispondersi lui stesso: «In certi punti questa dipendenza è tanto evidente (nella forma di piccolissime casette e padiglioni che ricordano elementi di scena, nella forma di rocce simili a piatti scenari ritagliati nel cartone) che non si può in alcun modo mettere in dubbio l’influenza esercitata sulla sua pittura dall’allestimento di questi spettacoli religiosi: è molto facile, per noi, vedere in determinati affreschi la diretta trasposizione di alcune scene di tali rappresentazioni. Va tuttavia detto che, proprio nei dipinti che possono essere attribuiti a Giotto con certezza, questa dipendenza diventa sempre meno evidente e, ogni volta, si presenta in una forma radicalmente rielaborata, secondo le convenzioni della pittura monumentale».40

In altre parole Giotto, maturando come artista puro, si allontana progressivamente dalle scenografie, le quali, oltre tutto, essendo il prodotto di un lavoro di bottega, ben difficilmente erano opera di una sola persona. L’innovazione di Giotto, quindi, consisteva non tanto nell’uso della prospettiva in quanto tale, ma nell’impiego pittorico di questo strumento preso a prestito da un’arte applicata e popolare, esattamente come avevano fatto Petrarca e Dante trasferendo in poesia la lingua volgare. In ultima istanza, si può arguire che la conoscenza o, per lo meno, la capacità di utilizzare i procedimenti della prospettiva, intesa come «misteriosa scienza della prospettiva»,41 per servirsi dell’espressione di Albrecht Dürer, era qualcosa che già esisteva, e forse era sempre esistito, fra i maestri che dipingevano le scenografie per i misteri, anche se la pittura, nel senso più rigoroso del termine, evitava procedimenti di questo tipo. Ma poteva forse non conoscerli? È difficile crederlo, specie se si considera che gli Elementi di geometria di Euclide erano ben conosciuti. Già Dürer, nelle sue Istruzioni sulle misurazioni,42 che uscì nel 1525 e che conteneva uno studio della prospettiva, inizia il primo libro del trattato con delle parole che indicano chiaramente come la teoria della prospettiva rappresentasse un’assai piccola novità rispetto alla geometria elementare – un’assai piccola novità, ovviamente, per la coscienza della gente di quel tempo: «Il profondissimo Euclide ha già esposto i fondamenti della geometria» scrive Dürer «e, per chi li conosce già bene, quanto scritto qui sarà superfluo».43

La prospettiva elementare era quindi nota da tempo: era nota anche se non andava al di là dell’anticamera della grande arte.

Ma, nella misura in cui la concezione religiosa del mondo tipica del Medioevo si secolarizza, l’azione puramente religiosa degenera nella semiteatralità dei misteri e l’icona decade nella cosiddetta pittura religiosa, dove sempre più spesso il soggetto religioso diventa soltanto un pretesto per la raffigurazione dei corpi e dei paesaggi. Da Firenze si propaga un’ondata di secolarizzazione; e a Firenze i discepoli di Giotto scoprirono e poi diffusero i princìpi della pittura naturalistica come modello artistico.

Giotto stesso e, sulle sue orme, Giovanni da Milano e soprattutto Altichiero e Avanzo realizzano audaci costruzioni prospettiche. È naturale che queste sperimentazioni artistiche, esattamente come le tradizioni parzialmente attinte dalle opere di Vitruvio e di Euclide, andassero poi a costituire la base di un sistema teorico nel quale la dottrina della prospettiva doveva essere formulata in maniera completa e argomentata. I fondamenti scientifici che, dopo un secolo di rielaborazione, diedero «l’arte di Leonardo e di Michelangelo» vennero dunque scoperti e sviluppati a Firenze. Non sono giunte fino a noi le opere di due teorici del tempo: Paolo dell’Abbaco (1366) e Biagio da Parma, che fu a lui posteriore. Ma con ogni probabilità furono proprio loro, in sostanza, a preparare il terreno sul quale, a partire dall’inizio del XV secolo, avrebbero poi lavorato i principali teorici della dottrina della prospettiva:44 Filippo Brunelleschi (1377-1446)45 e Paolo Uccello (1397-1475), quindi Leon Battista Alberti, Piero della Francesca (1420 ca.-1492) e, infine, una serie di scultori tra i quali va ricordato in particolare Donatello (1386-1466). La grande influenza esercitata da questi ricercatori era determinata dal fatto che essi non si limitavano a elaborare teoricamente le regole della prospettiva, ma applicavano poi le loro scoperte alla pittura illusionistica. Ne sono un esempio gli affreschi che raffigurano monumenti, e che denotano un’enorme padronanza delle leggi della prospettiva, realizzati sulle pareti del duomo di Firenze da Paolo Uccello nel 1436 e dal Castagno nel 1435;46 e tale è anche l’affresco scenografico realizzato in Sant’Apollonia a Firenze da Andrea del Castagno (1390-1457).47 «Tutto il suo severo ornamento – il pavimento a scacchiera, il soffitto a cassettoni, le rosette e i pannelli alle pareti – è raffigurato con una precisione ossessiva per ottenere l’impressione generale della profondità (noi parleremmo di “stereoscopia”). E questa impressione è così ben conseguita che tutta la scena, nella sua immobilità, ha l’aspetto di un gruppo uscito da un museo delle cere – un “museo delle cere geniale”, ovviamente»48 nota con involontario sarcasmo un partigiano della prospettiva e del Rinascimento. Anche Piero della Francesca lascia un manuale di prospettiva, dal titolo De perspectiva pingendi.49 Nella sua opera in tre volumi Sulla pittura, terminata entro il 1446 e pubblicata poi a Norimberga nel 1511, Leon Battista Alberti (1404-1472) sviluppa i fondamenti della nuova scienza e li illustra nell’applicazione alla pittura architettonica. Masaccio (1401-1429) e i suoi discepoli Benozzo Gozzoli (1420-1498)50 e fra’ Filippo Lippi (1406-1469) cercano di utilizzare la scienza della prospettiva nella loro pittura, finché, alla fine, non si cimenta in questi stessi problemi teorici e pratici Leonardo da Vinci (1452-1519), e finché, ancora, Raffaello Sanzio (1483-1520) e Michelangelo Buonarroti (1475-1564) non giungono a dare alla prospettiva pieno sviluppo.

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Non proseguiremo oltre nel delineare le tappe che hanno caratterizzato lo sviluppo teorico e artistico della prospettiva nel periodo storico che ha immediatamente preceduto il nostro, tanto più che il suo studio è per lo più passato nelle mani dei matematici e si è ormai allontanato dagli interessi immediati dell’arte: del resto, le non molte cose che qui sono state appena accennate non avevano lo scopo di fornire delle informazioni storiche in quanto tali, che oltre tutto erano già universalmente note; si voleva invece fare qualcosa di completamente diverso, e cioè ricordare la complessità e la durata di questo sviluppo, che venne concluso solo nel XVIII secolo da Lambert e in seguito, come una branca della geometria descrittiva, dalle opere di Loria, Aschieri ed Enriques in Italia, di Chasles e Poncelet in Francia, di Staudt, Fiedler, Wiener, Küpper e Burmester in Germania, di Wilson in America e di altri ancora, rientrando tale geometria nell’alveo comune di una disciplina matematica straordinariamente vasta e importante qual è la geometria proiettiva.51

Ne dobbiamo dedurre che, quale che sia il nostro giudizio circa la prospettiva nella sua sostanza, non abbiamo alcun diritto di considerarla come un modo semplice e naturale di vedere il mondo, intrinsecamente proprio all’occhio umano in quanto tale. Il fatto che nel corso di tanti secoli tutta una serie di grandi pensatori e di pittori di vastissima esperienza, con la collaborazione di matematici di prim’ordine, abbia sentito la necessità di elaborare una dottrina della prospettiva, e ancor di più il fatto evidente che ciò sia avvenuto dopo aver individuato i tratti fondamentali della proiezione prospettica del mondo, ci induce a pensare che, quando si parla di storia dell’elaborazione della prospettiva, non si tratti affatto della semplice sistematizzazione di una qualche psicofisiologia umana già presente, ma della rieducazione forzata di tale psicofisiologia nel senso delle esigenze astratte di una nuova concezione del mondo, la quale è essenzialmente antiartistica, cioè in buona sostanza esclude da sé l’arte, e in particolare l’arte figurativa.

Ma l’anima del Rinascimento, e in generale l’anima dell’Età moderna, è un’anima divisa, scissa, dualistica nelle sue idee. Da questo punto di vista, l’arte ne ha tratto vantaggio. Fortunatamente, la viva creazione non si assoggettò alle esigenze del raziocinio, e di fatto l’arte poté seguire vie ben diverse da quelle annunciate nelle dichiarazioni astratte. C’è a tal proposito una circostanza che è degna insieme di attenzione e ilarità: perfino gli stessi artisti che avevano teorizzato la prospettiva, pur parlando di regole prospettiche che loro stessi prescrivevano e di cui già conoscevano i segreti, cedettero, nel raffigurare il mondo, alla sensibilità artistica immediata; e così tutti, ma proprio tutti, incorrevano in «svarioni» ed «errori» grossolani che disattendevano le esigenze della prospettiva. E tuttavia lo studio dei loro dipinti mostra che la loro forza dipendeva esattamente da questi «errori» e da questi «svarioni». E allora è proprio il caso di dire:

und predigen öffentlich Wasser.52

Adesso non c’è il tempo per addentrarsi in un’analisi particolareggiata delle opere d’arte, e per dimostrare quanto si è appena detto ci dovremo accontentare di alcuni esempi tipici, e per di più considerandoli solo superficialmente e senza spiegare cosa significhi di preciso, dal punto di vista estetico, la loro non conformità allo schema prospettico. Ma per essere il più chiari possibile ricorderemo, oltre tutto con parole altrui, in che cosa consista l’obiettivo di quanti seguono le regole della prospettiva, ossia la famigerata «unità prospettica».

Nel momento di massima fioritura della fede nella prospettiva e del suo culto, negli anni Settanta del XIX secolo, Guido Schreiber scrisse un manuale di prospettiva, la cui seconda edizione venne rivista da August Friedrich Viehweger, architetto e professore di prospettiva presso l’Accademia di Belle Arti di Lipsia, e fu corredata dalla prefazione di Ludwig Nieper, docente e rettore di quella stessa Accademia.53 A prima vista, insomma, qualcosa che poggia su solide basi e di grande autorevolezza! Ora, in questo manuale, nel capitolo sull’«unità prospettica», si può leggere quanto segue:

«Ogni disegno che pretenda di conseguire un effetto prospettico deve attribuire in partenza un posto ben determinato al disegnatore o allo spettatore. Il disegno, in tal senso, deve avere un unico punto di vista, un unico orizzonte, un’unica scala di grandezze. È in funzione di questo unico punto di vista, fra l’altro, che devono essere orientate tutte le linee di fuga perpendicolari convergenti verso il fondo delle raffigurazioni. Allo stesso modo, su questo unico orizzonte devono essere situati i punti di fuga di tutte le altre linee perpendicolari; una giusta proporzione di grandezze deve presiedere a tutta la raffigurazione. È questo ciò che si dovrebbe intendere con unità prospettica. Se si dipinge un quadro dal vero, sarà più che sufficiente prestare un minimo di attenzione a queste condizioni, e tutto il resto, fino a un certo punto, verrà da sé».54

Ciò significa dunque che:

La violazione dell’unicità del punto di vista, dell’unicità dell’orizzonte e dell’unicità della scala di grandezze è di per se stessa la violazione dell’unità prospettica della raffigurazione. Ora:

Se c’è un fautore della prospettiva, questi è evidentemente Leonardo. La sua Ultima cena, fermento artistico di tutte le Vite di Gesù teologiche che verranno in seguito, ha l’obiettivo di cancellare la delimitazione spaziale che intercorre fra quel mondo, il mondo evangelico, e questo mondo, il mondo della vita di tutti i giorni, e di mostrare che Cristo ha un valore particolare, ma non una realtà particolare. Ciò che si trova nell’affresco è un allestimento scenico, ma non uno spazio particolare imparagonabile al nostro. E questa scena non è nient’altro che un prolungamento dello spazio della stanza; il nostro sguardo, e insieme tutto il nostro essere, è attratto da questa fuga prospettica che ci porta verso l’occhio destro del personaggio principale. Noi non vediamo la realtà, ma sperimentiamo un fenomeno visivo; ed è come se spiassimo da una fessura, con freddezza e curiosità, senza venerazione, senza pietà e, tanto più, senza il pathos della distanza. In questa scena regnano le leggi dello spazio kantiano e della meccanica newtoniana. E questo è chiaro. Ma se fosse solo così, non ci sarebbe mai stata nessun’Ultima cena. E proprio Leonardo sottolinea il valore particolare di ciò che sta avvenendo violando l’unicità della scala di grandezze. Una semplice misurazione, infatti, mostra facilmente che la stanza dove viene consumata l’ultima cena raggiunge, in altezza, appena il doppio della statura di un uomo, mentre in larghezza è tre volte la statura di un uomo, così che l’ambiente non è assolutamente commisurato né al numero di persone che vi si trovano né alla grandiosità dell’evento. E tuttavia il soffitto non risulta opprimente, e le piccole dimensioni della stanza danno al quadro un’intensità e una pienezza drammatiche. In maniera impercettibile, ma puntuale, il maestro si è servito di una violazione della prospettiva55 ben nota fin dal tempo degli egizi: ha utilizzato unità di misura differenti per i personaggi e per l’ambiente circostante e, avendo ridotto le dimensioni di quest’ultimo, oltre tutto in maniera diversa nelle diverse direzioni, ha di per ciò stesso messo in risalto i personaggi e conferito a una modesta cena di addio la portata di un evento storico universale e, più ancora, di vero centro della storia. Con la violazione dell’unità prospettica si manifestava in maniera evidente il dualismo dell’anima rinascimentale, ma nello stesso tempo il quadro acquisiva una non meno evidente forza di persuasione estetica.

Tutti sappiamo quale grandiosa impressione produca l’architettura raffigurata nella Scuola di Atene di Raffaello.56 Se volessimo descrivere a memoria l’impressione suscitata da queste volte, verrebbe da paragonarle, ad esempio, alla cattedrale di Cristo Salvatore57 a Mosca: le volte, infatti, sembrano avere la stessa altezza della chiesa. Ma, se si misura l’altezza delle colonne, ci si rende conto che queste sono poco più del doppio della statura dei personaggi raffigurati, così che l’intero edificio, apparentemente tanto sfarzoso, qualora lo si dovesse costruire davvero risulterebbe estremamente modesto, insignificante. Anche in questo caso il procedimento adottato dall’artista è molto semplice. «Ha preso due punti di vista, disposti su due orizzonti diversi. A partire dal punto di vista superiore ha disegnato il pavimento e tutto il gruppo dei personaggi, mentre a partire dal punto di vista inferiore ha disegnato le volte e, in generale, tutta la parte superiore del quadro. Se le persone raffigurate avessero lo stesso punto di fuga delle linee del soffitto, le teste delle persone che si trovano verso il fondo scivolerebbero in basso e sarebbero coperte dalle persone che stanno davanti, il che nuocerebbe al quadro. Il punto di fuga delle linee del soffitto si trova nella mano destra della figura centrale (Aristotele), il quale tiene un libro nella mano sinistra e con la destra sembra indicare la terra. Se si tracciasse fino a questo punto la linea che parte dalla testa di Alessandro, prima figura alla destra di Platone (quello con il braccio alzato), si noterebbe facilmente quanto avrebbe dovuto essere rimpicciolita l’ultima figura di questo gruppo. Lo stesso vale anche per i gruppi che si trovano alla destra dello spettatore. Proprio per nascondere questo errore di prospettiva, Raffaello ha posto dei personaggi sul fondo del quadro, mascherando così le linee del pavimento che si dirigono verso l’orizzonte».58

Tra gli altri quadri di Raffaello ricorderemo almeno La visione di Ezechiele. Qui ci sono diversi punti di vista e diversi orizzonti: lo spazio della visione non è coordinato con lo spazio del mondo terreno, ed era assolutamente necessario fare così perché, in caso contrario, colui che siede fra i cherubini sarebbe sembrato soltanto un uomo che, a dispetto delle leggi della meccanica, non cade dall’alto. (In questo quadro, come in molti altri di Raffaello, osserviamo l’equilibrio di due princìpi, quello prospettico e quello non prospettico, che corrisponde alla pacifica coesistenza di due mondi e di due spazi. E la cosa non sconvolge, ma intenerisce, come se davanti a noi, all’improvviso, si aprisse silenziosamente il velo di un altro mondo, e ai nostri occhi si presentasse non una scena, non un’illusione di questo mondo, ma un’altra realtà, pienamente autentica benché non faccia irruzione quaggiù. Un’allusione a questa caratteristica della sua concezione di spazio ci viene offerto da Raffaello nella Madonna Sistina, attraverso i tendaggi aperti).

Come esatto contrario della Visione di Ezechiele, si può indicare ad esempio un dipinto di Tintoretto che si trova all’Accademia di Venezia, L’apostolo Marco che libera uno schiavo dal martirio. L’apparizione di san Marco è raffigurata nello stesso spazio in cui si trovano anche gli altri personaggi, e la visione celeste sembra una massa corporea sul punto di cadere sulla testa dei testimoni del miracolo. Non bisogna qui dimenticare gli artifici naturalistici tipici del lavoro di Tintoretto, che appendeva al soffitto figure di cera per riprodurre i loro scorci in maniera naturalisticamente esatta. E in effetti la visione celeste risulta nulla più che una forma di cera sospesa come gli angioletti di un albero di Natale. A produrre questo fallimento artistico è stata appunto la fusione di spazi eterogenei.

Ma molto spesso si osserva anche l’impiego simultaneo di due spazi, uno prospettico e l’altro non prospettico – in particolare nella raffigurazione di visioni e di apparizioni miracolose; tali sono, ad esempio, alcune opere di Rembrandt, anche se poi è solo con molte riserve che si può parlare del carattere prospettico delle loro parti. Questo procedimento costituisce il tratto caratteristico di Doménikos Theotokópoulos, detto El Greco. Il sogno di Filippo II, La sepoltura del conte di Orgaz, La discesa dello Spirito Santo, La veduta di Toledo e altre sue opere sono nettamente divise in almeno due spazi diversi, con lo spazio della realtà spirituale chiaramente separato dallo spazio della realtà sensibile. Ed è appunto questo che conferisce ai quadri di El Greco una particolare forza persuasiva.

Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che solo i soggetti mistici richiedano la violazione della prospettiva. Prendiamo ad esempio il Paesaggio fiammingo di Rubens che si trova alla Galleria degli Uffizi:59 la parte centrale segue più o meno le leggi della prospettiva, e il suo spazio attira, mentre le parti laterali seguono quelle della prospettiva rovesciata, e i loro spazi respingono la visione appercettiva. Ne risulta la formazione di due possenti vortici visivi che riempiono meravigliosamente il soggetto prosaico.

Un identico equilibrio dei due princìpi di spazialità caratterizza La conversione di san Paolo di Michelangelo. Nel suo Giudizio universale si osserva invece una spazialità completamente diversa. L’affresco presenta una sorta di pendenza: quanto più un determinato punto si trova in alto nel dipinto, tanto più il punto raffigurato risulta lontano dallo spettatore. Di conseguenza, nella misura in cui si alza lo sguardo, l’occhio dovrebbe incontrare delle figure sempre più piccole, in virtù dello scorcio prospettico. Il che è evidente, fra l’altro, dal fatto che le figure che si trovano in basso nascondono quelle che si trovano in alto. Ma per quanto riguarda invece le loro dimensioni, la grandezza delle figure aumenta a mano a mano che si innalzano nell’affresco, cioè a mano a mano che si allontanano dallo spettatore. Tale è la caratteristica di questo spazio spirituale: quanto più in esso una cosa è lontana, tanto più è grande, mentre quanto più è vicina, tanto più è piccola. Questa è la prospettiva rovesciata. Una volta notata, e per giunta così coerentemente realizzata, cominciamo a percepire la nostra assoluta incommensurabilità con lo spazio dell’affresco. Non ci sentiamo attirati in questo spazio; anzi, esso ci allontana da sé come un mare di mercurio respingerebbe il nostro corpo. Benché sia visibile, esso resta trascendente rispetto a noi, che pensiamo secondo i paradigmi di Kant e di Euclide. E Michelangelo, pur essendo vissuto in epoca barocca, si trovava ora nel Medioevo passato ora in un Medioevo futuro: era contemporaneo e assolutamente non contemporaneo a Leonardo.

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Quando ci si imbatte per la prima volta in uno scostamento dalle regole della prospettiva, l’assenza di unità prospettica viene considerata un difetto occasionale dell’artista, una particolare malattia del suo lavoro. Ma un minimo di attenzione in più ci fa rapidamente scoprire errori simili quasi in ogni opera, e la mancanza di prospettiva comincia allora a essere valutata non più come una patologia, ma come la fisiologia dell’arte figurativa.

E qui sorge inevitabile una domanda: può esistere arte figurativa senza trasformazione prospettica? L’obiettivo dell’arte, in effetti, è quello di restituire una certa integrità spaziale, un mondo particolare, chiuso in se stesso, ma contenuto nei limiti della cornice non in maniera meccanica bensì in virtù di specifiche forze interiori. Invece, un semplice frammento dello spazio naturale, una fotografia, intesa come un pezzo di spazio, per sua stessa natura non può che condurre al di là dei propri limiti, oltre i confini della sua cornice, perché essa è soltanto una parte, meccanicamente separata dal tutto. Di conseguenza, la prima esigenza che si presenta all’artista è quella di riorganizzare in un insieme conchiuso il frammento di spazio che si è scelto come materiale; si tratta cioè di eliminare i rapporti prospettici, la cui funzione fondamentale è l’unità kantiana dell’esperienza nella sua totalità, unità che si esprime nella necessità di passare da ogni singola esperienza alle altre e nell’impossibilità di trovare un ambito autosufficiente. Che poi nell’esperienza esista o meno la prospettiva è già un’altra questione, e non è questo il luogo per risolverla. Ma che ci sia o non ci sia, resta comunque il fatto che la sua funzione è ben determinata ed è essenzialmente in contraddizione con l’opera pittorica in quanto tale, a patto che quest’ultima non si venda ad altre attività che hanno bisogno dell’«arte delle copie», delle illusioni di un immaginario proseguimento dell’esperienza sensibile che nella realtà non esiste affatto.

Se teniamo presente quanto detto fin qui, non ci dovremmo più stupire a questo punto di notare due punti di vista e due orizzonti nella Cena in casa di Simone di Paolo Veronese, almeno due orizzonti nella sua Battaglia di Lepanto, diversi punti di vista distribuiti lungo un’unica linea dell’orizzonte nel quadro di Horace Vernet Presa della smalah di Abd-el-Kader, moltissime incongruenze prospettiche nei paesaggi di Swanevelt, come anche di Rubens, ecc. ecc., e in molti altri quadri; e capiremo anche perché in dotti manuali di prospettiva si diano perfino dei consigli sul modo in cui violare l’unità prospettica senza che ciò sia troppo evidente (per i partigiani di tale unità, ovviamente), e in quali casi sia necessario ricorrere a queste «trasgressioni».60 In particolare, si raccomanda di distribuire i punti di fuga delle perpendicolari al piano del quadro lungo una determinata curva, per esempio lungo il contorno delle normali a una certa ellisse.61 E anche se molto lontani dagli obiettivi loro assegnati da un’arte che mira a dipingere l’essere nella sua autenticità, è da moltissimo tempo che i pittori si servono di simili scostamenti dall’unità prospettica.

È tale, ad esempio, il famoso quadro di Paolo Veronese (1528-1588) Le nozze di Cana, conservato al Louvre: secondo le indicazioni degli esperti, in questo quadro ci sono sette punti di vista e cinque orizzonti.62 François Bossuet ha provato a disegnare uno schizzo «corretto» della sua architettura, dandone cioè una raffigurazione rigorosamente prospettica, e ha concluso che il quadro conservava «nella sua sostanza lo stesso ordine e la stessa bellezza».63 È veramente fantastica questa idea che grandissimi capolavori artistici si possano così facilmente «correggere»! Ma non sarebbe più giusto verificare e correggere le proprie concezioni estetiche sulla base delle opere d’arte storicamente esistenti? Se davvero la rigorosa sottomissione alle regole della prospettiva non compromette di per sé la bellezza di un quadro che non è prospettico, questo non significa forse che, per lo meno da un punto di vista estetico, tanto la prospettiva quanto la sua assenza non sono affatto così importanti come credono invece i suoi fautori?

Vale la pena di ricordare che Albrecht Dürer, alla fine del 1506, abbandonò precipitosamente Firenze per andare a Bologna e apprendervi la «misteriosa arte della prospettiva». Ma i segreti della prospettiva venivano gelosamente custoditi e, dopo essersi lamentato della reticenza dei bolognesi, Dürer fu costretto ad andarsene senza aver saputo granché, finendo poi per dedicarsi in autonomia, a casa propria, alla scoperta di quegli stessi procedimenti, sui quali infine scrisse un trattato (che, per altro, non gli impedì di cadere a sua volta in evidenti «errori» prospettici).

Senza addentrarci in una disamina generale della sua opera, ricordiamo la sua creazione più perfetta, al cui proposito Franz Kugler, in uno studio (riconosciuto da un esperto di Dürer come «la caratterizzazione più completa e meglio riuscita»64 dell’opera in questione), dice che «un artista che aveva realizzato un’opera simile poteva congedarsi dal mondo, perché ormai il suo scopo nell’arte era stato raggiunto: quest’opera lo situa incontestabilmente sullo stesso piano dei maestri più grandi, dei quali la storia dell’arte va giustamente orgogliosa».65 Ci riferiamo ovviamente al dittico noto con il titolo I quattro apostoli e dipinto nel 1526, ossia dopo la pubblicazione delle Istruzioni sulle misurazioni e due anni prima della sua morte (Dürer morì infatti nel 1528). Ed ecco: in questo dittico le teste delle due figure che stanno in piedi in secondo piano sono più grandi di quelle delle figure che stanno davanti, così che il piano fondamentale del rilievo greco viene mantenuto, anche se le figure non sono disposte su questo piano. Secondo la giusta osservazione di uno storico dell’arte, «è evidente che abbiamo qui a che fare con la cosiddetta “prospettiva rovesciata”, in base alla quale gli oggetti che stanno dietro vengono raffigurati più grandi di quelli che stanno davanti».66

Va da sé che questo rovesciamento della prospettiva degli Apostoli non è frutto di una mancanza, ma testimonia il coraggio del genio che, seguendo la propria intuizione, rinuncia alle teorie più razionali, persino alle proprie, nella misura in cui richiederebbero un illusionismo pienamente cosciente. Che cosa può esserci, in effetti, di più preciso delle sue istruzioni sul chiaroscuro, che iniziano così: «Se vuoi dipingere dei quadri con un rilievo tale che la stessa vista possa esserne ingannata...»?67 Questa è la sua teoria illusionistica; ma la sua opera non è illusionistica. In Dürer, dunque, la contraddizione (contraddizione caratteristica degli uomini di un’epoca di transizione!) fra la teoria e la pratica artistica era già annunciata dalla sua generale propensione verso uno stile medioevale e dall’impronta medioevale dei suoi fondamenti spirituali, pur in presenza di una nuova struttura di pensiero.

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Comunque sia, persino i teorici della prospettiva non hanno rispettato e non hanno ritenuto necessario rispettare l’«unità prospettica della raffigurazione». E, dopo questo, come si potrebbe parlare ancora del carattere naturale dell’immagine prospettica del mondo? In che cosa sarebbe naturale questo carattere, che prima bisogna carpire quasi spiandolo e che poi, solo a prezzo di grandissimi sforzi e di una continua tensione della coscienza, si può sviluppare in modo da non commettere errori che trasgrediscano le regole appena apprese? Non ricordano piuttosto, queste regole, un complotto basato su convenzioni, e organizzato in nome di intenti teorici, contro la percezione naturale del mondo e a favore di un quadro fittizio della realtà che, secondo la concezione del mondo umanista, bisogna vedere, ma che l’occhio umano, nonostante tutto il suo allenamento, non vede affatto, e che l’artista si confessa incapace di vedere solo quando passa dalle costruzioni geometriche a ciò che effettivamente percepisce?

Fino a che punto il disegno prospettico non sia qualcosa di immediatamente comprensibile, ma al contrario sia piuttosto il prodotto di tutta una serie di complesse convenzioni artificiali, è una cosa di cui ci si può rendere conto in maniera assolutamente convincente se si considerano gli strumenti che lo stesso Albrecht Dürer ha splendidamente raffigurato nelle xilografie delle sue Istruzioni sulle misurazioni. Ma tanto sono belle queste incisioni, con il loro spazio chiuso e come asserragliato in se stesso, quanto è antiartistico il senso delle loro prescrizioni.

La funzione di questi strumenti è quella di dare al più maldestro dei disegnatori la possibilità di riprodurre qualsiasi oggetto in maniera puramente meccanica, cioè senza alcun atto di sintesi visiva e, in un caso, addirittura senza alcun occhio. Uomo franco e non incline alle mezze parole, con i suoi strumenti Dürer fa capire che la prospettiva ha a che fare con tutto fuor che con la vista.

Uno di questi strumenti è fatto in tal modo: sul lato corto di un tavolo che ha la forma di un rettangolo allungato, perpendicolarmente alla superficie del tavolo stesso, è fissato un telaio rettangolare con un vetro. Sul lato opposto, parallelamente al telaio, è fissato un elemento rettangolare di legno il cui centro è incavato e contiene una lunga vite. Grazie a questa vite, un altro elemento perpendicolare al piano del tavolo si può muovere; al suo interno è poi inserito un perno di legno che, con l’aiuto di una serie di dentini, può essere fissato a diverse altezze ed è munito all’estremità superiore di un’assicella con un piccolo foro. È chiaro che questo dispositivo può fornire, sino a un certo punto, il modello della proiezione prospettica a partire dal forellino nell’assicella e fino alla superficie della lastra di vetro, e che guardando l’oggetto attraverso questo forellino se ne può tracciare la proiezione sul vetro.

In un altro strumento il punto di vista è stabilito in maniera fissa, anche in questo caso grazie a una speciale colonnina, mentre il piano di proiezione è costituito da una rete di fili che si incrociano tra di loro ad angolo retto; il disegno, invece, viene riportato su un foglio di carta quadrettata, appoggiato sul tavolo tra la colonnina e il reticolo verticale. Misurando le coordinate dei punti di proiezione sul reticolo, si possono trovare i punti corrispondenti sulla carta quadrettata.

Il terzo strumento di Dürer non ha già più alcun rapporto con la vista: il centro di proiezione, in questo caso, non è l’occhio, foss’anche immobilizzato artificialmente, ma un certo punto della parete al quale è fissato un anellino, cui è legato un lungo filo. Quest’ultimo arriva quasi sino a un telaio con un vetro, che è appoggiato verticalmente sul tavolo. Il filo è teso e a esso è applicato un tubo visore che dirige il «raggio visivo» sul punto dell’oggetto, che dunque viene proiettato a partire dal luogo in cui è fissato il filo. In questo modo non è difficile segnare sul vetro, con una penna o un pennello, il punto di proiezione corrispondente al punto proiettato. Collimando successivamente i diversi punti dell’oggetto, il disegnatore lo proietterà sul vetro, ma non a partire da un «punto di vista», bensì da un «punto della parete»; la vista, in questo senso, svolge una funzione puramente accessoria.

Infine, nel caso del quarto strumento grafico, non c’è più nessun bisogno della vista, perché è sufficiente anche solo il tatto. È fatto in questo modo: in una parete della stanza nella quale si fa il rilievo di un determinato oggetto è conficcato un grosso ago con un’ampia cruna. Nella cruna è infilato un filo lungo e resistente, e in prossimità della stessa parete si appende al filo un piccolo peso. Di fronte alla parete c’è un tavolo, sul quale è appoggiato verticalmente un telaio rettangolare. A uno dei lati di questo telaio è fissato un battente che si può aprire e chiudere; nell’apertura del telaio vengono tesi due fili incrociati. L’oggetto che deve essere raffigurato viene posto sul tavolo, di fronte al telaio. Il filo di cui abbiamo parlato viene fatto passare attraverso il telaio, e alla sua estremità viene legato un chiodo. Così è fatto lo strumento. Mentre il modo di utilizzarlo è il seguente. A un assistente viene dato in mano il chiodo e gli viene chiesto, tenendo teso il lungo filo, di toccare con la testa del chiodo, uno dopo l’altro, tutti i punti principali dell’oggetto che deve essere raffigurato. Quindi l’«artista» muove i fili incrociati del telaio fino a farli coincidere con il filo lungo e poi segna con della cera il punto in cui si intersecano. Fatto questo, l’assistente allenta il filo lungo, mentre l’«artista», dopo aver socchiuso il battente del telaio, segna sul battente il punto in cui i fili si intersecano. Ripetendo molte volte questa operazione, si potranno segnare sul suddetto battente i punti fondamentali della proiezione voluta.

Dopo aver descritto questi strumenti, c’è ancora bisogno di una qualche prova più grande del fatto che l’immagine prospettica del mondo non è assolutamente il modo naturale di percepire la realtà? Ci sono voluti più di cinquecento anni di educazione sociale perché l’occhio e la mano si abituassero alla prospettiva; ma senza apprendimento intenzionale né l’occhio né la mano di un bambino, e neppure di un adulto, si lasciano assoggettare a un simile addestramento e tengono in considerazione le regole dell’unità prospettica. E anche chi è passato attraverso questo particolare apprendimento cade in errori grossolani non appena viene privato del sostegno di un disegno geometrico e si affida alla propria vista, alla coscienza dei propri occhi. Senza contare poi che vi sono interi movimenti artistici che formulano esplicitamente la loro protesta contro la sottomissione alle leggi della prospettiva.

Dopo questa infelice esperienza di una storia durata mezzo millennio, non c’è altro da fare se non riconoscere che un quadro prospettico del mondo non è un fatto della percezione, ma soltanto una pretesa che viene avanzata in nome di certe considerazioni, le quali forse possono anche avere un grande peso, ma sono comunque assolutamente astratte.

Se invece si prendono in esame i dati psicofisiologici, bisogna allora riconoscere necessariamente che gli artisti non solo non hanno alcuna ragione per raffigurare il mondo secondo uno schema prospettico, ma non sono neppure tentati di farlo, a patto, ovviamente, che il loro scopo sia la fedeltà alla percezione.