È tra la fine degli anni Dieci e la prima metà degli anni Venti, cioè nel pieno della rivoluzione e della guerra civile, che Florenskij dedica al tema dell’icona una serie di scritti – i due più importanti e famosi sono La prospettiva rovesciata, del 1919 (qui presentato in una nuova traduzione italiana), e Le porte regali, del 1922 (ma iniziato già nel 1917) –, che nell’insieme costituiscono un corpus complesso e articolato. Si tratta di interventi dedicati ai luoghi dove sono storicamente collocatea o si dovranno conservareb le icone, al senso del culto e del ritoc nel cui contesto esse vanno studiate, all’idea di simbolod e alla concezione che regge il simbolismo determinando una cultura originale,e particolarmente attenta al rispetto della realtà considerata nella totalità delle sue dimensioni e non ridotta a un’ipotesi soggettiva.f Una vera e propria summa, dunque, pur se composta di elementi disgiunti che a un primo sguardo possono sembrare dettati dalle circostanze o, al contrario, del tutto fuori luogo in un momento in cui stava crollando un’intera concezione del mondo ed era in gioco la vita stessa.

In realtà le cose sono molto meno casuali di quanto sembri, e rispondono a una preoccupazione triplice, ma profondamente unitaria.

1. CONSERVARE LA MEMORIA

In primo luogo, a motivare questi scritti c’era una ragione concreta e del tutto fondata: occorreva infatti proteggere la realtà storica e conservarne memoria e senso di fronte a un regime il cui ateismo si manifestava in forme non soltanto violente e propriamente iconoclaste (si pensi alla distruzione di chiese e immagini sacre, per non parlare delle persecuzioni sanguinose che sin dai primi giorni avevano cominciato a mietere vittime tra i credenti), ma anche più avvedute, dal momento che mirava a trasformare le icone, e gli oggetti sacri in genere, in beni di scambio, da vendere all’estero per farne una preziosa fonte di valuta pregiata. Lo avrebbe del resto cinicamente precisato lo stesso Lenin in una lettera del marzo 1922, reagendo alle feroci proteste dei credenti della cittadina di Šuja (circa duecentocinquanta chilometri a nord-est di Mosca), che si erano opposti alle requi sizioni forzate dei beni ecclesiastici: «Bisogna a tutti i costi provvedere alla requisizione degli arredi sacri nella maniera più decisa e più rapida, così da poterci assicurare un fondo di alcune centinaia di milioni di rubli oro (non dobbiamo dimenticare le immense ricchezze di alcuni monasteri e lavre). Senza questa operazione, è assolutamente impensabile qualunque impresa statale e qualunque sviluppo economico». Le indicazioni di Lenin vennero seguite rigorosamente: i tesori artistici furono sequestrati, e i disordini che ne scaturirono vennero sfruttati per colpire con maggiore durezza i credenti.

Di fronte a questa logica implacabile, Florenskij si muove in maniera più accorta: constatato che l’opposizione diretta porta soltanto a ulteriori violenze, comincia a parlare del valore storico delle icone e della rappresentazione iconografica (retta dalle leggi della prospettiva rovesciata) come di un’eccellenza della tradizione culturale russa e, nominato nell’ottobre del 1918 responsabile della Commissione per la tutela dei monumenti dell’arte e dell’antichità della Lavra della Trinità di San Sergio (uno dei luoghi più altamente simbolici della pietà ortodossa), si preoccupa di preparare e pubblicare un catalogo scientifico nel quale i beni ecclesiastici vengono rubricati come tesori «del museo della Lavra». Florenskij sapeva benissimo che la trasformazione della Lavra in un museo avrebbe pregiudicato la vita monastica, che egli amava, ed era del resto radicalmente contrario a ogni forma di museificazione delle opere d’arte, al punto di sostenere che «per l’antichità classica è preferibile una morte onesta per mano del tempo e della natura al sonno letargico di un museo». Ma la realtà aveva ormai reso inadeguate e inefficaci queste posizioni teoriche: come lo stesso Florenskij spiega in una lettera indirizzata al patriarca Tichon alla fine del 1918, «il problema non è chiedersi cosa sottrarranno alla Chiesa dalla Lavra, perché le hanno già sottratto tutto, ma piuttosto capire cosa riusciremo a conservare per la Chiesa sia pur in maniera indiretta. Il compito fondamentale della Commissione sarà di far sì che niente esca dalle mura della Lavra e che della Lavra si conservino nei limiti del possibile i modi di vita». Una volta pubblicato il catalogo dei tesori posseduti dall’ex monastero divenuto museo, vendere o distruggere quei beni – che pure erano appartenuti a un’istituzione come la Chiesa, esecrata e condannata dalla nuova storia – era ormai fuori questione: il regime poteva soltanto assumersi il compito di salvaguardare quei tesori, ora patrimonio della nazione e affidati oltre tutto a una struttura che si cercava di far funzionare in maniera nuova e quasi rivoluzionaria. Non a caso Florenskij suggerisce di «portare il museo nella vita e la vita nel museo, creare un museo-vita per il popolo in grado di educare le masse che quotidianamente gli passeranno accanto, e non raccogliere rarità per i soli gourmet dell’arte»; arriva persino a dire che questi sono «gli slogan della riforma museale da contrapporre agli aspetti peggiori della cultura passata, che davvero meritano d’essere definiti “borghesi”». Il regime correva dunque il rischio di sentirsi rinfacciare un inaccettabile ritorno ai princìpi della cultura prerivoluzionaria, e la sua libertà di movimento ne risultava limitata: per questo la Commissione sarebbe presto stata sciolta e la sua attività bollata come un tentativo di creare un «Vaticano ortodosso».

Intanto però si era ottenuto il risultato di salvare, se non tutto, almeno qualcosa, e si era mantenuto uno spazio dal quale avrebbe sempre potuto riemergere un principio essenziale, ossia che l’icona non era un semplice oggetto della pietà popolare né un semplice oggetto estetico (sia pure, non di rado, di altissimo valore), ma il contenuto di una formale definizione dogmatica, precisata nel 787 in occasione del secondo concilio di Nicea, l’ultimo celebrato insieme dalle Chiese d’Oriente e d’Occidente prima dello scisma. Come aveva osservato a questo proposito Vladimir Solov’ëv (uno dei punti di riferimento di Florenskij), con la negazione dell’icona veniva compromessa radicalmente la forza salvifica del cristianesimo, poiché «l’idea fondamentale dell’eresia iconoclasta è appunto quella di negare che il mondo materiale e sensibile abbia una qualsiasi possibilità di redenzione, di santificazione e di unione con Dio. Gesù Cristo risorto nella carne ha mostrato che l’esistenza corporea non era esclusa dalla comunione divinoumana, e che l’oggettività esteriore e sensibile poteva e doveva diventare lo strumento reale e l’immagine visibile della forza divina».

2. UN’UNITÀ CHE IN TUTTO VIVE

Dunque, in secondo luogo, si trattava anche di riaffermare, nei suoi diversi aspetti e significati, quella tradizionale unità del divino e dell’umano che costituisce il fondamento dell’icona e il cuore del cristianesimo – compito ancor più necessario in un momento in cui tale unità, violentemente attaccata dal bolscevismo, palesava, nonostante la forza di tanti martiri, un’inefficacia che già in precedenza era parsa evidente. Non si dimentichi che Florenskij, benché la sua posizione fosse inconciliabile con il nuovo regime (che aveva definito sin dai primi giorni una «villanocrazia»), non era certo un difensore del vecchio sistema, di cui aveva conosciuto le prigioni (sia pur brevemente) e di cui aveva scritto in una lettera del 1905, in occasione della «piccola rivoluzione»: «Di fatto si resta soli. Stare insieme agli elementi rivoluzionari che versano fiumi di sangue: Dio ci scampi. Stare con gli elementi “conservatori”, mille volte più colpevoli per la corruzione, il discredito e lo svilimento di tutto quello che potrebbe esserci di buono: Dio ci scampi da loro ancor più che dai “progressisti”. Non resta che la Chiesa. Ma la Chiesa tace servilmente, aspettando di vedere chi vincerà nella lotta rivoluzionaria: il governo o chi insorge contro di esso, e allora andrà con chi vince. Questo mi addolora, e non addolora me solo. Credevo e ancora credo che la Chiesa rinascerà, ma per adesso, invece del sostegno, dai pastori ricevi soltanto frasi generiche e il consiglio di aspettare».

Quando parliamo delle motivazioni teoriche su cui si fonda l’attività intellettuale di Florenskij, dobbiamo sempre tenere presenti passi come questo e la denuncia delle imperdonabili colpe dei «conservatori» così come della meschinità della Chiesa. Quando si oppone al razionalismo ateo astratto, infatti, non è certo in nome di un sentimentalismo fideistico, e quando cerca di superare un progressismo laico lontano dai veri bisogni e dal cuore della gente, non è certo in nome di un bigottismo borioso e saccente quanto sterile. Scriveva infatti: «Il nostro sistema dogmatico si presenta noioso, talmente noioso che non si trova nemmeno il tempo per polemizzare con esso; chi lo elogia riconosce che la dogmatica è buona, ma non per lui – “per qualcun altro”. Dopo essersi staccato da tutto ciò che è vivo, da tutto ciò che è intimo, da ciò che è vicino e infinitamente caro, che afferra il cuore con la straziante nostalgia delle lontananze, dopo aver perso l’aroma dell’esperienza religiosa personale, il sistema dei concetti dogmatici ha cessato di essere attraente per coloro che lo accolgono. Alla dogmatica è subentrato il dogmatismo, ecco la ragione della nostra freddezza di fronte alle forme meravigliose, ma ormai per noi prive di vita, di questa dogmatica. La dogmatica, nella coscienza contemporanea, ha spezzato il suo legame con i sentimenti vivi e le vive percezioni».

Questo è padre Pavel Florenskij, il quale scrive dell’icona dopo diversi anni di sacerdozio (era stato ordinato nel 1911), dopo aver diretto dal 1912 al 1917 la rivista ufficiale dell’Accademia di Teologia di Mosca (dove insegnava dal 1908) e dopo aver pubblicato nel 1914 La colonna e il fondamento della verità, che subito ne aveva fatto uno dei teologi e filosofi più stimati (anche se discussi) della Chiesa ortodossa – nonché uno degli autori ancor oggi più studiati e affascinanti di tutto il pensiero cristiano. I suoi testi, come è appunto il caso della Colonna, raggiungono vertici teoretici estremamente complessi, ma non nascono mai dalla presunzione di detenere la verità, né da un’astrazione intellettualistica che abbia «perso l’aroma dell’esperienza religiosa personale». Sono, piuttosto, il frutto di una fede personale dolorosamente riconquistata e mai disposta a diventare lo strumento di un nuovo «dogmatismo» che pretenda di tornare a esercitare sulla realtà un controllo che la rivoluzione ha ormai dimostrato impossibile e che da tempo si è rivelato illusorio.

Florenskij era nato nel 1882 in una famiglia in cui entrambi i genitori erano credenti ma, per una sorta di pudore e di repulsione verso ogni possibile forma di intolleranza, avevano sempre rinunciato a indirizzare la vita religiosa dei figli. Da adulto avrebbe stigmatizzato questo atteggiamento, che rischiava di privare le persone più care «del sostegno più forte, della più fidata delle consolazioni», pur riconoscendo che la sua evoluzione religiosa ne era stata paradossalmente favorita: la religiosità naturale, acuita dal senso di mistero di fronte alle meraviglie della natura e alla complessità delle sue leggi, lo aveva portato a interrogarsi su come risolvere la contraddizione tra il caos e il determinismo delle leggi scientifiche allora dominanti (ma anche tra un sentimento religioso «amorfo» e una fede fanaticamente esclusivista), senza che questo significasse ricadere in un nuovo sistema predeterminato, fatto quasi appositamente per soffocare quel senso di mistero che rendeva invece così affascinante il reale. Paradosso su paradosso, la sua ricerca aveva trovato un primo abbozzo di risposta proprio grazie alla scienza: sulle orme di Solov’ëv, che per superare un iniziale ateismo aveva preferito «studiare i mostri antidiluviani piuttosto che un catechismo antidiluviano», Florenskij aveva intrapreso nel settembre del 1900 gli studi matematici, che sarebbero sfociati nella laurea a pieni voti e in una proposta di carriera universitaria (per altro rifiutata). Ma poi, soprattutto attraverso concetti come quello di «discontinuo» – cui aveva dedicato la propria tesi di laurea e che gli erano stati suggeriti dall’incontro con maestri che non seguivano il positivismo in voga in quegli anni, quali Nikolaj Bugaevg –, si era sempre più convinto del fatto che la realtà non si presenta mai come un tutto perfettamente prevedibile e prefissato, e non può quindi dipendere dalle sole leggi universali e necessarie della fisica newtoniana: deve piuttosto aprirsi alla sorpresa dell’essere. A questo primo punto fermo, Florenskij aveva aggiunto le suggestioni che gli venivano dall’idea di transfinito, derivata da Cantor e subito tradotta in un’immagine ben precisa dell’uomo: «Se, per un verso, siamo nulla di fronte all’Assoluto, per l’altro siamo comunque moralmente in parentela con Esso, possiamo comprenderlo; non direttamente, però, ma tramite simboli; dentro di noi portiamo il transfinito, il sovrafinito, noi – il kosmos – non siamo qualcosa di finito, di direttamente opposto alla Divinità: noi siamo transfiniti, siamo “il mezzo fra il tutto e il nulla”». Il sapere scientifico e le teorie più recenti, anziché precludere il mistero, erano così diventati una forma di apertura alle sue ragioni: «Il principio generale della relatività è in un certo senso la mia fiaba del mondo» avrebbe scritto nel 1922, mentre terminava la stesura delle Porte regali e contemporaneamente pubblicava una geniale applicazione della teoria della relatività come Gli immaginari in geometria.

Non v’è dunque da meravigliarsi se, anziché chiudersi nella ricerca scientifica, Florenskij era passato ad approfondire una religiosità divenuta ormai più matura ed era entrato nel 1904 – esattamente l’anno in cui discute la tesi di laurea presso la facoltà di Fisica e Matematica – all’Accademia di Teologia di Mosca, avviando il percorso che abbiamo già descritto, nella direzione di una filosofia propriamente religiosa. Le vette teoretiche della Colonna e le loro applicazioni alla questione dell’icona hanno infatti al centro non un concetto nuovo, un principio assoluto o, peggio, un’astrazione, ma la figura concreta e reale di Cristo e del suo amore (o della sua amicizia), che, contrariamente a quanto sosteneva l’ideologia che si andava affermando, non era una leggenda, ma neppure un modello morale o una fonte di precetti come volevano la vecchia intelligencija o i tradizionalisti: «Non è vero che l’amore per il fratello sia il contenuto della verità, come affermano i tolstojani e altrettanti nichilisti religiosi. L’amore per il fratello consiste invece nel manifestare all’altro, passare all’altro, quasi far confluire nell’altro quello stesso ingresso nella vita divina che il soggetto in comunicazione con Dio sperimenta in sé come conoscenza della verità» diceva Florenskij, presentando la verità stessa come un rapporto che instaura una comunione di vita e consiste in essa. L’altro (drugoj, in russo) cessava così di essere un nemico per diventare un amico (drug) che andava cercato e amato, e al centro di tutto si collocava non già un io isolato che aspira al dominio, bensì il rapporto con la verità, con un Cristo che «non ha offerto un esempio, ma ha cambiato ogni cosa con la sua morte e resurrezione, le quali hanno permesso alla natura e al genere umano di ricostituire un ordine perduto».

3. UN’UNITÀ CHE TUTTO REGGE

«Che cosa ho fatto io per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma a ogni istante dato, o più precisamente in ogni fase della mia vita, da un determinato punto di vista. Le sue angolature mutavano, tuttavia l’una non annullava l’altra, ma cambiando l’arricchiva; è qui la ragione della continua dialettica del pensiero e al tempo stesso del suo continuo guardare il mondo come un unico insieme» scrive Florenskij. Il discorso sull’icona va letto appunto alla luce di questo progetto unitario, che si nutre di prospettive diverse senza annullarne alcuna e per affermare invece un’unità più profonda dei diversi punti di vista, nella quale questi possono trovare la loro ragione e il loro senso. Il cuore di questo progetto è Cristo, che ci offre non un esempio di imprese morali da imitare, ma la realtà presente dell’impensabile unità di divino (infinito) e umano (finito) – e l’icona, che ci mostra Cristo e «i suoi amici», ci fa fisicamente e attualmente vedere, come sosteneva Solov’ëv, che «il mondo materiale e sensibile» ha un’effettiva «possibilità di redenzione, di santificazione e di unione con Dio».

Così l’icona e la sua bellezza, incarnazione del bene e della verità, realizzano il tema caro a Florenskij della «triunità ideale» di bene, verità e bellezza, sottolineando la valenza ontologica di ogni discorso etico, gnoseologico ed estetico. In questo modo, esse additano anche la possibilità di un’arte pura, che non si piega cioè alle invenzioni dell’illusionismo estetizzante o utilitarista, ma riscopre il significato originario del simbolo, inteso non come una fuga arbitraria e soggettiva dalla realtà, bensì come un rimando alla verità del reale e della vita (a realibus ad realiora, avrebbe detto Vjačeslav Ivanov), nella consapevolezza che non v’era qui alcuna pretesa di sostituire la vita con un suo modo di rappresentazione, ma solo il deside rio di un sempre maggiore approfondimento della realtà stessa e del suo senso. È proprio nella direzione di questo simbolismo che va interpretato il discorso sulla prospettiva, che per Florenskij «non è affatto una proprietà intrinseca delle cose, ma è piuttosto un modo di espressione simbolica»: non prende dunque il posto della realtà ed è anzi «uno stimolo che desta l’attenzione nei confronti della realtà stessa». È in questa chiave, ancora, che va intesa la polemica contro il Rinascimento e, soprattutto, contro l’arte occidentale moderna e il pensiero kantiano. Kant è per Florenskij il modello dell’uomo moderno e del suo pathos, «quello della liberazione da ogni realtà, perché l’“io voglio” detti di nuovo legge a una realtà ancora in costruzione, fantasmagorica, anche se incasellata in una gabbia fatta apposta a tale scopo». Se questo pathos viene denunciato non è tuttavia per «annullare il suo punto di vista»: una rinuncia alla diversità, lo abbiamo visto, sarebbe contraria allo spirito di Florenskij, e mal si concilierebbe ad esempio con la sua passione per la musica occidentale moderna, da Bach a Mozart, da Beethoven a Schubert, profondamente amati, ripetutamente citati ed eseguiti («Bach sale maestosamente in vetta con la devozione di un catecumeno, mentre Mozart risiede perennemente su quella vetta. Mozart rappresenta un mondo lontano verso il quale Bach ci indica soltanto la strada»). Non si tratta di un semplice rifiuto, che non porterebbe ad alcuna unità. Rovesciata, la prospettiva di Florenskij non respinge le «dolci radici rinascimentali», quella «concezione umanistico-naturalistica della vita tipica del Rinascimento» che aspirava ad affermare la grandezza dell’umano e della natura fuori da ogni soggezione confessionale; mira semmai, più radicalmente, a relativizzare e superare gli esiti di questa via: «gli amari frutti kantiani», i quali, anziché liberare uomo e natura, li hanno asserviti a nuovi schemi e sistemi, così che queste nuove creazioni, «sostituendo erroneamente il senso della realtà con formule astratte, non hanno più la funzione di essere simboli della realtà, ma diventano un surrogato della realtà stessa». Esiti che non farebbero altro che perpetuare le vecchie divisioni, e dunque da evitare: «Da un lato c’era il pensiero scientifico inumano, dall’altro l’umanità priva di pensiero; da un lato c’era l’astrazione scientifica che danza il trionfo della morte-vincitrice sulle ossa dell’uomo che ha distrutto, dall’altro lo spirito umano avvilito che tenta di nascondersi negli angoli».

Quando pubblica o scrive i suoi lavori sull’icona, Florenskij non «si nasconde» e, anzi, si compromette agli occhi del nuovo regime, che, oltre al fantomatico progetto di un «Vaticano ortodosso», non gli perdonerà il fatto di rivendicare con orgoglio il suo stato sacerdotale, tanto che persino ai convegni pubblici continuava a presentarsi in talare, e di non mostrare inoltre la minima condiscendenza nei confronti di certi gruppi della Chiesa ortodossa che, al contrario, cercavano in tutti i modi di compiacere il potere.

Il suo pensiero scientifico, d’altro canto, era tutto fuor che «inumano». Pur non scendendo mai a compromessi con l’ateismo dominante, Florenskij si sentiva responsabile nei confronti del suo popolo e della sua nuova indigenza, e la sua attività di ricerca era in gran parte concepita come un modo per soddisfare i bisogni della gente: innumerevoli saranno le invenzioni e i brevetti attribuiti a padre Pavel, che completava in questo modo un’attività e una resistenza spirituali sorprendenti per dimensioni e profondità.

 

 

In seguito l’ostilità del regime si fece più implacabile, e vennero gli arresti: il primo, nel maggio del 1928, fu breve e si concluse con il rapido annullamento della condanna a tre anni di confino; il secondo, nel febbraio del 1933, fu invece fatale: condannato a dieci anni di campo, Florenskij iniziò un percorso che, dopo la detenzione nel lager delle isole Solovki, si sarebbe concluso con la fucilazione, l’8 dicembre 1937. A nulla valsero l’intervento del presidente cecoslovacco Masaryk e la mediazione della moglie di Maksim Gor’kij, Ekaterina Peškova, splendida figura di rivoluzionaria che dirigeva la Croce Rossa politica e che, come aveva fatto ai tempi dello zarismo, anche dopo la vittoria dei bolscevichi aveva continuato a sostenere i detenuti ingiustamente incarcerati. Come risulta dai documenti conservati negli archivi della polizia politica, Florenskij respinse ogni aiuto che potesse in qualche modo privilegiarlo rispetto agli altri credenti perseguitati: «Tutto posso in colui che mi dà la vita» fece sapere alla moglie, così che bloccasse ogni iniziativa in suo favore. Florenskij aveva la chiarissima coscienza di quello che lo aspettava e sentiva distintamente il peso di ciò che stava vivendo: le lettere dalla prigionia non sono esenti da toni di pura angoscia e sconforto; ma anche in questo la sua prospettiva era diversa: la forza che lo sosteneva, non essendo sua, poteva permettergli di resistere anche quando lui personalmente si sentiva travolto.