7. Cucendo Bottoni
Josiah Dogberry russava. Come una segheria del Maine, come un ornitorinco (Ornithorhyncus anatinus) asmatico, come un castoro del Michigan (Castor fiber michiganensis) in letargo, che sognava agitato una banda di cacciatori Ojibway guidati dal selvaggio capo Tartaruga Azzannatrice, il signor Dogberry russò e sbuffò per tutta la notte, impedendo qualunque riposo ad Agassiz.
Comunque, le sue condizioni mentali e l’ambiente circostante non conciliavano certo il sonno.
Agassiz era seduto su una rozza branda imbottita con un pagliericcio ricoperto da un materiale a strisce che dava il prurito. Una coperta puzzolente, il cui aroma era paragonabile solo a quello della latrina nell’angolo, era arrotolata in fondo al letto. La branda e il materasso occupavano metà di una cupa cella senza finestre. La cella era situata nelle profondità delle viscere della Prigione Statale di Charlestown.
Era stato portato in prigione con un carro coperto della polizia. Mentre veniva spinto nel retro senza apparente riguardo per la sua posizione, aveva lottato e levato vane proteste contro il suo arresto.
– Buon uomo, deve esserci un errore! Io sono Louis Agassiz, scienziato e cittadino svizzero…
Il poliziotto che aveva effettuato l’arresto, che Agassiz aveva sentito chiamare Sergente Rufus, rispose: – Vi ho già ringraziato una volta per non aver nascosto chi eravate ed esservi arreso con tanta cortesia. Che altro volete ancora? Un dannato certificato?
– Ma voi evidentemente non comprendete…
– Aspetta un attimo, vecchio trombone: sei tu quello che non compre-ende i fatti. Ho con me un mandato firmato dal Governatore in persona per il tuo arresto, e la sua parola è legge in questo stato. Adesso non sei più nella preziosa terra del tuo Willy Tell, quindi infila la coda dentro quel cellulare.
– Ma l’immunità diplomatica…
Il Sergente Rufus tese una mano col palmo all’insù verso uno dei suoi assistenti. – Griswold, passami i ferri per le gambe…
Cercando di risparmiarsi ulteriori indegnità, Agassiz si arrampicò nel carro seguito dal Sergente Rufus, che portava una piccola lanterna. Poi le porte vennero sbattute e sbarrate dall’esterno.
Mentre si allontanavano dalla tenuta Lowell, Agassiz sentiva debolmente gli inarticolati rumori della folle festa che sembravano avvicinarsi a un crescendo di cui poteva solo immaginare la causa. Lo faceva infuriare il pensiero che nessuno dei suoi colleghi gli fosse venuto in aiuto. Certo, l’arresto era avvenuto ai margini dei disordini ed era possibile che nessuno lo avesse notato, con gli altri spettacoli che attiravano molta più attenzione. Nondimeno, la loro slealtà gli bruciava.
Mentre il carro procedeva, Agassiz chiese al Sergente Rufus: – Perché non avete fatto il vostro dovere come difensori della pubblica morale arrestando tutti i presenti a quella debosciata soirée? Di certo erano colpevoli di disturbo alla quiete pubblica, per non parlare di svariate forme di turpitudine estremamente volgari.
Il Sergente Rufus si grattò la testa. – Devo confessare di non aver mai visto niente di simile a quella festa, e sì che sono stato chiamato a dare una mano con un bel po’ di situazioni fuori controllo a Tontine Crescent. A proposito, che ci facevano tutti quei granchi in giro dappertutto? Stavate mettendo su una gara?
– Quei granchi facevano parte della mia conferenza.
Il Sergente Rufus parve non sentirlo, divertito com’era dal ricordo degli Xiphosura imperversanti. – Non che non abbia mai visto animali alle feste. C’era quel somaro con l’attrice… Ma questo non c’entra niente. Però i granchi non sembrano presentare le stesse opportunità di divertimento…
– Lasciate perdere i granchi! Perché non avete arrestato Lowell e Lawrence?
Il Sergente Rufus guardò Agassiz come se fosse pazzo. – Arrestare due degli uomini più ricchi dello stato solo perché si sfogano un po’ in privato? Mi prendete per un cavolo di cretino? Tanto varrebbe che mettessi la testa sui binari davanti all’espresso di New York! No, con gli Associati non mi impiccio e vi consiglio di fare lo stesso.
E con quel saggio consiglio, il Sergente Rufus rimase in silenzio per il resto del viaggio.
Quando finalmente si fermarono e Agassiz emerse dal carro, fu colpito dall’enormità della situazione.
Di fronte a lui si ergevano nella notte le mura di granito della Prigione di Stato di Charlestown.
L’ottagono della parte principale era fiancheggiato da varie ali rettangolari, le cui finestre sbarrate somigliavano agli occhi vuoti dell’elmo gigantesco che si aggirava nel Castello di Otranto di Walpole. Un recinto di ferro battuto alto due metri circondava il complesso progettato da Bullfinch. (Che ironia, passare precipitosamente dalla residenza di città di Lowell all’altro estremo della tavolozza dello stesso architetto!) Su tre lati si stendevano i campi curati dai prigionieri.
Rabbrividendo nella tiepida aria di giugno, Agassiz sapeva che se fosse entrato in quella prigione non ne sarebbe mai uscito. Non era neppure sicuro che qualcuno sapesse che si trovava lì. E qualunque folle errore burocratico avesse portato al suo arresto, sarebbe rimasto irrisolto per decenni, mentre lui avvizziva in un relitto prematuramente invecchiato. Aveva solo quarant’anni, per l’amor di Dio! Era troppo giovane per essere murato vivo così, aveva troppe cose da fare, tanti onori da raccogliere…
Agassiz corse verso la libertà. Fu abbrancato dal placcaggio volante del Sergente Rufus, che lo spedì a mordere la polvere.
– Avanti, Professore, non serve a niente…
Una volta dentro, il naturalista venne preso in custodia da un secondino che aveva una sorprendente somiglianza con una delle più grandi specie di antropoidi, forse il Gorilla gorilla. Quel boia col manganello condusse Agassiz attraverso un labirinto di corridoi illuminati da torce per giungere infine a una cella stigia. La guardia aprì la porta e, spinto dentro Agassiz, la richiuse.
La luce che filtrava dallo spioncino mostrò ad Agassiz una figura sdraiata. Il corpo si mosse e si presentò.
– Josiah Dogberry, signore. E voi?
Quando Agassiz, frastornato, non rispose, Dogberry aggiunse: – Ci vuole un po’ per abituarsi, vero? Va bene, ci vediamo domattina. – Dopodichè tornò a dormire, con il summenzionato accompagnamento nasofaringeo.
Adesso, indicibili ore più tardi, Agassiz era ancora in preda allo shock. Le umide e viscide pareti della cella sembravano richiudersi su di lui. Cercò di scuotersi all’azione. Come si chiamava quel romanzo da due soldi che aveva letto sulla nave per l’America? Ah, sì, Il conte di Montecristo… Come era evaso il protagonista del romanzo? Si era scavato la via d’uscita con un cucchiaio, giusto? Agassiz fece un inventario dei suoi effetti personali: una matita (dalla fabbrica della famiglia Thoreau), gli appunti della conferenza afferrati in tutta fretta, qualche moneta, un orologio da tasca e un fazzoletto dall’odore di melassa.
Il suo piano era chiaro: avrebbe scribacchiato un biglietto d’addio, corrotto il secondino perché lo consegnasse, atteso lo scoccare della mezzanotte e poi si sarebbe strangolato con il fazzoletto.
D’improvviso nella cella si fece silenzio. Dogberry aveva smesso di russare. Agassiz si preparò a incontrare e trattare con il criminale incallito che divideva la sua cella.
Dogberry si stiracchiò e sbadigliò. Alzandosi, sollevò il viso alla luce. Era un volto decisamente mite e giovanile, non certo quello che Agassiz si aspettava.
– Ah, ho fatto proprio una bella notte di riposo. Niente di meglio di un bel sonno per rimetterti in pace con il mondo! Voi come avete ronfato, vecchio mio?
In parte rassicurato dalle maniere civili di Dogberry, Agassiz rispose: – Non troppo bene, temo. A proposito, mi chiamo Agassiz. Louis.
– Bene, Lou, presto dovrebbero arrivare col porridge del mattino. E con un po’ di fortuna, dentro non ci saranno troppi insetti.
Pur temendo che fosse un’infrazione all’etichetta penale, Agassiz non poté trattenersi dal chiedere: – Allora… qual è il vostro crimine, signor Dogberry?
– In sostanza, sono in gabbia per aver offeso un critico d’arte.
– Non sapevo che si trattasse di un’offesa punibile per legge.
– Neanch’io. Ma quando il denaro entra dalla porta, l’arte esce dalla finestra.
– Temo di non afferrare…
– Prego, leggete il mio biglietto da visita.
Dogberry porse ad Agassiz un cartoncino stampato.
JOSIAH DOGBERRY, ESQ.
ARTISTA ITINERANTE
ESEGUE RITRATTI
CON ELEGANZA E RAPIDITÀ
PROFILI………….10 ¢
VISI DI FRONTE……..25 ¢
MEZZA FIGURA………..75 ¢
FIGURA INTERA……1 DOLLARO
(MANI EXTRA)
Sopra il testo spiccava un campione di ritratto. Le rozze linee dello schizzo sembravano delineare un gobbo nano idrocefalo.
– Capisco – commentò Agassiz riconsegnando il biglietto. – C’è stata qualche disputa sulle vostre tariffe…?
Dogberry sospirò. – Potete ben dirlo. Ho sudato sangue per ritrarre tutta la famiglia Pickens, e loro non erano soddisfatti. Il padre sosteneva che il figlio assomigliava a un maiale. E chiedeva i soldi indietro. Sfortunatamente l’avevo già speso tutto per le vili necessità della vita, cioè un pasticcio di rognone, una partita a birilli e da dormire per una notte. E così, eccomi qui.
– Dove avete imparato a disegnare, se posso chiedere?
– Sono un completo autodidatta, signore, e ne vado orgoglioso. La mia vita è iniziata come umile, scalzo ragazzo di campagna. Nei momenti liberi disegnavo il bestiame a carboncino sulle tavole di legno sottomano. Quando giunse il momento di farmi strada nella vita, mi sembrò naturale rivolgermi all’arena pittorica.
– Forse per voi sarebbe stato meglio restare alla fattoria…
– Non si poteva fare, Lou. Ero il più piccolo di sedici figli e quando diventai adulto la terra era già stata divisa tra i miei fratelli. E poi erano solo due acri! Neanche loro ci avevano poi guadagnato molto! Ricordo unn giorno in cui Joshua (è il maggiore) disse a Jeremiah (che è quello che zoppica): “Vai a prendere Jeb, Jason, Jethro, Jim, John, Jan, Jurgen, Jed, Jabez, Jahath, Job, Joel e Julius: dobbiamo parlare per rimettere insieme il patrimonio”. Be’, signore, prima che Jeremiah avesse radunato tutti, oltretutto con quanto zoppicava, il prezzo del granturco era sceso di un altro penny al bushel! Sicuro come le tasse, i coltivatori del New England ne prendono di botte di questi tempi. Sono tutti quei prodotti a basso prezzo che vengono dall’ovest, arrivando con la ferrovia e i canali. Maledico il giorno che hanno avuto l’idea dell’Erie Canal!
– Ma il progresso…
– Il progresso per qualcuno è sempre regresso per altri, Lou. Prendetemi in parola.
Mentre rifletteva su questo nuovo concetto, Agassiz sobbalzò al suono di una chiave che apriva la cella.
Dalla porta comparve lo stesso carceriere che aveva condotto Agassiz la sera prima. Ma invece di portare la colazione, pronunciò queste raggelanti parole: – Tu, quello nuovo… vieni con me.
– Fagliela vedere, per tutti noi poveracci, Lou.
Con ginocchia tremanti, Agassiz precedette la guardia armata di randello. Attraversarono un labirinto di corridoi in cui, da dietro le porte delle celle, provenivano vari tipi di gemiti e lamenti, prima di scendere a un livello inferiore. Quel piano sotterraneo sembrava poco utilizzato: le pareti biancastre erano decorate di ragnatele; ratti sgattaiolavano con movimenti curiosamente intelligenti; su una pila di casse era inciso: RELIQUIE DEI PROCESSI DI SALEM.
Giunsero a una porta sotto cui trapelava della luce.
– Entra – ringhiò il secondino.
Agassiz posò la mano sul catenaccio. Tremava con tanta violenza che trasmise le vibrazioni alla porta poco stabile sui cardini, che gli impolverò le scarpe. Finalmente riuscì ad aprire il Portale della Dannazione e ai suoi occhi si presentò una scena al di là della comprensione.
Un rombo appena percettibile, facile da ignorare, proveniva da un punto imprecisato. Sul pavimento della grande stanza era steso un lussuoso tappeto orientale. Le pareti erano nascoste da arazzi. Al centro del tappeto c’era un lungo tavolo di quercia ricoperto da una tovaglia damascata. In mezzo alla tavola un candeliere a sei braccia di foggia antica diffondeva una luce guizzante. Ai due estremi del tavolo, davanti a sedie dallo schienale alto, erano disposti piatti e posate per due. Il profumo di uova, pancetta, pane tostato e caffè si levava da vari piatti da portata.
Seduto a un estremo del tavolo c’era un uomo. Indossava stivali alti e lucidi e l’uniforme da ufficiale prussiano ricoperta d’oro: bottoni, spalline e galloni. Dalla cintura pendeva uno stocco senza fodero. Il volto dell’uomo era duro e tagliente come le rocce della Cuckfield Quarry da cui Mantell aveva estratto i suoi fossili. Un occhio era nascosto da una pezza nera decorata con la croce uncinata degli antichi ariani, primordiale simbolo del sole, ricamata in bianco.
– Herr Professore – lo salutò l’uomo con una voce un poco reminiscnente dei movimenti di un cobra reale (Ophiophagus hanna) – volete fare colazione con me?
Ipnotizzato, Agassiz si accomodò sulla sedia offerta.
– Vi prego, servitevi.
Riempiendosi il piatto senza guardare e ingoiando un enorme nodo che aveva in gola, Agassiz ritrovò la parola. – E… e il vostro nome, signore?
– Avete il modesto privilegio, Herr Professore, di rivolgervi a un umile rappresentante del Re di Prussia. Io sono Hans Bopp, leale servitore di Sua Maestà Federico Guglielmo IV.
Agassiz fu sommerso da un’ondata di terrore. Ecco dunque il secondo uomo contro cui Cezar lo aveva messo in guardia, il famigerato capo della polizia segreta prussiana.
– Abbiamo degli affari da discutere – disse Bopp. – Ma aspettiamo finché non avremo assaggiato questa nuova cucina americana. È la mia prima visita nel Nuovo Mondo e intendo godermela. Prego, mangiate.
Le parole e il tono di Bopp non ammettevano alcun disaccordo. Virilmente, Agassiz masticò e inghiottì senza neppure una volta sentire il sapore di ciò che mangiava. Nel frattempo Bopp parlava con vivacità di argomenti privi di importanza: la poesia di Eichendorff, la musica di Mozart (in particolare il nascosto simbolismo massonico del Flauto magico), i paesaggi di Caspar David Friedrich… Non deve stupire che quella civile conversazione rilassasse Agassiz, che stava iniziando davvero a gustare il caffè quando Bopp disse senza preamboli: – Siete consapevole, vero, di essere ancora al servizio di Re Federico, Herr Professore?
Agassiz quasi si strozzò con il caffè. Una volta ripreso, disse: – Ma come può essere? Il sussidio doveva durare solo due anni, e il tempo è scaduto a marzo. Ho speso tutti i soldi, ma posso rendere conto di ogni…
Bopp si mise una mano nella giacca ed estrasse dei fogli. Colto da un senso di vuoto, Agassiz riconobbe l’accordo che Humboldt gli aveva spedito per la firma. Maledetta la sua avarizia! Ma quei tremila dollari gli servivano per venire in America…
– Permettete che legga: sezione quarta, paragrafo sedici, clausola nove. “Il sottoscritto accetta di offrire alla Corona il diritto di prelazione sui suoi servigi per un periodo di tempo non superiore a due decenni dalla scadenza di questo contratto. In caso di morte dell’attuale monarca (Dio lo conservi), l’opzione passerà al suo successore”.
Agassiz accennò a una debole risata. – Di certo questa clausola non è che una di quelle antiche manifestazioni del droit de seigneur che non si intende invocare realmente…
Ripiegando le carte e riponendole nella giacca, Bopp disse: – Temo proprio di no, Herr Professore. In effetti si tratta di una nozione moderna e del tutto legale. Infatti è stata proprio questa clausola che ho potuto usare (insieme al mio status di ambasciatore) per convincere il Governatore a ordinare il vostro arresto. Ma nella nostra discussione non desidero invocare né i tribunali né la disapprovazione del Re, come sarei tenuto a fare in qualità di suo emissario deputato. No, intendo fare appello al vostro senso dell’onore e al nostro comune retaggio.
L’unico Cavaliere Teutonico superstite si alzò, facendo tintinnare la spada contro la sedia, e parlando procedette a fare su e giù per la stanza con passi marziali.
– Vedete, Herr Professore, intendo parlarvi come a un altro appartenente alla razza ariana. È vero, tecnicamente voi non siete membro delle tribù germaniche, ma come svizzero purosangue rappresentate il ramo più vicino alla nostra nobile famiglia. Avete forse sentito parlare del Conte de Gobineau, il francese? No? Ah, che peccato. Sta lavorando a comporre un’opera monumentale che intende chiamare Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane. Penso che la trovereste affascinante. Dettaglia la genesi degli ariani nell’altopiano indoeuropeo, le loro migrazioni e il loro giusto posto come signori e governanti di tutti gli altri degenerati rami dell’umanità.
«Ma questo destino, pur se alla fine ineluttabile, come tutti i progetti temporali è soggetto a ostacoli e battute d’arresto. Anche se la gloriosa dominazione dei figli di Ahura Mazda prima o poi si realizzerà, può incontrare dei ritardi. Le razze inferiori, vedete, sono scaltre nel loro modo primitivo, possono frapporre delle barriere al nostro successo. Se non altro, ci sopravanzano drasticamente di numero.
«Per Wotan, sono incredibilmente fecondi! Noi nordici, nel nostro concentrarci sulle cose dell’intelletto e dello spirito, siamo tutt’altro che all’altezza della feccia tropicale in materia di procreazione. È disgustoso quanto si riproducono, come larve nel fango! E proprio come voi schiaccereste senza rimorsi un insetto che vi infastidisce, così le razze inferiori del mondo devono passare sotto la paterna e saggia legge dell’efficienza germanica, per essere rapidamente sterminate!»
Bopp si interruppe e Agassiz cercò di mettere insieme una risposta diplomatica. Iniziò con cautela.
– Pur trovandomi essenzialmente d’accordo con voi per quanto riguarda l’innata superiorità della nostra razza bianca, devo tuttavia lievemente dissentire dai vostri aggressivi progetti di dominazione del mondo. La linea d’azione più saggia e meno violenta, ne sono sicuro, è semplicemente mantenere una politica di rigorosa segregazione. Che le razze di pelle scura siano rinchiuse nella loro parte del globo, mentre noi restiamo nelle nostre. Per esempio potremmo cominciare rispedendo in Africa tutti i neri del Nord America…
Bopp esplose: – E lasciare che si piazzino sulle indicibili ricchezze non ancora sfruttate di quel continente? E che mi dite della possibilità che ci rubino armi a sufficienza da rappresentare una minaccia militare? No, non va bene, Herr Professore. È una guerra all’ultimo sangue, credetemi. E per quanto sia garantito che alla fine le forze ariane prevarranno e inaugureranno un regno che durerà mille anni, il prezzo della vittoria potrà essere alto o basso, a seconda di ciò che faremo oggi.
«Vedete, anche se l’audacia scientifica e militare della Germania è la prima al mondo, a vertici mai raggiunti e in continua ascesa (pensate per esempio al miracolo delle fabbriche di munizioni Krupp, agli utili risultati di scienziati come il Barone Liebig e perfino alle scoperte un po’ più esoteriche di uomini come voi), c’è un altro aspetto della nostra cultura che di recente è stato molto trascurato.
«Sto parlando del lato religioso, della sfera occulta. Dall’Illuminismo in avanti l’uomo ariano ha avuto la tendenza a sminuire ciò che non si poteva misurare o pesare. Trascurando quindi il contatto con gli elementi spirituali della sua natura, la luce interiore del Valhalla che sola fornisce indicazioni ai suoi impulsi, ha abbattuto l’albero di Yggdrasil. Guardate il triste stato del mio ordine, ridotto prima a politicanti aggrappati alla terra poi a semplici vassalli, voltando le spalle a tutto il segreto sapere che avevamo portato da Gerusalemme.
«Questo bisogna riconoscere in quei selvaggi: pur imitando gli orpelli esteriori della civiltà, restano saggiamente attaccati alle loro religioni. Gli antichi dei e gli antichi rituali continuano ad alimentare le loro attività giornaliere e la loro volontà di sopravvivere. È a questo vigore spirituale pagano che intendo riportare i popoli germanici. E comincerò impiegando il feticcio della Venere Ottentotta!»
Agassiz represse un’imprecazione. Quel maledetto pudendum! Ma perché Cuvier l’aveva conservato? Lo avrebbe dunque perseguitato per il resto della vita…?
Agassiz cercò di dissuadere quel Paracelso prussiano dai suoi progetti. – Ma Herr Bopp, non potete pensare seriamente di contaminarvi con le magie dei negri?
– Perché no? Cosa potrebbe essere più ironicamente giusto che rivoltare contro il selvaggio le sue stesse armi? La magia, mio caro Professore, non conosce contaminazione etnica. Non ho niente in contrario verso tutto quel che mi permette di raggiungere i miei fini, che sia lo sciamanismo dell’uomo rosso o il taoismo di quello giallo.
L’unico occhio di Bopp cominciò a brillare. L’uomo si avvicinò ad Agassiz.
– Ho una visione del popolo germanico nuovamente ispirato da mille sette e culti. Non sarà più l’Ordine dei Rosacroce a offrire l’unica alternativa per i cercatori della verità cosmica. No, ci saranno cento ordini: la Mystica Aeterna, la Stella Matutina, l’Ordo Templi Orientis, la Lega del Martello, la Società di Thule, la Loggia della Fraternitas Saturni. Gli Antichi ritorneranno! Non è morto ciò che in eterno può attendere. Ma non dorme, sogna soltanto!
La trance divinatoria di Bopp si esaurì con la stessa rapidità con cui era giunta, lasciando il Cavaliere Teutonico palesemente sfibrato. Poggiò una mano sullo schienale della sedia di Agassiz e si afflosciò. Poi, con uno sforzo, si raddrizzò.
– È vostro dovere, Herr Professore, sia per contratto sia come rappresentante della razza ariana, assistermi a porre le mani sul feticcio. Do per scontato che vi metterete in contatto con me non appena vi sia un indiscutibile avvistamento dello stregone.
– E se mi rifiutassi di obbedire?
Bopp gli rivolse un sorriso maligno. – Permettetemi di mostrarvi una cosa.
Avvicinandosi a un arazzo, lo sollevò scoprendo una porta, e invitò Agassiz ad aprirla ed entrare.
La stanza era riempita da un odore di umidità e da un rombo proveniente da una grande ruota ad acqua, il cui mozzo sporgeva da una parete. Un torrente sotterraneo entrava da uno dei muri attraverso un canale di pietra, per poi uscire dall’altro lato.
Legate al bordo della ruota c’erano due figure. Scioccato, Agassiz le riconobbe come i due visitatori di un paio di giorni prima: Hoene-Wronski e Levi. A ogni giro della ruota, i due si tuffavano sott’acqua per riemergere tossendo e sputacchiando per un tempo appena sufficiente a riprendere fiato per l’immersione seguente.
– Due miseri aspiranti a una parte in questo grande gioco – disse Bopp, sarcastico. – Li ho sorpresi a far domande sul feticcio. Oh, non allarmatevi. Non intendo ucciderli, solo dare loro una lezioncina prima di impacchettarli e rispedirli a Parigi. Ma se dovessi mai mettere le mani su Kosziusko, però, la storia avrebbe un altro finale! Ma per adesso ci siamo divertiti abbastanza… andiamo.
Usciti dalla camera della tortura, Bopp disse: – Confido di non dovervi spiegare le applicazioni al vostro caso di ciò che avete visto, Herr Professore. Credo proprio di no. Molto bene, allora, siete libero di andare. La guardia vi aspetta fuori per condurvi ai cancelli della prigione.
Già con una mano sulla maniglia, Agassiz fu bloccato da un ultimo commento di Bopp.
– Se ancora tentennaste, professore, permettetemi di assicurarvi che la migliore rappresentazione del futuro dei sub-umani e di tutti i loro alleati può venire descritta da uno stivale che calpesta un viso… per sempre.
Agassiz si ritrovò al pianterreno della prigione senza ricordarsi di essere salito. Gli avvenimenti delle ultime ventiquattr’ore avevano sovraccaricato il suo cervello.
Il sole che si riversava dalle finestre senza sbarre di un’anticamera cominciò a farlo tornare in sé, almeno un po’. Mentre gli impiegati si affannavano sulle carte del rilascio, Agassiz cercò di rassicurarsi dicendosi che quell’intermezzo era stato soltanto un orribile incubo. Gli affari del mondo non potevano certo essere governati da simili pazzi…
Un altro prigioniero venne portato nella stanza. Era Dogberry.
– Felice di vedere che ce l’avete fatta, Lou, qualunque cosa fosse, anche se avete un viso uguale ai porri imbiancati della fattoria. Comunque, non avete perso granché a colazione. Ho contato quindici carcasse di insetti nella brodaglia, senza parlare di un po’ di ali e antenne.
Riconoscente di vedere un volto familiare e amichevole, per quanto si trattasse della conoscenza di una sola notte, Agassiz disse: – Presumo che anche voi verrete rilasciato oggi, Josiah?
– Pare di sì, Lou. Anche se non so davvero cosa farò una volta uscito di qui. Penso che mi trasferirò a esercitare il mio mestiere in una città meno cosmopolita, dove non tutti sono seguaci del realismo di quella novità, il dagherrotipo…
Qualcosa nello sventurato artista (non certo il suo infimo talento) gli ricordò Dinkel, suo fidato disegnatore per vent’anni, che aveva scelto di restare in Europa. Senza quasi rendersene conto, Agassiz si ritrovò a dire: – Josiah, che ne direste di lavorare facendo disegni per me? I soggetti sarebbero animali allo stato di natura, che forse è più il vostro genere.
Dogberry si batté i pantaloni, sollevando uno sbuffo di polvere. – Che ne direi? Lou, voi siete il genere di mecenate che Rembrandt trovò nei Medici!
– Immagino intendiate Michelangelo, Josiah.
– Per me gli spagnoli sono tutti uguali, temo.
In breve, due uomini liberi uscirono nell’aria aperta di Charlestown. Il semplice atto di respirare non aveva mai riempito Agassiz di tanta gioia. Giurò di non dimenticare mai le sensazioni di quel momento.
Nonostante la notte insonne e lo sconvolgente colloquio, Agassiz si ritrovò ad apprezzare la passeggiata mattutina attraverso Charlestown. A bordo del traghetto per East Boston, più di una volta si sorprese a ghignare come un ebete.
Considerata obiettivamente, lo sapeva, la sua vita era un pasticcio. Da una parte era costretto a ospitare un coloniale amante della mescolanza tra le razze, con la sua sposa boscimane, per non parlare di un tersicoreo sachem degli Ojibway. Era sottoposto alla contemporanea sorveglianza di un autocrate e un anarchico. Sua moglie era sul letto di morte e il fiasco della sera precedente aveva di certo cancellato ogni possibilità di assicurarsi la cattedra a Harvard.
D’altra parte, non era legato all’apparato motore di un mulino.
Aprendo la porta di casa, che non era chiusa a chiave, Agassiz gridò. – Pourtales, Burckhardt, Desor, salve! Il vostro capo è tornato illeso!
La testa di Jane comparve dalla dispensa. – Sssh, Professore! Stanno dormendo tutti! Sono tornati solo un’ora o due fa…
– Miserabili nullafacenti! E immagino che nessuno abbia mostrato alcuna preoccupazione per me…
Jane sembrò offesa. – Padron Desor ha affermato di avervi visto salire su una carrozza piena di sgualdrine e ubriaconi. Ha detto che avevate due bagasce sottobraccio e un’altra in grembo.
Agassiz sentì pulsare una vena sulla tempia. Cercò di reprimere la sua rabbia. – Non ho fatto niente di così disdicevole. Ho passato la notte in prigione e stamattina sono sfuggito per un pelo a un’odiosa sessione sullla ruota della tortura!
Jane gemette e si gettò fra le braccia di Agassiz.
– Oh, Louis, solo pensarci mi fa svenire! Povera, povera creatura!
Agassiz scorse Dogberry che guardava con interesse un po’ eccessivo. – Ahem, grazie per il vostro interessamento, signorina Pryke. Ah, permettetemi di presentarvi il signor Josiah Dogberry, un nuovo membro della squadra. Credo che il signor Dogberry non rifiuterebbe una buona colazione.
– Ma certo! Una dozzina di frittelle e un paio di fette di pancetta. Ma andateci piano con gli insetti.
Lasciando la domestica a occuparsi dei bisogni di Dogberry, Agassiz si ritirò nello studio. Si rinfrescò con brocca e bacinella, e poi fece un breve pisolino sul divano di pelle.
L’arrivo della posta del mattino servì a Jane come scusa per svegliarlo. Dopo averlo informato con sussiego che il resto della casa era ancora a letto, compreso il signor Dogberry, attese con pazienza che Agassiz leggesse la posta.
Il naturalista scelse tre lettere che meritavano una scorsa immediata. Sulla prima l’indirizzo del mittente era quello del minuscolo ma potente Abbot Lawrence.
Lottando per mantenere l’atteggiamento di totale noncuranza che provava prima (c’erano dozzine di scuole che l’avrebbero preso… Yale, per esempio) aprì la busta.
Caro Professor Agassiz,
Non ricordo da quanto tempo non passavo una serata deliziosa come la notte scorsa. Probabilmente da quando Ben Franklin e io dipingemmo di rosso Philadelphia nell’88. Ritengo che il successo della serata vada attribuito a voi e al vostro affascinante staff. Accidenti a questa mosca! Martha! Dov’ero rimasto? Ah, sì. Potete contare sul mio più sincero appoggio alla vostra candidatura per la nuova cattedra che sto per istituire. Meravigliose, assolutamente, le divergenze dell’anatomia femminile…?
Sinceramente vostro
A.L.
Agassiz si rese conto che mentre leggeva si era piegato in avanti per la tensione. Allora si riappoggiò con gratitudine allo schienale della sedia. La vita era bella. Era un vincente. Tutti i problemi presto sarebbero svaniti. (Ma cosa aveva raccontato… o mostrato… Cezar al milionario a proposito della sua compagna africana?)
La seconda lettera era di Hosea Clay.
Vile furfante:
Come ormai ben sapete, signore, stavo per inviarvi un altro pezzo staccato dallo schiavo che non avete ancora reclamato, quando quel bruto si è impossessato di un attizzatoio, mi ha dato una mazzata in testa ed è scappato. Ho fatto convalescenza nei giorni scorsi, altrimenti aveste ricevuto ancora prima la mia quacquerela su questa vergognosa faccenda. Di sicuro il mio avvocato si metterà in contatto con il vostro, appena ne assumo uno. La richiesta di danni sarà tre-men-da.
Dolentemente vostro
Hosea Clay
Un altro peso di meno. Poteva sperare di fare tre su tre…?
Caro Louis,
perdonate la familiarità con cui vi saluto. Spero che non mi consideriate troppo sfacciata. Ma sento di conoscervi così bene dopo il nostro appassionato tête-a-tête della notte scorsa. Le vostre intuizioni filosofiche hanno scosso fin nelle profondità il mio animo di donna. Attendo con ansia di poter ancora condividere con voi confidenze tanto intime.
Con profondo affetto mi firmo, la vostra affezionata amica
Lizzie Cary
Agassiz sentì un intenso calore pervadergli le zone inferiori. Pensare alla flessuosa Lizzie risvegliava i suoi istinti genetici.
– Jane, ti spiacerebbe? Ho avuto una giornata così dura…
– Oh, no, signore! Posso far pratica con quel nuovo giochetto che ho provato l’altra notte.
Inginocchiandosi di fronte a lui, Jane cominciò a sbottonargli i pantaloni.
In quell’istante la porta dello studio si spalancò.
Sulla soglia c’era Jacob Cezar.
– Mein Gott, Louie! Crazie al cielo siete salfo! Non sapefamo cosa era succ…
Si rese conto di avere interrotto qualcosa. – Oh, scusatemi, non afefo capito….
Tuttavia, era troppo tardi per battere in ritirata. Il rumore aveva attirato gli altri abitanti della casa. In prima fila c’erano Edward Desor e Dottie.
Desor disse, compiaciuto: – Così è questo l’esempio che dai al tuo staff, Agass?.
Jane cercò un alibi. – No, signore, non capite. È solo… cioè… stavo solo cucendo un bottone ai calzoni del padrone!
– Un bottone? E allora dov’è? E cosa usi come ago e filo? Forse li hai ingoiati? E deve essere un bottone in più, perché non mi pare ne manchi nessuno.
– Oh, io… – Jane si nascose il volto fra le mani e scoppiò in lacrime.
Dottie si precipitò accanto alla ragazza e la tirò su. Mettendole un braccio sulle spalle, la condusse in mezzo alla folla imbarazzata.
Agassiz accennò ad alzarsi, poi si rese conto che non osava muoversi con la patta sbottonata e risolse di intrecciare compassato le mani sul punto dolente, dicendo: – Edward, tu non capisci il vero significato di questo innocente tableau.
– Ti prego, non insultare la mia intelligenza, Agass. Se le cose fossero state ancora più evidenti, si sarebbe trattato di una delle litografie di Sonrel per Fanny Hill. Tuttavia puoi senz’altro contare sulla mia lealtà e discrezione… almeno finchè te le meriterai. Adesso ti lascerò a ricomporti.
Poco dopo, soltanto Cezar rimase con Agassiz.
– Be’ – disse il sudafricano – nel mio paese…
– Oh, all’inferno voi e il vostro dannato paese!
– Non è carino tire così a chi fi ha appena procurato il nuofo laforo a Harvard.
– E come ci siete riuscito, di preciso? – chiese Agassiz.
Cezar aprì la bocca per parlare, ma Agassiz alzò una mano per fermarlo.
– Ripensandoci meglio, tenetevelo per voi.
Cesar sorrise. – Und Dottie.