4. Cosa portò il postino

 

Sin da quando, all’età di quindici anni, aveva delineato nel suo diario tutta la sua futura carriera, Agassiz non aveva mai conosciuto il fallimento… o non l’aveva mai ammesso. Certo, alcuni eventi avevano avuto un esito men che soddisfacente. Il suo matrimonio, tanto per fare un esempio. Ma c’era sempre stata un’angolazione da cui vedere quei successi parziali, una prospettiva che gli permetteva di recuperare una radiosa vittoria da una nera sconfitta. Non era mai stato costretto ad ammettere la sua incompetenza, a pronunciare effettivamente le parole: “Ho fallito”.

Ma ora, forse, si trovava davanti a quella miserevole occasione. Per quanto detestasse confessarlo, aveva trovato un’area in cui non sembrava possedere alcuna abilità.

Il campo delle investigazioni.

Era stata sua ferma convinzione che una volta applicata la sua profonda intelligenza al problema del feticcio scomparso, sarebbe stato in grado di condurre Cezar dritto da T’guzeri, il demoniaco stregone ottentotto. Dopo tutto, che altro era l’investigazione se non una scialba cugina della scienza? In entrambe si affrontava una variegata raccolta di fatti apparentemente non collegati dai quali costruire una spiegazione generale, che conduceva alla capacità di prevedere o estrapolare le azioni della propria preda, uomo o atomo che fosse. Di certo il sapiente che aveva letto nelle rocce scavate della valle del Rodano l’antica presenza dei ghiacciai sarebbe stato in grado di seguire le goffe tracce di un moro primitivo.

E invece non era andata così.

Prima di gettare altrove la rete, Agassiz aveva affermato che andava eliminata con certezza la città come rifugio di T’guzeri. Come fulcro del Commonwealth, sosteneva Agassiz, la città doveva attrarre lo stregone, anche se non era il vero Locus Cosmogonico dove intendeva eseguire i suoi rituali negromantici.

E così, per due giorni, il naturalista e Cezar avevano setacciato le strade di Boston, tortuose come sentieri di campagna. Nella ricerca li accompagnava la silenziosa ma vigile e curiosa Dottie, i cui scimmieschi tratti color inchiostro risaltavano incongrui nell’abbigliamento occidentale, attirando sguardi e fischi da parte dei passanti di ceto inferiore.

Il trio aveva interrogato diversi strati della società, in cerca di ogni informazione relativa a un boscimano seminudo che portava con sé un frammento sottaceto di anatomia femminile.

Prima avevano fatto un tentativo con i contatti di Agassiz ai moli locali, ragionando che T’guzeri fosse arrivato da Parigi con una nave, commerciale o altrimenti. Come remota possibilità, avevano perfino visitato i cantieri navali McKay, non lontani dallo stabilimento di Agassiz a East Boston, dove Donald McKay costruiva i suoi magnifici clipper, come il Flying Cloud e il Sovereign of the Seas, che dominavano il commercio fra la Cina e la California. Ma nessuno con cui parlarono aveva visto il boscimano.

Dopo il viaggio in traghetto da East Boston a Shawmut, sulla terraferma, si recarono al molo di Long Wharf, con i suoi meravigliosi magazzini in mattoni a quattro piani lunghi seicento metri. Ma là, tra reti da pesca stese ad asciugare e golette, barconi e sloop agli ormeggi, insieme a qualche raro yacht venuto da Newport, che dondolava superbo come un pavone (Pavo cristatus) fra le galline (Gallus gallus), il fiasco fu completo.

Costretti dunque a presumere che lo scaltro mago fosse approdato in un altro punto della Costa Orientale, controllarono tutti i treni e le stazioni delle diligenze, interrogando facchini e bigliettai, venditori ambulanti, tagliagole e ragazzini di strada. Andarono dallo Scalo di Fitchburg in Causeway Street alla Stazione di Providence e Worcester a South Cove. Senza fortuna.

– E ze T’guzeri ha fiaggiato con una di qvelle barche tirate da cafalli?

– Volete dire una chiatta? Indaghiamo.

Ma nessuno dei manovali sudati addetti alla guida dei cavalli che trainavano le chiatte a fondo piatto, lunghe trenta metri, lungo il canale Middlesex dal fiume Merrimack al Porto di Boston fu in grado di fornire informazioni sullo stregone.

Il trio investigativo perlustrò anche la fila di baracche in legno del South End, stipate di immigranti, sempre senza esito. Ipotizzando che T’guzeri usasse la sua bassa statura facendosi passare per un ragazzo, visitarono la Casa dei Ragazzi di Strada e molte Scuole Libere. Tutti i residenti e gli studenti erano non-ottentotti.

Chiesero presso tutte e trenta le società “benefiche, utili e caritatevoli”, ma senza alcun successo.

Disperando, andarono al Lunatic Hospital di Boston, a City Point, pensando che T’guzeri poteva essere stato catturato e rinchiuso in manicomio. Nel mezzo dello sfrenato ridere degli internati, ad Agassiz sovvenne il doloroso ricordo del fiasco causato da Desor al “Bedlam College”. Purtroppo, nessuno dei matti era boscimano.

A quel punto, erano a una impasse.

– Il mio ragionamento era impeccabile. Ero sicuro che quel furfante si sarebbe nascosto in città, dove la sua presenza aveva più probabilità di passare inosservata….

– Ach, afrei dofuto antare ta qvalcuno con esperienza in qveste faccende. Forse qvello scrittore, Edgar Poe. Chiunqve riesce a creare un personaggio come qvell’Auguste Dupin sarebbe in crato di risolfere un semplice mistero come qvesto.

– Non fatemi ridere! Quel giornalista non è altro che un sognatore ubriacone, con tutte quelle chiacchiere sulla terra cava e cose simili. E poi è privo di morale. Accidenti, stava praticamente per essere messo alla berlina e cacciato dalla città…

– Nontimeno…

Frustrato, Agassiz si rivolse alla sua rete di corrispondenti sul campo, uomini e donne, dilettanti e professionisti, che avevano sentito le sue conferenze ed erano stati motivati ad arruolarsi nel grande e glorioso Esercito della Scienza. Da loro riceveva quotidianamente pacchi pieni di interessanti curiosità naturali, a volte viscidi e puzzolenti, oppure ronzanti, gracchianti o tintinnanti, che erano fonte di grande ansia per Jane, che aveva il compito di smistare la posta.

Nel tardo pomeriggio della seconda infruttuosa giornata, Agassiz scrisse la stessa lettera a ciascuno dei suoi corrispondenti:

 

Stimato amico di Filosofia Naturale,

 

Il vostro umile Professore vi chiede ora di stare all’erta per una vera rara avis. Mi è giunta notizia che da queste parti sono stati avvistati vivi nativi africani, di specie ottentotta, forse mandati alla deriva durante qualche naturale migrazione oceanica e portati su quesiti lidi. Pagherò il doppio della normale ricompensa se sarete tanto gentile da inoltrarmi notizie affidabili su tali esemplari. Naturalmente, se foste in grado di intrappolarli, tanto meglio; e potete contare che mi accollerò tutte le spese di carico per una pronta consegna, come anche il risarcimento per l’eventuale foraggio che dovessero consumare.

In tassonomica solidarietà, vostro

Louis Agassiz

 

Si udì un impacciato bussare alla porta dello studio. Ah, doveva essere Jane con la posta del pomeriggio. Forse c’era già una risposta o due dai corrispondenti più vicini…

– Avanti.

Si sentì un armeggiare alla maniglia, poi la porta si spalancò, spinta da un calcio, sbattendo fragorosamente contro la parete.

Jane entrò barcollando, le braccia tese tanto colme di pacchi da nasconderle il viso. Avanzò incerta verso una credenza ma, a metà strada, emise uno strillo acuto e lasciò cadere tutto il fardello.

– Qualcosa mi ha morso!

Afflosciandosi sul divano, cominciò a piangere.

Agassiz si affrettò a chiudere la porta e poi andò a sedersi accanto a Jane.

– Su, su, mia cara, dove ti fa male? Mostralo a papà Agass.

Jane sbottonò il corpetto della redingote ben sotto la clavicola. – Guardate qui: è tutto rosso!

– La pelle è intatta, Jane. Probabilmente non è stato altro che lo spigolo di una scatola. Sei davvero troppo impressionabile, mia cara. Un bacio e passerà tutto…

Mentre abbassava la testa verso i confini superiori del seno di Jane, la porta si aprì senza preavviso. Agassiz balzò in piedi e Jane si affrettò ad allacciarsi l’abito.

Era Desor. L’untuoso tedesco rivolse una smorfia d’intesa al suo datore di lavoro e tentò di arricciarsi un’estremità degli insignificanti baffi, ma riuscì solo a strapparsi parecchi peli, dei quali non poteva certo fare a meno.

Agassiz si costrinse a reprimere la sua furia. Sarebbe parso fuori luogo gonfiare sproporzionatamente l’interruzione.

– Edward, in futuro preferirei che ti annunciassi. E se fossi stato impegnato in faccende private?

– Credevo che lo fossi.

– Niente del genere! Jane stava solo consegnando la posta e ha deciso di riposarsi i piedi. Ora, cosa volevi, se volevi qualcosa?

– Mio cugino Maurice è arrivato e desidera conoscerti.

– Arrivato? Mi hai detto che era salpato solo tre giorni fa. Ci sono forse stati progressi navali di cui, cosa poco probabile, sono rimasto ignaro?

– Non volevo che tu ti angustiassi troppo per la sua sicurezza, e così ho aspettato a parlarti del suo viaggio fin quando non era quasi finito.

– Hummm! Io credo invece che tu volessi mettermi di fronte il più possibile a un fait accompli. Bene, di’ a Maurice che il suo colloquio personale dovrà aspettare finchè non avrò più tempo. Nel frattempo, puoi metterlo al lavoro per guadagnarsi da vivere. Considerate le sue capacità, forse la pulizia delle stalle è il compito più adatto.

– Sciocchezze. Maurice è un gentiluomo. Lo metterò a montare le farfalle.

Prima che lui potesse ribattere, Desor se ne andò.

Agassiz si avvicinò a Jane, che si era alzata, pronta a uscire. Le sfiorò il collo.

– Tutto questo parlare di monta mi ricorda qualcosa…

Jane ridacchiò. – Cielo! Non fatemi arrossire, signore! Almeno non prima di stanotte…

Uscita Jane, Agassiz recuperò la posta dal pavimento e cominciò ad aprirla. Una missiva dal suo più fedele corrispondente inglese, un certo C. Cowperthwait, che normalmente avrebbe avuto la priorità, venne messa da parte.

Solo uno dei pacchetti si riferiva alla sua ricerca. Agassiz non riconobbe il nome del mittente, poiché non apparteneva a nessuno dei suoi affiliati regolari.

 

Signore:

 

ho saputo che state cercando un negro fuggitivo. Ne ho qui uno trovato mentre scappavo in Canada. Forse è il vostro. Vi invio un campione così magari lo riconoscete. Nel caso, potrete venire a prendervelo, perché non è in forma per viaggiare. Solo oro, niente banconote.

 

Vostro

 

Hosea Clay

 

Agassiz aprì il pacchetto che accompagnava la lettera sgrammaticata.

Dentro c’era l’orecchio mozzato di un uomo nero, con il sangue rappreso e incrostato, e un paio di peli ricci.

Sconvolto, Agassiz lasciò cadere la scatola; l’orecchio rotolò a terra e si fermò sul tappeto, come ad accusarlo.

Mio Dio! Ecco a quale contagiosa brutalità finivano per abbassarsi gli uomini bianchi costretti ad abitare fianco a fianco con i negri! Quale epica tragedia era questo mescolarsi delle razze! L’intero paese ne era contaminato, e lo sarebbe stato per tutta la durata della sua esistenza. Grazie al Signore lui, Agassiz, era innocente da ogni colpa in tutta quella sgradevole faccenda, in virtù della sua nascita svizzera e della sua visione scientifica…

Con un paio di grosse pinze raccolse l’orecchio e lo consegnò, insieme alla lettera e alla scatola, al ventre della stufa Franklin. Anche in quel periodo dell’anno le notti potevano essere gelide, e un piccolo fuoco sarebbe passato inosservato.

L’ultima lettera era di sua madre.

 

Carissimo figliolo,

 

Tu sai che di recente Cécile è stata aggravata da parecchi tormenti, non ultima la tua inevitabile assenza. Quando ha cominciato a passare a letto gran parte della giornata, ci siamo aspettati il peggio. Il dottor Leuckhardt ha ora pronunciato una diagnosi e mi addolora doverti informare che si tratta di tubercolosi.

Cécile e i ragazzi si stanno trasferendo a Friburgo, dato che il dottor Leuckhardt crede che un cambiamento d’atmosfera le farà bene, e perché ha nostalgia di casa.

Cécile e i ragazzi ti mandano il loro amore. Tua moglie dice di non preoccuparti, perché questo non può servire a niente, e ostacolarebbe solo il tuo lavoro.

Con il più profondo affetto,

 

Mamma

 

La lettera scivolò sul tappeto dalle inerti mani di Agassiz. Pensieri e ricordi, accenni di recriminazioni e giustificazioni sciamarono nella sua mente sofferente come Apis mellifera in un campo di trifoglio.

Dopo quella che gli parve un’eternità di confuse fantasticherie, la porta dello studio tornò ad aprirsi.

Come un uragano di nord-est, il formidabile Capitano Dan’l Stormfield soffiò nella stanza portando con sé il suo profumo marino.

Dapprima Agassiz non riuscì a concentrarsi sulle parole dell’uomo. Ma alla fine si ritrovò nuovamente catturato dalla vivace parlantina del pescatore, che lo scosse dal suo abbattimento.

– Come va, Professore! Potete chiamarmi un mollusco senza spina dorsale, ma non vi ho portato quel miracoloso pescespada come ho promesso. Vedete, è andata così. Mia moglie ha saputo della creatura e praticamente se n’è impadronita. Capite, è un anno che mi fa la posta per prenderle una di quelle moderne macchine da cucire Howe, e io resistevo per il costo. Così quando ha saputo cosa poteva fare il pescespada, se l’è preso e basta, e io cosa potevo dire? Adesso lo tiene in un serbatoio in salotto e lo fa lavorare giorno e notte per fare a lei e a tutte le sue amiche vestiti all’ultima moda parigina. Il povero pesce non ce la fa più a tenere dietro alla richiesta, e credo che spirerà presto. Ve lo porterò allora, perché un pesce morto è meglio che niente, direi. Nel frattempo, però, vi ho portato qualcosa di nuovo.

Stormfield infilò la mano sotto l’unto maglione e ne trasse il cadavere di un uccello.

– Quello è un comune pettirosso, Turdus migratorius. Cosa dovrei farmene?

Masticando soddisfatto il cannello della pipa, Stormfield ammonì: – Guardate più da vicino, vecchio furbacchione.

Agassiz lo prese. Al tatto le piume, ruvide e scagliose, davano una sensazione peculiare. Fra le dita delle zampe c’era una membrana e dietro le orecchie qualcosa che somigliava a branchie.

– Sì, è proprio un pettirosso marino. L’ho preso proprio dentro al Porto di Marblehead. Non so dire perché questi bizzarri animali appaiano sempre in quelle acque. È come se sbucassero fuori dal nulla…

Agassiz trovò un po’ di monete a portata di mano. – Molto bene, comprerò questo vostro “pettirosso marino” per studiarlo. Ma se scopro che è un altro manufatto, vi aspetterà una severa ramanzina.

– Com’è vero che Santa Ana ha una gamba di legno, quell’uccello è un vero pesce. O forse è il contrario?

Dopo aver dato un morso alle monete, Stormfield, sul punto di uscire, si fermò, palesemente allarmato da qualcosa all’esterno che aveva visto dalla finestra dello studio.

– Professore, quella barca straniera ancorata al vostro molo sembra in fiamme.

– Che cosa?!

Agassiz andò a guardare. Era vero, nuvole di fumo azzurrino si riversavano fuori della cabina della Sie Koe, dove Cezar e Dottie si erano ritirati per un breve riposo e un “momento ti riflessione”.

Uscendo di corsa dalla stanza seguito da Stormfield, Agassiz ebbe la presenza di spirito di afferrare un secchio antincendio dal gancio dietro la porta.

Giunto sul piccolo molo, immerse il secchio nell’acqua marina e corse su per la passerella della nave sudafricana.

– Tenete duro, valorosi marinai, arrivano i soccorsi! – gridò Stormfield. Il pescatore superò Agassiz e con una spallata sfondò la porta della cabina.

Alla cieca, Agassiz gettò la secchiata di acqua di mare nella stanzetta piena di fumo.

Un urlo eruppe dalla cabina. – Mein Gott, cos’è qvesto oltraccio?

Estinta l’apparente fonte dell’odore penetrante e aperta la porta, la cabina cominciò a schiarirsi. Dopo pochi attimi Agassiz vedette una scena normalissima.

Jacob Cezar era seduto in una sedia a dondolo, con la fedele Dottie accovacciata ai suoi piedi come un animale. Entrambi impugnavano una pipa dal lungo bocchino, ora spenta.

– Un pofer’uomo e sua moglie non possono farsi una zemplice fumata senza tirarsi addosso il secondo Dilufio Universale?

– Credevamo ci fosse il fuoco… – balbettò Agassiz.

– Non siate riticolo. Stafamo solo godendoci una pipa o due di dacka, per calmare i nerfi und stimolare il cervello.

Tacka?

– No, dacka! Ricordate che fi ho detto qvella prima sera che T’guzeri tefe applicare un’erba al feticcio per attivarlo? Tunqve, qvell’erba è il dacka che cresce in mio paese. T’guzeri tefe immercere il feticcio in un infuso di dacka per tue mesi prima di poter tire i suoi incantesimi. È per qvesto che so che non l’ha ancora usato. Ma il tempo corre fia feloce. Ztimo che ci resta all’incirca una settimana.

– Cos’è esattamente questo dacka? Ne avete un campione?

– Ma certo, ne ho in qvantità. Ecco.

Agassiz prese l’erba offerta e subito la riconobbe. – Ma come, si tratta di comunissima canapa indiana, cannabis sativa. Cos’ha di tanto speciale?

– Ach, il dacka è diverso in ogni terra, zeconto il suolo, la pioggia, il sole und cozì fia. Per esempio, mentre fenifo qvi ho fatto tappa in Giamaica e ho scoperto che qvella che chiamano ganja è una cosa unica. Comunqve, solo il dacka sudafricano può attifare il feticcio.

Intervenne il Capitano Stormfield. – Voi affermate che quest’erba è una specie di olio di serpente, buono per ogni malanno?

– Potete scommetterci! Folete provarne un po’?

– Perché no? – Stormfield cominciò a riempirsi la pipa.

– E voi, Louis? Ho una pipa di riserva, qvi da qvalche parte.

Agassiz declinò l’offerta con impazienza. – Questo pomeriggio ho cose più importanti da fare che starmene seduto come un pellerossa a fumare la pipa della pace. Devo fare visita al mio benefattore, Lowell, per una questione personale. Mi aspetto di vedervi a cena, per discutere cosa fare adesso.

– Ja. Stafa per fenirmi in mente qvalcosa sul posto tofe può trofarsi T’guzeri, proprio prima che ci faceste la doccia. Cercherò di ricostruire la cosa.

Il capitano Stormfield, inalate parecchie enormi boccate, sembrava ancora più animato e loquace del solito. – Ditemi, vecchio mio, da dove venite voi e quella cornacchia nera della vostra signora?

– Dal Capo di Buona Speranza.

– E avete governato quel brigantino tutto da soli fin qui?

– Potete scommetterci.

– Be’, una navigazione insolita e ben fatta. Ditemi, che tipo di sestante preferite?

– Ach, uso un vecchio Hadley britannico che mi ha lasciato mio patre…

Agassiz lasciò i due marinai in una profonda discussione. Dopo essersi cambiato per indossare il soprabito migliore e uno splendido cappello di castoro, si diresse alla casa di John Amory Lowell, suo ricco benefattore.

John Amory Lowell apparteneva all’aristocrazia americana e, anche se non era certo un gruppo pari ai Rothschild, i suoi membri erano alquanto benestanti. Dalla famiglia Lowell prendeva il nome un’intera città industriale. Insieme ad altri quattordici clan, i Lowell formavano “gli Associati”, i segreti governanti di Boston, residenti nell’esclusivo Tontine Crescent. Gli Associati controllavano il venti per cento della filatura del cotone degli Stati Uniti, il trentanove per cento del capitale assicurativo del Massachusetts e il quaranta per cento delle risorse bancarie dello stato.

Come tutti i parvenu, erano ansiosi di ostentare la loro distinzione e il loro “gusto” intellettuale. Era appunto questa brama di valuta culturale che Agassiz aveva saputo sfruttare con tanta abilità.

Lowell viveva a Beacon Hill, vicinissimo alla State House: un’elegante residenza in Park Street progettata dal famoso architetto Charles Bullfinch.

Verso quel lussuoso domicilio Agassiz dirigeva ora i propri passi.

Si incamminò lungo la variegata architettura della città, dai nuovi edifici in Tremont Street con la loro imitata facciata convessa alle vecchie strutture di mattoni, in uno spettro di colori dal rosso all’arancio, al salmone pallido e perfino al viola scuro, ai molti edifici realizzati in grezzo “stile granito” di Boston. Superò la struttura gotica in legno dove aveva sede il negozio di abbigliamento di Oak Hall, l’emporio alimentare di Batchelder e Snyder, e il Boylston Market.

Erano chiaramente parecchi allevatori, richiamati dalla Fiera a Brighton Market, quelli seduti fuori dalla Borsa del Caffè a discutere i minimi particolari dei manzi. Le strade erano rumorosamente percorse da carri in ogni direzione, e tutto il commercio della fiorente città (punto di incrocio di dodici linee ferroviarie e altrettante strade a pedaggio) si svolgeva febbrile come se ne dipendesse tutto il mondo.

I manifesti che incitavano all’arruolamento volontario per la Guerra Messicana, ora al secondo anno, erano ovunque. (La diserzione imperversava, riferiva l’Evening Traveler, e alcuni dei soldati, immigranti recenti, passavano addirittura al campo messicano!)

 

Uomini di Boston!!!

Il presidente Polk suona la chiamata alle armi!

Accorrete attorno alla bandiera dell’audace, valoroso cuor di leone,

il Generale Taylor!

Vi condurrà alla gloria e alla vittoria contro i vili ispanici!

Aiutate ad assicurare il Texas all’Unione!

Paga di $ 7 al mese!

Al congedo, un bonus!

$ 24 e 160 acri di terra di frontiera!

(Titolo preferenziale possesso di tutti gli arti e robusta costituzione)

(La terra potrebbe contenere indiani)

 

Agassiz giunse alla residenza di Park Street e fu accolto da un valletto. Nell’opulento salotto ebbe appena il tempo di ammirare i bibelot disposti su una credenza di mogano in stile italiano e sfogliare una o due pagine dell’ultimo numero di Gleason’s Pictorial prima che entrasse Lowell, di mezza età, massiccio e sicuro di sé, vestito con semplicità.

– Professor Agassiz, che sorpresa maledettamente piacevole! Dovete scusare il ritardo, ma stavo parlando di affari con il Sindaco Quincy. Io e Quince siamo d’accordo: a questa dannata città serve più terra! Troppi acri vanno sprecati in paludi e acquitrini. Non ci sono altro che maledetti pesci, uccelli e piante! Non la mando giù. Una volta finiti gli impianti idrici del Lago Cochituate, intendiamo raddoppiare la popolazione della città! Anche la quota presa da Beacon Hill e Pemberton Hill non ha creato terra a sufficienza! Penso che il prossimo passo sarà smantellare Fort Hill e riempire Town Cove. C’è abbondanza di somari irlandesi per questo lavoro! Ma ancora non possiamo permetterci che i maledetti speculatori terrieri vengano a sapere del piano, altrimenti alzeranno i prezzi, quindi tenetevelo per voi! Ora, ditemi, cosa posso fare per voi?

Agassiz esagerò il suo affascinante accento. – Signor Lowell, siete al corrente della nuova cattedra sovvenzionata a Harvard dal vostro pari, il signor Lawrence?

– Certo, certo. E dunque?

– Be’, immaginerei che voi, come mio finanziatore, dovreste avere interesse ad aiutarmi a far mia quella posizione. Se dovesse andare a uno di quei rozzi individui, Rogers o Hall, non deporrebbe a favore della vostra scelta di sostenere me, rappresentante della scienza europea. Non siete d’accordo?

– Cristo, sì! Quel posto deve essere vostro. Che maledetto accidente crede di fare Lawrence, prendendo in considerazione qualcun altro? Gli torcerò quel dannato braccio…

– Oh, no, signor Lowell, niente di così drastico. Non è il caso che la più piccola ombra di scorrettezza sia collegabile con la nomina. Tutto ciò che vi chiedo è dare un party in cui potrò presentare il mio caso al signor Lawrence. Non abbiate timore, lo convincerò che sono l’unico uomo adatto alla carica.

– D’accordo. Che ne dite di venerdì prossimo? Domani per prima cosa farò spedire gli inviti. Inviteremo chiunque sia qualcuno in questa maledetta città. Forse potreste tenere una piccola conferenza. Che sia divertente, però; lavorate su quegli “istinti genetici”. Le abitudini di accoppiamento dei maledetti selvaggi, magari. Mi capite?

Agassiz trasalì. Quell’argomento lo colpiva un po’ troppo da vicino. – Il mio sforzo sarà divertire oltre che istruire, signore.

– Per Giove, così si fa! Facciamoci un dannato goccetto per suggellare la questione!

Parecchi “dannati goccetti” dopo, Agassiz riprese incerto la strada di casa.

Vomitare oltre la fiancata del traghetto di East Boston non aumentò il suo appetito per la cena.

Nondimeno, si costrinse a sedere a capotavola. Non sarebbe stato il caso per il capo di un’istituzione scientifica trascurare anche uno solo dei suoi doveri. E poi temeva sempre un ammutinamento da parte di Desor, se avesse allentato la presa sulle redini dell’istituto.

Il suddetto personaggio entrò in sala da pranzo dopo che gli altri erano già seduti, compreso Cezar. (Agassiz non permise che Dottie mangiasse con loro, relegandola in cucina con Jane) Con Desor entrò anche suo cugino Maurice.

Maurice Desor si rivelò un galletto grassoccio, vestito come un Beau Brummell. Il cugino lo presentò agli altri. Maurice prese una sedia, vi si lasciò cadere e si gettò sulla scodella di patate bollite condite con il prezzemolo.

Durante la cena, l’unica volta in cui smise di mangiare fu per declamare pomposamente sulle ultime tendenze intellettuali di Parigi.

– Non avete letto Marx, Professore? Come potrete definirvi istruito? Quell’uomo è un genio, potenzialmente l’intellettuale più esplosivo del nostro tempo. Ho divorato il suo Misère de la philosophie. Adesso sta lavorando a un’opera ancor più spettacolare, insieme al suo collaboratore, Friedrich Engels. Immagino che non abbiate sentito parlare neppure di lui? Come pensavo. Lo chiamano il loro “Manifesto Comunista”. Quando sarà pubblicato, metterà fine al regno della ricchezza e del privilegio, di tutti gli aristocratici, di nascita o di elezione, e ai loro leccapiedi come voi.

Agassiz picchiò un pugno sul tavolo, facendo fare una tarantella alle posate d’argento.

– Basta così, signor Desor! Non sono un adulatore dei ricchi, sono un uomo di scienza, una vocazione più nobile di quanto potrete mai immaginare. Se davvero obiettate al modo in cui mi guadagno da vivere, non capisco perché vi serviate con tanta abbondanza del mio cibo e delle mie bevande.

– La proprietà è un furto, quindi prendere ai ricchi non è un crimine.

– Bah! Potete giocare con la logica come Tommaso d’Aquino, ma vi avverto, e avverto anche te, Edward, che se volete restare qui, dovete tenere a freno la lingua e mostrare un po’ di rispetto per il vostro datore di lavoro.

Maurice mormorò una frase che suonava sospettosamente come “Après moi le déluge”, ma Agassiz lasciò correre. Alzandosi, lo scienziato svizzero disse: – Ho avuto una giornata dura e deprimenti notizie personali, quindi mi scuserete se mi ritiro presto.

Salutato dalla buonanotte dei quattro solidali assistenti, Agassiz lasciò la tavola.

Nel corridoio, Cezar lo raggiunse.

– Louis, creto di afere una nuofa idea sugli spostamenti di T’guzeri…

– Vi prego, Jacob, domattina.

– D’accordo. Tormite bene, und non fatefi mortere dai serpenti cornuti.

– Grazie.

Nel mezzo della notte, Agassiz fu svegliato da una sensazione strana ma piacevole. Dopo qualche istante di riflessione, stabilì che la sensazione era legata all’applicazione dell’apparato orale di qualcuno al suo membro generativo.

Allungando timoroso una mano, incontrò la familiare treccia di Jane e si rilassò.

L’orgasmo fu egregiamente soddisfacente, nonostante per un attimo si fosse presentata ai suoi occhi l’immagine di Cécile.

Quando Jane si raggomitolò contro di lui, osò chiedere: – Non l’hai mai fatto prima, mia cara. Dove mai hai imparato…

Si interruppe.

Sospettava quale fosse la risposta.

Ma non voleva una conferma.