5. Una situazione appiccicosa
La posta del mattino conteneva una sola lettera collegata alla ricerca dello stregone. Sfortunatamente, era di Hosea Clay.
Signore:
non ho avuto vostre notizie nelle ultime ventiquattr’ore, così sono costretto a concludere che vi servono altre prove che lo schiavo è vostro. Trovate qui allegato in risposta alla vostra ultima, che io non ho ricevuto ecc. ecc., un altro segno della sua identità. Vediamo che basti a concludere l’accordo, prima di smantellare la creatura. E mi dovete anche il costo degli avanzi che gli passo.
Vostro
H.C.
Osservando il pacchetto ancora chiuso che accompagnava la lettera, Agassiz rabbrividì. Lettera e pacchetto seguirono la precedente corrispondenza nella stufa. Quella sera avrebbe dato istruzioni a Jane di caricare a fuoco massimo il Moloch in ghisa.
Ancora in vestaglia, sorseggiando il caffè da una tazza di porcellana decorata con carpe celesti (Cyprinus carpio), Agassiz attese l’arrivo di Jacob Cezar. L’uomo e la sua scimmiesca sposa erano ancora a letto quando lui si era alzato, e lo scienziato aveva provato disgusto all’idea di disturbarli.
L’abominio che i due rappresentavano lo rodeva ancora. In ogni istante doveva ricordarsi che Cezar era un necessario legame con l’immensa fama che lo attendeva come scopritore del Locus Cosmogonico, la fonte della Creazione. Una volta catturato T’guzeri, Agassiz avrebbe avuto bisogno di Cezar per interrogare lo stregone nella sua nativa lingua Khoi-San. Ma una volta carpite le informazioni al boscimano, il sudafricano e la sua bestiale compagna sarebbero stati cacciati con qualche improperio ben scelto, per non parlare della meritata punizione corporale, magari somministrata da Pourtales, che amava la frusta.
Sperando di lavorare un po’ a una delle sue monografie, Agassiz si voltò verso la credenza piena di carte.
Là, in cima a una pila, dove senza dubbio l’aveva messa Jane mentre riordinava, c’era la lettera di sua madre su Cécile.
Che cosa doveva fare per la moglie adesso invalida? Quali obblighi aveva esattamente verso di lei? Povera stupida e affezionata Cécile…
Per la sua carriera non era mai stata il sostegno che aveva immaginato. E non si parlava neppure di ritornare in Europa per assisterla. L’Europa era piena di dottori competenti. Le avrebbe inviato più soldi. Ecco. Un assegno bancario con qualche centinaio di dollari in più avrebbe alleviato la sua degenza e reso più facile la vita domestica. Anche se lo addolorava distogliere denaro dalle sue imprese scientifiche, avrebbe immediatamente contattato il suo banchiere.
Si sentì bussare. – Avanti, prego.
Jacob Cezar, che indossava un vestito nuovo preso in prestito da Pourtales (gli abiti macchiati con cui aveva attraversato l’Atlantico erano stati giudicati decisamente disdicevoli), entrò nello studio. Agassiz fu lieto di vedere che l’ottentotta non lo accompagnava. Forse il sudafricano stava finalmente imparando un po’ di maniere…
– Siete pronto a sentire l’itea che è fenuta, tofe io und Dottie pensiamo che potrebbe essere T’guzeri?
– Sì, stamattina ho la mente più tranquilla. Ieri è stata una giornata terribile. Non riesco a immaginare che oggi possa essere uguale. Dunque, cosa avete dedotto?
Prima di rispondere, Cezar si accarezzò orgogliosamente il pizzetto. – T’guzeri si nasconte nella Ferrovia Sotterranea!
Agassiz balzò in piedi. – Naturalmente! Quale altro posto potrebbe essere più naturale per un negro che vuole nascondersi? La nostra preda è senza dubbio riuscita a convincere gli smidollati abolizionisti. Non è difficile far vedere quel che ti pare a chi ha gli occhi pieni di stelle, come dico sempre. Bene, bene, splendido. Ormai è praticamente nelle nostre mani. Tutto quello che ci resta da fare è di recarci alla più vicina Stazione della Ferrovia Sotterranea, denunciare l’impostura di T’guzeri ed esigere che ci sia consegnato. Semplicissimo.
Cezar attese che Agassiz concludesse. Poi chiese: – Und per caso sapete dofe si trova la Ztazione più ficina?
– Be’, no, non proprio…
– Lo pensafo. Qvesto tofe ci lascia?
– Credo che i quaccheri siano antischiavisti. Forse potremmo cercare un membro di quella setta e chiederglielo?
– Sarebbe come chiedere a un londinese preso a caso di presentarfi la Regina Vittoria! No, Dottie und io abbiamo in mente un tipo.
– E chi sarebbe?
– Villiam Lloyd Garrison, l’etitore del Liberator.
– Ne ho sentito parlare. Un vero e proprio agitatore, quello. Ho saputo che qualche anno fa è stato aggredito da una folla che dissentiva con la sua focosa retorica a favore dell’emancipazione. Preferirei trattare con un individuo più razionale, ma immagino che chiunque sia coinvolto con la Ferrovia Sotterranea sia automaticamente escluso dalla categoria. Bene, lo cerchiamo?
– Ja, lasciatemi solo chiamare Dottie.
– Oh, avanti, Jacob, la sua presenza è davvero necessaria? Il fatto che Garrison sia un ardente abolizionista non significa che ha dimenticato di essere ancora un uomo bianco. Non credo proprio che gli interessi incontrare i negri dal punto di vista sociale. Un uomo può tenere la vita privata separata dalla politica, sapete.
– No, Dottie ci serfe con noi.
Agassiz alzò le braccia al soffitto. – Non starò a discutere. Ma se insistete nel volerla portare con noi, almeno fatela aspettare fuori dall’ufficio di Garrison finché non avremo valutato il suo atteggiamento.
– Come no.
Poco dopo i tre compivano la traversata in traghetto verso i moli lungo Broad Street. Il porto era, come sempre, in enorme agitazione, una foresta semovente di alberi maestri. A metà traversata furono quasi investiti da una nave a vapore a ruota, chiamata Jenny Lind.
– Io und Dottie abbiamo sentito l’Usignolo Svedese una sera all’Opera di Johannesburg. Era così bella!
– Avete portato questa selvaggia all’opera? Che spreco! Come ha potuto apprezzare un’esperienza tanto sublime?
– Ach, foi sottofalutate mia moglie. Und poi la musica non è una lingua unifersale?
– Non per gli animali.
Cezar tacque per un istante. Poi, con sincera pietà, disse: – Un giorno qveste fostre idee fi causeranno molto dolore, Louis. Ne sono zicuro.
Agassiz non rispose.
Da Broad Street si diressero lungo la Congress, poi girarono a sinistra sulla Channing e poco dopo arrivarono a Devonshire Street. Nell’isolato seguente trovarono l’edificio che ospitava il quartier generale di quell’incendiario giornale, il Liberator.
Al terzo piano si fermarono davanti alla porta dove era inciso il nome del giornale.
– Ora ricordate cosa ho detto. Dottie deve aspettare fuori, preferibilmente per l’intero colloquio, per non rischiare di offendere Garrison.
– Ho cià detto di sì. Entriamo e basta.
Trattandosi dell’ufficio di una pubblica impresa, Agassiz evitò di bussare ed entrò direttamente.
L’intera sede del Liberator era un’unica stanza colma di libri e carte. Un angolo era occupato da una scrivania sovraccarica di opuscoli e volantini. Alla scrivania era seduto un uomo bianco che doveva essere Garrison. Sul suo grembo era seduto un uomo nero, che gli teneva le braccia al collo.
Se il tableau fosse stato composto da Medusa con sua sorella, Agassiz non avrebbe potuto restare più pietrificato. Il suo cervello smise totalmente di operare, proprio come le operaie dell’Associazione per la Riforma del Lavoro Femminile in sciopero alla Lowell
Garrison e il suo compagno non mostrarono alcun imbarazzo per essere stati sorpresi in una posizione tanto compromettente. – Benvenuti al quartier generale di un nuovo mondo, signori – disse Garrison. – Una fratellanza di tutta l’umanità. Cosa posso fare per voi?
– Mi chiamo Jacob Cezar, und qvesto è il professor Louis Agassiz.
– Piacere di conoscervi. Permettetemi di presentarvi il mio miglior scrittore e miglior amico, il signor Frederick Douglass.
Con dignità, il nero si alzò dalle ginocchia del compagno e avanzò con la mano tesa.
L’immobilità di Agassiz si infranse. Con occhi sbarrati cominciò a indietreggiare automaticamente, fino a urtare la parete. I piedi continuarono a strisciare inutilmente.
Cezar distolse l’attenzione di Douglass afferrandogli la mano. – Tofete scusare il mio amico. Gli sono successe parecchie seccature di recente und è un po’ irritabile. Permettetemi di parlare a nome di tutti e tue. Siamo qvi in cerca ti un contatto con la Ferrovia Sotterranea.
L’atteggiamento di Garrison si irrigidì all’istante. – Perché?
Cezar gli diede una spiegazione abbreviata della loro ricerca. Dopo aver ascoltato, Garrison ruotò la sedia verso Douglass e chiese: – Cosa ne pensi, Frederick?
– Mi sembra molto improbabile. Tendo a pensare che questi due siano cacciatori di schiavi, venuti a trascinare i nostri fratelli e sorelle a sud della linea Mason-Dixon.
– Anch’io. Signori, il vostro trasparente sotterfugio è un insulto alla nostra intelligenza. Vi prego, andate a dire ai vostri padroni, voi Giuda, che avete fallito, e che non godranno molto a lungo il loro turpe regno di sangue, sudore e lacrime. Presto, anzi, saranno loro ad assaggiare la frusta!
– No, taffero, noi non siamo…
– Forse potrei parlare io.
Sulla soglia era apparsa Dottie. L’arrivo di quel nuovo personaggio sembrò riaccendere l’interesse di Garrison.
– E voi chi sareste, giovane signora?
– Ng!datu Baartman, signore.
Garrison balzò in piedi. – Non la Ng!datu Baartman di Città del Capo, le cui lettere straordinariamente perspicaci ho pubblicato per tanti anni!
Dottie abbassò lo sguardo con modestia. – Proprio lei.
– Beh, questo è un onore. Perché voi due non mi avete detto di essere in rapporto con la signorina Baartman? Questo getta una luce del tutto diversa sul quadro. Naturalmente, se la signorina Baartman dice che dovete contattare la Ferrovia, allora non ho remore a parlarvene.
– È così, signore.
– Non mi serve sentire altro. Lo scalo di Boston è gestito da Josephine Saint-Pierre Ruffin, grazie all’azienda di famiglia, la Raffineria di Melassa Ruffin nel North End. La conoscete?
– La troferemo.
– Eccellente! Vi auguro buona fortuna nella caccia a questo nefando negromante. Addio. E, signorina Baartman… continuate a spedirmi le vostre lettere. Siete di ispirazione per tutti noi.
– Un tributo alla nostra razza – aggiunse Douglass.
– La causa non sarebbe approdata a nulla senza i vostri sforzi, signore.
Prendendo per un braccio l’ancora stordito Agassiz, Cezar lo scortò giù per le scale. L’aria della strada sembrò farlo riprendere, almeno in parte.
– Mai… mai avrei creduto di vivere per vedere una tale scena! Fa sembrare normale la vostra relazione.
– Tutto è relatifo, Louis. Qvesta è una delle lezioni che insegna la fita.
– Forse. Ma anch’io insegno e non ho mai usato la sferza con tanta crudeltà.
– Forse non afete mai afuto uno ztutente tanto lento.
– Huhmm!
Attraversando la città, Agassiz e i suoi compagni si ritrovarono presto nel North End: una strabiliante congerie di strade affollate, in passato eleganti, ora piena di immigranti mediterranei, semiti e irlandesi.
– Sembra una vergogna – commentò Agassiz – che gli ancestrali sentieri di Revere e Franklin siano stati consegnati a queste razze inferiori.
– Tutti hanno bisogno di un posto per fifere. Und sono qvelli che stanno costruendo qvesta città.
– Potrebbero almeno mostrare un minimo di decenza e vivere come esseri umani civili. Guardate il groviglio di quella lavanderia pubblica, per esempio. Disgustosa.
Agassiz agitò un braccio per indicare i molti fili di vestiti stesi ad asciugare attraverso le strade anguste, poco sopra il livello dei passanti.
– Si fa di necessità firtù.
– A seguire questa filosofia, andremmo ancora in giro vestiti di polvere e grasso animale – disse Agassiz gettando a Dottie un’occhiata puntuta.
– Il fostro abbigliamento di stile europeo, Professor Agassiz, non turerebbe un giorno nella safana.
– Non ho alcuna intenzione di andare a vivere nel vostro deserto. Prima tutti i luoghi del genere saranno inclusi nella civiltà occidentale, meglio starà il mondo.
Risalendo la polverosa Salem Street, dominata dalla vecchia North Church in cima, mantennero un silenzio spinoso.
In vetta alla Salem era l’ulteriore ascesa dello zigzag di Hull.
Arrivati alla sommità si fermarono per permettere ad Agassiz di riprendere fiato appoggiandosi ai cancelli del Cimitero di Copps Hill. Il montanaro svizzero si rimproverò: stava ingrassando. Dov’era finita la giovane capra che saltava sui crepacci dei ghiacciai?
Erano giunti nel punto più alto del North End. Da lì si vedeva Charlestown, collegata al North End dal più lungo ponte d’America. In quel distretto svettava il Monumento di Bunker Hill, appena innalzato, 6.600 tonnellate di pietra in forma di verga orgogliosamente eretta, a sottolineare la potenza della nazione.
Dottie parlò. – Sono lieta di vedere questo cimitero. Qui è sepolto Prince Hall, un soldato nero della Rivoluzione.
Agassiz tornò a schiarirsi la gola. – Io preferisco osservare il cenotafio di Cotton Mather, fine studioso.
– Guardate – disse Cezar – ecco l’impianto Ruffin.
Dall’altro lato della strada si ergeva un’enorme struttura in legno, larga e alta parecchi piani, con un’insegna a lettere d’oro, color melassa, che proclamava RAFFINERIA DI MELASSA RUFFIN.
– Presentiamoci usando il nome di Garrison come referenza, e reclamiamo quel furfante a cui danno erroneamente asilo. Dovessero rifiutarsi, ci limiteremo a minacciarli di denunciare il loro inganno illegale alle autorità.
Nel portone del grosso magazzino c’era una porta più piccola. Agassiz provò il catenaccio, ma era serrato. Allora picchiò alla porta.
Con violenza, si mosse un pannello scorrevole. Nell’apertura comparve un lembo di pelle lentigginosa e un paio di fanatici occhi azzurri.
– Andatevene! Siamo chiusi!
Il pannello si richiuse di colpo
Agassiz si strofinò una basetta. – Qui c’è qualcosa che non va. Dubito che quella voce sgarbata appartenesse a Josephine Ruffin. Dobbiamo trovare un’ingresso.
– Io und Dottie antremo ta qvesta parte e foi tall’altra.
Agassiz si avventurò per uno stretto vicolo cosparso di rifiuti. Fra le ombre furtive, fu certo di vedere i fiammeggianti occhi rossi di pestilenziali topi (Ratti norvegici). Desiderò di aver pensato a servirsi dell’alpenstock di Pourtales, con quella punta affilata…
Era una finestrella quella sopra la sua testa? Sì. Ora, se tutte quelle casse abbandonate avessero potuto fungere da piattaforma…
La finestra non era chiusa. Agassiz la sollevò e si affacciò cautamente. L’interno era buio, e lui non riusciva a vedere molto, ma sembrava vuoto. Si tirò su e per un attimo rimase sospeso, mezzo dentro e mezzo fuori. Poi, con uno sforzo, si diede una spinta per entrare e capitombolò rumorosamente e poco dignitosamente sul pavimento.
Alzandosi sulle ginocchia, sollevò la testa.
La canna del fucile puntato verso di lui aveva lo stesso diametro della proboscide di un elefante indiano (Elephas maximus). O così sembrava.
– Alzati – ordinò la figura che impugnava l’arma nell’ombra – e fatti avanti.
Agassiz obbedì agli ordini.
Seguito dal suo catturatore, il naturalista emerse dal ripostiglio nel quale era caduto, entrando in uno spazio enorme, illuminato dalle finestre del piano superiore e dominato da tre o quattro tini in legno, di proporzioni brobdingnaghiane, alle cui sommità si accedeva da passerelle che li circondavano. In una delle pareti era l’ingresso a cui avevano da poco bussato.
Lentamente, Agassiz si voltò.
L’uomo che gli teneva il fucile puntato addosso era vestito interamente di nero, dal cappello piatto a tesa larga al mantello, ai pantaloni neri e agli stivali. In netto contrasto con il nero era il volto pallido incorniciato da lunghi capelli rossi. Folti baffoni fiammeggianti nascondevano le labbra sottili.
– Chi siete, signore? – chiese Agassiz.
L’uomo gettò indietro la testa e scoppiò in una fragorosa risata non poco folle.
– Il mio nome è Anarchos! Ma il mondo mi conosce come Feargus Kosziusko.
Agassiz era a bocca aperta. Dunque il famigerato rivoluzionario polacco-irlandese contro cui Cezar lo aveva messo in guardia era qui! E aveva Agassiz alla sua mercé! Lo scienziato drizzò la schiena. Avrebbe mostrato a quel bakuninista byroniano che l’educazione aveva sempre la meglio sugli atteggiamenti da bohèmien.
– Cosa ne avete fatto dei proprietari di questa attività?
– Solo quello che andrebbe fatto a tutti i porci capitalisti. Li ho legati, picchiati e rinchiusi nel loro ufficio, al piano di sopra. Avete qualcosa da obiettare?
– Non siate ridicolo. Certo che ho da obiettare a un trattamento così inumano, anche per degli abolizionisti…
Kosziusko sobbalzò. – Abolizionisti! Come fate a sapere che sono abolizionisti?
– Be’, io… cioè…
– Siete in cerca del feticcio! Ammettetelo!
Agassiz non vide motivo per continuare a fingere ignoranza. – Sì, lo cerco: ma per il bene della scienza, non per guadagno personale.
– Ah, allora siamo anime gemelle. Vedete, neanche a me interessa il guadagno personale. Voglio il feticcio per la causa del caos!
– Non capisco…
– Ah, e neanche i Ruffin capivano. All’inizio mi sono appellato a loro come compagno nella guerra contro l’ingiustizia. Ma la loro devozione al movimento era contaminata dai loro interessi nella società. Quando ho spiegato cosa intendevo fare, si sono rifiutati di dirmi dove era fuggito l’ottentotto. Sì, non abbiate un’aria tanto sorpresa, è andato via. Ho setacciato il posto da cima a fondo e ve lo posso assicurare. Ma non temete, è solo questione di tempo prima che lo raggiunga e gli strappi il feticcio. Allora avrò il potere di fare quel che sogno da tempo… distruggere l’autorità ovunque e liberare l’umanità dalle sue catene!
Agassiz sbottò: – Voi… voi siete pazzo!
Kosziusko non sembrava offeso. – Forse. Ma la purezza della mia pazzia mi dà forza. E anche voi sareste pazzo se aveste visto quello che ho visto io.
– Credo di no.
Kosziusko strinse gli occhi. – Sapete come sono arrivato in questo emisfero, signore? No? Allora lasciatevelo raccontare.
«La “nave bara” (perché è così che quelle navi sono chiamate da chi se ne intende) chiamata Urania salpò da Cork in marzo. Era stipata di centinaia di miei compatrioti in fuga dalla Carestia Irlandese. Erano ammassati in stive lerce, uomini, donne, bambini, senza la decenza dei servizi. E con loro c’era un passeggero in più. Il tifo!
«Non fu una traversata rapida. Sette settimane ci vollero. E quando giungemmo in acque canadesi, metà dei passeggeri era morta o morente. Non dimenticherò mai le cose che ho visto e sentito. L’ansimare dei malati, il pianto dei bambini, i vaneggiamenti dei deliranti, le urla e i lamenti di chi era nell’agonia della morte!
«Ci mandarono a Grosse-Isle per la quarantena. La ciurma spietata fremeva per liberarsi di noi. Ci scaricarono letteralmente sulla spiaggia, lasciandoci senza le forze per trascinarsi fuori dal fango dove molti rimasero fino all’ultimo respiro, che Dio abbia pietà della loro anima! Non c’erano altro che capanne senza riscaldamento e poco cibo. Nessun dottore, naturalmente, venne a visitarci. Tutti i giorni ci dicevano che la quarantena stava per essere revocata. Tutti i giorni consegnavamo altri corpi alle fosse comuni! Tutti i giorni altre navi arrivavano dall’Europa, trasportando gente piena di speranza nella Terra delle Opportunità!
«Quando finalmente riuscii a fuggire, erano perite oltre cinquecento persone. È stata questa la mia introduzione al coraggioso Nuovo Mondo! Sono arrivato come uno schiavo nero, ogni brandello di innocenza strappato via, e la mia fede nella resistenza armata mille volte più intensa!
«Ma me lo sarei dovuto aspettare. Ovunque nei miei viaggi ho visto l’uomo comune stritolato, schiacciato sotto lo stivale dei potenti, come se non fosse altro che una formica! Pensate alla patria di mio padre, la Polonia, spartita fra prussiani, russi e austriaci, le sue figlie e i suoi figli più brillanti sparsi in tutto il globo, i suoi liberi agricoltori trasformati in servi della gleba! Ah, quanto ha sofferto il mio paese. Ma le sue sofferenze redimeranno il mondo!
«Non pensate, però, che il mio cuore si crucci solo per i miei due paesi, paterno e materno. Lungi da me! Io sono con tutti coloro che lottano, ovunque.
«Ero presente in spirito, esultante, accanto a Marat e Robespierre quando Luigi è salito sulla ghigliottina! Ho combattuto a fianco di Touissaint L’Ouverture quando ha liberato Haiti! Ero con i Cospiratori di Cato Street quando la polizia di Londra ha fatto irruzione e li ha massacrati! Ho lottato fianco a fianco con Simón Bolívar e Bernardo O’Higgins in Sud America!
«E anche se non ero mai stato in carne e ossa su questi lidi americani, la mia anima ardente era qui! Ho incitato alla rivolta gli schiavi Denmark Vesey e Nat Turner! Sono morto con i Bastoni Rossi a Horseshoe Bend! Ho cavalcato con i fittavoli ribelli nella valle dell’Hudson, impiccando i proprietari terrieri! Ho impugnato il fucile con Thomas Dorr nel Rhode Island contro la milizia venuta a privarci del diritto di voto! Ho alzato le barricate durante lo sciopero generale di Philadelphia e le rivolte contro le banche di Baltimora! Con i miei volantini ho chiamato all’azione i Tessili Cottimisti di New York! Sentite cosa scrissi: I ricchi contro i poveri! Meccanici e operai, perché permettete ai ricchi di decretare che sono loro gli unici giudici dei vostri bisogni? E non ho sostenuto solo le ribellioni politiche, ma anche i crimini individuali, perché dove la legge è dalla parte dei ricchi, il crimine è l’unica risorsa dei poveri. I banditi di strada e gli assassini sono i miei fratelli, le puttane e i borseggiatori i miei cugini. Canto con i desperados della California: Qual era il tuo nome negli States? / Era Taylor, Johnson o Bates? / Hai ucciso la tua donna / E ora corri come la madonna? / Oh, qual era il tuo nome negli States?»
Kosziusko accompagnò la canzoncina a ritmo di polka.
– Per tutto questo e molto altro ho esultato. E ora che sono qui in carne e ossa, farò ancora di più! Un uomo chiamato John Brown ha dei piani… Ma non voglio rovinare la sorpresa in serbo per voi. Presto il mondo riconoscerà il mio operato. Una volta che avrò il feticcio, i tiranni cadranno a mucchi! Ma per ora devo accontentarmi di atti di ribellione più ridotti.
Estraendo una corda da sotto la cappa, Kosziusko si avvicinò ad Agassiz e con mosse esperte gli legò polsi e caviglie e poi lo costrinse a sedersi in mezzo al pavimento. Il folle agitatore mise in tasca la pistola e si spostò alla base degli immensi tini, dove prese un’ascia dal manico lungo.
Agassiz lo guardò sbalordito. – Non avrete certo intenzione…
– E invece sì. Diciamo che è un’illustrazione di come presto il sistema verrà intasato dal sangue dei dittatori…
Kosziusko si arrampicò sulla passerella e cominciò a mulinare la scure contro gli anelli di metallo che legavano le doghe di un tino. Lavorò come un demone. Mentre Agassiz guardava inorridito, un cerchione si spaccò e le doghe del tino cominciarono a piegarsi verso l’esterno, mentre fuoriusciva un rivolo di fluido bruno. Kosziusko passò rapidamente all’altro tino.
Presto tutti i tini si stavano gonfiando verso l’esterno.
Kosziusko si interruppe per contemplare dall’alto la sua opera. Poi apostrofò Agassiz.
– Un milione di galloni di melassa, signore. Ora vi pentite del Commercio Triangolare?
– Io non ho niente a che fare con quello! – gemette Agassiz. Ma era troppo tardi perché, con uno svolazzo della cappa, Kosziusko era fuggito da una porta in alto.
Sotto l’irresistibile pressione della melassa, le doghe si piegarono, si piegarono, si piegarono…
E cedettero!
L’alluvione di melassa si riversò su Agassiz come un’onda di marea. L’uomo si sentì sollevare e trasportare via. Con gli arti legati, lottò per tenere la testa al di sopra della superficie, rotolando e girando su se stesso. La melassa gli riempiva gli occhi e le narici, le orecchie e la bocca.
Riuscì a emergere brevemente. Senza essersene accorto, era arrivato all’esterno. La melassa aveva sfondato le porte del magazzino come se non esistessero e ora riempiva lo stretto canale di Hull Street, una luccicante marea bruna, profonda come i davanzali del secondo piano, che scorreva per la discesa veloce come… be’, come melassa.
Mentre continuava a rotolare, Agassiz lottò invano per liberarsi le braccia. La testa appiccicosa emerse in superficie una, due volte… Boccheggiò in cerca d’aria, cercò di scalciare…
Proprio mentre andava a fondo per la terza volta, si sentì afferrare per la camicia da una mano salda che lo sollevò per metà fuori dalla marea, che ancora gli si aggrappava alle gambe con artigli serrati e vischiosi.
Non aveva idea di chi lo avesse afferrato. Aveva gli occhi come appiccicati con la colla. Cercò di balbettare un ringraziamento, ma non ci riuscì.
Agassiz rimase sospeso per un tempo indefinibile, mentre sentiva che il livello della melassa diminuiva gradualmente. Alla fine venne mollato, e cadde a terra dall’altezza di qualche decina di centimetri.
Qualcuno avanzava verso di lui, annunciato dal risucchio dei passi. Presto sentì che gli tagliavano i legacci.
Liberate le mani, il suo soccorritore cominciò a pulirgli gli occhi con un panno, e Agassiz riuscì di nuovo ad aprirli.
Non avrebbe mai immaginato una scena di tale devastazione.
Carri e carretti erano schiacciati contro edifici ricoperti di melassa. Dappertutto giacevano cavalli morti e anche non pochi cadaveri umani, ai quali avrebbe potuto a buon diritto appartenere. Dalle finestre del secondo piano, la gente guardava incredula la rovina cosparsa di pozzanghere marroni.
Accanto a lui c’era Cezar, con un fazzoletto appiccicoso in mano. Agassiz proruppe in un fervido ringraziamento.
– Vi devo la vita, Jacob…
– Non a me. È stata Dottie a salfarfi! Cuartate!
Cezar indicò verso l’alto. Agassiz guardò.
Sospesa per le ginocchia a un filo del bucato, con le sottovesti indecentemente visibili per via della gonna che si era rovesciata verso il basso, c’era l’ottentotta. Era stata la sua ferma presa a sollevarlo dalla corrente di melassa, come dimostravano le sue mani ancora bagnate.
Agassiz aprì la bocca, ma non riuscì a ripetere le parole che aveva liberamente rivolto a Cezar.
L’uomo non sembrò incline a rimproverarlo dopo quanto aveva passato. Il grosso sudafricano disse solo: – Se avessimo un po’ ti frittelle, saremmo a posto!