6.
Il mondo etico
Come potrebbe essere un mondo etico? Ogni ideologo ha la sua ricetta. L’ideologia utilitarista vorrebbe un governo globale paternalista investito del compito di disporre trasferimenti fiscali per raggiungere «la maggior felicità per il maggior numero». I giuristi di impostazione rawlsiana sono diventati sempre più influenti nell’orientare la proclamazione dei «diritti umani» da parte delle Nazioni Unite. A unirsi alla cacofonia sono infine arrivate le celebrità populiste, animate da un’emotività esagerata: Angelina Jolie, portavoce dei cuori senza testa, predica la «pace globale».
Se invece applichiamo i precetti fondamentali esposti nel capitolo 2, possiamo concepire un mondo etico analogo allo Stato etico, all’impresa etica e alla famiglia etica che abbiamo fin qui tratteggiato.
Precetto n. 1. Riconoscimento di obbligazioni nei confronti di altre società che non dipendono dalla reciprocità: i doveri di soccorso. Vi sono comprese le obbligazioni nei confronti di gruppi quali i profughi, delle società in cui esistono masse di disperati, di quelle prive dei rudimenti della giustizia.
Precetto 2. Costruzione di obbligazioni reciproche di più vasta portata fra quei paesi che vogliono spingersi più avanti.
Precetto 3. Questa reciprocità è sostenuta dal riconoscimento della comune appartenenza a un gruppo, basata su azioni comuni finalizzate a uno scopo che incentivano l’interesse individuale illuminato di ogni partecipante.
La situazione internazionale del 1945 era quanto di più lontano si potesse immaginare da un tale mondo etico. Su di essa incombevano quattro incubi di vecchia data. La generazione dei miei genitori aveva passato un terzo della sua vita consapevole in mezzo a una guerra globale. Avevano vissuto il crollo della fiorente economia globale nella quale erano nati, vedendola trasformare in un’opportunistica corsa a un protezionismo rapace che aveva portato all’impoverimento di tutti. Avevano attraversato un’epoca in cui interi imperi – quelli britannico, francese, russo, giapponese, austriaco, portoghese, belga, tedesco, italiano – si stavano disgregando sotto il peso delle loro evidenti assurdità etiche. E avevano assistito agli orrori perpetrati dalle ideologie fascista e marxista che si erano impossessate di paesi quali la Germania, la Russia, la Spagna e l’Italia. A questi disastri che avevano ereditato, la fine della Seconda guerra mondiale ne aggiunse altri due: la prospettiva secondo cui quei nuovi e aggressivi regimi comunisti che controllavano circa un terzo del mondo avrebbero tentato di conquistare gli altri due terzi, e l’immediata realtà di un’enorme massa di profughi provocata dai drammatici rivolgimenti dell’Europa centrale.
I leader politici dell’epoca avrebbero potuto ragionevolmente sentirsi schiacciati dalla sensazione dell’impossibilità di poter ripartire. Invece, cominciarono a mettere insieme i pezzi di un mondo etico, applicando tre concetti chiave. Riconobbero quelle obbligazioni nei confronti di altre società che emergono indipendentemente dal fatto che siano reciproche – i doveri di soccorso – e presero ad agire di conseguenza. Cominciarono a mettere in pratica quel vasto e ancora non sfruttato potenziale di obbligazioni reciproche fra nazioni costruendo nuove associazioni che si proponevano la realizzazione di obiettivi specifici. E infine le consolidarono attivando catene causali che sostituirono all’opportunistico perseguimento dell’interesse individuale immediato l’interesse individuale illuminato. Fu un risultato stupefacente, e dette i suoi frutti: il mondo si trasformò gradualmente in meglio.
Ma la fortunata generazione dei leader che ereditarono questo successo non comprese qual era stato il processo che lo aveva reso possibile. All’intelligente pragmatismo che aveva costruito quei risultati sulle ceneri della catastrofe subentrarono le attraenti narrazioni degli ideologi utilitaristi e rawlsiani, che incrinarono progressivamente quella eredità. Il mondo attuale è ben lontano dal deserto etico su cui si affacciò il 1945, ma c’è di nuovo molto lavoro da fare. La storia di quel significativo risultato, del suo deteriorarsi e del compito che ci si prospetta costituisce il nucleo essenziale di questo capitolo.
La costruzione di un mondo etico
L’intuizione fondamentale di chi era al governo nel 1945 fu che al comportamento opportunistico delle singole nazioni dovevano subentrare obblighi comuni fatti rispettare dalla pressione dei propri pari. Quest’ultima però dipende dal riconoscimento dell’esistenza di un’identità condivisa, un elemento che era mancato negli anni Trenta. Furono create gradualmente nuove associazioni di nazioni composte da membri disposti ad accettare obblighi reciproci, si cementò un’appartenenza condivisa attorno ad azioni finalizzate a uno scopo comune.
La priorità più urgente era la sicurezza internazionale. In reazione al clima di paura generato dall’Unione Sovietica, nel 1949 venne fondata la NATO (North Atlantic Treaty Organization). Il suo principio basilare era la garanzia della sicurezza reciproca dei suoi membri. L’identità condivisa era quella di democrazie che si trovavano a fronteggiare una minaccia comune. C’era chi si avvantaggiava senza far niente, ma la nuova responsabilità reciproca era rafforzata da una narrazione perfettamente credibile di interesse individuale illuminato: sostenersi a vicenda, per impedire di essere travolti. Alle parole corrispondevano gli atti, e i momenti cruciali furono la crisi missilistica cubana del 1962 e lo schieramento dei missili Cruise nei primi anni Ottanta. Le nuove obbligazioni reciproche riuscirono a mantenere la pace, mentre all’interno del mondo comunista si andavano accumulando molteplici tensioni.
Se l’Unione Sovietica rappresentava la nuova minaccia, in Europa la Germania continuava a suscitare vecchie paure. Contro di essa la Francia aveva combattuto tre terribili guerre nell’arco di soli settant’anni. L’interesse individuale illuminato appariva in tal caso ancora più ovvio, ma ad ostacolarne l’applicazione rimanevano in campo gli odi che le guerre avevano suscitato. La soluzione fu un processo realisticamente lento, fatto di modesti ma ripetuti sforzi comuni, che prese avvio nel 1951 e si ampliò fino alla nascita della Comunità Economica Europea. Come nel caso della NATO, il principio centrale del nuovo organismo fu l’accettazione di obblighi reciproci.
Per allentare il protezionismo aggressivo degli anni Trenta, fu creata un’altra associazione: il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, Accordo generale sulle tariffe e il commercio), che fra il 1947 e il 1964 svolse sei sessioni approvando reciproche liberalizzazioni del mercato. Ancora una volta, il motore fondamentale fu l’interesse individuale illuminato; ognuno si rese conto di dove avesse portato il protezionismo.
In reazione alla Grande Depressione degli anni Trenta, venne poi istituto un altro organismo internazionale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), una banca pubblica i cui membri selezionati, oltre a contribuire al finanziamento, si impegnavano ad assoggettarsi a una serie di regole e di controlli e in cambio ottenevano il diritto di ricevere prestiti in caso di crisi. Si trattava, di fatto, di un gigantesco sistema di assicurazioni reciproche.
Il comune principio di reciprocità che stava a fondamento di questi diversi organismi venne rafforzato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), concepita per creare una pressione reciproca. Le sue attività hanno reso possibile operare confronti mediante la pubblicazione di classifiche (come quella PISA, relativa ai livelli di istruzione) e l’esame reciproco delle singole politiche nazionali.
Questi organismi volti al perseguimento di scopi specifici, ognuno composto da un numero definito di membri con particolari caratteristiche, e tenuti insieme da obbligazioni reciproche e da un credibile interesse individuale illuminato, trasformarono gradualmente il mondo. Ognuno si sviluppò col proprio ritmo, ma il risultato complessivo fu stupefacente.
La NATO ebbe la sua affermazione più spettacolare nel 1989, con la disintegrazione dell’Unione Sovietica alla fine della Guerra fredda. In Europa, la CEE associò gradualmente alla democrazia paesi come Spagna, Grecia e Portogallo, procedendo al contempo ad estendere l’integrazione commerciale e a consentire ai membri più poveri di colmare il divario con quelli più ricchi. Nella sua sessione conclusiva del 1986, il GATT gettò le fondamenta su cui sarebbero stati costruiti gli enormi vantaggi economici della successiva espansione del commercio globale. Il Fondo Monetario Internazionale tamponò le emergenze, compiendo il suo maggior intervento di salvataggio finanziario in occasione della crisi politica britannica del 1976, e smentendo così la predizione del «New York Times», che aveva titolato: «Ciao Gran Bretagna, è stato un piacere conoscerti». Il paese fu salvato perché Keynes e altri funzionari britannici di una precedente generazione avevano fondato l’FMI proprio per affrontare un’eventualità del genere. In Gran Bretagna dovrebbero essere celebrati come eroi nazionali.
A fianco di queste associazioni di nazioni basate su una reciprocità di obblighi, i leader globali istituirono nuove organizzazioni pensate per adempiere ai doveri di soccorso. Anche in questo caso, dimostrarono intelligenza. Piuttosto che lasciare questi doveri a ogni singolo paese ricco, fondarono istituzioni globali che adottarono il principio della reciprocità fra nazioni ricche per applicare nuove norme che imponessero il rispetto dei loro doveri nei confronti delle altre: l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR, United Nations High Commissioner for the Refugees) fu creato per assistere i profughi; il Programma Alimentare Mondiale (WFP, World Food Programme) fu inaugurato per garantire forniture alimentari in occasione di carestie; l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (WHO, World Health Organization) venne fondata per migliorare le condizioni sanitarie nelle società più povere. Ma l’organizzazione di vertice fu la Banca Mondiale. I suoi membri furono divisi in due categorie: i paesi ricchi, che stabilivano tra loro i contributi da versare, e quelli più poveri, destinatari dei contributi finanziari derivanti dal fondo comune.
All’epoca, si trattò di risposte collettive senza precedenti al dovere di soccorso, di nobili azioni che andavano a integrare l’incremento delle obbligazioni reciproche. Nessuno mise in discussione l’obbligo di adempiere a questi doveri di soccorso, e di farlo in forma collettiva. Vista a posteriori, questa assenza di controversie è stato qualcosa di assai rilevante.
Parallelamente a queste nuove realtà associative e a queste organizzazioni finalizzate al dovere di soccorso, i leader globali fecero risorgere quello che era stato un protogoverno mondiale: un’assemblea delle nazioni. Al posto della fallita e defunta Società delle Nazioni, fondata all’indomani della Grande guerra, sorse l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il cui Consiglio di sicurezza avrebbe dovuto vigilare sull’ordine mondiale. Come nel caso della Società delle Nazioni, e nonostante un’enorme dose di buona volontà, l’ONU si è rivelata raramente efficace. I cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza erano un gruppo sufficientemente ristretto per rendere possibile impegni reciproci, ma la polarizzazione ideologica in atto fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica impedì di cementare la fiducia necessaria per attuare il principio dell’interesse individuale illuminato. Paradossalmente, le Nazioni Unite ottennero i loro più grandi successi trasformandosi in un club degli esclusi: il «Club dei 77», formato dai paesi che erano privi di una voce effettiva nelle organizzazioni a partecipazione limitata.
Lo sgretolamento del mondo etico
Le associazioni di nazioni avevano operato tramite la reciprocità, sostenuta da norme improntate a fedeltà ed equità. Quando il pragmatismo lasciò il posto all’ideologia, tali norme furono sostituite da quelle di cura e di uguaglianza prospettate dai WEIRD, e dalle conseguenti richieste di inclusione universale in virtù del bisogno. Reagendo a questa nobile ambizione, queste associazioni ampliarono sia il numero dei loro componenti sia le loro aspirazioni.
La NATO passò dai suoi dodici membri iniziali agli attuali ventinove, estendendosi ad est. Mentre il gruppo originario condivideva qualche autentico elemento di reciprocità, questo ampliamento delle dimensioni si tradusse essenzialmente in un’estensione delle garanzie di sicurezza americane ai paesi che non disponevano di una forza militare adeguata. La CEE crebbe passando dai sei membri iniziali ai ventotto dell’UE. Il campo di applicazione delle regole si estese notevolmente, dai settori del commercio e della democrazia fino a coprire la maggior parte degli aspetti connessi alle politiche pubbliche. Il GATT si dissolse trasformandosi nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization), ampliandosi fino a includere la quasi totalità delle nazioni mondiali, con una corrispondente grande estensione del proprio potere di regolamentazione ai settori dell’agricoltura, dei servizi e della proprietà intellettuale. Analogamente, l’FMI è arrivato a dimensioni pressoché mondiali e ha esteso le proprie competenze.
Con l’ampliamento dei gruppi fondatori, il collante che aveva permesso il rispetto delle obbligazioni reciproche cominciò a indebolirsiA. In reazione a ciò, queste organizzazioni potevano o diventare meno efficienti o trasformarsi in entità semi-imperiali governate da un nucleo centrale di membri che imponevano il rispetto delle norme mediante sanzioni imposte ai componenti. Alcune organizzazioni imboccarono la prima strada, altre la seconda.
Prendiamo in esame in primo luogo la strada dell’inefficacia. Nel contesto della NATO la reciprocità diminuì anche fra i paesi fondatori. Solo cinque dei suoi ventinove membri attuali rispettano l’impegno comune che impone di destinare il 2% del proprio PIL alle spese per la difesa. In reazione a ciò, l’impegno degli Stati Uniti ha cominciato ad affievolirsi. Ma il classico caso di un’organizzazione efficiente trasformatasi in un’entità inefficace e globalmente inclusiva è quello del WTO. Mentre il GATT realizzò sei accordi sugli scambi commerciali nei suoi primi diciassette anni, il WTO non è riuscito a concluderne neppure uno in ventitré anni di attività.
Passiamo ora a un tema più controverso, quello della strada che porta all’impero. L’espansione che ha visto la CEE diventare Unione Europea e l’FMI modificare la propria natura da banca di cooperazione reciproca a entità che gestisce un fondo globale per i paesi poveri, li ha trasformati entrambi in organismi semi-imperiali, attraverso cui alcuni governi dicono ad altri governi cosa fare. Nell’Unione Europea, l’interesse individuale illuminato, che aveva dato all’adempimento degli obblighi uno scopo, ha lasciato il posto a un’ampia gamma di norme prescrittive, decise e applicate da un nucleo di paesi che attualmente è ai ferri corti con tre gruppi di postulanti: i paesi membri dell’Europa dell’Est, quelli dell’Europa meridionale e la Gran Bretagna. Non voglio né emettere una sentenza sulle norme né esagerare il processo in atto; per altri aspetti, l’Unione Europea rimane una realtà di immenso valore e possiede il potenziale per fare ancora meglio. Ma non è più, in tutta evidenza, un’associazione di sostegno reciproco: è progressivamente diventata un organismo nel quale i paesi potenti dicono agli altri cosa fare.
Il Fondo Monetario Internazionale si è trasformato in un fondo globale come la Banca Mondiale, il cui fondamento consisteva nell’adempiere a doveri di soccorso. Per loro natura, tali doveri non sono né reciproci né condizionati. Entrambe le organizzazioni, però, hanno finito per essere dominate da un nucleo di paesi finanziatori che hanno trasformato i doveri in uno strumento di potere. Dapprima i finanziatori hanno subordinato la concessione di aiuti all’adozione di determinate politiche economiche. Ma di quest’idea, già abbastanza cattiva di per sé, si sono rapidamente impossessate ONG (organizzazioni non governative) politicamente influenti. Attualmente, gli aiuti occidentali sono subordinati al rispetto di vincoli riferiti all’ambiente e al rispetto dei diritti umani, spesso talmente rigorosi da essere disattesi perfino nelle società ricche. Tutti i progetti della Banca Mondiale, ad esempio, devono essere corredati di «valutazioni di impatto ambientale». Alcuni progetti idroelettrici sono diventati impossibili da finanziare perché le ONG ritenevano che violassero i diritti umani. Perfino l’ampliamento delle sedi stradali è stato bloccato da occidentali che conducono campagne a favore dei diritti umaniB. Ai progetti della Banca Mondiale rivolti a paesi poveri è stato imposto il rispetto di limiti di emissioni di CO2 notevolmente più alti di quelli adottati nei paesi ad alto reddito – tema, questo, che ha suscitato un veemente risentimento, data la grave carenza di energia in AfricaC. Anche qui, non voglio esagerare: entrambi gli organismi fanno ancora oggi una gran quantità di cose buone, e sono i nostri principali strumenti per realizzarne ancora molte altre. Ma sono stati catturati da chi ha adottato un diverso tipo di agenda.
La ricostruzione di un mondo etico
È necessario che sia le associazioni di nazioni improntate alla reciprocità sia i doveri di soccorso funzionino adeguatamente. Delle prime abbiamo bisogno perché un governo paternalista mondiale non è né attuabile né auspicabile: i suoi tentativi di governarci tutti sarebbero travolti dall’inadempienza di chi dovrebbe obbedire. Piuttosto che resuscitare gli organismi di vecchio tipo potrebbe essere più semplice crearne uno nuovo, con molteplici finalità, che riflettesse le realtà dell’attuale potere economico e militare. Una struttura del genere dovrebbe essere capace di trovare numerose opportunità per attivare obblighi reciproci che avrebbero effetti positivi a livello globale. Il G20 ha un campo d’azione sufficiente, ma in pratica è troppo ampio, diversificato e con un’attività troppo intermittente per essere molto efficiente, ed è messo in difficoltà da chi se ne avvantaggia senza dare un vero contributo. Il G7 è più piccolo e coeso, ma in questo momento ha una composizione inadeguata, in quanto esclude sia la Cina sia l’India. Un gruppo più ristretto composto da Cina, India, Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Giappone coprirebbe una parte sufficiente dell’economia e della forza militare globale per rivolgere il proprio interesse collettivo alla soluzione dei problemi globali, anche qualora chi ne restasse escluso scegliesse di non collaborare. E ogni membro saprebbe che, se scegliesse il disimpegno, gli altri farebbero lo stesso: date le dimensioni di ognuno, a nessuno sarebbe permesso di avvantaggiarsi lasciando fare gli altri.
L’istituzione di una simile associazione di nazioni comporta due problemi. Il primo è che i sei non hanno niente in comune, mentre i loro specifici interessi geopolitici sono in conflitto. Tuttavia, per questioni globali che incombono come il cambiamento climatico, le pandemie e l’eccessiva fragilità degli Stati, avranno interessi sempre più coincidenti. E finiranno anche per riconoscere un tratto distintivo che li accomuna: solo loro sono sufficientemente grandi per affrontare tali questioni, mentre, singolarmente, ognuno di loro è troppo grande per poter lasciar fare agli altri cinque. Il secondo problema consiste nella prevedibile opposizione da parte degli idealisti dal cuore senza testa: «E gli esclusi?». Eppure è davvero nell’interesse degli esclusi avere un gruppo che sia sufficientemente ridotto da poter superare il problema di un’azione collettiva a livello mondiale. Altri potrebbero compartecipare agli impegni, finché i sei concordano ufficiosamente che ognuno di essi debba agire. Le disparate caratteristiche dei sei garantiscono che sarà improbabile che si presenti una questione sulla quale tutti concordino ma che vada a svantaggio di uno di loro. È di un nuovo organismo così concepito che abbiamo bisogno. Per crearlo ci vorranno anni, ma la logica che sostiene questo processo, quella di promuovere un’azione efficace sulle questioni critiche a livello globale, può gradualmente portarci a raggiungere l’obiettivo.
A fianco delle associazioni tra nazioni, ce ne occorrono altre che adempiano in modo più efficace ai nostri doveri di soccorso. Questo è il mio campo: ho passato tutta la mia vita adulta a cercare di spingere la gente delle società ricche a riconoscere che abbiamo questi doveri verso gli altri. Quanto al loro rispetto, abbiamo fatto un pessimo lavoro; la tentazione di mettersi in mostra ha intralciato l’efficacia pratica, come mostrano gli esempi seguenti.
I rifugiatiD
Comincio col nostro dovere di soccorso verso i rifugiati. Nel mondo ci sono 65 milioni di persone fuggite dalle proprie case, sotto la spinta della paura o della fame. Un terzo di esse diventano rifugiati. Sono esseri umani in lotta per riconquistare una vita normale: trovare un posto familiare in cui vivere, un lavoro per mantenere la famiglia, riunirsi con altre persone provenienti dalla loro stessa comunità. Sono esigenze ragionevoli, ma il governo del paese confinante può far fatica ad accoglierle. Con tutta probabilità, i suoi stessi cittadini saranno poveri, e avranno difficoltà anche solo a soddisfare i propri bisogni.
Le società hanno nei confronti dei paesi vicini obblighi che, essendo naturalmente reciproci, possono essere maggiori dei doveri non reciproci di soccorso. Ma in presenza di una terribile calamità collettiva come un esodo di profughi, esiste anche un dovere globale di soccorso. Un paese confinante che accoglie dei profughi ha motivo di lamentarsi se lo lasciamo combattere da solo. Sebbene esso debba consentire ai profughi di attraversare la frontiera entrando nel suo territorio, noi siamo più ricchi: dovremmo cooperare con esso perché siano soddisfatti i doveri di buon vicinato e il nostro dovere di soccorso. Qui ci dovremmo lasciar guidare sia dal cuore, che esige solidarietà con la società più vicina alla situazione di crisi, sia dalla testa, che induce a ripartire le responsabilità secondo il nostro vantaggio comparativo.
Il consiglio che ci viene dalla ragione non è complicato. La società confinante è collocata in una posizione migliore per offrire un rifugio. È vicina al luogo della crisi e quindi è facile raggiungerla e fare ritorno, e probabilmente è abbastanza simile a quella di chi fugge da potergli offrire una sistemazione percepita come familiare; nel momento in cui scrivo, l’ultimo movimento di profughi è quello dal Venezuela alla confinante Colombia. Le società ricche dispongono di imprese internazionali che possono mettere a disposizione impieghi e denaro sia per aiutare le famiglie dei rifugiati nel processo di transizione all’autosufficienza, sia per compensare la società ospitante dei costi che deve sopportare. Questa, più che il caos che ha caratterizzato la politica sui rifugiati negli anni recenti, è la strategia del futuro.
Le persone positive all’HIVE
Di solito, la forza della reciprocità genera all’interno di una società delle obbligazioni nei confronti dei concittadini che risultano superiori a quelle che abbiamo globalmente. Viceversa, però, a volte abbiamo obbligazioni verso cittadini di un altro paese che superano quelle nei confronti dei nostri concittadini. Gli affetti da HIV nei paesi poveri rientrano in questa categoria. Con i moderni farmaci anti-retrovirali, le persone che hanno contratto il virus HIV possono condurre vite normali per molti anni, al costo di meno di 1.000 dollari l’anno. Il presidente francese Chirac e il presidente americano George W. Bush riconobbero, e questo va senz’altro a loro merito dal punto di vista morale, che se esisteva un dovere di soccorso, questo era senz’altro il caso in cui applicarlo. Senza i finanziamenti che arrivarono, in breve tempo migliaia di africani poveri ben individuabili sarebbero stati abbandonati a una morte certa. I due uomini politici videro che i loro rispettivi paesi erano abbastanza ricchi da consentire ai loro cittadini di essere disponibili, collettivamente, a finanziare questa spesa per salvare delle vite umane.
Ebbene, quale fu allora la risposta dei WEIRD? Economisti esperti di sanità, imbevuti di ideologia utilitaristica, si opposero a questo uso dei finanziamenti. Ignorando completamente la forza morale del dovere di soccorso, sostennero che con le stesse somme si sarebbe potuto salvare un numero di anni di vita maggiore ottenendo una modesta riduzione dei rischi di mortalità mediante interventi preventivi mirati ad altre malattie. Insomma, si sarebbe avuto un miglior rapporto fra costi e benefici lasciando morire tutti gli affetti da HIV. Nel frattempo, i populisti spinti dal cuore senza testa presero a protestare contro un’altra ovvia modalità con cui si potevano salvare vite umane. Il virus HIV viene solitamente trasmesso mediante rapporti sessuali. Se le persone potessero essere convinte a non avere più di un partner, contemporaneamente il tasso di trasmissione della malattia scenderebbe enormemente; è quello che il presidente ugandese Museveni riuscì ad ottenere rivolgendosi alla popolazione mediante delle trasmissioni radiofoniche. Ma le campagne per modificare determinati comportamenti furono contrastate, perché avrebbero potuto inavvertitamente stigmatizzare le persone affette da HIV lasciando intendere che esse potevano avere una qualche responsabilità morale per le conseguenze delle loro azioni. Ricordiamoci che le vittime non possono essere soggetti morali.
Il dovere di soccorso di fronte alla disperazione di massa
Attualmente, molti giovani africani hanno una prospettiva di speranza: fuggire in Europa. È una tragedia. È palesemente impraticabile come soluzione alla disperazione di massa, e l’esodo dei migliori e dei più brillanti può spesso aggravare i problemi tipici di una società povera. In un mondo etico, ogni società dovrebbe trovarsi in una posizione tale da offrire una credibile speranza alla propria gioventù. Il ruolo delle società ricche non è quello di tentare qualche giovane sveglio ad affrontare una vita fatta di marginalità nelle nostre società, bensì di procurare opportunità ai molti che rimangono a casa, nelle loro società.
Tutti i doveri di soccorso cominciano col rispetto nei confronti di chi viene salvato. Soccorrere significa restituire e incrementare l’autonomia delle persone coinvolte, non affermare la propria autorità su di loro. Invece che a generare un’illusoria accozzaglia di condizioni politiche e sociali, l’aiuto internazionale dovrebbe puntare ad attrarre imprese etiche in società che ne sono drammaticamente prive, riducendo al contempo le attività delle aziende corrotte. I paesi deboli hanno un disperato bisogno delle occupazioni che un’impresa moderna può fornire, ma sono poche le aziende dignitose che vogliono andarci: la ristrettezza dei mercati e i rischi elevati tengono lontane le imprese. Per modificare questo stato di cose, occorre denaro pubblico con cui compensare le aziende in virtù del beneficio pubblico che esse apportano creando posti di lavoro. Nel 2017, la Banca Mondiale e la Gran Bretagna hanno aperto una nuova strada, sovvenzionando loro agenzie, rispettivamente la International Finance Corporation e il CDC Group (già Commonwealth Development Corporation), che lavorano assieme alle imprese. La reazione dei populisti tutti cuore e niente testa è stata di orrore: gli aiuti venivano dirottati lontano dalle loro fotogeniche priorità.
Conclusione
La testa e il cuore, insieme, ci possono pragmaticamente guidare a dar vita a nuove associazioni di paesi fondate sulla reciprocità che siano in grado di affrontare le incombenti ansie globali, e ad aiutare efficacemente chi ha bisogno di essere soccorso. Un tempo una generazione di leader globali ereditò una situazione ben più allarmante, e ciò nonostante raggiunse entrambi gli obiettivi, lasciando a quella successiva un mondo molto migliore, ancora ben lontano dall’essere perfetto, ma trasformato rispetto a prima. Questo lascito tranquillizzò i successori, che si abbandonarono all’ideologia e al populismo, e ora stiamo pagando a caro prezzo l’indebolimento degli organismi internazionali e la contaminazione dei doveri di soccorso che ne sono derivati. Ma se ritorniamo a un approccio pragmatico, non solo possiamo ricostituire il mondo etico, ma possiamo renderlo migliore di quanto non sia mai stato.