C’è una regione nascosta che non ha autostrade, treni, aeroporti; è il doppio della Liguria, ma ha solo un terzo degli abitanti; dispone di risorse idriche imponenti (incluso alcune delle sorgenti minerali migliori che ci siano), con cui dà da bere a quasi un decimo della popolazione italiana e ne alimenta industrie, agricoltura e turismo, rendendo possibile la produzione di una quota rilevante della ricchezza nazionale; ha i più vasti giacimenti petroliferi in terraferma d’Europa, in grado di sanare, da soli, il deficit dell’intero Paese, ma il suo prodotto lordo pro-capite è la metà di quello della Valle d’Aosta (che dallo Stato prende soltanto, perché Regione a Statuto speciale); fornisce all’Italia quasi un decimo (e presto qualcosa di più) del fabbisogno annuo di carburanti, ma paga la benzina più cara di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte e altre regioni più ricche; è occupata quasi militarmente dalle maggiori compagnie petrolifere del pianeta, ma l’unica strada decente che ha, la Basentana, è quasi priva di stazioni di rifornimento; il petrolio lo portano subito altrove, ma i residui velenosi li sotterrano in loco, sino a quattromila metri di profondità, in zone pregne di sorgenti e laghi; è quasi senza industrie (a parte la Fiat di Melfi e poco altro), ma ha i più grandi impianti d’Europa per lo smaltimento di rifiuti tossici e un deposito di scorie nucleari radioattive, in corso di ampliamento per divenire il maggiore del continente; ha monti innevati, ampie foreste, uno dei vulcani più interessanti che ci siano (erutta ogni 100-200mila anni e non si sa se sia davvero in quiete), si affaccia su due mari, ma non ha un porto; sembra l’Eden il giorno dopo la creazione, ma l’incidenza delle patologie tumorali è in crescita e ha superato le medie nazionali; è una delle regioni più vuote d’Europa, ma ha il record mondiale della vicinanza dei pozzi petroliferi ai centri abitati: sino alla periferia di un paese, a ridosso dell’ospedale; ha rappresentanti politici, di qualsiasi schieramento, potentissimi su scala nazionale, ma non nel sostenere gli interessi della propria regione (il che non vuol dire che non ci sia chi ci abbia provato o ci provi, però i risultati sono quelli); sembra una terra esclusa dal mondo, ma da circa un secolo è al centro di terribili intrighi internazionali per lo sfruttamento delle sue risorse, forse la vera ragione (o almeno una delle ragioni) dell’assassinio di Giacomo Matteotti, Enrico Mattei, Pierpaolo Pasolini e Aldo Moro.

Benvenuti in Lucania, coast-to-coast, colonia d’Italia.

Come si riconoscono le colonie? Sono dotate di grandi risorse, di cui si appropriano altri, mentre la gente del luogo è povera. In Italia, la regione più ricca di tesori (dal petrolio all’acqua), ma anche la più povera è la Lucania (un anno sì e uno no se la batte con la Calabria). L’immenso salasso di risorse non le ha portato una strada, un aeroporto, un porto, un treno, una preferenza per l’assunzione dei propri giovani nelle imprese che la svuotano di ogni bene, nemmeno uno sconto sulla benzina (a parte l’umiliante bonus annuo di cento euro: «I petrolieri pagano il pieno ai lucani» ebbe il coraggio di titolare il «Corriere della Sera»! E pure su quello, con una porcheria “legale”, è riuscito a prelevare il “pizzo” per il Nord, il gauleiter del Veneto Luca Zaia, con lui ministro dell’Agricoltura si usarono a beneficio esclusivo dei padani i soldi per la promozione all’estero dei prodotti agroalimentari italiani). Nulla ha avuto la Lucania, tranne l’incremento dell’emigrazione (in pochi anni ha perso più di un decimo dei residenti) e il degrado di parte dell’eccellente economia agricola e turistica preesistente. Ministri, sottosegretari, parlamentari lucani non hanno mai chiesto (e se sì, inutilmente) né ottenuto nulla di rilevante per la propria terra (manco il treno!!), sulla quale hanno potere, solo finché la tengono sottomessa a interessi forestieri. Pure questo è proprio delle colonie: si dà molto a pochi, per togliere tanto a tutti. Chi non regge se ne va; chi rimane, fra Stato, Regione, Comune ed enti vari, campa. Né i predoni del petrolio, ti spiegano, vogliono lucani fra i loro dipendenti, forse nel timore che possano avere delle remore a trattare la propria terra, in quel modo; e, magari, creare problemi. C’è persino stato un convegno di geologi indigeni, che è parso, agli osservatori, un proporsi alle compagnie. Inascoltato.

Ma perché si fanno fare questo, i lucani? «Perché siamo pochi» dice Antonio Bavusi, sociologo e responsabile scientifico di Ola, associazione lucana ambientalista, sorta per dar vita a una rete di comitati per la difesa del territorio e della salute. «“Sono quattro gatti” disse di noi Romano Prodi, anni fa, in una intervista a Maurizio Costanzo.» E diventano sempre meno: ora sono ridotti a circa 570.000, con i piccoli Comuni che si spopolano. Li hanno poeticamente chiamati “I Rimanenti”. Ma chi se ne accorge se scompaiono? Chi li sente, se protestano?

C’è stato un momento in cui tutti li hanno sentiti, e talmente tanto, che vinsero, perché riuscirono a far diventare nazionali le loro ragioni; e non rimasero soli: fu quando il governo Berlusconi decise di creare, nelle viscere del territorio di Scanzano, un deposito tombale di scorie nucleari. La cosa pareva fatta; persino il più potente parlamentare lucano, Filippo Bubbico (Pd, più volte ministro e sottosegretario, nel “comitato dei saggi” inventato da Giorgio Napolitano), presidente della Regione, allora, era sostanzialmente d’accordo, secondo quanto riportò «L’indipendente lucano», riprendendolo dal verbale della riunione del Consiglio dei ministri («Io, se il governo fa una scelta, la contrasterò, ma non cavalcherò la protesta»). Bubbico ha querelato; «L’indipendente» ha diffuso, in forma di manifesto, il verbale di quella riunione ministeriale e chiesto che vengano ascoltati un paio di ex ministri come testimoni.

«Le associazioni, i comitati sono tanti, in Lucania; nella sola Matera, oltre un centinaio; magari composti di due-tre persone e talvolta in insanabile concorrenza fra loro» dice Mimmo Genchi, di Matera Cambia, che da pochissimo (con qualche resistenza, par di capire) ha aderito al Movimento 5 Stelle. «Ma nel 2003, si era molto lontani da questi numeri; dalla reazione popolare diffusa e profonda alla tomba radioattiva, sorsero velocemente gruppi organizzati che, sorprendendo tutti per vastità e intensità della contestazione, animarono “Le quindici giornate di Scanzano”.» I tanti rivoli confluirono in una sola strategia. La lotta contro le scorie radioattive nelle miniere di salgemma di Terzo Cavone, a Scanzano Jonico, non fu solo un fatto regionale, parteciparono ai cortei, ai blocchi stradali, anche i partiti politici trascinati dall’onda dei cittadini. A quel punto, il Pd rischiò di restare isolato e appiattito sulle scelte del governo Berlusconi; e le azioni del presidente Bubbico non corrisposero alle parole riportate nel verbale del Consiglio dei ministri.

«Per dire di quale clima e mobilitazione si ebbe a Scanzano contro le scorie: fu allora, in Lucania, a Pisticci Scalo, in un luogo simbolo (l’ex quartiere dell’Anic, sorto per volontà di Enrico Mattei negli anni Sessanta), che nacque anche il movimento nazionale No Triv, contro nuove concessioni alle compagnie petrolifere», racconta Bavusi.

«Da ScanZiamo le scorie, però, non nacque un Movimento unico,» è il rammarico di Ivano Farina, dell’associazione Karacteria «perché troppi dei capi facevano riferimento a inamovibili e potentissimi dirigenti di partito, in Lucania. Il risultato di quella grande protesta civile fu anzi lo smembramento del movimento in tante diverse associazioni, alcune delle quali “virus”, infiltrate nel tentativo di condizionare le azioni di protesta e di proposta successive: di quella comunità e di quell’unità di intenti, sorte durante quindici giorni di barricate, nel giro di poco tempo non rimase più niente.» Il popolo del no al deposito delle scorie vinse, ma poco dopo, l’alleanza fra associazioni, gruppi che aveva condotto a quel risultato, si ruppe. La partecipazione attiva dei lucani crollò, ma senza tornare al pochissimo di prima; e da lì presero il via altre iniziative che cresceranno negli anni successivi, «soprattutto con la crisi della sinistra, del Pd, di Rifondazione comunista, dei Verdi. Ci trovammo insieme giovani oppositori ed esuli della vecchia sinistra, con i capelli bianchi. Saltata la generazione di mezzo, emigrata quasi in massa» racconta Farina. «Noi vogliamo restare, ma prima dobbiamo costruire le ragioni minime per poter restare e per poter costruire.»

Il progetto nucleare fu accantonato, con un Berlusconi che accusava i suoi di averlo trascinato in una sconfitta. Non so se il potere nazionale e locale avevano fatto conto sull’apparente scarsa attitudine dei lucani alla protesta. La storia racconta altro: pochi e lenti a muoversi, ma tosti, quando si muovono. Sconfissero i greci a Paestum e dettero filo da torcere ai romani; e furono i soli, quando il Sud fu invaso e messo a ferro e fuoco dai piemontesi, per razziarlo in nome dell’Unità d’Italia, a costituire la cosa più somigliante a un esercito, con la confluenza delle diverse bande brigantesche, sotto il comando del generalissimo Carmine Crocco Donatelli, il cafone con innate doti militari che vinse contro le forze savoiarde persino in campo aperto (la tattica dei briganti era quella della guerriglia: irrompere imprevisti, colpire, e subito rifugiarsi nelle foreste, negli anfratti montuosi). Fu a un passo dalla riconquista della Lucania e la restaurazione di un governo legittimista borbonico a Potenza. Quando pareva avesse la città in pugno, rinunciò. Non si sa se per i dissidi con il generale Borjes, inviato dalla corte napoletana in esilio o per altro.

A volerla leggere con la lente della geometria delle reti, Crocco, alla fine, perse perché ne aveva realizzata una molto forte, ma chiusa, di cui lui voleva essere il principale, se non l’unico vero nodo. Per questo, non mostrò alcun interesse alla connessione, che pure era stata proposta, fra la sua rete di formazioni ribelli e quella del Sergente Romano, che quasi tutte le bande di Puglia avevano eletto loro capo. In quel momento, Crocco riconquistava un paese dopo l’altro in Lucania e Romano faceva lo stesso in Puglia, tanto che a Torino ci si cominciò a chiedere (vedi Massimo D’Azeglio) se fosse il caso di restare lì o no, considerata l’accoglienza. La connessione mancata fra Crocco e Romano fu l’inizio della fine per entrambi, invece che per l’occupazione piemontese.

Una risorgiva della combattività lucana si ebbe con la lunghissima battaglia per la riforma agraria e l’occupazione delle terre incolte. Su questo, i lucani, specie nelle valli dei suoi fiumi jonici (Bradano, Basento, Agri, Sinni), scrissero pagine immortali. I ritratti di Contadini del Sud del sindaco-poeta Rocco Scotellaro, hanno fatto il giro del mondo. Poi, la regione e la sua gente sono sprofondati nella storia, come un fiume in un letto carsico, il cui corso sotterraneo non toglie niente, se non l’esser visto: si sa che c’è, dove comincia e dove finisce; dove scompare e dove riappare, ma senza memoria di un percorso.

Come i Cancioli (ricostruttori di sana comunità) della Terra dei Fuochi, disseminata di discariche abusive, i lucani potrebbero dire: «Ci ha svegliato la puzza»: degli scarti petroliferi e degli impianti per smaltire i rifiuti tossici altrui. E le malattie: «Vuole che le mostri foto di bambini deformi?» mi chiede un medico la cui passione civile non riesce a mitigare lo sconforto. Ne taccio il nome, per proteggerlo: a chi dice come stanno le cose, qui, può accadere qualcosa di spiacevole (metti che lo denuncino per procurato allarme o rivelazione di notizie segrete). Il tenente della polizia provinciale che produsse le prove, a sue spese, dell’inquinamento del lago che dà da bere a milioni di persone, è stato rimosso dal servizio, condannato a due mesi e rotti, con rito abbreviato (ma la causa procede); il dirigente del partito radicale che pagò la prima analisi di laboratorio, Maurizio Bolognetti, autore di Le mani sul petrolio, è sotto processo; la docente di geologia che prestò la sua competenza, ha curiosamente vita difficile all’università. Mentre non fu avviata alcuna indagine sull’inquinamento del lago, confermato da disastri immediatamente successivi.

«Cosa devo fare? Cosa devo dire ai genitori. Se uno è onesto, può soltanto dirgli: andatevene. Ma non a loro, a tutti; perché questo vogliono, che lasciamo campo libero! Lo abbiamo letto perfino sulla bozza del famoso “Salva Italia” di Mario Monti!» continua il medico. «Vuol vedere i dati della diffusione dei tumori? Dati ufficiali, eh! O quelli delle malattie cardiorespiratorie? E poi, posso dirle quelli del mio paese. Vivere qui era una scelta: non avevi nulla della vita dei grandi centri, ma una qualità di ambiente, cibo, rapporti umani, salute, di altri tempi. Ora abbiamo tutti i mali della vita che non volevamo, senza nessuno dei vantaggi. C’è una delle tante persone di qui che, dopo aver lavorato quarant’anni al Nord, ha voluto tornare al suo paese, nella sua valle. Con i risparmi si è fatta una casa. I figli sistemati altrove. E lui e sua moglie, finalmente, in campagna, il giardino, il frutteto; il bosco vicino per le passeggiate. Si era appena insediato, che gli hanno piazzato un impianto petrolifero accanto. Non possono manco aprire le finestre. La puzza e il rumore ti uccidono, in ogni senso. Né puoi pensare di vendere tutto e andartene: le case, ovunque ci sia il petrolio vicino, non valgono più niente; i campi non producono nulla e se producono, nessuno compra roba coltivata lì; i turisti non vengono più. Così, l’unica cosa che posso dirgli è: andatevene. A volte penso che dovrei farlo anch’io.»

Ma resta. Ha accettato di incontrarmi, per senso del dovere; però è chiaro persino a me che lo vedo per la prima volta, che non ci crede più: denunci, protesti, ragioni... a che serve, ormai? Ma lo fa.

Non tutta la regione è in tali condizioni. «Anche se, già oggi, le compagnie petrolifere hanno concessioni sul 42 per cento del territorio; mentre l’Eni è stata autorizzata a raddoppiare, di fatto, la potenza estrattiva» dice Giuseppe Di Bello, il tenente della Polizia provinciale che fu cacciato e condannato dopo aver dimostrato l’inquinamento dell’invaso del Pertusillo. «Sono state presentate richieste di altre 18 concessioni per ricerche petrolifere; una di quasi 500 chilometri quadrati, in mezzo alle migliori e più redditizie produzioni agricole della regione. Il 70 per cento del territorio lucano, a questo punto, sarà nelle disponibilità delle compagnie.»

E sono loro, nei fatti, a disegnarlo il territorio. Antonio Bavusi è come ti immagini un naturalista: pacato, riflessivo, di innata disposizione all’ascolto, pure interiore, come se dovesse cogliere una eco sparsa fra terra e cielo. In questo regno dei falchi (è qui che Federico II, appassionato di caccia, scrisse il suo trattato venatorio con uso di tali rapaci), te li indica e te ne anticipa le azioni; dei quattro fiumi jonici (Bradano, Basento, Agri, Sinni) parla come di fratelli. Ai sentimenti, accompagna una preparazione scientifica di prim’ordine. Dirigeva la Riserva naturale del lago di Pignola, vicino Potenza; poi è stato nel direttivo dell’area protetta del Parco del Pollino; infine, ha fatto parte del comitato per tracciare i confini del Parco dell’Appennino lucano. Ma il suo entusiasmo si affievolì e scemò, «quando cominciai a capire che io cercavo di delimitare l’area da proteggere, loro quella dei campi petroliferi. E guarda il risultato: il Parco a macchia di leopardo». Dispiega la mappa... nooo! Dovete vederla, andate su internet: volendo trovare una definizione per questo ridicolo tracciato di “territorio protetto”, si potrebbe dirla così: “Dicesi parco, quel che resta delle aree interessate alla ricerca e all’estrazione del petrolio”. Badate che non scherzo: le macchie di verde sulla mappa girano attorno attorno alle concessioni, segnate con le torri di perforazione. Dove proprio non c’è posto per la riserva, una sottile linea verde unisce le macchie più grandi dello stesso colore: una sorta di risicata terra di nessuno gentilmente concessa dalle compagnie al parco, giusto per non spezzettarlo e farla troppo sporca (non è così? Ops... Chiedo scusa. Mi era sembrato).

«E non vuol soltanto dire che le compagnie usano il territorio secondo i propri interessi, ma che possono farlo in tutta tranquillità,» spiega Di Bello «perché, con il parco, intorno ai pozzi di petrolio hai aree non edificabili (è parco, no?), quindi deserte: nessuno che possa buttare uno sguardo su cosa fanno i perforatori. E se qualcuno dovesse costruire lì, non può accusarli di inquinargli aria e terra, perché in difetto è lui, avendo edificato in area protetta. Un meccanismo perfetto.»

Però, se proprio non sei sottovento e nei pressi di una installazione petrolifera, non ti accorgeresti dello scempio, a parte il disturbo visivo. Poi, eccolo: lo sterminato e fetido impianto per depurare il petrolio estratto dalle torri di perforazione; l’orizzonte rotto da “parchi” (pure quelli! Ma non c’erano gli alberi, nei parchi?) di pale eoliche, e a lato della strada una vasta distesa di pannelli fotovoltaici (altro parco?), al posto delle vigne, degli ulivi.

Un tempo, gli schiavi producevano energia per i loro padroni, traendola dai propri muscoli; oggi, la tecnologia nasconde la natura del rapporto fra chi dà e chi prende, ma il rapporto quello è. Questa spaventosa quantità di energia serve ad altri, non ai lucani (non dico che basterebbe il vecchio mulo, ma ci siamo vicini, considerata la quantità di persone, di strutture e aziende della regione). Avrebbe senso se lo scambio desse ai lucani un vantaggio tale da renderlo accettabile (e anche questo è discutibile), invece li impoverisce, ne distrugge la terra e il futuro, svuota la regione. Insomma, li fotte e basta. Persino il modo e i tempi, in cui queste risorse vengono prelevate, sono da rapina: il massimo, non importa con quali conseguenze, prima possibile. Se i lucani avessero un qualche controllo sulle loro risorse, potrebbero concordare quantità e tempi, anche secondo i loro interessi, tutelando anche salute e territorio. Invece è irriconoscibile la valle dell’Eden. Guardate che non esagero: percorretela la Val d’Agri, sino al mare; nella parte alta, fra monti che si levano oltre i mille metri (riva destra) e sino a poco meno di duemila (riva sinistra), l’occhio si posa su linee morbide e verdi, tranne verso le maggiori vette; quando il fiume si apre nella parte bassa, varcando una stretta e profondissima gola che sembra la porta di un altro mondo, si entra nella terra dei calanchi. E quelli o li vedi o li vedi, non è paesaggio che possa essere reso a parole. Non io, almeno; cercatevene uno più bravo.

«L’industria petrolifera è molto inquinante,» premette la professoressa Albina Colella «ma ci si fa caso solo se c’è un disastro. Finché le trivelle bucano deserti, fondi marini lontani dalle coste, questo non viene percepito. Ma l’Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti considera pericolo di livello 7-8 (il massimo è 9), ogni attività petrolifera, incluso centri di pretrattamento e oleodotti. In Lucania le trivelle sono a 4-500 metri dal centro abitato di Marsicovetere. In Irpinia, a Nusco, vogliono fare un pozzo a 300 metri dal paese!» (Ricordate cosa è successo negli Stati Uniti, per l’esplosione di un pozzo della piattaforma Deepwater Horizon, al largo delle coste della Louisiana, nel 2010? Il più grande disastro ambientale della storia degli Usa, dieci volte più grave di quello della Exxon Valdez, con la marea nera che invase le coste della Louisiana, del Mississippi, dell’Alabama e della Florida. Sapete a che distanza era dalla costa, quel pozzo? Ottanta chilometri. Lo ripeto: ottanta chilometri; e ripeto pure a che distanza stanno i pozzi in Lucania, dai paesi: anche poche centinaia di metri. Il prossimo, a mo’ di monumento al disprezzo della decenza, propongo di metterlo in piazza, al posto di quello per i Caduti. Così, mai sia qualcosa, è già al posto giusto...)

La professoressa, molto nota nel suo campo, è docente ordinario di Geologia all’Università di Basilicata, dove giunse quando era già al culmine della carriera (svolta fra le università di Bologna, della Calabria e di Catania), su invito del fondatore monsignor Cosimo Damiano Fonseca. Forse se ne è pentita, per i guai che sta passando. Ma lei, in un certo senso, se li cerca («Ho lavorato in diverse università, anche molto grandi. Questa della Basilicata è particolare: mai visti i soldi che circolano qui, per incarichi, convenzioni, finanziamenti di progetti europei. Un campo come la geologia, in una regione che ha avuto il terremoto del 1980 e ha il petrolio, accende molti appetiti»).

Non ho approfondito, per non andare fuori tema, ma pure lei ha a che fare con cause, tribunali...

Con altri due specialisti stimati anche all’estero, il professor Massimo Civita, ordinario di Idrogeologia Applicata al Politecnico di Torino e il professor Franco Ortolani, ordinario di Geologia all’università Federico II di Napoli, sta compilando un libro bianco sui problemi di inquinamento petrolifero in tutto il mondo, dal Kazakistan all’Algeria, all’America; con loro e i dottori Giampiero D’Ecclesiis, geologo potentino, e Ferdinando Laghi, vicepresidente dell’associazione Medici per l’Ambiente (Isde), ha organizzato un convegno a Viggiano (per ora, ultimo di una serie) sull’attività petrolifera in Lucania e i rischi per il territorio e gli abitanti. La sintesi è un rapporto, firmato da tutti, e inviato alle autorità regionali di Lucania, Puglia e Campania e a ogni ente che abbia competenze in materia. Con una corposa serie di dati e di riferimenti alla legislazione straniera e italiana, si giunge alla conclusione che troppi ed evidenti problemi rendono «incompatibili le attività petrolifere, così come finora attuate, e ne imporrebbero la sospensione a vantaggio della sicurezza per i cittadini e per un’adeguata tutela della risorsa acqua».

Che pretende..., può campare tranquilla questa signora? In Val d’Agri, soltanto i corsi d’acqua sono 23; le idrostrutture (aree madri di sorgenti) 22 e occupano gran parte della valle; le sorgenti circa 650; e il fiume Agri raccoglie quello che scende dall’intero bacino. In mezzo a tutta quest’acqua, ci sono 26 pozzi petroliferi attivi, l’oleodotto lungo 137 chilometri e un pozzo esaurito in cui si sparano, a pressione, i residui tossici dell’estrazione e della depurazione del petrolio.

«Il petrolio è a 3-4 chilometri di profondità. L’acqua a meno» continua la professoressa. «Le trivelle in Lucania, Irpinia, Vallo di Diano (il grande lago fossile in cui corre... insomma c’è la Salerno-Reggio Calabria, a ridosso del Pollino, fra Lucania, Campania e Calabria; N.d.A.) attraversano zone fra le più ricche di acqua, in Italia. Se la inquini, la perdi. Ci vogliono decenni, se va bene, per ripulirla.»

Nel Vallo di Diano le cose non sono andate come in Lucania, però. Appena le compagnie petrolifere vi si affacciarono, con i loro progetti, le associazioni ambientaliste presero contatti con quelle lucane, che inviarono i loro esperti, a raccontare a sindaci e popolazioni a cosa andavano incontro. «Lì siamo stati determinanti», dice la professoressa Colella. «Organizzai un convegno con un esperto mondiale di rifiuti, Paul Connett e il professor Antonio Marfella, di Medici per l’Ambiente. Il petrolio è l’oro nero, ma è il passato; l’oro di questo secolo sarà blu, è l’acqua: ce n’è sempre meno e di qualità sempre più scadente, tanto che da questo deriva la gran parte delle malattie nei Paesi sottosviluppati. Le multinazionali oggi comprano sorgenti, come stanno facendo Coca-Cola e Nestlé pure in Lucania. Il petrolio finisce subito e lascia danni enormi; l’acqua, se non distruggi i sistemi geologici che la raccolgono e convogliano, è continuamente rinnovabile. E noi, qui, per il petrolio, rischiamo di perdere l’acqua, che serve alla salute. Il petrolio no. L’acqua ce l’hai sempre, il petrolio una volta.»

Come dire che lo stiamo facendo buono l’affare.

La Lucania si piace, e a ragione; ma, per la prima volta, si chiede se per contare e salvarsi, non si debba isolare dalla rete di potere nazionale, di cui pure fanno parte tanti dei suoi. «La nostra regione vale ricchezze sterminate in termini di risorse naturali ed energetiche, ma solo 400.000 voti. Poco» spiega Ivano Farina, dell’associazione Karacteria. «I nostri rappresentanti, sia Pd che Pdl, sono trattati benissimo dai loro partiti, indipendentemente dal loro valore, e spesso persino a dispetto di quello; la regione che li elegge, invece, è trattata malissimo. Il perché è ovvio: i partiti nazionali preferiscono perdere qualcosa dei nostri 400.000 voti e non rischiare sui quattro milioni di voti di un’altra regione. Non resta, allora, che costruire una forza politica che conquisti la regione, senza dipendere dai partiti nazionali che detengono attualmente il potere, e la amministri per tutelarla, non per sacrificarne gli interessi a disegni politici più vasti o alle compagnie petrolifere.»

Ma un conto è dirlo, un conto farlo. La Lucania si prepara alle elezioni, in autunno, quando la percorro per raccogliere gli ultimi dati per questo capitolo. Quale che sia l’esito delle urne, il ragionamento rimane. Né Farina è il solo a propormelo. Isaia Giannetti dice le stesse cose e lo ascolti come se sentissi parlare James Stewart in Il signor Smith va a Washington. La citazione non è a caso: Giannetti è statunitense, di Boston, nato da un’abruzzese e un romano. Insegnava italianistica in Massachusetts, all’università. Per conto della quale venne qui, nel 2010: in base a un protocollo d’intesa con Regione, università della Basilicata, Provincia e Comune di Matera, doveva dar vita a una università americana in Lucania. L’iniziale spinta dei tanti enti si sarebbe poi dissolta in una palude burocratica. «Sfiancati da ostacoli e tempi della politica locale, gli investitori statunitensi si sono ritirati. Sembra che gli unici progetti che vadano in porto siano quelli destinati a diventare carrozzoni di raccomandati...» dice Isaia. Lui, però, è rimasto, ormai innamorato di questa terra (e di un’indigena...: la fidanzata è del luogo). Ora fa l’insegnante madrelingua di inglese, nelle scuole. Precario, of course.

Questo ragazzo di 37 anni, simpatico, bello, appassionato, con le sue analisi, le denunce e le ricette di buon senso, si è guadagnato un seguito tale, che molti lucani lo vogliono candidato alla presidenza della Regione; e diverse associazioni lo sosterrebbero. La prima cosa che ti dicono di lui è: «È così ingenuo!». E intendono: è pulito; ma anche: non capisce che le cose, qui, sono molto più complicate di come le vede lui, abituato alla semplicità americana: hai sbagliato? Te ne vai... Così, nel 2011, dinanzi al piano di nuove trivellazioni, tutti capiscono che le compagnie petrolifere hanno già vinto prima di cominciare a giocare, lui no. Avvia una raccolta di firme per fermare il progetto; va paese per paese; la televisione locale, Trm, gli dà molto spazio, perché Isaia fa ascolti. Alla fine, raccoglierà 11.000 firme: mai una sottoscrizione aveva raggiunto quel numero, sulla questione del petrolio lucano. Ma dopo la petizione Isaia è messo al bando, spiega, dai media e non si vedrà più in tv o nei giornali dal 2011. Lui aggira l’ostacolo e va per le piazze della Lucania, con altri volontari, facendo informazione sulle questioni ambientali ed economiche.

A quel punto, il suo Movimento, Miracolo Lucano, si trasforma in Movimento per la Lucania; e, per la serie “perché no?”: provati tanti, di qui, e con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, forse, uno da fuori, “Un Governatore Americano” (è il titolo della campagna elettorale), potrebbe essere la soluzione. I suoi sostenitori ritengono che un governatore americano aiuterebbe la Lucania a essere conosciuta, anche negli Stati Uniti (non solo dai petrolieri...). Ma se già vengono qui a girare film pure da Hollywood! «Vero,» risponde lui «ma prendi Matera: secondo il film diviene, di volta in volta, Gerusalemme, Agrigento, tutte le città del mondo, mai Matera, mai se stessa.»

Isaia pensa di poter essere utile «alla Regione del petrolio», anche perché è di fuori. Il ragionamento è: i lucani son pochi; è facile, così, che gl’interessi personali possano incrociarsi e sostenersi vicendevolmente, a danno di quelli collettivi; tutti si conoscono e il voto di scambio diventa più facile.

«Il sistema è marcio» recita il programma politico di Isaia. «Devono cambiare le strutture, non solo le persone.» C’è molta America, dentro: i cittadini, a maggioranza dei voti, devono poter cacciare il politico che decida contro gl’interessi comuni (lo hanno recentemente fatto in California, con il governatore); e solo loro devono poter sciogliere la giunta regionale, con la metà più uno dei voti, in modo da togliere ai consiglieri il potere di ricatto reciproco sulle maggioranze; politici e loro familiari esclusi dagli appalti pubblici; referendum on line per posta certificata, per proporre e decidere leggi di iniziativa popolare; niente finanziamenti a fondo perduto alle imprese, ma prestiti agevolati; no a nuove trivellazioni e royalties petrolifere al 50 per cento (oggi, sono al 7: le più basse del mondo); iniziative turistiche, industriali (incluso la costruzione di auto elettriche) e informatiche (una Silicon Valley lucana). «La Lucania è stata depredata negli ultimi vent’anni, senza ricavarne alcun beneficio. Nessun leader o partito nazionale può difendere gli interessi di una regione così piccola se, per farlo, rischia di perdere consensi in quelle più grandi.»

E, come Kennedy a Berlino («Io sono berlinese»), Giannetti dice: «Io sono lucano».

Per questo, la regione (che piccola non è, soltanto poco popolata) deve liberarsi di leader e partiti nazionali. Alla stessa conclusione arrivano tanti movimenti e associazioni di cui ormai brulica la regione, «nell’assenza di un nuovo soggetto politico nazionale in grado di catalizzare in un unico movimento una logica progettuale di sviluppo diversa» avverte Ivano Farina. Hanno pure loro l’idea di una lista comune, fuori e contro i partiti, nella quale sono coinvolti (a titolo personale, in alcuni casi) aderenti a Libera, Legambiente, Scout di Potenza, sindacalisti di Cobas, Cgil, Rsu; poi: No Scorie Trisaia, Alba, Karacteria, No Triv, Sos Costa Jonica, Basilicata Aria Pulita, comitati per la difesa degli ospedali minacciati dal nuovo piano sanitario o di difesa dalle centrali a biomasse, liste civiche, come Uno si distrae al bivio (Tricarico), Policoro è tua, Città Plurale, associazione Esposti all’amianto, Sui Generis (università di Basilicata), Forum Acqua pulita e tante altre. «Abbiamo diviso la regione in aree: Potentino, Vulture, Materano, zona Lauria, Metapontino, Melfese. Vediamo se si riesce a governare la regione o a condizionarne la politica in senso ambientalista. Sono anni che ci proviamo. Finora abbiamo agito a difesa del territorio; ora è tempo di muoversi in maniera progettuale all’attacco di chi lo danneggia.»

Mentre l’altro raggruppamento, con Matera Cambia, ha aderito al Movimento 5 stelle. Diverse associazioni mirano a un rinnovamento dall’interno dell’attuale sistema di potere, esponendosi all’accusa di “intelligenza con il nemico”. Pietro De Sarlo, di Pinguini Lucani, nel suo libro Si può fare, parla dei suoi corregionali «sempre pronti a fare progetti (...). Quando alla fine decidiamo di metterli in qualche modo in pratica ci perdiamo nel dettaglio, nella speculazione sempre stupita, da persone innocenti e buone quali siamo, finendo però inevitabilmente ad arrivare in ritardo sulla cronaca e sulla storia». Con gli “intelligentoni” che scuotono il capo, scettici per mestiere e «non guardano le idee, ma la persona che le propone. Se è un lucano allora c’è il terrore che questo emerga e con sufficienza lo si guarda e si dice: “Mah! Dove vuole andare questo!”. Si sa nessuno è profeta in patria e quindi meglio uno straniero» purché non faccia sul serio, nel qual caso, scatta l’altra valvola di riduzione sociale: «Eh, sì! Aspettavamo lo scienziato!».

Anche De Sarlo pensa che lo sviluppo della Lucania, con il corretto uso delle sue risorse sia la chiave di quello dell’intero Paese. E lo dice con una metafora: dello Stivale, la Puglia è il tacco, la Calabria la punta. La Lucania fa da collegamento, e “a tutti è noto come il benessere del piede è funzionale al benessere dell’intera persona”. Peccato che la Lucania non sia collegata con niente. Quindi, la prima cosa da fare sono strade e ferrovie e da qui parte un’analisi economica interessante, ricca di tabelle e dati, per mostrare che proprio Si può fare.

Quello che accomuna le iniziative di gran parte di questi comitati, dei Cancioli volti alla costruzione di buona, attiva comunità, è un sentimento di appartenenza alla propria terra che sfocia nel sentimentalismo («Potessi nascere mille volte, e mille volte potessi scegliere dove nascere, mille e una volta sceglierei di nascere lucano. Della mia terra mi piacciono i colori, gli odori, le persone e i suoni» scrive De Sarlo. Con qualche precisazione sugli odori, ultimamente, lo si può capire). Per rimanere nelle metafore, verrebbe da dire che i lucani hanno teste lucide, cuori grandi, piedi pigri.

Pochi giorni dopo l’arrivo di questo libro nelle librerie, sapremo come sono andate le votazioni regionali. Ma, qualunque sia il risultato, l’idea di una gestione diversa del territorio e delle sue risorse, concepita in loco e non altrove, è ormai diffusa e radicata. Si è solo in cerca del metodo per renderla vincente. Par di capire che il “cosa” è chiaro; il “quando”, non ancora. Ola, l’organizzazione lucana ambientalista, ha deciso di non farsi coinvolgere, proponendosi come nodo di incontro e raccordo di cittadini e comitati, perché mira a «potenziare l’azione delle associazioni e dei cittadini sul territorio», in modo da «favorire la creazione della rete delle coscienze per il cambiamento». Le frasi sono tratte dallo statuto della Ola. E ci sono un po’ troppi richiami a tecniche di geometria delle reti applicata alle organizzazioni umane. «Non è un caso» conferma Bavusi. «Sono sociologo; e un mio collega, che con noi ha collaborato, si occupa proprio di reti sociali.»

Nodo importante della rete regionale è «L’indipendente lucano», un settimanale molto combattivo, diretto da Nino Grilli, i cui giornalisti non percepiscono alcuna retribuzione; in compenso devono difendersi da circa centotrenta querele (finora, nemmeno una condanna). È lì, con Nicola Piccenna, esperto di informatica che la passione civile e un’insopprimibile curiosità hanno trasformato in giornalista, risalgo alle fonti degli intrighi internazionali per lo sfruttamento del petrolio lucano, che da oltre un secolo viene “scoperto”, dimenticato e riscoperto, secondo gl’interessi delle multinazionali, specie inglesi. E ogni tanto produce, oltre ai barili, una bara e un cadavere eccellente. Il primo fu Giacomo Matteotti. La vicenda è ricostruita in una serie di articoli pubblicati nel corso di quasi dieci anni e poi riproposti, in un’edizione speciale, nel 2011. Che l’assassinio del deputato socialista non avesse un movente politico, ma affaristico, lo si sospettava da tempo. E l’affare era il petrolio. Al figlio Matteo, oltre mezzo secolo dopo il delitto, uno sconosciuto avanti con gli anni, Antonio Piron, confida un segreto: nel tubo della stufa di una casa di campagna di Regello, in provincia di Firenze, c’è qualcosa di importante. Si tratta, scoprirà Matteo, di un manoscritto del padre, su carta intestata della Camera dei deputati, un articolo «pubblicato sulla rivista “Echi e Commenti”, il 5 giugno del 1924,» scrive Paolo Tritto «appena cinque giorni prima del rapimento del deputato socialista, nel quale si parla di tangenti riguardo a concessioni per ricerche petrolifere nel sottosuolo italiano». Matteotti, a Londra e a Bruxelles, da ambienti massonici, aveva avuto informazioni su mazzette distribuite dalla Standard Oil (poi spezzata in “sette sorelle”, fra cui la Sinclair Oil). Non c’è da sorprendersi, spiega Tritto, perché l’Italia era, «in quegli anni il secondo paese produttore di petrolio al mondo». Ma davvero? E dove veniva estratto in Italia? A Tramutola, in Lucania.

Strano, no? E ancora più strano che l’allora nostro ministro all’Economia autorizzi la Stardard Oil a perforare dove vuole, in tutta Italia. Anche perché «di queste ricerche non c’era alcun bisogno, in quanto la mappa dei giacimenti petroliferi italiani era già arcinota». Addirittura, il governo italiano, in cambio di nulla, si impegna a non sfruttare i nostri giacimenti, nemmeno nelle colonie (in Libia abbiamo mandato i contadini a zappare il deserto). Per il colmo delle stranezze e delle coincidenze, proprio allora, il giacimento di Tramutola si esaurisce. Per essere più precisi: lo si dichiara esaurito.

Ce n’è di che farsi domande, eh? «Da quel momento,» conclude la ricostruzione di Tritto «come aveva intuito Matteotti, era cominciato ad arrivare nelle tasche di vari esponenti fascisti tanto di quel denaro che il loro potere divenne enorme.» Mirella Serra, su «La Stampa» di Torino riprenderà di recente questi temi, con gli studi degli storici Emilio Gentile («Matteotti era deciso a denunciare tutta la corruzione e la commistione tra affarismo e politica che circondava il governo Mussolini»); e Mauro Canali («...la Sinclair Oil aveva cominciato a far pressione su alcuni esponenti del governo fascista chiedendo l’esclusiva per la ricerca del petrolio. La cosa interessante è che Mussolini segue personalmente questa trattativa. Tutto lascia pensare che parte di questi soldi finissero nelle casse del Popolo d’Italia”»). Diventato Benito capo del governo, «la direzione del “Popolo d’Italia” era passata ad Arnaldo Mussolini, l’affarista di famiglia».

Matteotti era in grado di documentare il passaggio di denaro dalla Sinclair ai corrotti d’Italia, «come dimostra un articolo su “English Life” che uscirà postumo». Nella riunione dell’11 giugno, alla Camera, avrebbe divulgato tutto. Il 10 viene rapito. Il suo corpo sarà trovato un paio di settimane dopo. Chi uccide il parlamentare socialista? Una squadraccia guidata da Amerigo Dumini, il cui «collegamento diretto con ambienti inglesi, sia dell’intelligence che diplomatici» è stato dimostrato da Giovanni Fasanella, giornalista (oltretutto lucano) con la passione della ricerca storica, ne Il golpe inglese, il libro scritto con Mario José Cereghino. E quando gli inglesi si impadronirono dell’archivio di Dumini, a Derna, in Libia, Churchill «diede ordine di insabbiare tutto», perché quelle carte avrebbero danneggiato gli interessi britannici, non solo Mussolini.

Che del delitto Matteotti si assunse, in Parlamento, la responsabilità politica e morale. Il valore di quella copertura a Dumini va al di là di quanto si era inizialmente pensato, perché fra le carte del sicario c’era la prova «dei rapporti che lo stesso Mussolini aveva avuto con il governo di Londra e, in modo particolare, con gli ambienti conservatori» racconta Fasanella a «L’indipendente lucano», riassumendo il suo libro. «Mussolini almeno dal 1917 era un agente dei servizi inglesi pagato cento sterline alla settimana.» Fra quelle carte c’era, infine «La prova del coinvolgimento inglese nella morte di Matteotti». Che matura, come aveva già mostrato lo storico Mauro Canali, «all’interno di una guerra combattuta in territorio italiano tra Stati Uniti e Gran Bretagna».

Quel petrolio italiano che a Tramutola, Lucania, veniva estratto già nel 1902, deve valere proprio tanto, non solo come affare, ma anche come arma politica, perché i britannici vogliono controllare i flussi di consumo di oro nero, per l’Italia, in modo da condizionarne l’economia secondo i propri interessi. E quanto l’azione di Mussolini li assecondasse e quella di Matteotti potesse danneggiarli, è provato dal fatto che il duce, ormai capo del governo, «spazzò via dal dicastero dell’Agricoltura il ministro De’ Capitani e Arnaldo Petretti, capo della direzione generale per i combustibili, entrambi forti sostenitori della costituzione di un Ente petrolifero nazionale che avrebbe permesso all’Italia di sottrarsi alla dipendenza del monopolio Standar Oil-Sinclair. (...). In questo quadro l’intervento di Matteotti in Parlamento (...) rappresentava una carica di dinamite con la miccia già accesa». La ricostruzione è di Franco Genola, direttore di Storia in Network, riportata da Piero Araldo, in una sintetica analisi delle ragioni per cui «la ricchezza prodotta dallo sfruttamento del petrolio italiano non ha mai avuto ricadute certe ed evidenti sull’economia nazionale».

Insomma, l’Italia non ci ha guadagnato, ma alcuni italiani sì, e pure tanto. Incluso il re. E questa potrebbe essere stata, alla fine, la ragione decisiva per impedire a Matteotti non solo di parlare, ma di continuare a vivere. Lo rivela il figlio del deputato, Matteo, nel 1985, a «Storia Illustrata»: nel 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta aveva raccontato a un gruppo di ufficiali che Matteotti sapeva dell’esistenza di due scritture private “in un certo ufficio” della Sinclair Oil. «Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel “register” degli azionisti, senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a mantenere il più possibile ignorati (“covered”) i giacimenti del Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico (...) in modo da consentire alla Sinclair anche la vendita del proprio petrolio all’Italia.» Al punto, che, con lodevole tempismo, i pozzi lucani di Tramutola si rinsecchiscono e le ricerche di un petrolio che tutti sanno dov’è sono cedute, per niente, a una multinazionale straniera.

Secondo questa ricostruzione, fu il re, d’accordo con Emilio De Bono, capo della polizia (che con lui e altri dirigenti fascisti sarebbero stati a libro-paga della Sinclair Oil), a decidere che la lezione da dare a Matteotti si trasformasse in esecuzione (le condizioni di salute del deputato, tubercolotico, non avrebbero reso difficile il compito), per sottrargli la borsa con i documenti. I quali ricompaiono, poi, nelle mani di troppa gente: De Bono, Mussolini, i partigiani che catturano il duce, la Prefettura di Milano, che li trasferisce all’Archivio di Stato (ci sono pure le foto dei verbali di consegna). Ma lo storico Renzo De Felice li cercherà inutilmente. «Ipotizzando che tali carte contenessero elementi di condanna nei confronti di Mussolini, perché non sono mai saltate fuori nel dopoguerra?» si chiede, giustamente, Pietro Araldo, nel ricostruire la vicenda.

«Quando “L’indipendente lucano” pubblicò la ricostruzione del delitto Matteotti, ancorandola alla incomprensibile rinuncia allo sfruttamento del nostro petrolio, arrivò in redazione una telefonata: “Chi ve l’ha detto?” fu la domanda» racconta Piccenna. «Noi già pensavamo a un’altra querela. È vero che ci siamo abituati; è vero che non ne abbiamo persa una; ma è vero anche che ti sfiancano! Così, per riflesso condizionato, rispondemmo: “Perché, c’è qualcosa di falso?”. “No, no. Anzi; è tutto vero” rispose lui.»

E chi era lui? «Eh... diciamo uno sicuramente molto, ma molto informato sui fatti. Tant’è che gli chiedemmo di darci un’intervista. “Ma voi siete matti!” replicò. Gli domandammo di poter almeno riferire della telefonata e che una persona con tale conoscenza della vicenda aveva confermato la nostra ricostruzione. “Non ci penso nemmeno” ci liquidò.» Nicola mi ha detto, poi, il nome di chi telefonò: peccato doverlo tacere. Diciamo che definirlo “molto informato sui fatti” è il minimo.

E perché, nonostante la fame di energia, l’Italia non ha mai sfruttato il petrolio lucano, al punto che, ogni tanto, lo si doveva “riscoprire”, pur sapendo benissimo e da sempre dov’è (ci sono luoghi in cui addirittura affiora in superficie)? Solo nel 1939, nell’imminenza della guerra e costretta dall’embargo internazionale a cui è stata sottoposta l’Italia, l’Agip scava 47 pozzi in Lucania. È esagerato pensare che mentre gli interlocutori italiani di quegli antichi patti cambiano, la sostanza dei patti resti, suggellata da altri? (Quell’accordo garantiva l’esclusiva per mezzo secolo; quindi fino agli anni Settanta inoltrati.) Ed è troppo malizioso chiedersi come mai i furbi italiani abbiano il record del peggiore affare petrolifero del mondo, con le royalties (le percentuali) più basse del pianeta (4 per cento in Sicilia, 7 in Lucania: da un ventesimo a meno di un decimo di quello che si riconosce a Paesi del Terzo Mondo)? Il carbonaio ubriaco che si risveglia marchese del Grillo non ci andrebbe delicato e, come per il vino, che apprende essere frutto delle sue vigne, chiederebbe al suo massaro petrolifero: «Dici che er petrolio è mio? Bono... E dimme: oltre che a casa tua, ’ste royalties, ’ndo stanno?». Ma un conto è il vino, uno il petrolio, di cui i carbonai non capiscono niente, se non che gli ha distrutto il business, da quando la gente, invece della carbonella per il braciere, per scaldarsi compra gasolio e metano per l’impianto centralizzato o autonomo.

Ma, nel dopoguerra, qualcosa cambia: Enrico Mattei decide che l’Italia deve avere la sua società petrolifera, stabilire i suoi bisogni ed essere in grado di soddisfarli (se il rubinetto della tua fonte di energia è nelle mani di un altro, è quell’altro a regolare le tue possibilità di sviluppo, di futuro). È una sfida che non richiede solo genio, ma anche tanto coraggio. Mattei, cui non difettano né l’uno né l’altro, salta le sette sorelle, con particolare irritazione degli inglesi (che ritengono l’Italia una sorta di proprio protettorato energetico), tratta direttamente con i Paesi produttori e offre percentuali maggiorate, rispetto a quelle delle altre compagnie (75, invece che 50). A rendere ancora più intollerabile la cosa ai petrolieri di sua maestà, è il fatto che questo avviene soprattutto nelle aree del Nord Africa e del Medio Oriente, in cui la presenza britannica è dominante.

Non solo: «Mattei era al corrente dell’entità dei giacimenti lucani e, nonostante quei vecchi patti non lo consentissero, era intenzionato a sfruttarli a beneficio del Paese» dice Nicola Piccenna. Per gli inglesi, Mattei era diventato «un’escrescenza», ormai, riferisce Fasanella «secondo una definizione ricorrente nei documenti». In quelli «del ministero dell’Energia viene definito una “verruca” da estirpare in ogni modo». E quando tutti i tentativi di farlo ragionare falliscono, il governo britannico «decide di passare la pratica all’intelligence». Sei mesi dopo, Mattei muore, «in un incidente aereo provocato da un sabotaggio». È il 1962.

Per la Gran Bretagna, però, il vantaggio è quasi zero, perché Aldo Moro diviene «il continuatore della politica mediterranea, terzomondista e petrolifera di Enrico Mattei»; al punto che l’Eni sbarca persino in Iraq e in Libia, a fine anni Sessanta. Proprio mentre si riscopre (ma quante volte?...) il petrolio lucano. La stima del giacimento è pazzesca: 15 miliardi di barili! Moro è leader di una corrente di minoranza nella Dc, il partito che governa l’Italia, ma per la sua autorevolezza, può imporre la propria visione politica. Sino all’idea del compromesso storico con il Pci di Enrico Berlinguer (per il Vaticano «la crescita dell’influenza dell’Eni e quindi dell’Italia nel Terzo mondo», apriva «possibilità per la Chiesa cattolica di diffondersi in quell’area»). È allora che nasce il progetto del “Golpe inglese”, di cui Fasanella e Cereghino hanno ritrovato documenti inediti: per la Gran Bretagna, l’avessero vinta il compromesso storico e Aldo Moro, sarebbero a rischio non solo i suoi interessi petroliferi, ma addirittura gli equilibri mondiali stabiliti fra Est e Ovest a Yalta, a fine della Seconda guerra mondiale. «Quindi,» riporto la sintesi che lo stesso Fasanella fa del suo libro «per mesi e mesi, gli inglesi prepararono un colpo di stato militare da attuare in Italia, nel 1976.»

Un anno prima è stato ammazzato Pier Paolo Pasolini. Alla versione ufficiale su ragioni e modi del delitto, piena di contraddizioni, si crede sempre meno, ormai; mentre guadagna terreno l’ipotesi di omicidio legato al nuovo romanzo della voce più critica e libera d’Italia di quegli anni, Petrolio, i cui protagonisti, pur con altri nomi, son facilmente riconoscibili: Mattei e Cefis (suo successore, sul cui ruolo restano molti interrogativi). A uccidere Pasolini sarebbe stato un gruppo di fascisti; mentre la bomba sull’aereo di Mattei l’avrebbero messa uomini di Cosa nostra. Sulla morte del poeta e scrittore grava ancora il mistero del capitolo mancante del suo libro. Che sarebbe adesso, a quanto dice lui stesso, nelle mani di Marcello Dell’Utri condannato per mafia (sentenza non definitiva), braccio destro di Berlusconi e fondatore di Forza Italia. Dell’Utri, scrive in Porto franco, l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, Francesco Forgione, ha interessi nel campo degli idrocarburi e, con il superlatitante Aldo Miccichè, poi arrestato dall’antimafia di Reggio Calabria, acquistava gas e petrolio “per conto di società legate alla Gazprom” russa.

Il progetto del golpe in Italia è preparato da «un comitato ristretto del ministero degli Esteri e di quello della Difesa britannici» (vengono reclutati l’ex comandante fascista Valerio Borghese e l’ex partigiano Edgardo Sogno). Ed è poi «sottoposto al giudizio degli Stati Uniti, della Francia e della Germania». «La Francia si dimostra entusiasta», gli inglesi, però, «davanti alle resistenze americane e tedesche e soprattutto facendo un calcolo realistico dei rischi, abbandonano il progetto, ma optano per una subordinata.» Ovvero: l’«Appoggio a una diversa azione sovversiva», rivela il titolo di un memorandum «secretato a francesi, tedeschi e americani» e che «non esiste più nella sua versione originale negli archivi britannici di Kew Gardens, ma è custodito in quelli supersegreti della Marina». Fasanella conclude: «Sarebbe bello che Londra lo mettesse a disposizione dell’opinione pubblica italiana»; forse sapremmo, infine, per cosa è morto Aldo Moro, nel 1978.

Il dossier de «L’indipendente lucano» (il giornale ha meritato una citazione in prima pagina del «Washington Post») e il libro di Fasanella e Cereghino sul Golpe inglese, fanno intendere la vastità di interessi politici ed economici (ma, a quel livello, economia e politica sono una cosa sola) in cui, per il suo petrolio, si trova coinvolta la piccola Lucania.

Che sia o no in questa regione nascosta la chiave di alcuni dei più oscuri misteri d’Italia, ai primi anni Ottanta (non ancora svanito l’odore d’incenso della messa funebre per Aldo Moro, si direbbe), il mondo apprende della scoperta (di nuovo!), in Lucania, del più grande giacimento petrolifero del continente europeo. E indovinate dove? Ma non s’erano rinsecchiti, quei pozzi? Saranno state le nuove tecnologie, messe a punto nel frattempo, a svelare che non erano aridi, anzi. La cosa fa poca impressione, in Lucania, loro lo sanno che fra Tramutola e Grumento Nova, per dire, ci sono posti in cui il petrolio non devi cercarlo, ma scansarlo, sennò ci finisci dentro con le scarpe. E chi sfrutterà il giacimento, insieme all’Eni? Gli inglesi (ma poi arriverà tutto il mondo).

Nicola Piccenna, però, a proposito della scoperta degli anni Ottanta, cita un rapporto dell’Agip, in cui si parla del petrolio lucano e lo si quantifica in 15 miliardi di barili (ogni barile, 160 litri). Una quantità enorme: ai prezzi attuali, poco meno di un migliaio di miliardi di euro; l’equivalente, ai livelli di consumo del 2010 (1,5 milioni di barili al giorno, poco più di 500 milioni all’anno) di quasi trent’anni di fabbisogno nazionale! Ma ci sono almeno un altro paio di cose sorprendenti: «Quel rapporto è stato pubblicato nei primi anni Sessanta, dunque precede di due decenni la dichiarata scoperta del giacimento; gli studi per compilarlo, considerati i tempi necessari, dovrebbero risalire, nella peggiore delle ipotesi, agli ultimi anni della gestione di Enrico Mattei, o a molto prima» dice Piccenna. «Quando l’Eni, però, nel 1998, con più moderne tecnologie, torna a stimarne la capacità, i 15 miliardi di barili si riducono a 900 milioni. Strano, perché, di solito, avviene il contrario; anzi, è sempre così, tranne qui in Lucania...»

Per capirci meglio: se fai le radiografie alla ricerca di un tumore e le macchine hanno la capacità di “vedere” di trent’anni fa, il tumore lo scopri soltanto se ha già una certa dimensione; se usi le più sofisticate possibilità di indagine di oggi, riesci a individuare persino la singola cellula cancerosa. Per questo, quando vai a stimare l’entità di un giacimento petrolifero, con i mezzi più moderni, vedi pure quello che prima sfuggiva. Che fa, a questo punto, uno sospettoso? Pensa: se devo estrarre petrolio e pagare a qualcuno le percentuali che gli spettano, un conto è farlo su 900 milioni di barili e un conto su 15 miliardi. Insomma... convenire, conviene. Ma, pur ammettendo che un’idea tale possa aver sfiorato la coscienza di enti e persone insospettabili (la coscienza degli enti? E com’è fatta? Di sicuro hanno degl’interessi; a volte un’etica; la coscienza, in effetti, non so...), come diavolo fai a nascondere circa duemila miliardi di litri di petrolio!

«Ma sull’oleodotto che porta fuori regione il nostro petrolio non c’è il contatore!», dice Piccenna (lui parla di miliardi e io penso a cosa mi succederebbe se togliessi quello che misura il gas che consumiamo a casa; o l’acqua). «Dopo le insistenze del nostro giornale, sull’argomento, il presidente della Regione, Vito De Filippo, scrisse all’Eni, per chiedere quanto petrolio venisse emunto. La risposta fu un plico di una ventina di pagine, in cui si spiegava che la quantità di petrolio varia con la temperatura, la pressione, il clima, il tutto combinato in formule che erano accluse... Insomma, derivando il flusso da tante variabili, la conclusione era: ogni tre mesi comunicheremo quanto ne abbiamo tirato su. Il presidente replicò che non aveva capito (e voglio vedere chi avrebbe potuto dargli torto), ma non dubitava della correttezza dell’Eni.»

Nemmeno io ci vedo qualcosa di male. Così, ho fatto la spesa al supermercato e sono passato dalla cassa, senza pagare. «Scusi, le dispiace farci vedere cosa ha preso?» Allora ho spiegato: «A casa siamo in due, ma quasi sempre tre o quattro, cinque se la figlia maggiore arriva con tutta la famiglia, sei se ci raggiunge anche la figlia che vive a Milano; sette se passa Mauro, nostro figlioccio da quando andava alle elementari. Calcolando il consumo medio, ovviamente influenzato dalla temperatura (d’estate si beve più acqua, si consumano più frutta e ortaggi) e la pressione (mi si è un po’ alzata, ultimamente, devo andarci piano con il vino), avrei buttato giù una serie di formule e diagrammi che vi mostro, per maggior chiarezza. Quindi, adesso me ne vado e ogni tre mesi vi dico io quanto vi devo». Ci trovate qualcosa che non va? Oh, mi hanno cacciato, impedendomi di portar via la spesa! Come può andar avanti ’sto Paese! E in Lucania c’è chi ragiona come quelli del supermercato. L’Italia morirà di sospetti e sfiducia.

«Noi commentammo: vabbe’, ma perché non metterci un contatore?» dice Piccenna. «Ce ne sono alcuni, a effetto doppler, che misurano i flussi senza nemmeno dover intervenire sui tubi; non costano nemmeno tanto: sui quindicimila euro. Ma nessuno ha avuto curiosità di controllare: né Guardia di Finanza, né magistratura o servizi segreti...» (ora che ci penso: è l’Eni che rifornisce di gas casa mia. Se anch’io... Già, ma io non sono l’Eni, quindi garantisco all’Eni e a qualsiasi altra competente autorità che non toglierò il contatore del gas. Perché, si diceva a scuola: dura lex, sed permaflex: la legge è dura, per i piccoli; ma un materasso, per i grandi...)

È comprensibile l’attenzione di un giornale lucano alle questioni del petrolio lucano. Ma non si tratta solo di questo: le associazioni, i comitati territoriali fanno essi stessi un gran lavoro di raccolta di dati e li diffondono direttamente, tramite i loro blog, o attraverso «L’indipendente», di cui alcuni portavoce di quei gruppi sono pure collaboratori. C’è ancora un dettaglio che alimenta le domande sulla entità delle estrazioni: «Gli streamgas» spiega Piccenna. «Sono quelli disciolti nel petrolio, e che vanno tolti. Sono altamente infiammabili ed esplosivi, intrasportabili: vanno usati sul posto o bruciati (le torce delle torri di perforazione). All’Eni era arrivata la proposta di un investitore che voleva acquistarli, per alimentare una centrale elettrica. Peccato non abbia ricevuto risposta, perché l’Eni avrebbe guadagnato bei soldi da gas che brucia inutilmente e noi avremmo saputo quanto petrolio viene estratto, perché conoscendo la quantità di streamgas, è nota quella del petrolio da cui sono tolti e di cui costituiscono una percentuale fissa. Abbiamo scritto al direttore generale del Dipartimento per le risorse minerarie, competente anche per il petrolio, per chiedere: che controlli fate? Non ci ha risposto. Abbiamo segnalato a lui, alla Corte dei Conti, alla Procura di Potenza, la strana vendita, per diecimila euro nominali, di una società con diritti di sfruttamento di giacimenti per un paio di miliardi di euro. Nessuna reazione. Ma già l’accordo per poter estrarre il nostro petrolio credo andrebbe invalidato, perché a firmarlo dovevano essere il rappresentante dello Stato, padrone del sottosuolo, e uno della Regione, padrona del suolo. Invece lo ha fatto l’Eni (per conto proprio e dell’inglese Enterprise Oil), che non è lo Stato, né ha una delega dallo Stato.»

Comincio a capire perché beccano tante querele. Invece sbaglio: «Sul petrolio, abbiamo scritto cose molto forti (e quelle che ho riferito ne sono un assaggio; N.d.A.), ma non ci hanno mai fatto querele». Mentre l’onorevole Buccico, nell’anno più rovente, ne avrebbe presentate in media una ogni dieci giorni. Piccenna scrisse un articolo, per invitare il parlamentare a non trincerarsi dietro l’immunità, ma ad accettare un confronto alla pari, come (per fare un paragone nobile) gli antichi cavalieri: un cavallo, una lancia e via. E si ritrovò accusato di minacce con uso di armi. «Vennero a perquisirmi la casa, il computer; forse in cerca di tracce della lancia, o del cavallo.»

I diversi interlocutori ti spiegano che il potere politico, in Lucania (e giù l’elenco dei nomi) viene tutto dall’area del petrolio: sono loro che comandano in Regione, rappresentano i loro partiti in sede nazionale. «Riesci a immaginare un parlamentare lucano non gradito all’Eni?» ti chiedono. Dal momento che nulla è perfetto, qualcuno ci deve essere, magari non conta niente, visti i risultati... ma prima che possa obiettare, aggiungono: «Pd, Pdl... comunque Eni». Saranno le larghe intese? «Fra loro si scontrano; con l’Eni, no.» Ho parlato con molti, qui; e questo dialogo non saprei a chi attribuirlo, perché, parola più, parola meno, me l’ha fatto quasi identico, più di uno. Queste sono sintesi, e le sintesi, più sono strette, più nascondono la complessità delle cose; per cui bisogna considerare il diverso grado di coinvolgimento, in questa trama di potere, di persone, partiti, enti citati. Ma considerare anche che se viene percepita così, le ragioni devono essere forti e fondate. «In Lucania, spesso, il controllore coincide con il controllato: l’Eni» dice la professoressa Colella. «L’Eni in Val d’Agri estrae, analizza le acque di scarto petrolifero, attribuisce loro il codice rifiuti, classificandole come non pericolose, e le invia per la depurazione a Tecnoparco Valbasento, a Pisticci Scalo, dove, però, i cittadini si lamentano dei miasmi provenienti da tali acque, e dovuti ad anidride solforosa.»

E il potere viene esercitato nell’unico modo che il potere conosce: brutalmente. La vicenda di Giuseppe Di Bello, per esempio: era tenente della Polizia provinciale e ne dirigeva, dal 2003, il più vasto distretto, quello che comprende il territorio di ventuno Comuni, incluso Potenza. È ambientalista per passione, prima che per professione. Dal dicembre 2009, da alcuni pescatori e da associazioni territoriali gli arrivano, sempre più frequenti e allarmate, segnalazioni sulla qualità dell’acqua del lago artificiale Pertusillo, che dà da bere a mezza Puglia e a un po’ di Lucania: l’acqua è cambiata, dicono; ha un odore cattivo; galleggiano dei pesci morti. «È l’agenzia regionale per la protezione dell’Ambiente, l’Arpab, che deve fare i controlli, certificare la qualità dell’acqua», spiega Di Bello. «Il Pertusillo era fuori dal mio distretto, ma per le insistenze, presi le ferie, le mie attrezzature, la mia auto e andai a fare dei prelievi. L’acqua puzzava e le pietre del lago avevano una patina bianca, che è data dallo zolfo. E a monte del lago c’è il Centro Oli di Viggiano».

Sono andato lì. Se vogliamo le comodità del petrolio, questo è inevitabile; ma non son sicuro che sia inevitabile farlo così. Cos’è questo grande impianto che si annuncia con la puzza? «Nel petrolio ci sono componenti che vanno tolte, in particolare zolfo, prima di immetterlo in oleodotti e inviarlo alle raffinerie. Questo si fa al Centro Oli. Ma la desolforazione del petrolio produce scarti molto tossici che vanno messi da qualche parte» spiega Antonio Bavusi. «Uno dei sistemi è buttarli nei pozzi petroliferi ormai esauriti.» Non badate alla mia domanda, tipica di un incompetente («Cioè, tiri fuori il petrolio e ci metti monnezza?») e alla educata risposta del sociologo («È un modo per dire la cosa»), perché la faccenda è un po’ più complicata e sporca di come appare: «Il petrolio lucano è disciolto nelle rocce, sino a profondità di 3-4.000 metri. Per estrarlo, si usano acidi molto forti immessi a pressioni altissime che strizzano le rocce, come fossero spugne, le sciolgono. Quindi, quel che tiri su contiene tutto questo; che ritorna nei pozzi esauriti. Il sistema di estrazione funziona se il pozzo viene mantenuto costantemente in pressione. Se salta la valvola regolatrice, il petrolio e l’altra porcheria vengono sparati in aria come una nube e uccidono l’area su cui ricadono. È successo con un bosco». E meno male che è successo nel bosco.

Quei veleni scendono nella terra per migliaia di metri, attraversano strati e strati di rocce; fra le quali, spiegano gli ambientalisti, stillano, scorrono, si raccolgono le acque che danno vita alla falda, alle sorgenti che poi confluiscono nei fiumi e nei laghi lucani. Mimmo Genchi, di Matera Cambia, spiega che i pozzi petroliferi, una volta giunti alla quota di estrazione, qualche chilometro sotto, proseguono in orizzontale. Quindi, quel che butti giù, dopo, si deposita come in un lago sotterraneo di veleni.

Bavusi dispiega un’altra mappa: «Questa è la sponda del Pertusillo su cui siamo noi, ora; il pozzo in cui gli scarti di depurazione sono immessi attualmente è qui»: è un punto a monte, non lontano dal Centro Oli. «Questo pozzo è ormai pieno. Hanno chiesto di poterne usare un altro, qui (dalla parte opposta del Centro Oli, più o meno alla stessa quota; N.d.A.). Ma non gli è stato concesso (è una faccenda un po’ complicata, la racconto fra poco; N.d.A.). Dove finiscono gli scarti tossici di trivellazione petrolifera?» chiede Bavusi, mentre il dito scorre dal pozzo, in alto, al lago, in basso.

Ed è lì che li ha trovati Di Bello. Li ha fatti analizzare; e sono stati i radicali a pagare le prime spese di laboratorio. Di Bello si rivolse alla professoressa Colella, che quando lesse le analisi, notò subito la presenza di bario, un metallo significativo. «Metalli pesanti ce n’erano tanti: bario, manganese, vanadio, boro, nichel, piombo, cadmio, zinco, alluminio, ferro... Ma il bario è rivelatore, perché» spiega la geologa «viene usato nei fanghi di trivellazione petrolifera. Così consigliai analisi specifiche, mirate a cercare gli idrocarburi nel lago.» Ne sanno una più del diavolo, ’ste donne: oh, c’erano davvero gli idrocarburi, nell’acqua potabile (o quel che è...). «E la massima concentrazione, sino a 646 volte oltre il limite fissato dall’Istituto superiore di Sanità, non era allo sbocco dell’Agri nel lago, ma alla confluenza di due piccoli fossi che drenano una piccolissima area, che però ospita alcuni pozzi petroliferi e quello di reiniezione Costa Molina 2D» in cui si sparano i residui tossici. Quello che mi mostrava Bavusi.

Ma appena Di Bello rende noti i risultati delle analisi, la sua vita viene demolita: dall’assessore regionale all’Ambiente (che ha fatto carriera, è divenuto presidente del Consiglio regionale) è stato accusato di procurato allarme. Di Bello si è ritrovato sospeso dal servizio per due mesi, senza stipendio (ha quattro figli); processato e condannato, in primo grado a due mesi. Oggi fa il guardiano del museo provinciale. Ed è diventato un eroe, un punto di riferimento, per migliaia di giovani: la formidabile pagina “Briganti”, dei dissidenti meridionali e mediterranei, su Facebook (più di 70.000 seguaci, già nell’autunno 2013) ne ha fatto uno dei suoi campioni; dal suo esempio, sorgono un numero imprecisabile di comitati, associazioni ambientaliste, quasi soltanto a opera di ragazzi, che si danno il compito di monitorare lo stato di salute delle acque del proprio paese. E lo chiamano, per chiedergli consigli, aiuto.

Dobbiamo rinviare l’appuntamento di un giorno, quando vado a cercarlo a Potenza, perché ha promesso a dei giovani “briganti” di Anzi, di accompagnarli per i campionamenti delle acque del lago di Camastra (che dà da bere a tutta Potenza, «ma ai potentini non sembra interessi molto cosa bevono»); della sorgente del Cupolo, nel bosco, che ha acque ghiacciate, provenienti, quindi, da grande profondità e pure dell’acqua della fontana del paese, per scoprire se quello che vi si trova arriva solo dalla sorgente o anche dall’invaso artificiale. «Per finanziare queste analisi, i ragazzi si tassano, organizzano cene sociali.» Per dirlo diversamente: si sostituiscono, a proprie spese, all’ente pubblico, per fare quello che l’ente avrebbe già dovuto fare; o per controllarlo, se lo fa, perché non si fidano. «Tanto che i campioni li mandano a laboratori privati fuori regione», dice Di Bello. Be’, ma non basterebbe ricorrere a quelli privati qui in Lucania? Dall’espressione che sostituisce la risposta, capisco che ho una particolare abilità nel fare domande un po’ stupide, perché non mi ero reso conto di quanto, una parte della comunità, qui, ritiene capace l’ente pubblico di condizionare l’ambiente, farselo complice.

È interessante la velocità con cui questi comitati si formano e si raccordano fra loro. Ma lo è ancora di più la ragione: la sfiducia nelle istituzioni, il desiderio, proprio la necessità, di ricreare una rete di cui fidarsi, con cui poter interagire, in cui riconoscersi. Di Bello diviene, così, un riferimento non solo morale: ha agito per il bene comune, senza interesse personale e ne ha pagato un prezzo alto; mentre troppi pensano che chi ha il dovere istituzionale di fare almeno altrettanto, non lo fa; o non risulta credibile se lo fa, né quando comunica i risultati. Non è nemmeno importante che sia vero o no quel che si pensa dell’istituzione, il fatto su cui riflettere è aver meritato tale diffusa (disi) stima. Di Bello cita, a mo’ di esempio, una associazione ambientalista di gran nome, che riceve contributi dalla Regione, «e non ha detto una parola su quel che accade al Pertusillo e ad altri siti». La violenza della reazione contro di lui conferma, agli occhi di molti, che se il tenente è “dalla nostra parte”, chi lo colpisce è contro di noi (in migliaia firmarono la richiesta di annullamento della sospensione dal servizio comminatagli; ci fu un corteo di solidarietà sin sotto la Prefettura, maggior rappresentazione del potere pubblico).

Più l’istituzione mostra il volto autoritario, per difendere un suo diritto (vero o presunto) a tener segreto quel che andrebbe divulgato, meno appare autorevole, credibile. Per questo, chi più avverte il dovere della partecipazione alla cosa pubblica, tende a rifondarla, dal basso, se si sente tradito, escluso. E intorno a esperienze forti, come “ScanZiamo le scorie”, o a persone credibili, e sono tante, in Lucania nasce una comunità, per la tutela di interessi comuni, non solo acqua, salute, ambiente, ma dignità, rispetto. Esattamente come a Taranto per l’Ilva, nella Terra dei Fuochi per le discariche, in Campania, altrove per il pizzo. Di Bello, così, diviene un hub, il perno di una rete sociale in formazione, con cui molti si raccordano e, attraverso il quale i molti si raccordano fra loro. Non solo per l’ammirazione che Di Bello suscita fra i ragazzi dei movimenti, ma per la sua competenza in campo ambientale, perché solo raramente i comitati sanno come comportarsi, per documentare i danni al territorio. Imparano da lui, eletto a loro guida (si mette in ferie, per accompagnarli), poi si scambiano le esperienze. A seguito della sua vicenda, «sono sorte una ventina di associazioni, almeno, per citare solo le più attive; che hanno fatto fare, a proprie spese, centinaia di analisi» riferisce. Lui stesso ne ha fondato una mezza dozzina in Lucania, fra cui l’Ehpa (l’equivalente europea di quella statunitense), gli Amici della Terra, Tuteliamo l’Alto Basento e con Pietro De Angelis, Mo’ Basta! («Il nome ci è stato rubato da una corrente nazionale del Pd.») Il grado di partecipazione popolare alle iniziative di tali gruppi, spesso animati da pochissime persone, talvolta solo 2-3, quando va bene una decina, si può intuire dal fatto che ne sono arrivate 1.000-1.500, quando sono state indette manifestazioni (contro l’impianto per smaltire rifiuti tossici, la Fenice; o il convegno di geologi ritenuti pro-petrolio). Che sono tante, nella regione più spopolata d’Italia (57 abitanti per chilometro quadrato. Solo in Val d’Aosta ce ne sono meno, per l’ovvia ragione che è difficile costruire città fra i ghiacciai delle cime delle montagne più alte d’Europa).

Da questo fenomeno sociale, le istituzioni restano quasi sempre fuori e nemiche, perché viste come una delle fonti del problema, invece che strumento della soluzione. «Ma ci sono, da parte dei partiti al potere, tentativi di infiltrare il movimento. Ogni tanto, arrivano associazioni che dicono di condividere le finalità, ma che “La difesa dell’ambiente non c’entra niente con la politica”. E se non è politica la gestione del territorio e della salute, cos’è politica?» Istruttiva la vicenda di Matera Cambia, narrata da Mimmo Genchi: «Siamo nati nel 2009, come circolo Gino Giugni (il padre dello Statuto dei lavoratori; N.d.A.), con l’Italia dei Valori, poi...» poi sembra che, a proposito dei valori, non s’erano capiti. «Quando arrivò a rappresentarci una dell’Udeur di Mastella, noi ce ne andammo. E fondammo Matera Cambia, per condurre battaglie politiche e ambientali, ma fuori dai partiti, ai quali, ormai, non crediamo più.» Alle elezioni politiche, si sono schierati con il Movimento 5 Stelle, che ha presentato una proposta di legge nazionale per bloccare ogni richiesta di prospezione petrolifera, incluso quelle già approvate. Anche altri, come lo stesso tenente “stenentato” per eccesso di impegno ambientalista, hanno scelto il movimento di Beppe Grillo, per tentare di far politica senza e contro i partiti di centrodestra e di centrosinistra che vengono ormai detti “del petrolio”. Altri ancora, come raccontano Ivano Farina, o Isaia Giannetti, mirano alla formazione di entità politiche del tutto nuove e territoriali. Isaia intende «qualcosa tipo l’Union Valdotaine». Genchi parla della conflittualità fra le associazioni, della «scarsa attitudine alla cooperazione» e di chi le usa come trampolino per personali ambizioni. Poi, però, racconta di quanto avviene con l’Italcementi, il cui stabilimento sorge a meno di tre chilometri da Matera, che ha chiesto di poter bruciare 60.000 tonnellate di combustibili solidi. Nonostante le rassicurazioni e i vincoli derivanti da una convenzione fra azienda, Comune e Parco della Murgia Materana, gli ambientalisti temono che ciò preluda alla trasformazione dell’impianto in inceneritore di rifiuti. Già adesso, sostengono, senza poterlo dimostrare, che l’aumento dei casi di cancro sia dovuto a quello stabilimento («il registro tumori c’è, ma i dati non vengono resi noti»). Su questo, almeno una decina di associazioni, e proprio fra le più attive, condividono con Matera Cambia, le iniziative di contrasto. Ancora una volta, quando si passa dal discutere al fare, le cose cambiano e ci si accorge che se sulle idee ci si può dividere, sui progetti è più facile unirsi.

Il 64 per cento dell’acqua del Pertusillo (155 milioni di metri cubi all’anno) se la bevono baresi, leccesi e brindisini; il restante, i lucani, oltre a usarla per irrigare. Quando il tenente Di Bello ha le prove di cosa bevono in Puglia e Lucania, va alla Procura della Repubblica e consegna tutto ai magistrati; lo rende di dominio pubblico. «Oggi, naturalmente, me ne guarderei bene» commenta, a proposito del rapporto fra cittadini e istituzioni. Senza giudizio né condanna, viene preventivamente sospeso dal servizio. «Mentre, nella mia stessa amministrazione provinciale restano al loro posto, non sospesi preventivamente e nemmeno dopo, né trasferiti ad altro ufficio, dirigenti accusati e poi posti sotto processo, per procurato disastro ambientale, per il caso Fenice (me ne aveva parlato Isaia Giannetti: «Per consentire alla Fenice di smaltire più rifiuti tossici, oltre quelli della Fiat, la Regione aveva abolito la legge che ne impediva l’importazione. Dal 2001, secondo le accuse, la Fenice immetteva mercurio e altro nella falda. E l’Agenzia per l’ambiente lo sapeva». Quella falda alimenta le sorgenti di un fiume-padre: l’Ofanto; N.d.A.)».

Di Bello non ha più potuto mettere piede nel suo ufficio, da allora. Ma mentre è consegnato in casa, sospeso per procurato allarme, «le onde depositano tonnellate di pesci morti, per chilometri, sulle sponde del lago; le acque diventano rosse». Dovrebbe essere la prova che lui non esagerava: un allarme “inascoltato”, più che “procurato”. Ma l’accusa cambia, diviene rivelazione di segreto d’ufficio. «Però, la Convenzione di Aarhus, in vigore dal 2001 nell’Unione europea, garantisce e impone la massima informazione ai cittadini, in materia ambientale,» dice Di Bello «io a quella mi sono attenuto. La professoressa Patrizia Albertano, biologa all’università di Tor Vergata, a Roma, richiesta di un parere dalla “Gazzetta del Mezzogiorno”, dopo aver appreso il risultato delle analisi da me fatte fare, ha detto: “Se quelle acque sono destinate a usi umani, non informare i cittadini e l’Istituto superiore di Sanità è un atto criminale”. Ma non è successo niente.»

A gennaio 2013, Beppe Grillo tiene un comizio in piazza Prefettura, invita Di Bello a salire sul palco e a spiegare cosa gli è successo e cosa succede all’acqua dei lucani. «In tre giorni, mi hanno restituito qualifica professionale, grado e stipendio» racconta Giuseppe. Ci sentite una nota amarognola? Appena, appena. E non fate quella faccia: questo è il Paese in cui è stato punito il magistrato del Tribunale dei minori di Milano che cercò di far rispettare la legge, nel caso Ruby, e sono stati promossi quelli che sorvolarono, perché era la... nipote di Mubarak; in cui è stata trasferita la dirigente di Polizia che cercò di far rispettare le norme, nel caso della moglie del dissidente kazako catturata ed espulsa dall’Italia, ed è stato premiato chi obbedì all’ambasciatore kazako che si era sostituito al nostro ministro dell’Interno (vieni avanti Angelino). Forse, la vera colpa di Giuseppe è aver trovato la porcheria troppo presto, perché, riferisce, «nel video, Il petrolio che rende poveri, il direttore dell’Arpab, l’agenzia ambientale della Lucania, in un fuorionda, dice che loro si sono occupati seriamente della questione petrolio, solo a partire dal 2012». Maledetta fretta. «Questo,» aggiungerà poi la professoressa Colella «mentre il responsabile del distretto meridionale dell’Eni, Ruggero Gheller, affermava che loro sono sottoposti a controlli molto seri da parte dell’Arpab. Ma se l’Agenzia regionale per l’Ambiente, su 140 dipendenti, ne ha solo 19, in laboratorio!» Dividili per turni, malattie, ferie... La questione, par di capire, non è che solo nel 2012 abbiano cominciato a occuparsi seriamente della questione, ma che “già” nel 2012 siano riusciti a occuparsene.

Con calma, forse l’Arpab farà pure analisi su cosa c’è sul fondo del lago, che il pericoloso rivelatore di segreti di Pulcinella ha già fatto, sino alla profondità di quaranta metri.

Sappiamo cosa trovò nel lago, Di Bello. Ma non tutto: «Oltre a idrocarburi, metalli pesanti, zolfo, anche colonie fecali e colonie batteriche fecali...». Se vi state chiedendo cosa c’entrino degli onesti liquami di fogna con i residui della depurazione del petrolio, be’, me lo son chiesto anch’io e la risposta è sorprendente (almeno per me): «Nei depuratori, gli escrementi umani sono attaccati da batteri che li trasformano in compost buono come fertilizzante, in agricoltura. Ma le acque bianche che sono immesse con quelle nere, se contaminate da idrocarburi, uccidono i batteri, per cui la trasformazione dei liquami non avviene. Così, quando si aprono le saracinesche, il tutto fluisce, “tal quale”, nel lago, doppiamente inquinato, a questo modo, da residui petroliferi e di fogna».

Vorrei essere sicuro di aver capito: le acque bianche, in teoria potabili prima dell’uso, lo sono così tanto che... inquinano le acque di fogna, al punto da bloccarne la depurazione! Poi, quella schifezza, pur diluita in 155 milioni di metri cubi, c’è chi se la beve. E se lo dici, ti processano. A governare l’acqua, in Lucania, una delle regioni che ne hanno di più e buona (petrolio e liquami a parte), «sono quattro società, il cui costo va sulle bollette degli utenti. Un vicepresidente guadagna 300.000 euro all’anno...».

La lotta degli ambientalisti per contrastare il potere delle compagnie petrolifere segna poche, significative vittorie, per la sproporzione delle forze. Grazie a un sindaco che ha fatto applicare le norme, a Grumento Nova, area di grande interesse archeologico e di ricarica delle sorgenti, si è riusciti a fermare il progetto di scaricare residui di depurazione in un nuovo pozzo esausto. Anche perché, un grande geologo, Franco Ortolani, dell’università Federico II di Napoli, ha dimostrato che lì c’è una faglia sismica che potrebbe essere attivata da un tale intervento. Questo ha comportato il blocco del raddoppio delle estrazioni, da parte dell’Eni (per ora?), non avendo dove buttare la troppa monnezza che deriverebbe dai materiali di scarto dell’aumentata attività petrolifera.

La professoressa Colella spiega questa cosa nei dettagli: «I giacimenti petroliferi contengono normalmente, oltre agli orizzonti di olio greggio e di gas, anche un orizzonte di acqua salina, detta acqua di strato o di formazione. A ciò si aggiunge quella addizionata e iniettata (con altre sostanze) durante la fase di produzione, per mantenere in pressione il pozzo (è detta acqua di processo). Quando tiri su, tiri su tutto; poi entrambi i tipi d’acqua, compresi i lubrificanti, gli acidi che ci infili per poter arrivare al giacimento, i fanghi di trivellazione e tutto il resto devono essere tolti. Che te ne fai di quei residui? Li smaltisci in un centro della Val Basento o li inietti a pressione nel sottosuolo, in un pozzo ormai vuoto. Ma in aree tettonicamente attive e sismiche, dove le rocce fratturate si muovono in blocchi lungo i piani di faglia, quei rifiuti fluidi possono lubrificare i piani di faglia e favorire lo sviluppo di terremoti. Questo è un territorio fragilissimo, capace di scosse di magnitudo 7,0, come quelle del 1857, quando morirono 9.257 lucani e del 1980. Tutto questo, come scriviamo nel nostro rapporto di Viggiano, “richiede la sospensione delle attività petrolifere nelle aree che sono già state epicentrali di violenti sismi”». Insomma, in un territorio fatto da lastroni di roccia che scorrono gli uni contro gli altri, ci vai a mettere il lubrificante. Wow!

Già: la Val d’Agri è un’immensa madre di sorgenti, fiumi, acque sotterranee, il che dovrebbe portare a sospendere le attività petrolifere; ma è pure un territorio a pezzi, sotto, fratturato e sismico, il che (di nuovo) dovrebbe portare a sospendere le attività petrolifere... «Quella è la valle ed è fatta così. Infatti, noi abbiamo scritto che “le caratteristiche geoambientali complessive dell’area dell’Alta Val d’Agri e di quelle contigue rendono di fatto incompatibili le attività petrolifere. Non dico muoversi con le cautele che sono obbligatorie in Norvegia,» ragiona Albina Colella «ma...»

Non voglio sapere come fanno in Norvegia, solo capire la nostra distanza dal meglio: «Dato 10 all’industria petrolifera della Norvegia, professoressa, a quella italiana in Lucania, quanto?». Ride: «A voler essere generosi, 1. Non esiste al mondo quello che si fa qui, in un territorio che esigerebbe ben altra attenzione, per la sua fragilità e per le sue risorse di importanza strategica».

Qualcosa non mi quadra: come mai la professoressa non è stata denunciata per allarmismo? I soliti favoritismi? «Ci hanno provato» replica lei. «Ma a Roma sono stata sentita, insieme ai professori Civita, Ortolani e D’Orsogna, dalla Commissione Ambiente del Senato e dal M5Stelle alla Camera dei Deputati, e abbiamo avuto modo di spiegare...»

Oh, poi, ci sarebbero anche un po’ di esseri umani, da queste parti. Pochi, e poco contano. Oltre all’acqua, al territorio, si beccano un po’ di inquinamento dell’aria. L’Organizzazione mondiale della Sanità calcola che muoiono, per questo, tre milioni di persone all’anno. Ma su sette miliardi di popolazione mondiale. Chissà se lo sanno, all’Organizzazione mondiale della Sanità che esiste la Lucania, e ha appena 570.000 abitanti. Non per essere cinici, ma che sarà mai il contributo lucano a quella strage di tre milioni? Quattro poveracci, tre? Ho fatto i conti, tre volte: 244. Come dire: ogni quattro anni, se le cose stanno così, sparisce un paese di mille abitanti. Ma dai! Sicuramente, non parlavano dei lucani, forse li credono già estinti...

«Nicola Maria Pace, un grande magistrato, negli anni in cui fu procuratore capo di Potenza, indagò sui veleni reimmessi nei pozzi esauriti, su cosa avveniva nel centro nucleare di Rotondella e sulle navi cariche di rifiuti tossici che la ’ndrangheta avrebbe affondato nel Tirreno», ricorda Di Bello. «Fu poi mandato a dirigere l’Antimafia di Trieste (con un suo saggio vinse il premio Falcone Borsellino; N.d.A.). Il maresciallo della Forestale che era il suo più abile collaboratore è morto di leucemia. Un altro è stato trasferito a Udine.» Ho dimenticato di chiedere se il sindaco di Grumento Nova sia stato spinto ad agire così, anche dai risultati dello studio del medico condotto del suo paese, Pino Enrico Laveglia, che ha raccolto, in un dossier consegnato alla magistratura, i dati sulle patologie tumorali, specie ai polmoni, in zona; dati allarmanti. Infatti, il medico sarebbe stato denunciato per procurato allarme.

«Non ho inviato nessun dossier alla magistratura, ma mi sono limitato a denunciare l’Eni per i disagi e i danni sia all’ambiente che sull’uomo, visibili in Val d’Agri da parte di tutti e soprattutto da parte di chi fa il mio lavoro. Non ho ottenuto, però, alcuna risposta dalla magistratura» precisa il dottor Laveglia. «Per il resto confermo la mia personale esperienza di un notevole incremento di tumori nella zona, 35-40 per cento, a tenersi bassi; non solo del polmone, ma anche tumori liquidi (linfomi in primis) e tumori dell’apparato digerente; confermo che non è possibile avere dati globali e omogenei per la mancanza di un registro dei tumori (almeno fino a oggi). Proposi agli amministratori la formazione di un gruppo di esperti indipendenti, onde valutare il reale impatto ambientale delle attività dell’Eni. Ma anche questo cadde nel vuoto.» «Quanto tempo è passato da quando ha denunciato l’Eni?» «Anni. Ma non so nemmeno se qualche magistrato abbia mai visto la mia denuncia» (sarà per questo che non è stato processato per procurato allarme?).

Anche il medico di Viggiano, il dottor Giambattista Mele, mi dicono abbia fatto qualcosa del genere, a proposito dell’aumento dei casi di tumore, nel Comune del Centro Oli. E pure lui sarebbe stato denunciato per procurato allarme. È vero, dottore? Lui ride... «Quella cosa è rientrata» dice soltanto. Mamma mia, è infestata da allarmisti e quasi allarmisti questa regione. Per fortuna c’è chi li tiene a bada!

Nicola Piccenna racconta di quando, qualche anno fa, con il quotidiano «Il resto», pubblicarono che le barre radioattive di Rotondella erano raffreddate con acqua di mare, che poi veniva ributtata nello Jonio; una tubatura per lo scarico, segnalata da una vistosa boa gialla. Arrivò una telefonata dalla Sogin, la società controllata da “Tesoro”, che gestisce il mantenimento e lo smantellamento dei siti nucleari italiani: «Come vi siete permessi di pubblicare quella notizia?». «Guardi che è vera, abbiamo le prove» (forse, già temevano una denuncia per procurato allarme o rivelazione di informazioni segrete; N.d.A.). «Certo che è vera, ma chi ve l’ha detto?» Un giornalista non dovrebbe rivelare le sue fonti, se non in casi particolari. Be’, quello era uno... «Lo abbiamo copiato dalle voci del vostro bilancio: “Spese per rifacimento condotta per scarico a mare”.» Non ci fu denuncia. Pfuiiii!

Provate a immaginare cos’è combattere contro le maggiori compagnie petrolifere del mondo, a un pozzo alla volta. Pure a Grumento Nova, per uno che ne hai bloccato, altri ne vengono aperti, poco distante. È nella conoscenza dei dettagli che capisci quanto sia impari il confronto e il sistema pensato in modo da sfiancare o vanificare ogni tentativo di opposizione all’invadenza mineraria. «Il professor Ortolani, molto stimato per la sua competenza,» dice Di Bello «racconta ai congressi, nel mondo, cosa succede qui. Per esempio: i permessi di perforazione, vanno chiesti per ogni pozzo. Il che, a suo dire, è profondamente sbagliato, perché se si scavano molti pozzi nella stessa zona, il rischio cresce in modo esponenziale. Insomma: il pericolo dei nuovi pozzi non si somma a quello dei preesistenti, ma lo moltiplica. Un conto è fare un buco in uno strato roccioso, un conto è farne dieci. Quindi, che senso ha autorizzare uno scavo, senza vedere quanti altri ce ne sono intorno?»

Ma il decreto SalvaItalia (e AmmazzaLucania) di Mario Monti ha dato il via all’ampliamento delle aree di ricerca e sfruttamento petrolifero nella regione: «In Val Camastra, Val d’Agri, e Alto Bradano, zona agricola d’eccellenza; in parte dell’Alto Basento e persino sul Vulture e nel Melfese, dove si trivellerà accanto alle più celebrate sorgenti di acque minerali (una l’ha comprata la Coca-Cola alcuni anni fa)».

Con questo, oltre i sette decimi della regione diverrebbero area petrolifera. Da quel che resta, togliete il territorio occupato da città e infrastrutture (quelle, per la verità, poche, quasi niente...): i lucani sono stati espropriati della terra. «A qualcuno,» riferisce Ivano Farina, di Karacteria «gliela portano via veramente, a 47 centesimi al metro quadro, 4.700 euro a ettaro.» Cosa rimane ai lucani? «Andarsene. Ed è quello che molti stanno facendo. Li capisco; io, però, come tanti, voglio restare, perché la mia regione mi piace. E non voglio che la avvelenino, che mi avvelenino.»

Farina è il coinquilino del Centro nucleare della Trisaia, a Rotondella, coperto da segreto di stato, dove custodiscono da anni, fra mille polemiche, scorie nucleari americane.

Ci sono notizie da brivido sul centro nucleare della Trisaia a Rotondella; e un po’ di mitologia nera. Ma la mitologia nera non poggia sul niente: la notte del 29 luglio 2013, senza alcun preavviso ai sindaci dei territori attraversati (si può comprendere la riservatezza; ma se fosse successo qualcosa?), un convoglio di camion, camionette e auto con circa trecento uomini di corpi militari e di sicurezza diversi, ha attraversato Lucania e Puglia per trasportare un carico di materiale radioattivo all’aeroporto militare di Gioia del Colle, dove era in attesa un aereo trasporto truppe, C130. Non si sa dove sia stato portato quel materiale. Restituito agli Stati Uniti, pare. Ma da lì, le autorità cui si sono rivolti i giornalisti lucani, smentiscono. E allora? Quanto al futuro: Di Bello mi mostra un documento, la tabella dei contributi edilizi pagati dal centro nucleare, per costruire: nel 2010, 4.472,91 euro; nel 2011, 15.754,67 euro; nel 2012, 512.069,49 euro. Fate i conti: quasi 120 volte di più, in due anni. «L’equivalente di un ettaro e mezzo. Per il materiale che c’è basterebbero mille metri. Quindi?» E che lo chiede a me?

Se abitaste in Lucania e aveste già avversato il progetto di fare qui il più grande deposito europeo di scorie nucleari nelle viscere della vostra regione e, fallito quello, vedete moltiplicarsi per 120 l’area dell’impianto già esistente, cosa pensereste? Che se ne fa l’Italia di tanto spazio dedicato, se non ha centrali nucleari? Quelle stanno in Francia, Germania e nel resto d’Europa. Già abbiamo qui, da quarant’anni, le barre radioattive della centrale statunitense di Elk River. Forse, cercano una terra, nel continente, la più disabitata possibile, e un Paese accomodante, per limitare i rischi di contestazione e i danni, in caso qualcosa andasse storto.

«Sempre la nostra colpa: siamo pochi» dice Ivano Farina. Giuseppe Di Bello ha da aggiungere un’informazione che inquieta: «Ci sono degli imprenditori del Nord che contattano direttamente i contadini, cui propongono 1.500 euro a ettaro, per scaricarvi fanghi industriali. Su ogni ettaro, 22,5 tonnellate di fanghi. Ho partecipato a uno di questi incontri, in un hotel, ho anche fatto delle foto. Si sono presentati come un agronomo, un ingegnere, più uno che toscaneggiava. A una quarantina di contadini hanno parlato a nome di una “Società specializzata”, il cui nome, però, non ho trovato nell’albo nazionale di quelle per la gestione dei rifiuti industriali. Hanno mostrato una mappa della nostra regione, indicando le aree che ritengono più adatte alla loro opera di spargimento di fanghi. È curioso: coincide perfettamente con quella dei nuovi campi petroliferi, per i quali sono stati chiesti permessi di perforazione».

«E...?» (è chiaro che ha in mente qualcosa).

«E... chi potrebbe dire, domani, ad attività estrattiva a pieno regime, che i metalli pesanti sono stati diffusi su quei campi da impianti petroliferi, se già li avevano depositati i fanghi industriali?»

Per la completezza dell’informazione: in Lucania già sono presenti la Edf e la Veolià, francesi, le più grandi multinazionali del mondo per lo smaltimento di rifiuti industriali. La prima, ne lavora circa 65.000 tonnellate all’anno: quelli della Fiat di Melfi; il 40 per cento dei più pericolosi vengono dal Nord Italia, il resto dall’estero. Mentre la seconda è stata autorizzata a trattare un milione di metri cubi di fanghi industriali, nel Tecnoparco Val Basento (ma non c’erano gli alberi, nei parchi?). «Mentre a Tito, in tre ettari,» dice Di Bello «scoprii e sequestrai, nel 2001, tre grandi vasche di circa 27.500 metri quadri, profonde cinque metri, riempite di fanghi industriali e fosfogenesi radioattivi, senza alcuna protezione. I soldi per la bonifica se ne sono andati in consulenze. Le fosse sono ancora come nel 2001. Ma adesso, ci hanno costruito intorno, a poca distanza. Ci sono 750 chilometri di tubi che portano petrolio, nel sottosuolo lucano e su come siano controllati, lo abbiamo scoperto nel marzo del 2012, a Bernalda, quando se ne ruppe uno, da cui fuoriuscì petrolio per tutta la notte, sino a quando non se ne accorse un contadino.»

Insomma, se non conoscete la Lucania (e, credetemi, non sapete cosa vi siete perso), sbrigatevi; ché, se va avanti così, fra un po’ ci trovate il più grande monnezzaio d’Europa. Che poi, se proprio non andate verso il Centro Oli, quelli di smaltimento di fanghi industriali e altri siti particolarmente fetidi (ce ne stanno), tutto ’sto disastro non è che lo vedete. La regione è bella, i panorami rapiscono il cuore; le torri di perforazione, viste da lontano, potete scambiarle per tralicci dell’elettricità; il lago è dolce starci sulle rive (magari non proprio quella...), tanto mica ve la bevete voi quell’acqua, giusto? L’unica cosa che vi sembrerà un po’ strana, ma ci dovete fare caso (e non è detto che a tutti dispiaccia, beata solitudo), è che non c’è nessuno; o quasi. La Lucania è un paradiso infetto, nel senso che sembra esserci un vero e proprio attacco batteriologico contro la regione, rea di essere un castello con pochi difensori, pur se di valore. Quell’infezione si può fermare; ma par di capire che non ci sia nessun interesse ad attingere alle risorse del territorio, cercando di far meno danni e coinvolgendo la popolazione. Si perderebbe tempo e si dovrebbe, forse (e senza forse) dividere i vantaggi in modo più equo. La rapina è più veloce e rende di più (ho telefonato ai colleghi dell’Eni per i rapporti con la stampa, per porre alcune domande. Mi hanno detto che sarei stato richiamato. Era dieci giorni fa. Due giorni fa ho inviato una mail, rinnovando la richiesta. Se entro domani non mi rispondono, la invierò a un altro, del corposo ma silente ufficio. Vi tengo informati).

«Ci dicono che le royalties che le compagnie lasciano alla nostra regione sono così basse, perché il nostro petrolio è particolarmente “pesante”, “sporco” e costa depurarlo. Mo’ stai a vedere che ci dobbiamo pure scusare perché non è leggero come piace a loro!» sbotta Mimmo Genchi, di Matera Cambia (poi, più di uno ti spiega che il costo di estrazione e depurazione è robetta, rispetto a quello di vendita. Più o meno come quando ti dicono che bisogna ridurre le paghe degli operai che fanno auto, per non smettere di fare auto che costerebbero troppo. Peccato che il costo del lavoro incida sul totale per una parte minima). «E poi, anche parlare di royalties... come se lo stupro, pagato di più, diventi accettabile. Il Pdl tentò di spacciare come una grande conquista (fecero i manifesti!) la miseria dei cento euro all’anno di carburante ai lucani muniti di patente che l’avessero richiesto. Dopo due anni, superata l’opposizione del Veneto leghista, quell’elemosina è stata data (nessuno di noi di Matera Cambia l’ha voluta, né ritirata; e non siamo stati i soli); ma il vero affare è stato per le Poste, che hanno fornito, ovviamente a pagamento, il supporto (una scheda) per la gestione dell’elemosina. Era un’umiliazione vedere le file per riscuotere un insulto. Capisco che, di questi tempi, per molti, anche quella somma può tornare comoda, però...»

Pochi giorni dopo questa nostra conversazione, il Consiglio di Stato ha dato ragione al Veneto di Luca Zaia, che ai meridionali porta via persino le elemosine (non gli è bastato quello che impunemente è stato sottratto al Sud con lui, da sciagurato ministro dell’Agricoltura, per spenderlo soltanto al Nord). Per avere un’idea del disprezzo per il Sud che guida le azioni di Zaia, si pensi alla sua proposta di dare, ai dirigenti delle Regioni del Nord, carta bianca per amministrare le Regioni del Sud: «Vedrete allora come rimettiamo a posto i loro conti». Il poveretto è così intimamente antimeridionale, da sparare le sue sciocchezze, forse, in perfetta buona fede (non si può dire altrettanto del modo in cui, da ministro, ha gestito i soldi di tutti, togliendo al Sud per favorire il Nord). Il presidente della Puglia, Nichi Vendola, gli ha chiesto chi dovrebbe fare da “tutor” a Regioni come il Piemonte e la Liguria, in cima all’elenco delle più dissestate e peggio amministrate d’Italia. Forse, Puglia e Lucania che risultano fra le più virtuose? Il problema della Puglia è avere tanti soldi in attivo, e non poter sostenere lo sviluppo del territorio, nemmeno pagare chi ha già fatto lavori pubblici, perché la legge del patto di stabilità lo impedisce.

La gran porcheria del furto delle royalties alla Lucania è stata possibile, perché «con un blitz,» scrisse sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» Luigia Ierace, autrice di Dove vive Enipower, la Lega ha fatto aggiungere, nella legge sulle compensazioni petrolifere, che ne hanno diritto non solo le regioni da cui gli idrocarburi vengono estratti, ma anche quelle in cui vengono trasformati, negli impianti di rigassificazione. E il Parlamento, inclusi i meridionali presenti (a proposito di rappresentanti delle colonie), ha approvato. Così, è nato un mostro. Parte delle percentuali per l’estrazione del petrolio (il 3 per cento, una sorta di peloso risarcimento per i danni prodotti e la ricchezza sottratta) va a costituire il Fondo idrocarburi, con cui ricompensare i danneggiati. Con l’aggiunta, nella legge, della frasetta sui rigassificatori, fra le regioni da ricompensare entrano pure Veneto, Liguria e, nel prossimo futuro, la Toscana. Capito? Nel Fondo idrocarburi il 90 per cento dei soldi ce li mette la Lucania, la regione più povera d’Italia, con il suo petrolio (il restante 10 per cento viene da attività estrattive in Puglia, Calabria, Molise, Marche, Emilia Romagna e Piemonte messe insieme); mentre Veneto, Liguria e Toscana infilano le mani nella cassetta delle elemosine, per fottersi parte del bottino, a cui non contribuiscono nemmeno con un centesimo. Per esser più chiari: come se compensazioni per la produzione di riso coltivato e raccolto a Vercelli fossero divise con i pizzaioli di Palermo che con quel riso fanno gli arancini. Luca Zaia, poverino, forse si prende più maledizioni di quelle che merita, perché non è che uno strumento (solo più astioso e scoperto di altri e, temo, sentendolo parlare, persino inconsapevole) di una politica antimeridionale che va avanti da un secolo e mezzo.

Dal singolo alle istituzioni, il metodo non cambia: ai patentati lucani un’elemosina da dividere con rapinatori del Nord; alle amministrazioni dei territori devastati, un’elemosina, rispetto alla ricchezza prodotta. «Ai piccoli Comuni nel cui territorio piazzano le trivelle, arrivano 2-3 milioni all’anno, pure più. Sono un sacco di soldi, per loro, di cui non sempre sanno cosa fare: aggiustano una piazza, fanno una pista ciclabile...» racconta Bavusi.

«Ci sono compensazioni economiche pure per il nucleare. Metà vanno alla Provincia di Matera,» dice Farina «l’altra metà viene divisa fra i Comuni di Rotondella, Policoro e Tursi. I soldi sì, le indagini epidemiologiche per valutare quanto ci costano in salute, no. Due delibere provinciali sono state approvate in due anni, per disporle. Ma non si fanno ancora. L’unica ha riguardato la presenza delle api, che patiscono l’inquinamento, ma non la radioattività. Poi, ci sono i soldi del petrolio, quel 7 per cento lordo che la Lucania deve pure dividere con lo Stato. La questione è: dopo petrolio e radioattività (uno prima o poi finisce, l’altra resta per millenni), per noi, qui, quale economia sarà più possibile?»

Il Comune che prende, in proporzione, più soldi, è Viggiano, dove c’è l’enorme Centro Oli che pure rischia di rivelarsi insufficiente: tremila abitanti, più di 60 milioni di euro (20.000 per abitante) che «giacciono in qualche conto corrente del Comune», scrive Pietro De Sarlo, dei Pinguini Lucani, ma «un tasso di occupazione fra i più bassi d’Italia»: lavora uno ogni tre. De Sarlo ironizza, e si può capire, sul convegno organizzato da Eni e amministrazione comunale, dal titolo “Disoccupati disperati over 45”. Ma io cerco di immaginare cosa accade in un paesino in cui l’economia è agricoltura, allevamento, un po’ di turismo, un po’ di artigianato e piccole aziende, più qualche dipendente pubblico. Poi arriva una potenza mondiale, come l’Eni, con cui devi trattare (si fa per dire); e ti trovi una quantità di soldi che non corrisponde alla tua capacità di progettare, pensare e spendere. Non sto giustificando nessuno, cerco solo di capire. Fai la piscina, migliorie nel paese, lavori pubblici, anche qualche investimento sbagliato e qualche struttura che magari va pure in malora. Cosa manca? Il futuro: non era previsto. Mentre passato e presente muoiono. «Al Comune sono arrivati all’incirca 13-14 milioni di euro nel 2012» dice Giambattista Mele, medico, del Laboratorio per Viggiano, che ha perso le elezioni per 15 voti. «Ma le attività zootecniche arrancano; il vino e l’olio nostri non li vuole più nessuno e i produttori se la pigliano con gli ambientalisti: se non parlassero dell’inquinamento...»

Viggiano, se posso sintetizzare a rischio di esagerare, non è più quel che da sempre era e non sa cosa vuol diventare. Non ha deciso, ha subìto. «Quest’area è stata sacrificata a interessi nazionali» dice Bavusi. Il dottor Mele avverte che, con i soldi delle royalties, «il Comune ha varato un piano di risparmio energetico, per la sostituzione di infissi, del “cappotto” degli immobili». E mi perdonerà se, mentre parla, a me viene in mente una sorta di contrappasso dell’assurdo: non sapendo come spendere quei soldi, li usano per risparmiare (è sempre una buona cosa, per carità!) quel che solo ora, rispetto a prima, da loro si produce in quantità inimmaginabili.

Altra iniziativa: «Un accordo fra i Comuni di Viggiano e Grumento Nova, con le università di Bari, per l’indagine chimica; di Pisa quella epidemiologica; di Lecce, per quella sulle dispersioni nell’aria, per la valutazione dell’impatto sanitario sulla popolazione esposta agli inquinanti dell’industria petrolifera». Perché non lo si conosce? «Gli ultimi dati sono stati resi noti nel dicembre del 2012, ma si riferiscono a sette anni prima. Pare che, quanto a tumori, stiano peggio di noi, in Lucania, solo quelli del Melfese. Se lo sanno, magari si trasferiscono qua... Mentre lo studio dell’Airtum, l’associazione italiana registri tumori, dice che la Lucania, che prima era sotto la media nazionale di oltre il 30 per cento, adesso è sopra e l’andamento è in crescita, mentre la media nazionale scende.»

Così, Viggiano e Grumento Nova, sempre per quella faccenda del contrappasso, investono i soldi del petrolio, per capire quanta salute ci rimettono con il petrolio. E bravi, almeno, che lo fanno!

«Il Comune» continua Mele (e mi spiace non farvi ascoltare la sua voce. La fatica che fa a venir fuori e dire quel che dice. Vorrei foste qui con noi, davanti all’immenso Centro Oli, il paese sullo sfondo, la puzza che ti porta via, ed essere non quello che viene, fa qualche domanda e se ne va, ma quello che deve trovare risposte ai problemi che pone questo gigante. Tu sei un medico animato da senso civico, ti incontri con altri come te, per discutere, capire, fare. L’interlocutore è una potenza mondiale. Il giorno che decide di essere buono, può persino far finta di accorgersi che esisti e ti dà retta. Se vuole...). «Il Comune ha emesso due bandi per contribuire, con le imprese del territorio, artigianali e commerciali, alla creazione di posti di lavoro per i giovani.» Cioè, che fa? «Dà novecento euro al mese per ogni ragazzo assunto e mille per ogni ragazza.»

Be’... le aziende assumono (magari solo per stabilizzare quelli che già avevano, se va bene, come precari), ma lo stipendio glielo paga il Comune, si può dire. Di nuovo, quel contrappasso: con i soldi del petrolio che qui ha distrutto lavoro (agricoltura, turismo, zootecnia), si forza la nascita di qualche decina di stipendi, più che di lavoro. Ma la cosa suona strana, dinanzi a questo po’ po’ di impianto industriale. «Di Viggiano, lì dentro,» dice Mele «c’è poca gente, come pure nell’indotto, dove ci saremmo aspettati molta più occupazione e le aziende locali vengono escluse dalle gare d’appalto! Per l’ultima “fermata” hanno chiamato molta gente dalla Sicilia e dalla Campania, alcuni poco raccomandabili, da quello che mi consta, e in gran parte poco qualificati!» («In tutto, i lucani impiegati nel Centro Oli sono quindici» mi aveva già detto Ivano Farina; secondo altre fonti, di più, addirittura 35! Un affare, in cambio dei più grandi giacimenti petroliferi non sottomarini d’Europa). Un esempio di questo sviluppo senza lavoro, per il medico, è il campo di pannelli fotovoltaici: «Nove ettari di territorio servito (strade, acqua...), nell’area industriale, venduti a due milioni di euro. Posti di lavoro creati, forse mezzo: un tale che ogni tanto va a dare una controllata, una pulita. Ce lo avessero detto, a quel prezzo lo avremmo comprato noi, il Comune, quel terreno».

I soldi ce li hanno.

Mezzo posto di lavoro per nove ettari attrezzati. A maggio 2013, il «Wall Street Journal» riprendeva un articolo dell’agenzia Bloomberg, bibbia dell’informazione economica mondiale, in cui si diceva che con il petrolio della Lucania si risolverebbe la crisi italiana. Sulla carta, la cosa ci sta, a seguire quel ragionamento. Bisognerebbe raddoppiare la produzione dei pozzi, però, come chiesto dall’Eni e dalla francese Total, superando ostacoli burocratici e resistenze di ambientalisti. Claudio Descalzi, direttore generale dell’Eni, nell’intervista enumerava i vantaggi per l’Italia: abbattimento della bolletta energetica di 5 miliardi di euro e creazione di 20.000 nuovi posti di lavoro.

Ma «sono appena duecento i “residenti” in Lucania impiegati nell’industria petrolifera della regione» replica Pietro Dommarco, combattivo giornalista e autore di un libro informatissimo, Trivelle d’Italia. «Sarebbero invece 250 i milioni di investimento nell’ampliamento del Centro Oli di Viggiano,» scrive «75 gli ettari di estensione, 1,6 milioni di metri cubi di gas acidi trattati quotidianamente, 2,7 milioni di metri cubi di gas lavorati al giorno, 2 i nuovi termocombustori, 2 i nuovi “tank” di stoccaggio delle acque di strato, 208.000 barili di greggio da estrarre quotidianamente dall’Eni nella sola Val d’Agri e 50.000 quelli che ogni giorno verrebbero tirati su dalla Total nella Valle del Sauro.»

Quindi la Lucania dovrebbe farsi portar via il doppio del petrolio, farsi contaminare (il doppio?) acqua, terra e aria, in cambio di ventimila posti di lavoro. Ma non in Lucania, nel resto d’Italia; che finora ha ringraziato negando persino il treno a Matera, facendo pagare ai lucani la benzina più cara che ad altri e sottraendo loro, tramite l’astioso Zaia, persino le compensazioni previste per le estrazioni petrolifere. Mi raccontano qualcosa, a proposito dei posti di lavoro nella regione: «Un imprenditore che produce pannelli fotovoltaici, quando il governo, il 5 luglio 2013, ha eliminato gli incentivi per la produzione di energia solare, aprendo il mercato alla Cina, che produce pannelli a un decimo dei nostri costi, ha deciso di chiudere l’azienda. “E i quaranta dipendenti?” gli hanno chiesto. “Li ha licenziati il governo. Ci pensi il governo”».

Così, fossero pure veri i 20.000 nuovi posti di lavoro, e fossero tutti in Lucania, già sarebbero diventati 19.960...

E ci fu pure chi parlò della possibilità di ottenere, per la Lucania, più infrastrutture, consentendo il raddoppio della produzione petrolifera. Ne sarebbe favorito il turismo. Praticamente scomparso, però, dove c’è l’industria estrattiva. Quindi, ti fanno notare, con sorriso amaro: avremmo finalmente modo di far arrivare qui più turisti (che oggi, senza treno, né autostrade, né aeroporti, raggiungono la Lucania solo guidati da Indiana Jones), giusto quando non ci sarebbe più ragione per venirci. E poi, perché la Lucania, per avere le strade, i treni, eccetera che le altre regioni hanno di diritto, deve dare il doppio del tantissimo che già dà?

Ma con i soldi delle royalties, pur tanto basse, a paragone di quelle di altri Paesi, i Comuni... Non riesco a finire la frase. «Qui la gente aveva un passato, una storia, delle competenze e poteva scegliere il suo futuro. Adesso ha i soldi nel bilancio comunale. E spesso non sa che farne» mi interrompe Bavusi. «Ma quando i giacimenti saranno stati vuotati e i trivellatori andranno via, qui sarà il deserto. E nessuna attività sarà più possibile, men che meno il turismo, il nostro vero petrolio.» Vengo da Taranto, dove sono cresciuto. Non ha bisogno che mi spieghi. I giacimenti durano 20-30 anni: fra 10-15 anni, in Val d’Agri, saranno abbandonati. Resterà una scatola sporca. «Con i soldi delle royalties e dell’Unione europea avevano persino organizzato un giro turistico dei pozzi petroliferi» dice Di Bello. «Poi, qualcuno deve essersi reso conto...»

«Dove c’è attività estrattiva,» racconta Di Bello «quella agricola è crollata dell’80 per cento. E la produzione di quel che resta fa fatica a esser piazzata. I contadini sono ormai rassegnati alla sconfitta: “Diteci dove ce ne dobbiamo andare e ce ne andiamo”. Da quando è arrivata l’industria del petrolio, se ne sono andati già 75.000 lucani.»

Fatemelo ridire: se girate la Lucania, difficilmente vi accorgerete delle ragioni che seminano tali reazioni e sentimenti. Il centro nucleare, per dire: ci passate accanto, lungo la litoranea, ha persino del verde ben tenuto, si presenta bene, perché dovrebbe impressionarvi? Loro ci vivono accanto. I campi deserti nelle aree petrolifere: ma la Lucania è semideserta tutta, perché dovreste incuriosirvi? Ma loro lavoravano quei campi, magari da generazioni, e li hanno dovuti abbandonare. Voi passate per le due strade della regione (di più non ha meritato...), vedete i castelli, i centri storici, le dolomiti lucane con l’incredibile “Volo dell’Angelo” che vi porta, sospesi a un cavo a circa mille metri d’altezza, da Pietrapertosa a Castelmezzano: un chilometro e mezzo a 100 chilometri all’ora, i fiumi, il maggior numero di falconidi che abbiate mai visto... Ma chi è di qui sa com’erano i posti che non vale più la pena di ammirare. E il mio compito è cercare di capire come reagisce chi non accetta che questo avvenga così, potendo esser fatto meglio; in che modo ci si raccorda con gli altri e, insieme, facendo lavoro sociale, si costruisce una nuova comunità. Quindi, mi tocca guardare il lato brutto. E se tutto vi sembra brutto, è solo per inganno ottico; anche se quel brutto c’è tutto ed è brutto vero.

Ora, pensate a cosa dobbiamo dire a Francesca Leggeri: la sua vita cambiò l’11 settembre 2001, a New York. Romana, di famiglia lucana, di Marsicovetere, lavorava per una televisione degli Stati Uniti. Lei e altri responsabili della sede italiana erano appena arrivati a New York, per uno degli abituali incontri aziendali. Be’, era proprio lì, in quel momento, su un grattacielo a poche centinaia di passi. Prevalse l’istinto professionale e scattò ottanta pose, un microfilm del disatro. Poi si chiuse, imbiancata dalla polvere delle Torri Gemelle che crollavano. «Stetti per giorni muta. Pensavano fosse lo choc per la paura, cercavano di aiutarmi a riscuotermi. Invece io pensavo a che senso aveva quel che stavo facendo. Cominciavano a preoccuparsi. Poi mi fu chiaro che fare: lasciai tutto, tornai in Italia e venni qui.»

Un casale del Seicento, appena sotto una cima di quasi mille metri, sulla riva del torrente Molinara, località Barricelle di Marsicovetere. «Io sono qui da dieci anni (prima, da quand’ero bambina, solo in estate), la mia famiglia è qui da secoli, da mille anni, forse diecimila,» ride «perché sulla vetta del monte Civita, che fa parte della tenuta, c’è un insediamento fortificato dell’età dei metalli. Parenti nostri, magari...»

Non fu un ritirarsi dal mondo, il suo, ma un ritrovarlo. Era stata la nonna a dedicarsi con piglio imprenditoriale all’azienda agricola. Lei ricorda: «Facevamo il bagno nell’acqua gelida del torrente, io e le mie due sorelle. Una stranezza da cittadine, per le donne del paese che lavavano i panni, sui sassi grandi della riva. Noi, bimbe, per copiare, lavavamo i vestiti delle bambole. Sparivamo nei boschi, sino in cima alla Civita. Quando la nonna morì, mamma ci convocò: “Dobbiamo vendere?”. “No.” Abitavamo a Roma, dove sono nata. Mamma si trasferì qui e prese la gestione della proprietà, ne fece un agriturismo. A mia madre, sono succeduta io. Nella mia famiglia vige il matriarcato, come forse lì, un tempo» dice, e indica la cittadella sulla Civita. L’agriturismo va bene, chi ci viene, ritorna; si è creata una sorta di comunità che condivide interessi anche spirituali. Si vive in simbiosi, ma davvero, con la natura, conoscendo le erbe, i loro poteri, aiutati da dottrine orientali. Insomma, non dico che possiate udire il grande Ahuuum soffiare dalle viscere della montagna, all’altezza dell’agriturismo Il Querceto, ma se succedesse, non vi meraviglierebbe.

Poi venne l’Eni. Qualcuno tracciò una linea sulla mappa; era il tubo dell’oleodotto: addosso alla sponda destra del torrente, a meno di trecento metri dal casale. Non servì a nulla opporsi, cominciarono a scavare. E venne fuori una villa del quarto secolo, appartenuta a Bruzia Crispina, nipote, figlia e sorella di consoli romani e moglie dell’imperatore Commodo. La villa è enorme, aveva anche un porticciuolo sul Molinara, che era usato per far arrivare a valle i tronchi. Solo parte della residenza è stata dissepolta. E quel che non riuscì a Francesca, da Roma trasferita qua, riuscì a Bruzia Crispina, da Roma trasferita qua. Non si era detto che qui comandano le donne? L’Eni non accettò di deviare dal percorso, ma dovette infossare il tubo così tanto nel terreno, da scavalcare, dal disotto, l’intera area archeologica.

Vabbe’, brutto rimane, ma almeno... Invece: un pozzo petrolifero nella zona. Nooo! «Cominciano ma si fermano. Si spostano, cominciano a farne un altro, ma si bloccano anche lì. E ora vogliono piazzarcelo proprio qua» indica Francesca: fra la Civita e il casale. Non si sa perché i primi due non sono stati terminati; si sospetta che abbiamo trovato zone di ricariche delle sorgenti. Ma qui è quasi tutto ricarica. Scampata alle Torri Gemelle e scappata da quel mondo, Francesca Leggeri è stata raggiunta da quel mondo nella terra dei padri suoi; anzi: delle madri. Difficile trovare un posto più isolato, per consegnarsi alla natura. Parla del sentiero arcaico che sparirebbe con lo sbancamento per la trivella e probabilmente veniva percorso per riti che portavano al tempio (tale sembra) sulla Civita. Qui nidifica il biancone, grande e maestoso come un’aquila. E mo’? Un agriturismo che ha la sua ragione di essere nel mondo com’era, si ritrova nel mondo com’è, lato brutto. Sai il miele buono di montagna, per dire? Be’, in quello della Val d’Agri, i ricercatori dell’università della Basilicata hanno trovato idrocarburi. Lo studio è stato pubblicato solo in inglese.

Cosa diciamo a Francesca? E a tutte le altre Francesche (e ai Franceschi, dove, nel frattempo, si è imposto il patriarcato) di Lucania? «Io stesso,» dice Bavusi, che spende la vita per la causa ambientalista «quando vedo queste cose, non credo più a niente e a nessuno. Continuo a impegnarmi, ma ormai solo per spirito di servizio agli onesti.»

(Nemmeno la mail ad altro componente della redazione dell’Eni per i rapporti con la stampa ha avuto risposta. Il mio primo maestro di giornalismo diceva: sentire sempre l’altra campana. Cambio destinatario e insisto. Vi terrò informati. «Ma tu cosa vorresti chiedere?» mi domandano i miei interlocutori lucani, a cui racconto del silenzio dell’Eni. «Quanto petrolio tirano su e quanto ce n’è davvero, sotto.» E quelli scoppiano a ridere: «Tutto qui?». Sono persone educate, non dicono: “E come diavolo abbiamo fatto a non pensarci prima, eg...?” ma tornano a ridere. Lo so che sono giusto le domande senza risposta o senza risposta convincente. Per questo le vorrei fare. «Scusate,» obietto «cosa c’è di ridicolo nelle domande? Fanno già tanto ridere certe risposte!».)